CASA  

(settembre 1908)

Casa, mia casa, sweet home,
io ti
lascio: vo verso altre case
lontane, verso altri lontani
destini. La camera mia
resterà vuota e sonora
nell’assenza indefinita
che segnerà per me fatti strani
ed imprevedibili. Qui
io stesso ò gettato la base
di sogni della mia vita,
io mi son fatto quale ora
sono, qual sarò domani.
Qui, a questo tavolo, scrissi
canti d’amore, lettere
d’amore. Da questa finestra
con occhi umidi e fissi
vidi spesso in cielo salire
fantasmi che accendean la fantasia.
In questo letto sognai
il roseo dell'avvenire.
Fra i ritratti, le stampe, gli schizzi
che ricoprono le pareti
e, nel cassetto, tra i fogli
ingialliti, tra i fiori vizzi,
trema ancora, simile a essenza
delicata, quell’alito di poesia
timido e folle, che impennava l’ali
alla mia mediocre esistenza.

E qui tu pure rimani,
mamma, e tu, babbo, che mi accompagnaste
dolcemente per tanti anni,
alleviando spesso con mani
carezzevoli i miei stolidi affanni.
Mamma, babbo, vi rivedrò domani
più grigi ed un po’ vacillanti,
forse; vedrò indebolirsi,
quando tornerò un’altra volta,
la sana e buona saldezza
da cui nacqui. La vostra carezza
diventerà tremula sui miei capelli
che cominciano ad incanutire
troppo presto, pur essi. Quando io
ritornerò, dopo qualche stentata
vittoria, sotto il tetto mio
non ci sarà più
fra noi una forza proterva
e santa di giovinezza.
Saremo allora come tre fratelli
fatti fra noi più vicini
dalla comune stanchezza.
Voi mi direte: "Ricordi
quando cercavi i giocattoli
portati e nascosti dai Morti?"
Io vi dirò: " Ricordate
quante belle passeggiate
le domeniche, alla Favorita?
Tu parevi un giovanottino,

babbo; e tu, mamma, eri cosi bella
che si fermavan gli uomini per via
a guardarti; ed io, piccino,
mi voltavo a far loro ogni tanto
sberlefli di gelosia!
"
Ed ognuno di noi, ricordando,
farà forza con un sorriso
per non essere vinto dal pianto.

Saremo cosi, fra qualche anno.
E la nostra casa sarà
fatta un po’ triste ed un po’ solitaria
e quasi muta; parrà
quasi più grande, coi mobili
fessi, tarlati, che sentiranno
di vecchio; ci sarà nell’aria
come un odor di sfinito.
Ci sorrideremo,
ma ognuno di noi singhiozzerà
forse, a notte, per non essere udito
dagli altri: rimpiangeremo
quella indefinibile cosa
che, chissà da chi, ci fu tolta.
Finché, poi, ci lasceremo
un’altra volta...

VIAGGIO FANTASTICO

da La leggenda della Vita, 1909

Sì, io voglio partire, partire in un bastimento
incontro al Sole, per navigare a lungo

Io voglio aspirar l'aere profumo del mar, del catrame
e dei cavi, aspirare l'aria sempre pura

dove i gabbiani col volo pesante s'inseguon
liberi nella calma e nella procella.

Nei giorni di quiete quando l'oceano dorme
inebbriato da la calida luce

dei meriggi di luglio, mentre la rapida nave
con tutte le sue vele spiegate al vento

vola sul verde piano, né s'ode che il gorgogliare
delle spume sotto l'impeto della chiglia

e il gemer delle sartie come arpa al soffiar della brezza
io starò sul trinchetto, scrutando l'orizzonte.

O notti di bonaccia, tremule di fredde stelle,
mentre le vele inerti pendono dai pennoni

e s'ode lo sciacquio dell'onde attorno a lo scafo
scricchiolante con uno stentato altalenare,

io, disteso sul ponte, starò presso un mozzo che, al lume
d'un fanale, rammenda cantarellando un fiocco.

Ed una terribile notte greve di nebbia, piena
degli urli del vento, del rombo ininterrotto

della folgore, dello scrosciante mugghiar delle ondate
che fan ballonzolare come foglia la nave,

io sfiderò su la tolda la furia degli elementi
rischiarato dai lampi sferzato da la pioggia,

schiaffeggiato da spruzzi gelidi: sotto le raffiche
arcuansi gli alberi, si schiantano le rande: -

e la mia ciurma, intrepida canta e bestemmia, operosa
e attenta a la manovra, pronta ad ammainare

gabbie, a terzarolare stragli: nell'aere strepita
un coro di singhiozzi, di ruggiti, di fischi,

e vibrano i cordami sotto un archetto invisibile
e immenso: pare che nascosto fra il nero

vel della bruma, un fosco drappello di spiriti suoni
- sghignazzando - timballi, buccine ed oricalchi

mostruosi: è un delirio tremendo, una guerra selvaggia
della natura contro l'audacia mia.

Fin che, dopo lunghe ore di lotta, sul cupo orizzonte
da uno squarcio di nubi sboccia la prima stella:

l'oriente s'imbianca, s'imporpora e sorge l'aurora
a placare col suo bacio i commossi flutti.

GLI ABISSI AZZURRI

da La leggenda della Vita, 1909

Sei ridicolo, tu, vecchio barbuto
Nettuno, che le briglie a gl'ippocampi
reggi al sereno e agli uragani biechi
e con gran pompa per lo sconosciuto
azzurro vai, scorri gli equorei campi
e non un frutto di mistero arrechi.

Troppo son io di te più forte, o nume
arrembaticcio degli antichi tempi
ch'ora a i nostr'occhi lincei t'ascondi:
più di te penetrar l'ampio volume
del mare io so: cresce con novi esempi
il mio potere - vincitor di mondi!

Vieni con me nei tuoi domini, o Dio
spodestato, o vincibile signore:
voglio svelarti i tuoi passati regni.
Logoro il cocchio e i tuoi cavalli! il mio
cocchio è di ferro e vibra con fragore
a l'impeto di elettrici congegni.

E se tu già conosci la serena
superfice che ride, ove la investa
il meriggio o l'addorna la bonaccia
e il livido furor, quando si sfrena
l'aquilone con soffi di tempesta
e incalza i flutti come belva in caccia,

conoscerai per me, nella gran corsa
a traverso i profondi ceruli imi,
il mister dei voraginosi vuoti,
la liquida atmosfera mai percorsa
dal sol, nuovi paesi e nuovi climi,
popolati di mille esseri ignoti.

Vieni, il battello portentoso taglia
col suo sprone d'acciaio le abissali
densità, fredde e immobili in eterno:
reca in fronte una lampada, che scaglia
- a squarciar la gran notte - mille strali
di luce - il sol del genio moderno.

Vecchio, dietro la specola di doppio
cristallo guarda: non lontana appare
la fantasmagoria d'un paesaggio
che fugge, mentre l'elice - con scoppio
muto - fa l'acque chete turbinare
repente al suo rapido passaggio.

I banchi madreporici àn riflessi
jalini, tappezzati ora di foschi
protozoi, ora di nitidi cristalli.
Là stranamente attorconsi complessi
rami, in distese vaste come boschi,
sanguinei del rosso dei coralli.

Ecco, nelle penombre vaneggianti
lontano, dove come un albor fioco
giunge la nostra luce, appare in bruna
massa, una gran foresta di giganti
fusti: vi brilla qualche vivo fuoco,
l'acqua vi stagna, come una laguna.

Vi brulicano, occulti, mille bruchi
formidabili: minacciosi tronchi
come pilastri levansi in orrendo
scompiglio, tra viluppi aspri di fuchi
quasi liane attorte, intorno ai bronchi:
uno sperduto squal passa fuggendo.

Tra sinistri cespugli irti di muschi
cautamente noi scivoliamo sopra
un'angusta misteriosa conca:
al varco spia, con moti or lenti or bruschi
agitando i tentacoli, la piovra
implacabile da la sua spelonca.

E il paesaggio cambia: son dirupi
inauditi, simili a valanghe
ferme a mezza ruina da un prodigio:
vi s'inseguono le chimere a strupi
taciti: guizzan le carene bianche
come lampi in un grave aere grigio.

- Pace terribile! il carcame enorme
d'una nave riposa su un fiorito
prato d'attinie. Chi quaggiù la chiuse?
Qual vinto Desiderio entro vi dorme?
Pio per tanta sconfitta, l'infinito
abisso qui s'instella di meduse.

Ferma il battel, pilota! che una santa
benedizione, come una preghiera,
io qui lasci. Dinanzi a questa trista
bara io comprendo quante lotte, quanta
morte a traverso i secoli men fiera
ma più divina fan la mia conquista!

A noi la meta che agognaste un giorno,
o vinti! - ma se dalla sacra essenza
del sacrifizio germina la gloria
d'un futuro, per voi sempre d'intorno
arda il mar della sua fosforescenza
come un liquido rogo di vittoria.

IL VOLO

da La leggenda della Vita, 1909

Il treno ansimando, tuonando su le piattaforme
giranti, fuori della stazione si slancia

tra rive biancheggianti di sale, tra le saline
increspate e pare che scivoli su l'acque;

irrompe - tempesta che romba, che vibra, che scroscia
in ogni membro - fra le campagne . - Addio

Monte San Giuliano coronato di nere mura,
ove intanto Marina forse bacia la bocca

d'un altro amante. - Ecco prati ove in cornici sfuggenti
pascolano attorno all'imberbe pastore

branchi di capre: alcune ruminando levano il capo
sospettose a guatare il gran mostro di ferro

che fischia beffardamente dietro un ombroso muletto
fuggente con le orecchie al vento; un cane abbaia.

Bianchi mulini da presso e da lungi, solenni
rotano lentamente l'ale, simili a scudi

di giganti. Ecco i campi rasi ove i biondi covoni
s'ammucchian sulle stoppie secche a l'incendio pronte.

Guidati da i bifolchi, due nudi cavalli, trottando
attorno a un palo, calpestano le spighe.

E avanti: i contadini, uomini e donne, al passaggio
del treno alzano il viso adusto sotto l'ampio

fazzoletto svolazzante, a seguirci con lo sguardo
facendosi solecchio; poi ripigliano, proni,

l'usata fatica. Si getta il fumo come nembo
su l'erbose ripe che fiancheggian la strada

donde le allodole si levan trillando. Le canne,
le piante vicine, al passaggio del treno

salutan con fronde scapigliate, garrendo di gioia.
Qualche casolare sparso tra il verde è assiso.

Lontano, su la bianca via polverosa, un carretto
pieno di donne, va lento lento verso

le uberi colline che stampano su l'orizzonte
le sinuose schiene dentellate di pioppi,

di palme, d'elci, beati nel sole. - E si vola, si vola!
Sfilano ratti i pali telegrafici lungo

la strada ferrata, arrampicandosi in cima a le
pareti rocciose, profondando nei borri,

in equilibrio su le balze tra l'agavi, e i fili
al mio sguardo scendendo e risalendo, vibran

tacitamente. Ecco giardini, ecco ville ridenti
ove le case occhieggiano tra i fiori,

interminati boschi d'aranci e di cedri, ove i frutti
penduli, a mille a mille, nella nostra illudente

corsa, riddan nel turbine arboreo che attorno imperversa
solcato dal treno vittoriosamente.

Balena tra il verde una bianca viottola ove è fermo
un asino stupito, - una fontana secca -

un cacciatore - un'aia schiamazzante di cani e di bimbi...
A gli ultimi raggi del sole obliquo i monti

lontani ad un tratto s'incendian di porpora e d'oro;
il cielo è diafano... - E si vola! si vola!

CAINO

da La leggenda della Vita, 1909

... Caino, perché mi conduci
in questi antri cupi,
tre queste rocce bieche
ove certo s'annidano i lupi?
Io non conoscevo così
desolate balze. Caino,
guidami fuori di qui.
- Fermati, e guarda: e ricolma
i tuoi occhi, e l'anima, di tal nuovo orror di dirupi,
sì che tu ne possa il ricordo oltre la vita portare.
Guarda: t'è dato guardare
l'ultima volta. Saprai alfin quello
che tu non sapevi ancora.
- Come strano tu parli, fratello!
- La giù, vedi? sotto l'aurora
esulta già la fiorita
landa ove passi facil la tua vita,
Giardino ov'io non penetrai, giardino
ove ogni fiore, ogni frutto
è olente per te e rubicondo,
ove bruca il tuo gregge sermolino,
ove ai tuoi occhi appar tutto
bello e ridente nel mondo!
- O caino, perché ti lampeggiano
di così tristo bagliore
le pupille? lasciami andare
via, in nome del Signore!
- Male invochi il nome del grande
Ingiusto, male l'invochi, tu, abele!
Egli a me non à dato
che questi luoghi: qui pascola egri gracimoli
il mio gregge disperato.
Qui a le mie forsennate preghiere
non risponde da grotte profonde che un'eco d'urli di fiere.
Ei fece me brutto, te bello.
Per te ei dispose un giaciglio
di fiori, per me uno strame
di pruni. Tu gli offri ridente
sangue d'agnello, succhi
di rose: egli teneramente
ti copre del suo mantello.
Io gli offro singhiozzando in olocausto il vermiglio
mio cuore: ei mi rende più infame.
E per questo qui, dove la sorte
con me solo si cruccia, io farò - o cattivo fratello -
trasalire un'eco novella
con l'urlo della tua morte!
- In nome di nostra madre
che aspetta entrambi, Caino,
arresta la mano crudele!
- Nostra madre! ah, per lei, per lei
che di latte no, ma di miele
te nutrì, e nutrì me di fiele,
da cui tu sorriso ed io
pianto trassi, per lei più muori. Abele,
muori, nemico mio!

VOCE NELLA NOTTE

da La leggenda della Vita, 1909

C'è una voce sottile
supplice come preghiera
lamentosa, che intacca il silenzio...
Voce d'un piccol dolore
trascurato, su cui grava il temebrore
dell'aria d'aprile.

Ed è un derelitto gattino
che chiama la madre sul tetto
ove l'ànno gittato, col suo umile vagire di bambino
abbandonato.
E, spaurito del cielo stellato,
ei guarda, cercando lassù
fra quei mille occhi lucenti
i familiari occhi gialli
della sua mamma che non l'ode più.
Gli rispondon, risvegliati,
con sonore chicchiriate
egoistiche, i galli...

LA VECCHIA

da La leggenda della Vita, 1909

Spintomi tra la calca, sporsi il capo
innanzi, e potei scernere al barlume
dei fanali, un terribile lordume
disteso nella melma: era un cadavere

di donna, tutto angoli sotto un sacco
che lasciava scoperto un piede, ancora
calzato; l'altra scarpa, in una gora
di sangue e di moticcio, ed una bavera

stinta, più in là erano abbandonate.
Mi sgusciò accanto una donnetta, che
gemea con voce querula: "Ahimè!"
I pennacchi di tre carabinieri

arginavano l'ondeggiar d'innumeri
teste - sopraggiungevan d'ogni parte
i curiosi, urtandosi - in disparte
un operaio da i baffoni neri

narrava a vari istupiditi. Al fine
io sentii chiaramente nel vocìo
una bimba: "Ma sì, l'ò vista io!
il guidatore non ci à colpa, posso

giurarlo!"

                (Allor m'apparve quella scena:
la vecchia, ch'ode tardi i tintinnanti
scampanii, non sa più se andare avanti
o indietro... e la vettura, ecco, le è addosso

furiosamente, l'investe, l'abbatte,
e, ancor lanciata in corsa, come ignara
belva, la spinge e arrotola col para-
ruote... Ella pensa nel terrore che

non s'è fatto gran male, forse, e alzarsi
tenta, stringendo sempre il suo orciolotto
dell'olio - sente il cuor gonfio nel petto -
travede il guidator fuori di sé

storcersi sul manubrio - alza la testa
sfracellata, stramazza e, boccheggiando,
s'agita affannosamente, invocando
aiuto, cun un rauco singulto.

Il tram le pare un monte... A poco a poco
ogni cosa ai suoi occhi si fa più
lontana... la sua mano annaspa su
le rotaie, nell'ultimo sussulto...)

L'OSPIZIO

da La leggenda della Vita, 1909

Io li vedo quasi ogni volta
quando vengo a casa tua,
seduti al solicello
d'inverno nel cortile dell'ospizio,
guardando con sorniona
curiosità la gente
o le carrozze, che passano
oltre il cancello.
Le iridi semispente
nelle facce rugose e disseccate
ànno come un profondo
rammarico del mondo.
Parlano tutti piano. Qualcuno
- sordo - gracchia ogni tanto
un desiderio di vino
o di tabacco. - Essi aspettano,
nutrndosi di rimpianto,
tutto, tranne il Destino.

Aspettano, morti
oltre l'inesorabil confine.
Or s'appoggian con le tremule
mani ai ferri del cancello
per tenersi ritti o per muovere
qualche passo. Ma un giorno erano forti
le loro ruvide mani
d'operai che spezzavano il ferro
per farne pane ai figliuoli.
Ora i figli, i parenti, son morti
o sono pel mondo, lontani.

Oh, nella strada rurale
passando non si sofferma la gente
che per dar loro uno sguardo
pietosamente.
- O viandante che fanno adesso
gli uomini liberi e sani?
L'umanità è sempre uguale?
Il mondo è sempre lo stesso?

Quando il sole declina,
a i rintocchi di una campanella
si levano in processione
e ognuno si avvia a la sua cella.
Tutta la lor sorte
è in questa campana dolente
che un giorno - unico pianto -
dovrà celebrarne la morte.