ESTATE DI SAN MARTINO

settembre '34.

da Estate di San Martino

E' trascorsa la pazza
estate con le sue ultime vampe e le prime
folgori; s'è placata
l'improvvisa ira dei nembi
con qualche grandinata
furente e, su le cime,
con uno spolverio di neve.
Cascate di pioggia lavano
il cielo, la terra se ne imbeve.
Poi torna il sole, più pacato
e ridente, in un azzurro come smalto
terso; le zolle esalano
un umido profumo di ridesta
vita; cantano dall'alto
alla seconda primavera
gl'immigranti uccelli; l'orto,
la siepe, il prato, la foresta,
un'altra volta s'adornano
d'una gaia pur se breve gala
di fiori; sole su le vette
e, tra i rami che, si spogliano, sui borri
estatici, sugli specchianti acquitrini
in attesa di nuvole e di stelle
pel loro fondo nostalgico; sole
sui muricciuoli grommosi e sui giardini
che cominciavano a intirizzire;
sole sulle vecchie torri
slabbrate che, coltivano al lor piede
ciuffi di rovi e di viole,
e su le chiesette snelle
chiomate di capelvenere:
sole un po' lento, un po' sbieco,
ma carico d'una sua dolcezza
quasi pastosa e molle.
E l'aria è colma dell'ebbrezza
diffusa dall'ultima festa
agreste, col ferver nei tini
del liquore ricreante e folle.
Estate di San Martino
giunta pure per chi visse
un maggio pieno di tuoni,
un'estate torrida e greve
interrotta da acquazzoni.
Autunno pieno di colori
e di profumi della terra, pure
per me giungi con le rondini, col vino
inebbriante degli ultimi
desideri, con la tua neve,
sulle vette dei sogni che bevono sino alla fine
la luce, col tepido sole
appassionante che scalda
rovi, viole,
fronde in cui spaccano ancora
gemme, ed illumina ancora insepolte rovine.

MAIOLICA

da Estate di San Martino (1935)

Questo bel vaso di Casteldurante
non ti pare che un coccio levigato
e dipinto: e se l'ài ben ravvisato
e definito al suo smalto brillante

è grazie ad un tuo gusto polveroso
d'antiquario, alla tua corta mania
collezionista: sì, lo studioso…
sì, il professore d'archeologia…

Ma che importa il suo genere, che importa
il suo tipo? Guarda: altre questo smalto,
oltre il suo campo d'ocra ed il cobalto
degli ornati, non è materia morta.

Nell'angelo del medaglione ad ali
schiuse, negli stendardi dove i gigli
sventolano, nei turcassi degli strali
d'oro, negli elmi e nei trofei vermigli,

nella fragile crosta ancora intatta
palpita come un alito d'eterno;
e, benché freddo e vuoto, nell'interno
un'essenza invisibile si acquatta.

Un'essenza di secoli, di tempo
superato, una cenere di eventi
che furono, di quel continuo scempio
di gesti, di atti, di sospiri e accenti

e grida, ch'è la vita, e rassomiglia
a meteora che s'accende e piomba
nel buio. Se tendo l'orecchio, romba
come oceano dentro una conchiglia.

Quattro secoli sono aria e quel sordo
flusso dentro di lui. Ma esso è. Qual era.
Incolume alle furie dell'ingordo
tempo, la sua compagine leggera

rimane sempre quale un'amorosa
mano l'espresse dalla creta. Un cuore
la volle, un altro la vegliò: da amore
ad amore, morì l'uomo, la cosa

bella è rimasta, sopravvive. L'ente
che creò l'uomo, l'albero, la stella,
le cose utili, dopo – indifferente -
le uccide. L'uomo fa l'opera bella,

quanto più bella inutile, con gioia
pura, vi ferma le bellezze intorno
a lui create per vivere un giorno,
e la veglia perché essa non muoia.

Così nell'arte, viva come un monte,
longeva come un astro, il creatore
uomo – assembrate le divine impronte -
lascia di sé qualcosa che non muore.

FONTANA DEL CHIOSTRO DI MONREALE

da Estate di San Martino (1935)

La fontana, sbocciante
come fiore di marmo
fra le arcate del breve
portico, nel berillo
del cielo,
con lo stelo
grondante,
canta con voce lieve
ed uguale dal suo
settemplice zampillo.

Il passeggero ascolta
il filo che percuote,
con quelle lievi note
ferme, l'acqua raccolta
nella conca.
Il suono è sempre quello:
suon di violoncello
che trema e mai si tronca
né varia.

Nell'aria
si arricchisce d'azzurro
vibrando di cristalli
battenti
su argenti.
Infine per gli attenti
orecchi, usi a quel suono,
non è più che un sussurro
di frullanti metalli.

***

Ma non muta, per ore che l'ài udito,
né per giorni o per anni. E' sempre quello:
suon di violoncelli
fermo sopra una nota di infinito.

Mutò la superficie
del marmo, col tormento
delle gronde, ed il limo lutulento
vi depone la sua spessa vernice;

mutarono le stille
che producono il suono:
in un solo minuto a mille a mille
sempre fuggenti e rinnovate sono.

Ma questa melodia
d'acque, dolce e monotona, è rimasta
sempre quella che fu, quale l'udìa
Guglielmo, nella sconfinata e casta

pace del chiostro un po' cristiano, un poco
saraceno, da lui voluto. Sale
il canto chiaro, eguale,
nei secoli, mai più forte o più fioco,

sola cosa nel chiostro aerea, pura,
fatta di men che un fiato,
eppure viva come creatura,
spirito del presente e del passato.

PLATANI DI PIAZZA VITTORIA

da Estate di San Martino (1935)

Son belli specialmente
sul finire d'autunno,
quando un manto di foglie
morte, che esala odore
di sfinito, ricopre
la terra da cui s'ergono
i loro tronchi nitidi,
forti come viluppi
di muscoli d'argento.

Qualche foglia s'indugia
su gli alti cespi, rossa
e striminzita, come
crisalide d'un cuore
aereo. (Ma crisalide
che rivivrà farfalla
ancora, se domani
si spiccherà dal ramo
a un rifolo di vento

per un volo che mai
è una caduta). Stanno
nudi, i platani, intrisi
or di nebbia or d'azzurro,
con la ramaglia immensa
per le sue mille dita
aggrappata nel cielo.
Un po' tristi, le rame
spoglie di fronde, snelle

ma più solenni, adesso
non offrono dimora
a gai stuoli d'uccelli
che col loro sussurro
davano voce al verde
sul mattino e al tramonto.
Ma alle notti serene
nel nereggiante intrico
aleggiano le stelle.

La lor vita è terrestre
solo per le radici
ancorate a la zolla.
Creature dell'aria,
sia che grondino luce,
immoti, sia che attorcansi
ebbri fra le intemperie,
essi vivon nostalgici
di più assoluti spazi.

C'è chi, simile ai platani,
confitto nell'opaca
terra, alla luce e ai flussi
dell'immensità svaria
quel che à in sé di più eccelso,
pago sol di vedere
sperdersi nella grazia
di mille voli isuoi
desideri mai sazi.

LE MIE DONNE

da Estate di San Martino (1935)

Ritornano (che segno 
è questo?) dopo essere fuggite via,
ritornano nel regno
delle larve, le donne della mia
vita: sì, quelle
incontrate, che quelle immaginate
ne' miei scritti: mi stanno spesso attorno
come non mai
prima d'oggi: ma sempre
ferme nel tempo e belle
come nel primo giorno
che mi entraron nell'anima
o che mi usciron dalla fantasia.

Belle! Mai fui così
lieto di loro; mai furon motivo
così di gioia alle mie ore, come
adesso: Non di labili
memorie esse mi sembrano
un ritorno, ma un vivo
flusso di creature non mortali.
E se le chiamo a una a una a nome
mi balzano sul cuore
tutte frementi
e innamorate. Quali vere e quali
furon da me create? Non so più:
le loro anime, i loro
aspetti, i loro accenti
si fondono, diventan tutti umani.
Chi mi disse: «L'amore
mio mancava solo del tuo nome?»
Forse Bianca Mastrangelo,
forse un'altra in momenti
meno lontani.
Chi avviluppava nelle fulve chiome
come in catene
infrangibili il mio volere? Angelica
o un'altra che scomparve
nel buio d'una catastrofe notturna?
Disse Alda bella: «Il mio piccolo cuore
presago sente, come
un gran male, l'amor che sopravviene».
E non lo disse
pure la taciturna
mia reietta che appena ieri è morta?
Elena che domanda: «Mi vuoi bene,
piccolo amore mio grande?» à la voce
di colei che per prima
mi aprì la fiammea porta
dell'acre passione. Ecco la muta
Sini, tutta oro,
ed Unica dal lene
passo di cerbiatta, ed ecco Edmea
maestosa e feroce;
e, dolce e inesorabile, Lucia
Platamone; e la faccia medusea
di Katscha; e la mia piccola perduta
di Dame Vérole; e, col riso innocente
e impudico, Zakya...
La folla travolgente
di queste creature porta raffiche
di giovinezza con la sua venuta?

Ma accanto a loro, tu
pure vivi e le vedi
come io le vedo, oppure le sorprendi
forse riflesse nei miei occhi, Elù.
Non sono, come credi,
nemiche. Spoglie d'ogni impurità
carnale, non son più
che luce; e come tale ancor qualcuna
mi sopravviverà
forse (sì, lascia che lo speri: fu
sempre questo il più bello
de' miei miraggi, il solo
non ancora svanito). Oggi io lechiudo
insieme, in un fardello
leggero come un volo
di raggi, dentro un vel di nostalgia,
e le depongo sul tuo grembo, Elù.

IL DIVIETO

da Estate di San Martino (1935)

Diventare ricco come
Pierpont Morgan? E' possibile.
Possibile ancora montare
più in alto nella stratosfera,
raggiungere gli astri, calarsi
nelle profondità cieche del mare,
lanciare il mio nome
oltre lo spazio ed il tempo
dell'esistenza, rendere vera
ogni mia fantasia che trabocca!

Nella mia vita beffarda
tutto può esser permesso.
Principalmente, sperare.
Secondo lo sforzo, si può
molto tentare, è concesso
illudersi di conquistare
qualunque cosa; però
una sola ce n'è che si guarda,
ma non si tocca.

Una: una donna, la donna
che mi piace e che desidero
di più: forse ancora potrei
sceglierne dieci fra cento,
fra mille altre che pure vorrebbero
offerirmisi. Ma lei
no. Lei sola, no. Altre belle
come lei, senza il tormento
ch'è in lei, senza il divieto
che la pone oltre le stelle,
pure vicine, chiusa
in una corazza di diamante,
in una inaccessibile rocca.

C'è un divieto, fatto d'aeree
leggi, che sigilla al bacio
per sempre, o schiuderebbe a un riso
di scherno, forse, la sua bocca.

RITORNI

da Estate di San Martino (1935)

Non c'è, si può dire, un sol giorno
che mio padre e mia madre
non facciano ritorno
dal freddo e buio paese dell'eternità,
per venire un momento
nel mio pensiero a dirmi
qualche parola consolatrice.
Non sono mai solo nelle ore
avverse. Se oggi dispero, papà
mi bacia nel cuore;
se d'un'angoscia doman mi tormento,
la mamma mi benedice.

Ed ogni volta avviene
ch'io chieda loro perdono
d'un fallo più grande
di quello dei miei primi anni.
Quando cercavo il mio bene
lontano da loro, in inganni
dilettosi, in lusinghiere
ansie, ed essi attendevano invano
ch'io tornassi a colmare la casa
fatta per essi solitari
più fredda e deserta.

Io cercavo lontano
la gloria, l'amore, il piacere,
- assilli alla mia giovinezza -;
l'anima loro era intenta
a vegliare alla porta sempre aperta
della mia camera, dove
il letto rimaneva intatto,
la finestra chiusa,
la lampada sempre spenta.
Ma la mia colpevolezza
era più grande, peggiore
al ritorno, quando io
m'irritavo della loro ansia
o irridevo la loro tristezza.
E ora non so più rivederli
che quali in quei momenti,
col viso contratto,
reso vecchio e pietoso dal dolore.

"Perdono!" io supplico adesso
alle loro immagini scialbe
che rivivono nella mia memoria
dal vuoto dell'Eternità.
Ma non fu contro di loro
soltanto, la mia crudeltà:
la sento, in qualche minuto,
rivolta ora contro me stesso;
so che per l'amore, il piacere, la gloria,
cercati affannosamente
un altro bene (ma quale?) che solo essi videro
e piansero allora ò perduto.

ROULETTE

da Estate di San Martino (1935)

Son anni che gioco
al tavolo verde
(no, multicolore…),
con puntate diverse, ma
frequenti. Un poco
si vince, un poco si perde
a piccoli, a pari, a dozzine.
I colpi più grossi, perduti
sempre. Nel gioco a colore
ora va bene, ora va
male. "Messieurs, faites vos jeux!"
C'è sempre quell'incitazione
cortese e pressante che sa
di comando; e non è possibile
sottrarsi, restare inerte.
Anche perché da ogni lato
ti spinge la folla degli altri
che giocano, e t'urgono ai fianchi
coi gomiti, al collo col fiato
ardente. Ma ci si diverte
talvolta a guardarli, questi altri
coi loro visi contratti,
gli occhi sbarrati, le bocche contorte.
Ecco, quegli è liquidato;
e questi à vinto un en plein
che muta a un tratto la sua sorte.
ci sono pure gli scaltri
che fanno il giochetto del giorno
per giorno. Ci sono i matti
che ridono sempre, ci sono
i tristi che sempre piangono.
Giocare: è un male inguaribile.
"Messieurs, faites vos jeux!"
Questa voce che torna, con suono
monotono dopo ogni colpo
vinto o perduto, e costringe
al gioco, diventa terribile!

Croupier, ormai quante fiches
mi rimanevano, stanno
su un numero. E' l'ultimo giro
di pallina: quello
che mi porterà via
tutto. Lo so, ma non c'è che fare.
Zero, via zero…
Quest'ultimo colpo a perdita
sicura, eh no, non è bello.
Tutti teniamo il respiro
guardando la palla che gira, che gira,
che girerà ancora un momento,
parecchi momenti, e andrà giù,
alfine sul numero nero
della perdita finale.
Ritirarsi? Il regolamento
lo vieta! Aspettare. Aspettare!
« Tout est fait… rien ne va plus ! »


L'OMBRA

da Estate di San Martino (1935)

E' la compagna fedele, che io amo.
Un po' di luce basta a rivelarmela.
Il buio e il sonno non la separan da me,
ma son io, pel diminuire dei miei sensi,
che mi separo da essa.
Ogni sensazione di vita
mi viene sinché essa sussiste.
Essa mi fa accorgere che io sono.
S'allunga, s'accorcia, mi gira
attorno, mi si ferma dinanzi o a le spalle,
e di questo suo attorniarmi io gioisco.
Vivo per lei; per lei odo, vedo,
parlo, odoro, tocco, amo,
sento tutta l'esistenza.
Quando essa non sarà più sulla terra
non ci sarò più nemmen io.

O, se ci sarà un Io senza ombra,
sulla terra non potrà essere
che un pallido io, privo
di possibilità realizzatrici e tangibili,
negli spazi non sarà
forse che etere inerte
percorso da altre forme ed ombre.

MIA

da Estate di San Martino (1935)

Finalmente! Oggi solo s'è unita
per un legame invisibile e saòdo
come l'eternità. la tua vita
alla mia. Se anche un giorno, domani,
tu sparissi, resterebbe
sempre stretta in nodi arcani
una parte dell'anima mia
alla tua. Quel ch'è stato,
è quanto di più grande sia
al mondo: un essere s'è trasfuso
nell'altro, un lampo di creazione è scoccato
tra due spiriti, tra due
carni; ogni essenza
elementare, ogni senso
vitale in noi s'è adunato;
in noi s'è concluso
tutto l'istintivo e il divino dell'esistenza.
Ora mi pare che debba restare
negli occhi miei che sì a lungo
ti fissaron, l'immagine tua.
Mi par di portare adesso
di te vestigia visibili
in tutto me stesso:
il profumo che mi ài comunicato
traspira da me e mi ricinge
come una seconda atmosfera.
Tutti ti ravviseranno
in me; tutti te guarderanno
- te che passi fra gli uomini austera -
come torre d'avorio, che solo
la mia passione imbandiera.

CUORE - LAGO

da Estate di San Martino (1935)

Nel mio cuore sta come una gran pace
d'acque verdazzurrine, inghirlandate
di colli tutti fronde e fiori - ondate
lente d'echi di rive, e l'aria tace.

Pace che addorme ogni ricordo, pace
su cui, qua e là, galleggiano - ancorate
speranze - ciuffi d'isole beate;
e di sé s'alimenta e si compiace.

Acque senza onde ed anima senza ire.
Non orizzonti troppo vasti e non
desideri dal palpito più illustre.

Mi piacerebbe, quando sia, morire
in un momento come questo, con
questo inatteso mio cuore lacustre.

Pallanza - maggio 1934

CANZONETTA SENZA IMPORTANZA

da Estate di San Martino (1935)

Nascer male, su la paglia,
come il Nazzareno, e mai
sulla strada, lunga o corta,
che percorrere dovrai
trovar fiori? - Non importa.

O magari nascer bene
sopra piume ed oro, e poi
tra la compagnia più accorta
lasciar tutti i panni tuoi,
fin la pelle? - Non importa.

Sperar, credere, sorridere
a quell'uno od a quei mille
che ti fecero da scorta
fino a quando da imbecille
t'àn lasciato? - Non importa.

Perder testa e portafogli
per la bionda o per la bruna
che ti fa la gatta morta,
e pescare poi la luna
dentro il pozzo? - Non importa.

Lasciar dietro di sé, a uno
a uno, gli anni i mesi i giorni,
quel che il tempo via trasporta
di te? Polvere eri e torni
quel che eri. - Non importa.

Inseguir la gloria, il sole
dell'immortalità e invece
trovar solo, oltre la porta
del sepolcro, oblio e pece?
- Non importa! non importa!

Ma al momento di salpare
le ancore, di alzare il tacco
pei paesi dell'eterno
lume o buio, dentro il sacco
- tuo bagaglio per l'inferno

o pel paradiso - il meglio
metti: porta la purezza
del tuo cuore; se puoi, porta
una tua chiusa fierezza.
Questo importa. Oh sì, che importa!

ALL'UOMO DI DOMANI

da Estate di San Martino (1935)

T'immagino, uomo di domani,
passeggero dei cieli
in voli più ampi e lontani
dei miei; valorizzatore
d'ogni attimo, capace
di trasformare in un giorno
la veste e il senso del mondo,
di questo mondo che s'avvia
all'annientamento
dell'individuo, al livellamento
d'ogni carattere, a far d'ogni cosa un perfetto
luogo comune, d'ogni aspetto
diverso la monotonia
d'una serie precisa meccanica,
senza vette e senza fondo.

Ti vedo nella tua pace
fatta di guerra, disintegratore
dell'atomo, creatore della razza
finale, negando
inesorabilmente il ritorno
alle cose che furono, chiuso nella tua corazza
d'indifferenza, nato al comando,
mai triste e mai giocondo.

Ma non t'invidio, non rimpiango
le nuove macchine folli
di cui impaeseggerai la tua vita,
la nuova inaudita
potenza che ausilierà i tuoi molli
muscoli, che compirà
nel moto e nel gesto ogni tua volontà.

Tu forse disdegnerai
questo ancora sognante
tio avo, chiamerai debolezza
forse il suo pencolante
dubbio tra la nudità
primitiva, e il possesso assoluto
delle ultime verità.
Contro i secoli, che tu vivrai
sarà pallido, sì, il mio minuto.
Ma io non ò che lo sconforto
di dover sparire per sempre
dall'universo vegetante,
mentre tu mi sostituirai
con cuore diverso tra le cose
dell'immensa vita che io amai;
di pensare che tu passerai vivo e eretto
su la terra dove io giacerò morto.