I.

dal Proemio di "Voci", 1903

E fu una notte insonne. Tormentato
senza riposo da un pensier tenace
indefinibile, Io m'affaticavo
a non pensare.

Sul tavolino ardea fioca una lampa
che palpitava ad un misterioso
soffio; ticchiava lento ed uniforme
un orologio.

A me veniva da lontan, portato
dal vento, il batter misurato delle
ore, rompendo della notte tarda
l'ampio silenzio.

E nella stanza così muta, a un tratto
tutte le cose s'animaron, tutte
scosse nel lungo sonno da improvvisi
fremiti strani.

Ed ogni cosa ebbe una voce...
.......

E l'Orologio con l'accento breve
strane parole mi parlò... Io stetti
tacito ad ascoltar meravigliando
il vaticinio


L'OROLOGIO

dal Proemio di "Voci", 1903

Horloge dieu sinistre, effrayant, terrible,
dont le doigt nous ménace e nous dit: Souviens toi
Baudelaire

II.

Vita - Morte
Morte - Vita
l'infinita
Eternità.

Nella vita
vince il forte
nella Morte
vince il Nulla.

L'Universo
l'Arte sola,
la parola
animerà.

Chiude il Mondo
nel suo verso
ed è immerso
in tutto il Mondo,

quell' Eletto
solo forte
che la Morte
vincerà.

Arte - Arte
Morte - Vita
l'infinita
Eternità.

 

AI NEMICI MIEI

dal Proemio di "Voci", 1903

III.

Ed ora al mio passaggio
largo, o vigliacchi: o turbolenta e ipocrita
folla che acceca il raggio
abbacinante dell'ingegno mio.

Largo, largo! Piegate
la cervice, inchinatevi a lo scalpito
delle zampe ferrate
del mio cavallo rosso. Io sono il Dio

di giovinezza, Io sono
Prometeo che incede con la fiaccola
in pugno: vi perdono
le insolenze perché sono il più forte

e non mi giunge il fango
che mi gittate. Come col mio ferreo
e saldo braccio infrango
la vostra massa, infrangerò le porte

del carcere ove splende,
chiusa, la Verità, gemma purissima!
Largo, olà! non m'offende,
il vostro insano ghigno. Da le impronte

del mio cammino, germina
il profumo d'un fior nôvo: Io lo lascio
a inebbriarvi, o vermi,
e corro in contro al fulgido orizzonte!

IV.

dal Proemio di "Voci", 1903

Io canto. Nelle Tenebre
di già sghignazza il volgo e mi deride,
ma il Sole, co' suoi vividi
raggi mi scalda e l'ampio ciel sorride.


IL FABBRO

da "Voci", 1903

A Vanni Pucci

I.

Questa poesia sarà ripresa e corretta negli anni. 
L'ultima versione si trova in Liriche dei tempi.

Io sono il Fabbro. È mio martello enorme
il Pensier, che col mio braccio possente
fo risonare sul metal rovente
dell'Anima del Cuore e delle Forme.

E l'Universo che tutto rinserra
è la fucina, ch'ha per foco il Sole;
e le faville son le mie Parole
e la mia vasta incudine è la Terra!

Oltre il mio sguardo, tenebroso sta
il Nulla ...............................
........................................
Io sono il Fabbro dell' Immensità!

II.

Tu, che per me sei morta, leggerai
tu pure, e forse non in vano. In queste
pagine ruggiranno le tempeste
che a la mia fiamma e al mio martel temprai.

Ora Io disdegno quel che un dì bramai
lavoro di niello. Nell'intensa
opera assorto gigantesca e immensa,
non sudore ma il mio sangue versai.

Io lavoro: la fiamma ansa e sfavilla,
il mantice ruggisce, il mio martello
piomba e ripiomba sul metal che brilla,
ed arso ed abbronzato Io son più bello.

E tu, Nuova, se m'ami vieni al forte
tempestar romoroso del lavoro:
odi che picchia, tuona il mio sonoro
ferro che fa paura anche a la Morte.

Picchia batte ripicchia su l'acciaro
che tintinna e sfavilla: Io voglio aprire
agli uomini le vie dell' Avvenire
e a chiudere il Passato mi preparo.

E batte e batte e batte orribilmente
il maglio che riposo mai non ha,
e foggia il primo, e pure il più possente,
magnifico lavor: la Volontà!

Se tu pure verrai nell'uragano
vivo dell'officina che balena
e tuona, sentirai nel cuor la lena
di tutto questo gran palpito umano.

Il mio respiro è fumo e fiamme! Il mio
braccio non cade a martellare in vano
l'arme che un giorno impugnerò: Titano,
Io già m'appronto ad assalire il Dio!

E voi, figli dell'Arte e del Pensiero
nôvo ed eterno, niun timor v'assaglia
quando con voi verrò, primo guerriero,
a combattere l'ultima battaglia.

Il cimento terribile sarà
fra non molto, o custodi del vecchiume
gli altari eretti al vostro falso nume
il nostro Vero li rovescerà.

Nell'Avvenir la vita e l'arte è Vita
ed Avvenire! E tu verrai, mia Nuova,
a farmi forte nell'estrema prova,
con la carezza delle tenui dita.

O morta, io non chiedea la fiamma al Sole,
ma un baleno al tuo sguardo; vi trovai
quella parola che non arde mai:
NIENTE...............

L'OUYARA

da "Voci", 1903

…Nanna m'appelle  (Delevigne)                                                                A la Signora G. Marinuzzi Lucifora 
I.

La leggenda

(Toukäou piange e aspetta la tua bianca
madre da lunghi dì,— non l'odi tu?
Dal giorno che partisti nella franca
nave dal wigwan non t'ha visto più)

………………………………………….

E la Notte. La vaga luna pare
un sorriso del Ciel; le ardenti stelle
mille occhi che la stanno a riguardare.
Nell'amplesso del Ciel che la rinserra

nel seno e al bacio de le sue sorelle
lontane, pare abbrividir la Terra.
L'ampio lago è l'immagin della Notte:
un gran zaffiro limpido, fiorito

di mille fiamme palpitanti e rotte,
E su tutto il Silenzio alto. Nell'aria,
venuta via dagli alberi del lito,
va errando qualche foglia solitaria.

E il lido è là, disteso ed allungato
interminatamente a presso l'onda,
come un immenso mostro addormentato.
Toukaou tornava nella Notte: lento

veniva il suo battel verso la sponda,
nero nel solco vivido d'argento.
Egli spiegata innanzi a sè vedeva
la fantasmagoria della Natura

sognante; in fondo al canoe giaceva
il docile arco fra gli uccelli, sangui-
nanti, piombati sotto la secura
freccia, confusi in viluppi come angui.

Quando non lunge ei scorse, su la riva,
una forma feminea, in veste
discinta, fra le rame, che appariva
come una bianca vision di fata;

e contemplava il re delle foreste,
dal diffuso chiarore illuminata.
Sciolta le bionde chiome, la divina
sedea sovra una branca, che l'estremo

immergeva nell'onda cristallina;
e il signore dei llanos che venia
lento, ma in man più non reggeva il remo,
udì udì, come la melodia

misteriosa delle fronde al vento,
cantar la voce dello spirto bianco....
Egli taceva nell'incantamento.
« Vieni, o mortale, a l'amor mio; del lago

su le alghe olenti poseremo il fianco
e d'ogni voluttà ti farò pago.
Vieni! così felice per l'amore
dell'Ouyara fedel, dei mostri, dei

liquidi abissi tu sarai signore.
Uomo non più, non più: diventerai
invincibile al paro degli dei
se a le mie braccia t' abbandonerai.

Nostro il creato, ci rivestiranno
i raggi della luna: i risplendenti
astri, la Notte, in Ciel rischiareranno
il nostro amor, fra gl'inni sovrumani

del Silenzio! Al tuo gesto, obedienti,
ruggiran le tempeste e gli uragani.
Bevi la mia verginità, la mia
sete d'amore !.... Già da tempo aspetto!

Il mio cuore anelante ti desia
da tempo e sempre tu stavi lontano:
s'addensavano i palpiti nel petto
mio, nel dolor del desiderio vano.

Tua sono! a voluttà nôve t'invito!
Prendimi! non più re degl'indiani
sarai con me, ma il dio dell' Infinito!…
E sparve la sirena, sorridendo

ancor della promessa, negli arcani
imi del lago, come evanescendo.
Toukaou nell'onda si slanciò, demente,
chè chiamarlo la vide anche là giù....
Rise l'acqua sul suo corpo fremente…

La bianca madre non l'ha visto più!

 

L'OUYARA

da "Voci", 1903

II.

Un annegato

Non chiedete chi fu, né se la sorte
sua fatale compiva in seno ai flutti:
forse vivea sognando, ignoto a tutti,
e in un sogno lo baciò la morte.

Forse quell'ignorata anima ignara
su la spiaggia vagò perdutamente
e, col favore della risplendente
Notte, gli apparve e gli parlò l'Ouyara.


VENEZIA

da "Voci", 1903

O Venezia, regina dei Sogni, del Mar, del Silenzio;
silenzioso sogno di mare e d'oro.
O Venezia, gran cigno dall'ali tarpate,
languente nell'estremo lembo dell'Adrio mare.
O Venezia, connubio del Cielo col Mare,
le tue colombe danno i tuoi baci al Cielo.
O Venezia, il dorato crepuscolo che ti saluta
è la resurrezione della tua gloria morta.
O Venezia, ogni notte su l'onde del tuo Canal Grande
la Poesia sogna nel plenilunio.
O Venezia, nell'alba che infiamma le vele fuggenti
l'Anima mia affoga là, nella tua laguna.







 

 

L'ALTRO

Ripensando a uno scheletro che oggi ho visto

Io sono una menzogna. - Muto, ed uso
nella larva del corpo ad un eterno
sogghigno, Io sento un altro me rinchiuso.

Un Altro, che ha le mie forme, spettrale
e terribile sempre nello scherno
del suo sorriso gelido ed uguale.

Un Altro al mio voler pronto, che, quando
Io m'agito, o cammino, o parlo, tutti
gli stessi moti fa, sempre ghignando.

Se in liete visioni Io son conquiso,
talor i miei pensieri son distrutti,
sentendo il suo terribile sorriso.

E quest'Altro, s'Io dormo, nell'inerte
posa, vigila intento a sogghignare
sempre, con le mascelle enormi aperte.

E quest'Altro, allor che saranno morte
le mie carni, dovrà continuare
nell'infernale smorfia oltre la Morte.

Questo è l'essere mio vero, dannato
a viver sempre quell'orrenda vita
silenziosa, al suo riso atteggiato:

è la bestemmia che vien da l'oscura
intimità dell'uomo, è l'infinita
beffa della natura alla natura.

Ed or ch'Io, ripensando a questo vano
sogno di vita, aggiungo anche il mio pianto
al pianto eterno del destino umano,

menzogna delle forme, sempre assorte
in questa illusione, Io piango e intanto
dentro le carni mi ride la Morte.