DIALOGO DENTRO IL MIO CUORE

Ospedale militare di Cosenza, aprile 1917


— Ricordi, vecchietta, or son molti
anni, che la giovinezza
rideva dai nostri volti,
come io restai vinto
dalla tua rigogliosa bellezza?
— Tu pure, mio vecchio, eri allora
bello, elegante, sottile,
ed avevi quell'aria signorile
che noi giovani donne innamora.
— E quando egli nacque, l'atteso
fiore del nostro amore,
dinanzi a quell'esserino
non ricordi che luce e che calore
sui nostro modesto destino?
— Che ansie! e che felicità
dopo averlo conteso
ad un'infermità
ostinata, vederlo risorgere illeso,
più forte e desideroso
di vivere, chiamando
per la prima volta "papà!"».
—Io tacevo, ma ero geloso
di te più tardi, quando
in qualche suo passeggero
malore, nella fiamma
della febbre, o singhiozzando
per un mal riuscito trastullo
non sapeva chiamare che: "mamma!".
— Poi le sue gloriole di fanciullo
c'inorgoglirono. Io ero
la madre del bimbo prodigio...
Che stenti per crescerlo bene
quando la sorte avversava
la nostra casa! Che pene
quand'egli chiedeva i suoi libri
imperiosamente, i più bei
vestiti!... Ed io davo
gioielli e gli abiti miei.
— Poi egli (ricordi il giornale
che ci saziò almeno di gioia
quel giorno terribile che ci minacciava il digiuno?)
poi egli «divenne qualcuno»
— Cessarono i giorni più bui.
Riapparve un filo di sole per noi
e lo riversammo su lui.
Parti, come rondine lieta,
spiccando altri voli
più larghi: cercò la sua meta
di giovine e di poeta.
— E noi rimanemmo soli,
un po' dimenticati... Fu allora
che ci ritrovammo già vecchi
nella casa più fredda, ma ancora
piena di lui... Che tristezza
quando il labbro benedice,
ma il cuore vacilla!
— Che importava il nostro dolore
se almeno egli era felice?
— Ma anche lui patì l'asprezza
della sorte. Ricordi il ritorno
spasimoso, dopo essere stato vicino
al trionfo? Oh, quel giorno, quel giorno
che io piansi, come un bambino
io, già un po' curvo e canuto!
Ritornava come ignudo
dopo aver tutto perduto
nel breve e funesto cammino.
Egli, noi, avevamo vissuto
invano, avevamo sofferto,
gioito invano! Si, l'uscio
della vecchia casa era aperto
pel giovin padrone sconftto,
il babbo e la mamma eran là
per lui, sempre per lui...
Ma a quell'uscio aveva battuto
anche la messaggera
della morte. Eravamo malati,
prossimi ad esser travolti
da una gran nuvola nera!
Oh, certo egli ancora rimpiange
di non esser rimasto piccino
sempre, protetto da ogni
nemico, da ogni pericolo,
stretto fra il babbo e la mamma!
— Taci! non senti? egli piange...
No, dormi, dormi, amor mio,
(un bimbo di latte e di rose fa nanna...)
noi vigiliamo i tuoi sogni.
— Ora egli è triste, egli è tanto
pietoso! E' compiuto l'evento
che paventammo, che fu
il nostro massimo schianto.
E' solo, soldato, gittato
alla stranìa, triste, affranto,
lontano da quelli che ama,
respinto da ciò in cui credeva...
E noi, noi non siamo più
che due voci dentro il suo cuore,
e vi resteremo forse fin quando
anche lui sparirà come noi,
per non essere più alla sua volta
che una voce dentro altri cuori,
fino a tacere nei figli dei figli
dei suoi figli, quando altre torme
di pensieri e di ricordi
cancelleranno i progenitori.
— Taci! Non vedi? egli dorme...

CORSA IN METROPOLITAINE

Parigi, novembre 1929.

Porte Dauphine: la scritta nera sui
bianchi muri, ecco, appare
lusinghiera nel barlume e poi si perde
sotto gli anditi bui
che il treno sfonda fuggendo.
Porte Dauphine - Dauphine - Dauphine:
nome della mia dolce meta,
nome che à tutta una musica
pel mio ricordo ed è come un verde
rugiadoso ed aereo, fiorito
di non so quale malinconia.
Mi pare che in fondo alla via
sotterranea su cui scivola il convoglio
svalangando nel buio costellato
di rade lampade, in cima
alla bianca scala, aperta
nell'azzurro e nei fiori, m'attenda
lei, come prima.
Ma no. Arrivo e son solo
tra la folla sconosciuta
che urtandosi s'affaccenda
senza sorrisi, squallida
come me. Non m'aspetta
neppure il ricordo
di lei che s'è un poco sbiadita
perfino nella mia memoria.
In cima alla scala è un grigiore
autunnale: qualche stecchita
pianta che da allora, da quella
primavera, non è più fiorita,
e nel cielo non più i trilli e argenteo
saettar di calandre, ma un volo
muto di crocette nere.
Così. Nulla ritorna. La vita
mia non è fatta che d'attimi
che splendettero, ma che ricadono
ora sul mio vacillante
cuore, freddi, come lapilli
spenti.
Perché non aver preveduto
tutto questo nell'ora del gaudio
più grande, e non essere finito
allora, con la bocca e l'anima
colme del bene goduto?

DALL'ABISSO

ottobre 1931

Ma come? lei, quella?
Una larva, stanca
di tutto, smarrita...
non è lei, se io non la riconosco.
Forse è l'immagine malviva
di quanto c'era d'amaro
e di malaticcio in qualcuna
che le somigliò, in un tempo
indefinito. Una sopravissuta.

O forse è l'ammonimento,
per me della mia vita
trascorsa, della mia amarezza,
dei miei mali.

Ma lei no! lei no! E' ferma
nel mio ricordo, da allora,
ferma nel tempo, in un presente perenne,
che durerà oltre l'ultimo nome
che pronunzierà la mia bocca.

IMPOSSIBILITÀ

gennaio 1932

Il mio cervello, massa grigia e flaccida,
enorme, pesa sul mio corpo, quale
frutto troppo maturo sopra un
debole picciuolo; e mi fa male.
Cervello enorme, occhio sbarrato, timpano
delicato, tutto ode e tutto vede
anche fuori i confini del sensibile,
e crea l'ignoto, e crede
in quel che inventa e se ne colma. Gravido
di sensazioni e di pensieri, sta
sul corpo, col suo peso riducendone
le possibilità.
Le possibilità che son già minime,
incatenate, chiuse. Il corpo è solo
tra cose avverse, e brancola: non aquila
libera all'ampio volo,
neppure lupo, che osi, con famelica
ira, avventarsi e divorare. Ale
di vento e zanne d'aria. Questo braccio
è corto e poco vale
allungarlo col fragile artificio
d'una penna che giunga alla divina
immensità promessa al desiderio.
Va, svolazza, gallina!


ANIMA

ottobre 1933

L'anima tua, quando eravamo insieme
sopra uno stesso, breve
spazio del mondo complicato e vasto,
ed io potevo chiuderti
fra le mie braccia, la sentivo nei brividi
della tua pelle sotto le mie dita,
la sentivo nel guizzo
della tua schiena e nell'ardente anelito
della tua bocca ad ogni bacio mio.
Quando tu mi lasciavi (e il mondo a un tratto
si frangeva in due parti:
l'una piccola e certa ove io restavo
nella penombra della solitudine;
l'altra immensa ed ignota, popolata
di te, del tuo respiro, delle luci
dei tuoi occhi, del fremito
delle tue carni,
del palpito del tuo cuore, in balia
d'un infinito d'altri desideri)
l'anima tua tornava — tentatrice
deliziosamente
crudele — spesso da lontano ad urgere
nel mio sangue, a vibrare
nelle mie carni come orme di baci,
a battere come ali di farfalla
nel mio cervello insonne:
l'anima tua
era questa invisibile presenza.
Ora che il mondo s'è diviso in due
un'altra volta, ma per sempre, e tu
stai per sempre supina
nella parte più piccola e più buia,
l'anima tua non è
più che il ricordo, casto e lontanante,
che m'appare ogni tanto
sempre più scialbo.
Sbiadisce ogni traccia
d'anima — quale io la sentivo nelle
tue carni, nel pensiero di te viva, —
ora nel mondo vasto
aperto ad infiniti sensi, dove
io rimango. Ma pure, trasparente
e labile, essa vive
ancora in me, l'anima tua. Morrà
forse del tutto quando
anch'io mi ritrarrò dentro il cantuccio
deserto che la terra
concede a chi per sempre
resta supino, nell'eterno buio.


VIAGGIO

giugno 1934

So d'esser tornato da un lungo viaggio
attorno al mondo, ch'è tondo.
Ricordo d'aver toccato ogni approdo,
d'aver fotografato ogni paesaggio,
scrutato ogni monumento.
Mi pare d'aver conosciuto, in contrade
remote, uomini e cose insospettate.
Se mi vedi un po' stanco
e con un po' d'argento
fra i capelli, è perché ò camminato
su la polvere di molte strade.
Son ritornato, poiché il mondo
è tondo,
al punto da cui partii, son tant'anni.
I miei passi ànno fatto una corona
attorno alla terra.
Partii da questo giardino
ove l'usignuolo ancor suona
il suo flauto, ove il gelsomino
riproduce nel verde le stelle
del cielo, ed una ragazza
— come allora — sospira sui suoi affanni
d'amore. Tutto come allora.
Strano. Ma intanto le immagini
del lungo viaggio (e qualcuna era così bella!)
sono come sfumate,
e ogni giorno di più le cancella.
Rimane un po' d'amarezza
di quelli che furono dolori,
e qualcosa di vago, come
un po' di cenere di bellezza.
Di certo non c'è che il giardino
d'oggi, col suo muricciuolo
che nasconde il resto del mondo
e le tracce del mio cammino.
— Ma c'è, poi, questo resto del mondo?
Esiste? e le cose che furono,
furono? o piuttosto non sono
che immagini già scolorite
di pensieri, fra i tanti pensieri
e gl'innumeri desideri?
Il muro limita le vite
nostre: la mia, dell'usignuolo,
dello stellato gelsomino,
della ragazza che sospira,
di qualche altro che mi sta vicino.
E sempre è stato cosi.
No; c'è un'altra cosa di vero, di sempre visibile
e d'immenso: ed è il cielo
altissimo sui quattro lati
del muro, ora luminoso, ora buio,
sempre irraggiungibile

UN AMORE QUALUNQUE


settembre 1934

Che il cielo ti guardi, amico,
dall'avere bisogno,
un giorno d'autunno, d'una
donna, sì, d'una qualunque
che sarà sempre quella
— pel momento — del tuo sogno
(in autunno si torna a sognare)
non importa se bella,
se bionda o se bruna,
ma appena gentile
e graziosa, ed un poco
perversa, e che senta d'aprile.
Autunno. Tu intendi di quale
autunno io ti parlo:
non di quello ch'è nell'aria
e nel lunario, di quello
che soffia un po' di maestrale
nel tuo cuore, e che fa strider qualche tarlo
nel tuo cervello,
che depone le prime brine
sulle tue tempie. Allora
le tue carni, in cui l'anima
intirizzisce come
a un presentimento di fine,
sentono la solitudine
e lo squallore che le attende
nel prossimo inverno.
E colgono quanto c'è di sole
ancora per loro, e le accende
il desiderio e la nostalgia
del contatto che fa aderire
all'infinito, dell'attimo che sa d'eterno.
Ma dopo? se giorno per giorno
qualcosa di questo amore qualunque va via,
non sentirai tu svanire
troppo di più di te stesso?
Non sentirai l'inguaribile
amaro delle gioie che non ànno avvenire?

L'ULTIMO AMORE


novembre 1934

Chi disse che il primo amore
è quello che non si scorda
mai più, aveva una sorda
animuccia da convittore.
Quell'insipido amoruzzo io l'ò
lasciato dietro i miei passi
di ragazzo. Se mi guardassi
indietro, ne troverei non so
quanti, di primi amori,
senza infamia e senza lodo,
fatti tutti allo stesso modo
di lettere, fazzoletti e fiori.
Ci sono invece i secondi
e i terzi, che forse t'ambasciano
meno al momento, ma lasciano
poi solchi ben più profondi
nel ricordo, e anche un po' nella carne.
Ci sono i quarti, i. tardivi,
che t'aggrediscon quando arrivi
alla saggezza. Che farne
di questa saggezza balorda,
allora? Che il cuore canti
come venti, trent'anni avanti!
Gli amori che non si scordano
forse son questi. Forse
è l'amor che ti prese al declino
della vita, quando eri vicino
al gran gelo, e ti contorse
le viscere, versò come un getto
di sole liquido nelle
tue ve ne, popolò di stelle
nuove quel gramo angoletto
di mondo ove t'eri ridotto
a limitare i tuoi passi
per un po' di podagra già lassi.
(Sorvegliati, ex-giovanotto!)
E', quell'amore ch'io dico
come l'ansia d'un'attesa oscura,
come eroismo, e paura
del sublime e del ridicolo,
che ti fa accorger che tutto
t'abbandona, che tu sei di troppo
già nella vita, che un groppo
di fumo soltanto ài costrutto.
E' quel disperato amore
che ti scorta nel buio, ed oltre,
quello che farà da coltre
alla cenere del tuo cuore.

IL NUOVO

 

Qualcosa, qualcosa, qualunque essa sia
un fiore nuovo, un profumo
nuovo, una nuova armonia,
un palpito mai sentito,
un dolore terribile, una gioia
omicida, un fatto strano
ch'empia d'orror tutto il mondo...
Qualcosa, qualcosa che scacci la noia!
(Un delitto sovrumano?)
Sì, sì, qualunque, per romper la monotonia
di questa vita chiusa
fra le quattro pareti
della mia stanza, fra le quattro mura
della città, fra l'oscura
caligine del mondo, èiù piccolo dell'anima mia!
Oh piccolo e come
ridicolo il tronfio pianeta disperso
in un angolo dell'infinito
gurgite dell'universo
mostruoso sbadiglio del mister che ogni cosa rinserra.
Universo: terribile
immagine della noia,
eternità che non muta,
e ch'io sento come un'informe
cosa nella sconosciuta
annidata dentro il mio seno
ove riversa il perenne veleno.
Tentacoli di piovra, faccia
di donna, chioma di medusa,
e oro e sangue, minaccia
e lusinga, due mani che palleggiano torme
di stelle e fanno girare la terra
come una trottola enorme.