DITIRAMBO DEL METRO LIBERO

aprile 1906

Un dì l'irrequieta
anima del poeta
che à di questo tempo nevrastenico
tutta l'irregolare architettura,
la nuova visione
estetica inseguendo, spiegò l'ale
in un metrico cielo un po' più libero
e, come di Falerno ebbra o di Cecubo,
al suo canto così diede la stura:

"Io comincio a soffocare
nelle vecchie biblioteche.
Queste antiche opere rare,
queste pergamene, questi
papiri, ed i palinsesti
mastodontici, e i metri quadrati
degli in-folio, disposti in bell'ordine
nelle bacheche,
me li sento gravare
tutti sopra lo stomaco.
E la gente che qui sgobba,
professori intabaccati,
dottorelli
sbarbatelli
che ci perdono i capelli,
indefesse
studentesse
brutte come diavolesse,
che stan sepolti fra cotanta roba
muffita e l'odor rancido ne aspirano
qual patchouli, mi son troppo antipatici?
Vadano tutti al diavolo!
Voglio liberi campi verdissimi,
voglio il libero, il rutilo mare,
le città romorose, le chiare
lucentezze del libero cielo!
Voglio, voglio senza velo
d'artifizio levare il mio canto
all'uomo del secolo nuovo!
Più che nei libri ricolmi di tanto
sapere, più che nelle alte memorie,
io la bellezza, le glorie
luminose nel mio tempo ritrovo!
A me, a me le ebbrezze
dei nuovi canti!
Ch'io raggiunga le altezze
tripudianti
della lirica amplissima, solenne
come sinfonia,
che infiori nuove e più possenti penne
alla poesia!

Ma in qual metro canteremo
le novissime canzoni?
Le orneremo
del decoro supremo
della strofe petrarchesca?
- La strofe petrarchesca è una signora
molto ben educata,
ma parla con un fare da saccente
troppo magniloquente
e, nel parlare, è assai preoccupata
dei gesti e delle pose: è una gran dea
che annoia con la sua prosopopea. -
E allora? niente strofe petrarchesca.
- C'è poi la ballatetta:
una faccetta fresca
che s'incipria e s'imbelletta;
fa la civetta
e si dà a poco costo.
Insomma, molto fumo e niente arrosto. -
Ed allora? piantiam la ballatetta.
- L'ode? mio Dio! stecchita
come una miss inglese.
Ne vantan la squisita
anima, e però addosso
non à altrettanta carne
da farne una polpetta.
Cammina sempre in fretta,
narra la cantafavola
ballando come diavola... -
Niente! mandiamo l'ode a quel paese.
- Le romanze, le sestine,
gli strambotti ed i rispetti
ed i bei madrigaletti,
son cosine
piccinine,
sono come ragazzine
che ànno studiato troppo a scuola
solo per sillabar qualche parola. -
Siano prese a scappellotti.
- Le ottave? solenni matrone
che cantan l'istessa canzone
movendosi in processione.
Nutrite di costate e salsicciotti
e di pane integrale,
pesan quanto un maiale
o giù di lì. -
Ci farebber morire
solo col loro aspetto !...
Mettiamole a dormire.
Ma che riman così?
- Oh, perbacco bacchissimo! il sonetto!
(Parliamo con rispetto
del Principe di Galles
dell'italica prosodia,
altrimenti ci accoppano!)
Il sonetto è un bellissimo giovane,
piccolin, se vogliamo, ma ardito;
nelle forme corretto simmetrico,
e ama sempre d'andar ben vestito.
Però, se lorsignori lo permettono,
il sonetto
à innato un difetto:
la massa encefa1ica
quanto una capocchia di spillo. -
Riverenza e lasciamolo tranquillo.
Chi resta dopo tanta disamina
di quei vetusti ritmi onorevoli
che ormai le avite chitarre, a furia
di grattamenti dotti, scordarono?
Resta l'alcaica, forse, o la saffica,
oppure i giambi e gli epodi,
in cui tu versi il vino che t'è di troppo al nappo,
o i distici latini contati coi piedi dai quattro
scolari, divo Carducci, tuoi?
- Per Apollo! giù il cappello!
Non vedete un corteo funebre?
Un signore assai colto ed onorato
è questo che discende ora agli dei
d'Averno: Verso Sciolto ei fu nomato
fra i vivi... et lux perpetua luceat ei.
Quale metro,
quale metro,
senza più tornare indietro,
né a Manzoni o a Gabriele,
né a decotti unti di miele,
il poema nuovo avrà?
- Su, demon d'entusiasmo,
da quei morti di marasmo
da quei bolsi podagrosi,
da quei vecchi tabaccosi,
da quei libri, da quei ritmi,
dalla fissa quantità,
su, facciam nascere il verso
forte, multiplo, diverso,
di novissima beltà!
Su, demone,
su, demone,
dalla gran distruzione
qualche frutto a noi verrà.
Porta, demone, vampante un braciere,
ove un gran truogolo già s'arroventa;
libri e memorie tu scaraventa
tutti in quel fuoco senza temere.
Alimenta,
alimenta il bel falò!
Nella gran pentola versa a manate
poemi, liriche, strofe rimate,
metri decrepiti, insulsi suoni,
e le antichissime ispirazioni.
Lo strano miscuglio
che bolle, che brontola,
che fuma, tu agita
con lungo cucchiaio
e riversavi l'onda turbolenta
dell'anima moderna.
Il fumo al ciel s'avventa
stride e fischia la mistura come acciaio.
E tu una forma che pensi eterna
prendi, e il metallo fuso che schizza
lucente e sibila, fiammeggia, sprizza
faville vi travasi gorgogliante.
Su, demone,
su, demone,
e tu canta la canzone,
la canzon della tua gloria!
Ed il verso uscirà così, vibrante,
come una spada a santissima guerra,
come una zappa a scavare la terra,
come una tromba a squillare vittoria!,,

Così l'ebbro poeta
cantava nella lieta
e fiduciosa sua speranza, in cima
al gran monte dei sogni, mentre i vecchi
bacchettoni del metro e della rima
a squarciagola urlavano
contro di lui, tappandosi gli orecchi.

DAME VERÔLE

Malata tu sei, oh tanto
malata! Attorno ai tuoi occhi
c'è un livido, come
se avessi vegliato e pianto
cento notti. Non ti reggi sui ginocchi
che ti tremano talora
quasi per improvvisa vertigine.
Sei malata dell'infame
malattia dal terribile nome.
Se io ti passo la mano fra i capelli
fini, dai riflessi di rame,
me ne rimane qualcuno ogni volta
fra dito e dito. - Povera bambina
straziata! Baciami. No, non ribrezzo
tu mi fai: che dici? che pensi?
non vedi con che gioia io ti carezzo,
ti bacio ? - E' vero, il tuo bieco male
anche a me faceva terrore.
Ma, prima di te, mi appariva
come una faccia stravolta,
mascherata di lascivia
e maculata sotto il belletto;
mi appariva come un petto
cavo e floscio e roseolato:
aveva agli occhi miei forma d'impura
amatrice, dalle vene
torpidamente pulsanti d'infetta
marcia. Lo vedevo anche attraverso
le contorte morti d'un'oscura
folla amorosa, attraverso
corpi sfasciati, ossa
tarlate, muscoli sfatti:
vedevo delle sue piaghe butterato l'intero universo!
Ma te! Come vuoi tu che io possa
respingerti? Tu non sei quella,
la lebbrosa - povera creatura!
Ti guardo e, no, non badare
a qualche sciocchezza
che ò detto, in te non c'è nulla
che faccia pensare
al male: sei così bella
tutta, mi sembri pura
come una fanciulla
che appena esca dalla puerizia,
e mi vuoi bene, e mi sei
cara: i germi che gemmano
nelle tue vene, più sacra
alla bontà ti fanno agli occhi miei.
Cara! diletta ! amante! sorella!
Abbandonati a me: le mie braccia saranno la culla
del tuo male, abbandonati sicura.
Non c'è che un odio, una sola
violenza nel sentimento
che tu m'ispiri la visione
d'un'ora del tuo passato
- un'ora di amplessi furenti
dello sconosciuto che, con parola
dolce e con baci di tradimento,
effondeva nelle tue carni innocenti
il rancore del suo sangue avvelenato.

Io ti voglio, così, non importa!
Saranno sempre belle le ore
di questo nostro amore
malato; sarà più saporosa
la gioia di cercare la divina
voluttà nel male mortale.
Ti prenderò come una sposa
da un tragico altare.
E se mi dovessi istillare
il tuo veleno, che importa,
quando sei malata tu, così giovinetta
ed ignara? Da domani
ogni giorno spierò senza orrore
- forse - se dalle carni mie salde
sboccerà, come un sinistro fiore,
la pustola maledetta,
fatal traccia del tuo amore.

GESU'

- Magdalena, non piangere: soffriamo
insieme. Questo pianto,
puro lavacro, … mondo
il tuo peccato. Magdalena, io t'amo.

Ma non mi chieder nulla: la mia vita,
la mia carne, la mia
anima, sia
libera e integra consacrata al mondo.

Benedetto il tuo martirio!
Benedetto il martirio mio!
L'idea brucia ed innalza le passioni tenaci
al Cielo, in volute d'incenso.
Io sento nel cuore, dai baci
non dati che in noi muoiono, germogliare un ardor di più intenso
amore. Noi siam lievi. Io voglio
farmi più lieve - lieve sino a divenir Dio.

BRINDISI DI TIBERIO

"Evoè per primo alla cesarea
maestà mia! Alla pretoria
legione poi, che m'assicura
con le scuri e con le sue corazze.

(E' un po' importuna, però necessita
tenerla molto legata) Datele.
gli stessi miei vini, le anguille
ingrassate con carni di schiavi.

Evoè all'impero e a Roma, fulgida
gemma del mondo, che io vedo splendere
al mio dito: è mia la grandezza
sua, la gloria di tutto il passato.

Romolo, i sette re, la repubblica,
Scipio, Catone, lo stesso Cesare,
li tengo qui, a fare i cuscini
più soffici al mio deretano.

Da Enea ai fatti di ieri, passarono
tutti perch'io salissi. Caddero
gli eroi della Gallia e di Zama
perché alfine io stasera potessi

bere e inondare tutto col vomito
autoritario di questi nobili
gaglioffi, compagni al mio desco.
Evoè pei muscoli dei gladiatori,

pei senatori castrati e i consoli
cinedi, per gli scribi che adulano
le mie flatulenze, pel pube
ingordo delle matrone, per le

corna dei fausti mariti! Le aquile
di Roma sono mutate in paperi.
Evoè anche pel rammollito
Giove, a me innocuo, che amo e proteggo!

O' ucciso un altro dio: quel mellifluo
dio galileo che tutti gli uomini
disse eguali. Evoè per la croce
con cui agli uonini do l'eguaglianza!,,

LA SUA FINESTRA

Quando, la sera, al desiderio mio
ella apparisce e per le spalancate
imposte della sua finestra vedo
il buio della stanza senza lume,
il suo viso è una luce che rischiara
le tenebre, splendenti all'amor mio.
Il suo viso, così bianco nel buio,
bianco sulla sua veste dolorosa
d'orfana, coi pensosi occhi che guardan
con lo sguardo stupito ed amorosa-
mente mite, s'appressa al vano, fisso
in me che lo contemplo. A lungo, a lungo,
noi restiamo così, senza parole,
sempre turbati e incerti se dobbiamo
conversare; ma quando qualche frase
rompe il silenzio, rompe l'armonia
tacita con la sua banalità
superflua. Qualche volta, irrequieti,
senza saper perché, ci ritiriamo
ogni tanto ora l'una or l'altro dal
balcone, per riaffacciarci tosto,
desiderosi di strapparci, eppure
di rimanere eternamente avvinti
in quell'incanto. Poi, quando mi chiama
mia madre ed io rientro, non parliamo
neppure allora. Ella alza il capo, i nostri
occhi si cercano e le nostre mani
agitate nell'ombra si ricambiano
silenziose il cenno del saluto.

L'ADDIO

Ecco, e questo è l'ultimo giorno. Guardami
negli occhi, fissamente,
senza turbarti: diciamoci
addio, guardandoci negli occhi.

Il tuo inconsapevole amore,
la fiammella che t'arde in fondo al cuore
ignota a te stessa, lontano
da me s'estinguerà, forse,
senza violento dolore.
Addio. Come sei bella!
come sei mite! La mia
passione che ieri
era estinta, rinasce con un impeto
di tenerezza novella,
ora. Si, soltanto ora.
Domani tutto sarà
finito. Domani saremo
disgiunti per sempre.

Poi, io non saprò più nulla
di te. Tu forse sposerai
un giovanotto alla buona,
che qualche volta ti farà rimpiangere
i tuoi sogni di fanciulla.
Io che farò? forse il vortice
del mondo mi travolgerà
nelle sue inesorabili spire.
Diventerò cattivo, senza un solo
ideale più da raggiungere.
Ma un giorno, forse, ci rivedremo
per caso, così, come accade
nella vita. Tu arrossirai
ed io trasalirò, ricordando.
(Oh, il ricordo: che cosa
dolce e che cosa amara!)
E rivendendoti allora
già sposa e madre, ed un poco sfiorita,
io rievocherò
uno a uno i giorni belli
dell'amor mio. Rivedrò
I tuoi quasi vivi capelli,
ove affondai tante volte
rabbrividendo le dita
con una mentita carezza
infantile. E saranno segnati
d'argento. E rivedrò i tuoi occhi
neri, pieni di sogni muti,
precocemente segnali
d'una disperante stanchezza.

Che rimpianti, mia piccola, allora!
Ma tu questo, ora,
non lo pensi. Addio.
Meglio così; separiamoci senza
alludere a nulla : lasciamo
fare alla vita. Uniti,
cesseremmo d'amarci e saremmo
infelici per sempre. E io non voglio
che tu divenga infelice
con me. Si, soffriamo, si, soffri
nell'avvenire che t'è preparato
lontano da me, ma conserva
sempre un ricordo beato
e un Sospiro per l'amor mio.
Rimpiangerò anch'io
d'averti perduta,
ma conserverò eterno il desiderio
di te, perché non t'ò avuta.

Guardami. Dammi l'estremo
saluto. Che le anime nostre assaporino
ora con gli occhi tutte
le ebbrezze che non proveremo.

 

CITÉ BÉRGÈRE

Cité Bérgère, angusta e solitaria
piazzetta, dall'aria
d'esilio, quasi all'angolo
del boulevard Montmartre
fragoroso. La chiudono
a notte, sotto gli archi, tre cancelli.
Ma i cani innamorati,
ed anche i sogni, passano
ugualmente e si danno
convegno sotto i suoi
due fanali e le sue cento stelle.

Spesso, quando era ancora
- prima di mezzanotte -
schiuso ai passanti, Annie
vercava frettolosa
l'arco, chè io l'aspettavo.
E mi portava, col suo
profumo, gli atomi
spersi della città grandiosa,
le gioie e le malinconie
degli amori difficili. Nel cavo
delle sue mani, così
esperte alla carezza,
c'era un poco d'eternità.
Eternità che io sento
solo ora e che non seppi cogliere
abbastanza, nel momento
in cui sprecavo la mia giovinezza
come inesauribile liquore.
Adesso Annie è svanita
invano, e la mia parte
di mondo ch'era sì grande
allora e mi pareva sì breve
al mio desiderio, s'è rimpicciolita:
ora non è più che questa
Cité Bérgère, chiusa e notturna
e deserta, ove passano
soltanto fra i cancelli i vani
sogni, ed i cani...

COLLOQUIO CON LA RITORNATA

Nulla ancora è mutato: il colore
delle cose oggi è quello di ieri;
il paesaggio de' miei pensieri
è velato dal torbido, greve
nebbione che da più anni l'opprime;
e tutte le ideali cime
delle speranze neanche oggi si tendono al cielo,
ma sepolte son dalla neve.
Eppure... Eppure su ogni colore
passa come un barbaglio di luce;
e tra la nebbia, tra il velo
disperante, traluce
come una spada di sole...
E, sì, sulle vette anche il ghiaccio
si screpola come a un gentile
fiato d'aprile,
e spuntan dal breve crepaccio
stelle argentee d'edelweiss,
stelle azzurre di viole.

Primavera, primavera,
che improvvisamente ti annunci
sull'inverno del mio dolore,
perchè vieni? d'onde giungi?
e chi sei ? Fantasma ? dea ?
fiato degli spazii, odore
di campi, foriera
di climi superni ? o idea,
senso ? Non so. Non t'intendo
ancora; ma la tua carezza
sul mio cervello, nel sangue, nel cuore,
non m'è sconosciuta,...
Altre volte sei venuta,
Primavera.., no: Gaiezza....
no: Bellezza-senza-nome...
Rinascenza.,. Buona-come
-le-rose
: voglio darti tutti i nomi
più belli, finchè ti sarai svelata.
Se tu fossi creatura di forme
umane, saresti per me
come una sorella
gemella, dal volto solcato
simile al mio, dalla fronte
desolata, dalle labbra amare:
se raggio. saresti velato
d'una greve caligine; se
musica fossi, sorriso
dell'aria, paradiso
di palpiti, sentirei tremare
in fondo alle tue note un brivido di malinconia:
la malinconia del riso
che è stato, del canto
trascorso, del palpito passato.

Tu sei: è certo. Tu torni:
è certo. Sei quella
d'un tempo: comincio a ricordare, anzi, quale.
E malgrado questo velo
di tristezza, sei bella
ugualmente, sei ora anzi fatta più sacra.
Come sei buona d'essere venuta
c1tiando io di te più non mi ricordavo!
Da anni, uscito nel mondo,
avevo quasi vergogna
d'averti amato più d'ogni
cosa. Il mio cuore, giocondo
di mille improvvise vittorie,
ti chiamava ormai trastullo
degli anni suoi d'ozio, ti aveva
relegato tra le memorie,
nel fardelletto dei sogni
dei suoi inutili giorni di fanciullo.

Ma lasciamo, lasciamo per ora
il passato, la tempesta di sciagure
che à rombato sulla mia testa;
parliamo di cose più futili,
ma mille volte più pure.
Ricordo quando io t'affidavo
le mie lievi tristezze d'allora.
Allora nella tua vesta
d'infinito, che à per strascico la luce,
tu mi portavi qualcosa
di nuovo ogni giorno.
Rammento i tuoi doni.
Era oggi una foresta
popolata di belve, animata da suoni
misteriosi; domani
era un vascello sperso sull'onde, preda ai monsoni;
ora portavi una donna cinta di loto; poi
un aureo vessillo da infiggere sopra una vetta;
cavalli alati - fiori - piccole anime
innocenti - grandi anime d'eroi.
Ma oggi, che cosa mi porti ?
non immagini che s'aspetta
il mio cuore? Puoi tu darmi l'oro,
quello che tutto muove
nel mondo? No, tu sei pura
e povera. Non porti oro. Almeno
portami qualche piccola vendetta,
un pugnale, uno spillo,
per ogni mia stilla
di pianto una di veleno...
Ma come ? ancora la stessa foresta ?
Non vedi? è secca. Ed il fiume
costellato di ninfee?
E' inaridito. L'oceano è diventato bitume.
I cavalli su cui galoppai
son bolsi. Le belve che uccisi
sono di stoppa. Le dee
mie i amanti ch'io stesso innalzai
nell'Olimpo delle mie canzoni
son mummie: tu mi porti bare, bare,
cenere e fumo.
Fosse almeno fumo d'incenso
perché dal ceneroso braciere
ove io mi consumo
qualche cosa di me salisse
pura, in alto, anche senza le faville
al cui piccolo fuoco
speravo strugger chi penso!

Ma no, vedo, vedo il prodigio:
al tuo venire il cielo bieco s'imperla;
da uno squarcio del nembo
sgorga una tremula goccia
d'oro; sotto il tuo piede sboccia
un fiore, trabocca una perla,
mi cade nel grembo.
Forse è una lacrima mia
purificata.
E' il tuo dono, o Ritornata
POESIA.

ABELE E CAINO


Abele, e i suoi figli, e tutta la sua discendenza,
io li conosco. Conosco questi enfants gatès della vita,
questi beniamini di Dio.
Son essi che nacquero bene,
crebbero senza soffrire,
perché tutto e tutti attorno
s'accordavano per evitar loro
la fatica, il disinganno, l'amarezza, il dolore.
Ogni giornata portò nuova luce
sul loro cammino, ogni notte riposo.
Qualunque loro parola è gradita
al Signore, come anche ai signori.
Ogni cosa è per essi un sorriso.
Così, il loro passaggio sulla Terra
è la prova generale del paradiso.

Ma conosco anche Caino
e i suoi figli e tutta la sua discendenza.
Non ànno fatto nulla contro Dio,
lo pregano e gli offrono olocausti
continui, di lagrime, di rinunzie
e perfino di samgue.
Ma Dio, che à le sue predilezioni
e i suoi malumori come tutti i potenti,
non accoglie le preghiere di questi altri suoi figli,
non bada alle loro miserie,
e lascia che essi si consumino in eterno
e che ogni loro invocazione diventi rantolo o bestemmia,
e ogni loro tentativo di afferrare la luce
sia un unutile annaspare nel cielo.
Per questo (ma non sempre) disperati, uccidono.
E Caronte, dopo che saranno morti,
trasporterà anime grevi di dolore
che già avevano fatto il tirocinio
alle pene d'inferno.

PAURE

Non quella provata una notte
in un'estranea casa
buia, giacendo - fanciullo -
accanto a mia madre, anche lei
desta a udir voci rotte
e scricchiolii d'impiantito
sotto passi felpati, attraverso
i muri, dietro le porte
oscillanti, finché - sensibile
appena - ci passò più volte
sul viso l'alito freddo
d'una presenza invisibile.

Né quella di tredici anni
fa, quando su un clivo
petroso, fra bombi e boati
assordanti, in un improvviso
vulcano, un mio fratello sparì
annientato dall'alto esplosivo.

Ma quella di me stesso, dei miei
stessi pensieri. Talvolta
tumultuavano dentro le anguste
pareti del cranio, battendo,
chiedendo farsi atti, creature,
cose. Da un groviglio di nebbia
si snoda talvolta una luce
sinistra, un tremendo
lampo, che illumina oscure
brame annidate nel bieco
istinto noto a me solo.
Il bruto millennario, la truce
bestia primigenia si desta
allora e si scatena impetuosa
dall'arruffata foresta
dei sensi. E i nervi e i muscoli vibrano
come se da ogni mia fibra
scattasse la realizzazione
della voglia tenebrosa.

Oh, la terribile paura
ch'essa mi dà, se soltanto
una volta potesse evadere
da me! E tu non sai quanto
coraggio, quanto eroismo ci vuole
per vincerla e farla svanire
nella diuturna ed oscura
guerra che con me stesso combatto,
per rimanere quasi uguale
agli altri, ai più: un cosidetto
uomo onesto o almeno un uomo normale.

CON I PIU'

No, vedi, non è paura:
io non sono vile.
Però quella buca oscura,
la caverna, anche di cemento, eterna...
Oppure la fossa,
con la terra negli occhi,
nella bocca... Putrefarsi
come una vecchia radice, tresformare le carni in una ria
verminaia, le ossa
in uno sgorbio pietoso ed orrendo...
Convieni meco che chi dispose
così tutte queste cose
à una ben sinistra fantasia.

Perciò il pensiero di essi
mi dà una pena
inesprimibile: saperli
- specialmente poi quelli che amai
o che solo conobbi - disfatti,
essi e non essi; altra cosa
di loro, che non torneranno mai
più ad essere se stessi...
Per questo li amo più dei vivi.
E per questo te, quanti mi stanno
accanto, quanti mescolano in brevi
apparizioni la loro vita
alla mia, mi sembrano
fantasmi fuggitivi.

Anch'io, così: una crisalide uguale
alle altre. (Ma dimmi: talora
non t'aiuta a sorridere,
a seguitare, la speranza
d'essere, forse, tu solo immortale?)
Una crisalide da cui
non s'apriranno ale
in un diverso
aere d'eterna esultanza.
No, perché quell'inesorabile azzurro
mentisce: io vi sento
la terribile risonanza
del vuoto. Niente di loro, di noi,
s'affaccia, ritorna un momento
a sciogliere il nodo nero
d'un dubbio, ad alimentare la fiammella
d'un voto. Nessuno risponde
alle domande esasperate;
niente nasconde
verità invisibili: la stella
è la stella, il vento è il vento.

(Sì, forse. L'immaginazione
di chi crede, di chi spera.
Io l'ebbi, tutta la luce, più di voi.
Ora non me ne rimane che un filo
lucente un una immensità nera.)

Per questo vorrei
che non mi si buttasse
- quando ne giungerà l'ora -
lì sotto, nel buio, a marcire.
Se mi si lasciasse
quassù, alla luce, nel giro
dell'aria libera, come a dormire?
Intatto, con quanto pioù ancora
di me restasse, anche senza
pensiero, senza respiro.
Lasciarmi almeno con le mie forme
sulla terra, fuggitiva
anch'essa, che porta
per gli spazi i morti e i vivi.
(E anch'essa diventerà tetra
spoglia di quello ch'è ora.)
Resterebbe, così, anche allora
la mia persona come fu viva,
di pietra sulla pietra
squallida della terra morta.