Introduzione
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LA BARUNISSA DI CARINI

Introduzione – testo italiano e note di

Federico De Maria

 

Introduzione

 

DELLA POESIA SICILIANA

 

La poesia dialettale siciliana sta alla poesia italiana come la provenzale sta alla francese. Forse più. Penso che sia un errore, anche da parte dei siciliani, chiamarla o lasciare che venga chiamata “dialettale”. Il dialetto – o meglio i dialetti – in Sicilia sono quelli comunemente adoperati nell’eloquio volgare e, con diversità d’accenti e di vocaboli, nelle varie provincie dell’isola, mutando talora da comune in comune della stessa provincia e da quartiere a quartiere della stessa città. Nessuno ignora che la parlata di Messina è ben diversa da quella di Agrigento, come quella del rione palermitano della Kalsa da quella della borgata di Pallavicino. La nostra regione, dunque, è ricca di vernacoli; ma quello della sua letteratura deve essere considerato come una vera e propria lingua.

A parte il fatto, accettato da Michele Amari[1], che un linguaggio volgare, derivato direttamente dal latino, esisteva in Sicilia fin dal settimo secolo e non fu sopraffatto né seriamente influenzato dal parlare e dalla letteratura dei saraceni, dominatori dell’isola lungo circa due secoli e mezzo, gli basterebbe di avere dato i primi saggi in volgare alla letteratura italiana per assegnare all’idioma siciliano una nobiltà di nascita incontestabile. E se di massima le storie letterarie non hanno tenuto conto che di quei primi saggi, ciò non vuol dire che la poesia siciliana del duecento rappresenti un fenomeno limitato nel tempo, poiché anzi il nostro popolo continuò a cantare anche fuori della reggia e delle corti d’amore degli Hohenstaufen; e dopo il celebre Contrasto di Cielo D’Alcamo si ebb­ero nel trecento i sirventesi della guerra del Vespro, di cui purtroppo rari frammenti sono giunti sino a noi; e gli strambotti degli oscuri poeti del quattrocento ­rimasti vivi nel popolo; e i poemetti e le canzoni, i sonetti e i madrigali dei poeti del cinquecento, tra cui primeggia quell’Antonio Veneziano soprannomi­sto «il Petrarca siculo» esaltato perfino da Michele Cervantes, ed autore di canti d’amore che farebbero onore a qualsiasi letteratura; e la pleiade degli eleganti e ispirati lirici del seicento; per giungere poi fino al Meli, uno dei maggiori poeti del suo tempo, quale lo ha riconosciuto l’indiscussa autorità di Fran­cesco De Sanctis.

A preferenza della poesia dialettale delle altre re­gioni italiane e della stessa Provenza, la poesia sici­liana non subisce arresti, non si manifesta in periodi staccati contrassegnati da condizioni particolarmente favorevoli, né tanto meno è di data recente, o come quelle pure notevoli napoletana, romanesca, ve­neziana, si esaurisce con dati autori: essa ha una con­tinuità innegabile che nell’ottocento e nell’epoca at­tuale raggiunge la sua massima fioritura dal punto di vista quantitativo.

Altri contrassegni ha in sé la poesia siciliana che la innalzano dai comuni caratteri dialettali: essa non e rimasta ferma nei limiti tradizionali, né si è cristal­lizzata nelle forme popolaresche; ma come nelle let­terature che hanno una storia, ha aderito sempre ai tempi che l’hanno di volta in volta prodotta, ha espres­so i tempi nelle forme e nel contenuto, ha avuto il suo classicismo e il suo romanticismo. Essa ha ac­colto anche capolavori di altre letterature: pure se non riuscirono a popolarizzarsi, rimangono notevoli tentativi della traduzione in siciliano dell’Eneide fatta dal vescovo Tommaso Aversa di Mistretta nel secolo XVII, e della Divina Commedia, opera ardua e in molti punti bellissima dei poeta Tommaso Canizzaro, messinese, circa quarant’anni or sono. Negli ultimi anni dello scorso secolo, nuovo lustro letterari le diedero, benchè in misura diversa, i poeti Leonardo Vigo e Domenico Tempio di Catania, Calvino di Tra pani, e il siracusano Saru Platania.

Col principio del secolo nostro la letteratura siciliana ha una nuova rigogliosa fioritura con alcuni fra i suoi maggiori cultori apparsi dopo il Meli. Il teatro siciliano, che si era limitato a raffazzonamenti e farse durante il settecento e l’ottocento, ma aveva aperto una via coi Mafiusi, insigne dramma del Rizzotto e del Mo­sca afferma a un tratto e primeggia con autentici capolavori di grandi artisti: Cavalleria Rusticana, Cac­cia al lupo, Dal tuo al mio di Giovanni Verga, l’indimenticabile Malia di Luigi Capuana, La birritta cu li cianciani e Lumii di Sicilia di Luigi Pirandello e con Nica e Scuru di Martogiio, la Zolfara di Giusti Sinopoli, Gabrieli lu carusu e Scunciuru di A. Di Giovanni, i Navarra di V. Pucci, ‘U gurgu del compianto Attilio Barbiera ecc. La grande, umana arte drammatica di Giovanni Grasso, di Mimì Aguglia e di Angelo Musco dei primi tempi richiama l’attenzione di tutto il mondo sulla Sicilia e sull’arte siciliana; Nino Mar­toglio, direttore della magnifica compagnia che portò per un quinquennio in giro pei continenti nostri costumi, i nostri sentimenti e il nostro linguaggio, divulga anche la nostra lirica in frequenti dizioni di versi dinanzi a pubblici imponenti. Il teatro siciliano è all’onoare del primo posto e la poesia siciliana s’impone dietro di esso, all’attenzione della critica. Il nostro primo fèlibre, l’emulo del Mistral, Alessio Di Giovanni, la innalza ad epiche altezze coi mistici poemetti Cristu e lu puvireddu amnurusu e con le potenti rappresen­tazioni del Feudo e delle miniere, apportando inoltre un poderoso contributo alla narrativa in prosa con ro­manzi e novelle (La morti di lu patriarca, La racina di Sant’Antoniu); Vanni Pucci con Amari dissi... ci dà la lirica borghese e gli inizi predecessori di quella che nella poesia italiana contemporanea doveva chiamarsi poco dopo crepuscolare e provinciale; Vito Mercadan­te ci rappresenta a nuovo, con occhi moderni, il mon­do campagnuolo e popolano; Giuseppe Foti si rivela con l’angosciato lamento a carattere sociale di Figlio d’ignoti: tutti fiancheggiati e seguiti da una schiera ardente ed entusiasta di giovani e giovanissimi che trovano, chi più chi meno, un accento personale, una parola interessante o per lo meno gradevole (escludo quelli, non privi di pregi del resto, che non in sicilia­no aulico hanno poetato, ma nei vernacoli natii, por­tando un certo imbastardimento nella letteratura si­cula, e che vanno considerati alla stregua di poeti po­polari); e infine Vincenzo De Simone rinnova con voce novecentesca l’ellenica dolcezza di Teocrito e di Mosco e l’appassionato vigore dei trovatori arabi, con­nubio generatore del sustrato canoro dell’anima sici­liana.

 

IL CASO E I CASI DELLA BARONESSA DI CARINI

 

Della Provenza d’Italia sono noti fuori dell’isola, per lo meno a critici e studiosi, parecchi degli autori contemporanei che ho nominato, e non pochi hanno letto e adeguatamente apprezzato il Meli il più dif­fuso dei nostri poeti dei passato. Pochi, pochissimi, in­vece, conoscono oggi i siciliani delle epoche meno pros­sime, fra cui si potrebbero rivelare artisti eccezionali.

Fra questi, il primo posto tocca all’ignoto cantore della baronessa di Carini, che io assumo a titolo d’onore ricordare ai lettori siciliani e presentare quasi a nuovo a quelli delle altre regioni.

Chi non ha sentito, a teatro o alla radio, la suc­cinta opera del maestro Giuseppe Mulè, che in un at­to racchiuse la vicenda d’amore e di morte tenero idillio e raccapricciante tragedia della dama sicilia­na? Chi non ha commosso, sia pure per un’ora, que­sta storia di passione, meno celebre, se vogliamo, di quelle di Francesca, di Giulietta e di Parisina, ma che ha con esse la stretta parentela dell’amore pagato col sangue?

Dico meno celebre, soltanto perché in Italia e fuo­ri d’Italia essa non è legata come quelle ai nomi di Dante, di Shakespeare, di Byron e di D’Annunzio che le hanno cantate e popolarizzate, o meglio perchè la letteratura e l’arte che a lei si ispirano sono rimaste regionali.

I non siciliani, infatti, non tutti sanno che la fa­mosa canzone napoletana Fenesta che lucive su versi di Mariano Paolella musicati, secondo qualcuno, da Vincenzo Bellini, è ispirata al caso della baronessa di Carini e riporta un tratto dell’antico e poco noto poemetto che il giovane musicista catanese conosceva e forse aveva trascritto dalla tradizione orale che se ne conservava nel suo paese; e i non siciliani che ciò sanno lo appresero da un avvincente per quanto breve studio storico-critico pubblicato circa quarant’anni or sono da Salvatore Di Giacomo in un numero della ri­vista milanese Varietas. Né sanno che parecchie arie popolari che da vecchia data si cantano nella media e bassa Italia e perfino nel Veneto, son brani regionalizzati di un più antico canto siciliano diffuso secoli or sono da cantastorie girovaghi[2].

Generalmente ignorate, poi, sono e nella stessa Sicilia altre due opere sul medesimo soggetto, e cioè. una tragedia di Giuseppe Lanza di Trabia, del 1803, e un romanzo abborracciato nel 1838 da un D’Ondes-Regio e un Paolo Tantillo. Ma non è un male.

A ricordare il tragico avvenimento, tramandato in laconici cenni da un cronista del secolo XVI, Filippo Paruta, da un altro del secolo successivo, Vincenzo Auria, poi non esattamente esposto da F. M. Gaetani di Villabianca attorno al 1760[3], e raccolto dall’arte di musicisti e poeti posteriori, esisteva dunque, oltre la tradizione orale, un componimento che certo risaliva a epoca assai vicina al fatto, e di cui il suddetto Villabianca ci lasciò pure un sommario saggio, e che pochi nel continente, ma moltissimi in Sicilia, conoscevano, perché correva per le bocche di cantastorie e di quanti coltivavano o amavano la poesia regionale. Ma da quel che assicurano gli storici, sopratutti il borgettano Salvatore Salomone-Marino, che alla storia e al poemetto della baronessa di Carini dedicò amorosamente lunghi anni della sua carriera di folklorista non esisteva una trascrizione definitiva o almeno completa di questa eccezionale opera d’arte. Fu lo stesso Salomone-Marino a raccoglierla e pubblicarla nel 1870 (e poi in altra edizione riveduta e corretta nel 1873), narrandoci anche la versione tradizionale del caso e avvalorandola con suoi rilievi e documenti[4].

Ma contro di lui si levò, nel 1901, il sig. Pietro Barcellona Passalacqua in un volume intitolato Le tre Hiccari, buttandogli in faccia alcuni, un po’ pre­tesi un po’ autentici, errori storici e logici. Nel 1909 il mio diletto amico Luigi Galante, morto immatura­mente nella Grande Guerra, diede nuovi dispiaceri al trascrittore e storiografo del canto sulla baronessa di Carini, pubblicando un’altra trascrizione, più com­pleta e perfezionata, e altri rilievi critici e storici sfug­giti al Salomone-Marino.

Sennonché questi, nel 1913, polemizzando fieramen­te con sé stesso per dimostrare ai suoi contraddittori che nessuno la sapeva lunga quanto lui, diede alle stampe una versione ben diversa di tutto ciò che ave­va raccolto e scritto 40 anni prima e che a lui si doveva se era stato in gran parte riconosciuto e ac­cettato.

Nel 1925 il Rev. Buffa-Armetta, carinese, in un suo libro di note storiche su Carini, in gran parte confutò la nuova tesi storica del Salomone-Marino e del poe­metto diede la versione primitiva del 1870-73.

Giuseppe Pitrè, il più autorevole studioso di cose siciliane, che non aveva dato grande peso, a suo tempo, alla prima tesi storica del Salomone Marino, ma aveva accettato e fatto accettare il testo poetico così come quegli lo aveva da prima presentato, nel 1913 alla pubblicazione autocontraddittoria del suo emulo, preferì tacere.

Chi non tacque fu Giovanni Gentile, che giudicò piuttosto severamente l’opera demopsicologica del tormentato storico della baronessa di Carini.

Queste, insieme con qualche diligente articolo di Luigi Natoli e di altri pochi, storiografi e critici, le pubblicazioni del e sul poemetto siciliano La barunissa di Carini, succedutesi in Sicilia (tranne quella Gentile) e rimaste in gran parte in Sicilia, ove questa opera d’arte, passata da uno studioso o da un dilettante all’altro di usi, costumi, tradizioni regionali, minaccia oramai di putrefarsi nei campi della demopsicologia e demopsicografia.

L’autorità degli specialisti regionali, che del resto non rare volte conta tra venticinque persone, nulla ha aggiunto e molto ha tolto a quella che può essere considerata come la maggiore opera della poesia siciliana.

E’ tempo di restituirla all’arte e di portarla completa conoscenza di quanti anche fuori della Sicilia, e possibilmente d’Italia, s’interessano alle cose belle, del pubblico che ancora ama la poesia, dovunque e in qualunque tempo essa sia fiorita.

Io non vorrei indugiarmi troppo sul fattaccio di cronaca che generò questo capolavoro. Debbo però dire che le ultime ricerche tendono a dimostrare che esso non si svolse come dapprima si narrava e che forse per la contaminazione di due avvenimenti similari, succedutisi a distanza di anni, si ebbero dif­ferenti versioni, la più avvalorata delle quali fu per secoli la seguente:

Dal matrimonio celebrato nel 1543 fra la quattor­dicenne Donna Laura Lanza e il sedicenne don Vin­cenzo La Grua Talamanca barone di Carini nacquero otto o nove figli. La secondogenita di essi, Caterina, divenuta giovanetta, abitava con una congiunta, la nonna o la zia, al castello dei La Grua, a Carini, mentre il resto della famiglia stava a Palermo, nell’avito pa­lazzo.

Presso Carini, in una tenuta di Montelepre, risie­deva un giovane cavaliere, Vincenzo Vernagallo, che soprintendeva all’industria della cannamela, cioè della canna da zucchero, per conto proprio e del pa­dre in comproprietà, pare, coi La Grua dei quali erano pure parenti benchè divisi da continui dissensi d’inte­resse e da motivi politici, perché i Vernagallo parteg­giavano per la faziosa Messina, mentre il barone di Carini era alto magistrato a Palermo. Vincenzo Vernagallo e Caterina si amarono. Egli andava spesso, nottetempo, a trovarla partendo da Montelepre a ca­vallo e giungendo in mezz’ora sotto le finestre della sua bella. Ma la relazione amorosa che alcuni, nella tradizione orale, assicurano essersi limitata a una semplice liccata (amoreggiamento platonico) di giovani che vorrebbero sposarsi, ma ne sono contra­stati dai rispettivi parenti viene scoperta da un monaco del prossimo convento dei Carmelitani, il quale si reca a Palermo per informare il Barone di Carini. Costui, divampando d’ira, senza por tempo in mezzo, cavalca con una masnada di sgherri verso Carini, vi giunge sul fare dell’alba, sorprende la fglia affacciata al balcone, penetra in casa, e, sordo alle grida e alle preghiere della sua creatura, la sgozza. Prima di morire essa, appoggiandosi a una parete, vi lascia l’orma della sua mano insanguinata. Il cavaliere Vernagallo, perseguitato, fugge, trova salvezza in Ispagna ove si fa monaco e muore anni dopo. Anche la madre di Caterina, trascorsi pochi mesi, morì dal dolore. Il padre omicida passò gli ultimi anni della sua vita roso dal rimorso.

Questa è la versione che venne rispecchiata dal poemetto nella sua forma più corrente e ripetuta di bocca in bocca per quasi tutta la Sicilia lungo tre secoli. Brani di esso rimasero, come ho detto, anche in altre regioni, dopo avere assunto una forma locale e più o meno diversa.

Sennonché la fame della verità indusse a ricerche accurate alcuni studiosi tra cui ho già detto — bisogna mettere in primissimo piano Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone-Marino. E si trovò che il 4 dicembre 1563, data assegnata generalmente al caso della Baronessa di Carini, erano morti anzi testualmente erano stati morti Laura Lanza moglie del barone di Carini e il Cavaliere Ludovico Vernagallo, fratello di quel Vincenzo che anni dopo morì monaco in Ispagna. E si credette di poter asserire, sulla semplice base di documenti parrocchiali, che non una figlia Caterina e nubile, ma la madre stessa, Laura, dopo una lunga tresca col parente Ludovico, fosse stata denun­ziata al marito e da questi colta in flagrante insieme col cavaliere e con lui uccisa nel Castello di Carini. Finalmente nel 1913 lo stesso Salomone Marino, ri­mangiandosi la prima versione, si adoperò a dimostra­re che non il marito Barone di Carini, ma il padre di Laura, Cesare Lanza, uomo di feroci istinti, pretore della città di Palermo, aveva sorpreso la figlia e l’a­mante e uccisi entrambi.

Cercò dimostrare anche, con sue argomentazioni discutibili, che lo stesso Cesare Lanza e il vedovo Vincenzo La Grua, avendo interesse a nascondere la real­tà dei fatti, facessero dar credito alla voce che l’ucci­sa fosse una figlia Caterina.., che non era mai esistita! Ma di questo parlerò appresso.

Ora ho qualcosa da dire anch’io, con fatti e docu­menti inediti passati per le mie mani.

Qualche anno prima della guerra mondiale e cioè fra il 1908 e il 1910, io tenni in parecchie città una conferenza intitolata L’anima siciliana, nella quale, fra l’altro, parlavo abbastanza diffusamente del poemet­to sulla Baronessa di Carini, citandone i tratti principali che non mancavano mai di destare la più profon­da emozione nel pubblico, fosse esso quello di Roma che quello di Bologna, quello di Tunisi che quello di Trieste. La pronunziai anche all’Istituto di studi in­ternazionali di Parigi, ove ebbi fra i miei ascoltatori la ben nota scrittrice Jéan Dornis, ai secolo Elena Goldsmith-Beer, di origine italiana, appassionata studiosa della nostra letteratura e autrice, fra l’altro di un acuto studio sull’opera dannunziana pubblicato pochi anni or sono. La signora Dornis mostrò interessarsi molto al poemetto della baronessa di Carini e m’invitò a casa sua per ripeterne i versi in un piccolo raduno d’intenditori. Tra vari letterati, romanzieri e giornalisti dei più illustri che conoscevano l’italiano Anatole France, Giulio Claretie, Paul Margueritte, Ferdinando Brunetière, Edoardo Rod, Abel Hérmant, Paul Adam, il pittore italiano Cappiello, il direttore della Revue des denx Mondes[5] vi trovai un ospite interessante e inaspettato: il principe di Carini.

Bisogna dire che alcuni lustri dopo la tragedia, nel 1622, la signoria di Carini, da baronia fu elevato a principato e aggiungere che nel 1860 il primogenito discendente di quel casato, ambasciatore del re di Napoli presso l’imperatore dei francesi, per protesta contro l’annessione della Sicilia al regno d’Italia, non tornò più nella sua terra natia da Parigi ove aveva preso moglie e dove a loro volta i suoi figli rimasero, assumendo la cittadinanza francese. Quel principe di Carini che io conobbi in casa della signora Elena Goldsmith-Beer era uno dei due ultimi discendenti di quella famiglia. Egli non parlava l’italiano, ma mi assicurò di saperlo leggere abbastanza correntemente e di intenderlo un poco alla conversazione.

Dopo che ebbi recitato i tratti salienti del poemet­to, il principe mi disse di possederne una trascrizio­ne che era stata portata dalla Sicilia asserì in­sieme con poche altre carte antiche di famiglia. Pre­gato da me, qualche giorno dopo me ne rimise una copia dattiloscritta.

In questa copia riscontrai una quasi perfetta iden­tità con molti punti del testo riportato dal Salomone Marino nella prima edizione del poemetto, tranne qualche aggiunta, qualche variante, qualche inversio­ne e evidenti errori di copiatura. In fine mancava qua­si per intero l’episodio del sogno e dei lamenti del pa­dre. Il principe di Carini mi disse di ritenere che quel­lo fosse il testo antico della famosa opera, fatta cura­re e copiare da un suo antenato non seppe precisa­re quale, perchè suo nonno assicurava che, lui bambi­no, quel manoscritto esisteva già in casa La Grua. Egli riteneva di poterlo assegnare ai principii del secolo XVIII, quando le impressioni di fastidio e di malesse­re pel ricordo del sinistro evento si erano di molto at­tenuate presso la famiglia.

Io tenni conto di quel testo altre volte che mi ac­cadde di occuparmi del poemetto ed ebbi occasione di mostrarlo a Luigi Galante che stava per pubblicare in quell’anno il suo saggio[6] e che si mostrò assai soddisfatto di trovarlo assai prossimo alla ricostruzione da lui fattane.

Nel maggio 1914 m’incontrai di nuovo col principe di Carini, a Roma, ove egli soggiornava da qualche mese in qualità di corrispondente del quotidiano parigino Le Matin. Stavolta il principe parlava ormai correttamente la nostra lingua. Mi feci riconoscere da lui e gli ricordai il poemetto che mi aveva donato.

A proposito mi disse sapete che ho letto un libro nuovo (adopero le sue stesse parole) molto imprudente di un letterato siciliano, Salomone-Marino, sulla baronessa di Carini. E’ stato pubblicato pochi mesi or sono. Lo avete letto anche voi?

In verità io da quattro anni vivevo fuori della Sicilia e avevo perduto ogni contatto con gli studii regionali siciliani e con quei compagni miei d’un tempo particolarmente versati in questi studii. Risposi di no; ed allora il discendente dei La Grua Talamanca m’informò della nuova, sciagura… verbale che colpiva il suo tanto bersagliato e discusso casato, e lo fece con un’animazione e uno sdegno che io, alla meglio, mi proverò a riprodurre.

Quella pubblicazione sostiene arbitrariamente alcune circostanze offensive per la mia famiglia, tanto opportuno mandarmelo qui per mettermene a conoscenza. Io consulterò un avvocato per sentire se non sia il caso di denunziare all’autorità giudiziaria per deformazione di fatti questo signore che promette prove e prove delle enormità che asserisce, mentre poi non ne dà nessuna.

«Credo di avervi già dètto che né io, né i miei di famiglia ci siamo mai curati di approfondire il sini­stro dramma di Carini, e l’unica persona con la quale mi si è offerta l’occasione di parlarne siete stato voi. Confusamente abbiamo saputo che una nostra antena­ta fu uccisa dal padre per contrasti amorosi; ma sape­vamo anche che con lei era morta, forse pure uccisa, la madre... e altri. Io ho poi conservato i versi del poe­metto che uno di noi lo sapete già fece racco­gliere e consacrare in uno scritto, soltanto come una curiosità di famiglia, e mi prese la fantasia, dopo aver­vi sentito in casa Beer, di raccogliere quanto di altro si è venuto pubblicando su questo soggetto, rassegna­to al fatto storico e poetico che un nostro antenato fosse stato l’assassino della propria figlia e forse an­che del suo amante.

«Il vostro storico siciliano che pure ciò aveva as­serito, adesso, però, viene fuori con pretese rivelazio­ni scandalistiche e strabilianti. Tralascio l’asserzione, sostenuta e magari dimostrata da altri prima di lui, che non la Caterina fu uccisa da Vincenzo La Grua, ma la madre di lei, Laura, dal proprio padre Cesare Lanza: ciò attenuerebbe il disdoro e la... sanguinarie­tà dei miei ascendenti più diretti, riversandoli piutto­sto sui Lanza di Trabia, e di cui io e i miei siamo assai più da lontano toccati. Mi farebbe anzi piacere veder messi la colpa e il delitto a carico loro, anche per la povera Caterina... E’ più grave e insolita la tresca di una ragazza che quella di una moglie, e più consueto e perdonabile l’uxoricidio che il parricidio. Starei, dun­que, per la revisione non solo storica, ma anche poe­tica del fatto. Pure dopo venti o venticinque genera­zioni, dà un certo fastidio, non vi pare? vedersi guar­dato come il discendente di un celeberrimo assassino...

«Quel che non mi va giù è un nuovissimo colpo di scena di cui si onora e vanta il Salomone Marino. Il mio avolo, dice lui, d’accordo col suocero Cesare Lan­za, diedero artatamente credito alla voce che fosse sta­ta uccisa da Vincenzo La Grua la figlia Caterina, ce­lando la morte di Laura per nascondere l’onta dell’adulterio consumato dalla moglie e per non far so­spettare che gli ultimi tre figli, maschi, di casa La Grua-Lanza fossero dei bastardi. C’è di peggio: per avvalorare questa versione, essi avrebbero falsificato in parte, in parte distrutto, documenti familiari; e in ultimo siccome una figlia Caterina non esisteva essi si sarebbero fatta cedere dalla famiglia dell’aman­te di Laura, Vernagallo, un’autentica Caterina, sorel­la dell’ucciso, per inserirla nella famiglia La Grua.

«Quale odioso imbecille sarebbe, dunque, quel Vincenzo La Grua, che dai documenti storici citati an­che dallo stesso Salomone Marino e dal dire dei cro­nisti del tempo appare invece fastoso, attivo, con­solidatore e accrescitore delle ricchezze, del potere e della nobiltà della sua casa, e quindi intelligente, a lasciar propalare la voce e a dare la falsa documenta­zione di un delitto non da lui commesso? E’ ammissi­bile che il segreto mantenuto e magari imposto sul fattaccio ne abbia agevolato involontariamente la de­formazione e la propalazione sotto la forma per lui più nociva; ma che egli ci si mettesse di proposito a credere è innaturale e assurdo. Che i tigli maschi potessero esser ritenuti bastardi, non dipendeva da quel che lui all’ultimo momento avrebbe architettato. Laura era stata ammazzata, dal marito o dal padre, col Vernagallo, e lo sapevano per lo meno i servi del castello che avevano assistito alla tragedia, gli sgher­ri che vi avevano partecipato, il becchino che aveva sepolto i due cadaveri, il prete che aveva fatto dare loro sepoltura e aveva scritto i loro atti di morte ancora oggi leggibili: un minimo di dieci o dodici persone, di cui almeno tre o quattro se lo saranno lasciato sfug­gire tra parenti o amici, i quali a loro volta l’avranno propalato. Un cronista contemporaneo ne accennò nella sua cronaca, senza precisare, è vero; ma credete voi che subito non si parlasse in tutta la Sicilia della baronessa di Carini morta in circostanze così terribili? E non si sapesse perchè? E non si potessero da centinaia ­di persone stabilire le probabilità se i figli fossero o no adulterini? Che sciocco e inutile pasticcio quel­lo dei La Grua-Lanza, mentre nessun documento dimost­ra che i tre figli minori non fossero stati in nes­sun momento trattati come si trattavano tutti i figli case signorili!

«Il pasticcio più grosso, poi, rimane quello della sostituzione di persona. Per darla a bere a chi il barone ­di Carini e il barone Cesare Lanza, dai Vernagallo, ­ai quali hanno assassinato un figlio, il cui cadavere ancora caldo, si può dire, grida vendetta, si fanno cedere la figlia diciassettenne Caterina, per presentarla come figlia primogenita o secondogenita dello stesso Vincenzo La Grua e della giustiziata Laura Lanza? I Vernagallo non erano tipi da adattarsi a una simile inumana soperchieria: lo dimostra il fatto che avevano sempre tenuto testa ai La Grua e che anche anni dopo ebbero ragione su di loro in affari e liti. I documenti, così cari al Salomone Marino, parlano          chiaro. Ma pure se essi si fossero piegati a simile delittuoso sopruso, i familiari, i congiunti, gli amici, i conoscenti, i palermitani, i siciliani tutti erano nel 1563 così tonti da rassegnarsi ad avere ignorato per diciassette anni l’esistenza di una Caterina La Grua e cioè di una componente di una famiglia tra le  più illustri e le più in evidenza del regno e a ve­dere sparire una Caterina dalla casa Vernagallo, famiglia anch’essa notissima? E’ un gioco di bussolotti che nemmeno nel secolo XVI poteva illudere i gonzi. E poi, di questa Caterina Vernagallo viva che deve           rappresentare la parte di una repentina Caterina La Grua mai nata e improvvisamente morta ammazzata al posto della madre, in fin dei conti che cosa ne hanno fatto? L’hanno pure uccisa? L’hanno polverizza­ta? E lei, sua madre, suo padre, i fratelli, le sorelle, i congiunti, i palermitani, i siciliani, il capitano di giustizia, i birri, il viceré, il re, il papa, hanno chiuso gli occhi sul sacrificio di questa nuova Ifigenia, immolata all’onorabilità così sfacciatamente disonorata di casa La Grua-Lanza? E infine la baronessa Laura, morta e sotterrata il 4 dicembre 1563 secondo l’at­testa il registro della parrocchia di Carini, come può essere data per morta invece, secondo un documento falsificato dell’archivio La Grua, nel marzo 1564, anzi inaudito! presentata ai terrazzani di Carini che la conoscevano intus et incute perché vissuta per anni tra loro nella persona della seconda moglie, in occasione di una festa al castello il 28 aprile 1564? E se invece fosse falso o errato nel nome l’atto di morte della parrocchia?

«Tutto ciò è così puerilmente ridicolo da far pen­sare che il professore Salomone Marino ritenga non solo i siciliani del secolo XVI ma anche i suoi lettori una massa di idioti, oppure che, giunto a tarda età, la mente gli si sia indebolita al punto di perdere ogni facoltà autocritica. La verità è una sola: il 4 dicembre 1563 una tragedia avvenne nel castello di Carini, una dama della famiglia vi fu uccisa dal padre. Le circo­stanze e le cause restano e resteranno sempre igno­rate, e la leggenda avrà sempre più ragione della pre­tesa storia».

Il principe di Carini qualche settimana dopo ven­ne in Sicilia a visitarvi quei pochi beni che ancora gli rimanevano, da anni affidati ad amministratori; andò al castello, come mi fu confermato nel 1929 dal vecchio custode, lo percorse da cima a fondo, si fer­mò dinanzi alla soglia murata della stanza dell’ucci­sione, sull’architrave della quale si legge: et nova sint omnia, e ripartì la stessa sera. Scoppiata la guerra egli fu richiamato: da ufficiale di cavalleria prese par­te a parecchie azioni sul fronte delle Ardenne e nel 1915 restò ucciso. Con lui si estinse il ramo primoge­nito dei La Grua Talamanca signori di Carini, e il titolo e i beni sono rimasti al fratello Francesco.

 

IL POEMETTO

 

Io non ebbi più occasione d’interessarmi in modo particolare alla storia, alla leggenda e alla poesia della baronessa fino al 1940, anno in cui ricevetti l’invito di farne argomento di una lezione al Corso lnteruni­versitario dell’Ateneo di Palermo. Avevo, sì, rielabo­rato la mia conferenza giovanile su L’anima siciliana, ampliandone alcuni tratti, sopprimendone altri, aggiun­gendovi spunti nuovi, giovandomi di alcune varianti del poemetto per modificare anche il tratto in cui ne parlavo, e sotto altro titolo l’avevo fatta sentire a Pa­rigi, alla Sorbonne nel 1929, a Napoli nel ‘30, a Mila­no nel ‘32, a Trieste nel ‘34.

Ma quando si trattò di dovermi occupare singolar­mente di La barunissa di Carini, sentii la necessità di rituffarmi nell’argomento e studiare quanto d’altro se n’era scritto dal 1910 in poi.

Fu solo allora che presi conoscenza diretta dei nuovi studii di Salvatore Salomone Marino e trovai quel che non avevo supposto dalla conversazione col principe, e cioè che anche il testo del poemetto era di sana pianta un altro.

Confesso che, sulle prime, l’autorevole giovane ese­geta del 1870 divenuto nel 1913 il vecchio divoratore di non so quanti personaggi e di se stesso, ebbe l’abi­lità... d’indignarmi.

Dichiaro che non intendo in nessun modo ingerir­mi nella decifrazione del Caso, del fatto di cronaca svoltosi fra i signori La Grua, Lanza e Vernagallo nell’anno di grazia 1563, tra Palermo e Carini, perchè es­so non ha nessun valore nell’esame estetico dell’opera di poesia di cui mi occupo, quanto non ha nessun valore la verità dell’assedio di Troia rispetto all’Iliade, la verità delle origini di Roma rispetto all’Eneide, la verità del marcio di Danimarca rispetto all’Amleto. Ma se una versione dovessi preferire come la più ve­ritiera, non sarebbe altra che quella accennata dal principe di Carini, che ho sentito ripetere con le mie orecchie e con me molti altri da vecchi familiari di casa La Grua in Sicilia e dal Salomone Marino for­se non udita o volutamente rigettata, infatuato come era della propria[7].

Non voglio neppure discutere lo sviscerato amor per la verità che condusse le ricerche e dettò gli ultimi scritti dell’egregio demopsicologo, anche se il risultato si riduce a una specie di romanzo d’appendice alla Ponson du Terrail o alla Zévaco; ma a mio vedere il torto del Salomone Marino è quello di aver rifatto il poemetto sulla base di varianti che nessuno, e lui stesso prima, non aveva mai udito fino al 1913, che starebbero bensì a sorreggere la sua nuova tesi, ma che deturpano gravemente nella forma l’opera d’arte

Io penso, ripeto, e prima di me i maggiori luminari della critica hanno attestato che la fedeltà della narrazione di un fatto sia necessaria sempre quando noi compiliamo cronaca o storia, che la genuinità di un particolare o di un racconto giovi alla conoscenza storica di un avvenimento; ma che questa fedeltà e genuinità non abbiano il diritto di menomare un’opera d’arte nella sua inviolabile bellezza. Torquato Tasso, com’è noto scosso nel cervello dalle critiche de suoi nemici che lo accusavano di avere falsato la sto­ria e offeso la religione con la Gerusalemme Liberata, ritornò su sé stesso e volle fare opera più ortodossa con la Conquistata. La Conquistata è pesante e noiosa e non la legge nessuno; la Liberata rimane un capolavoro contro la realtà storica e contro l’intolleranza della chiesa.

Il prof. Salomone Marino, colpito da certe critiche che, dal lato storico, erano state mosse alle due prime edizioni del suo studio su La Barunissa di Carini (1870 e 1873), volle fare anche lui la sua Conquistata, ma andò troppo oltre, coinvolgendo nelle sue primitive manchevolezze di storiografo, la sua abilità di ricercatore letterario. Da folklorista toccato nel vivo, egli si adoperò a far rifulgere la sua bravura tecnica più che il suo buon gusto, trascurò l’arte per un ma­linteso amore della storia e volle mettere la poesia al servizio della verità con una inesorabilità fuori luogo di cui nessuno, né i critici, né gli storici, né gli ama­tori della poesia gli possono essere grati.

Salvatore Salomone Marino affermò nel 1870 di avere raccolto il poema della Baronessa di Carini dal­la viva voce di un cantastorie carinese di nome Giuseppe Gargagliano; anche il Passalacqua e il Buffa­ Armetta asseriscono di averlo udito nella loro giovi­nezza dallo stesso vecchio troviero contadino, ed io posso conferma e che lo udirono anche mio padre e mia madre neI 1880 o ‘81, trovandosi a villeggiare nel­la località chiamata La Grazia di Carini, presso il dott. Giovanni Bruno, medico condotto, che anni dopo doveva tenermi a battesimo. Nella mia infanzia, fra le storie e le fiabe che mia madre mi raccontava, in prosa e in versi, c’erano anche le strofe del poemetto siciliano sulla baronessa, che lasciarono un’orma profonda nella mia fantasia.

Io non posso dire se il Gargagliano, dotato di me­moria prodigiosa, come assicura anche il Buffa Ar­metta nel suo tutt’altro che trascurabile volume su Carini, ripetesse il poema quale lo aveva appreso dal­la bocca di un aedo suo predecessore o se vi portasse delle modificazioni ispirategli dal gusto personale: ma certo quella da lui data e dal Salomone Marino raccolta nel 1870 è lezione di gran lunga più pregevole dal punto di vista puramente artistico di quella poi data come la più veridica nel 1913, perchè più corretta nello stile, nell’espressione e perfino nella metrica.

Non solo: ma essa rispecchia fedelmente i brani di trascrizioni più antiche che troviamo nel Villabianca fin dal 1780 circa, nella belliniana Funesta chi lucive... anteriore al 1835 e in quella forse anteriore a tutte di cui il principe di Carini diede a me copia.

Non c’è stato critico o lettore che non abbia esplicitamente dichiarato di preferirla a quella del 1913 di cui Salomone Marino vuol fare sì gran conto, tranne qualche demopsicologhetto che giura in verba magistri e che si fa stampelle dell’autorità del defunto professore.

In verità non dovrebbe essere difficile giudicare, a parte la realtà storica di cui, del resto, nel caso presente, non si hanno neppure prove definitive che, tra le due lezioni, quella offerta in un secondo tempo dal Salomone Marino come la più attendibile, è artisticamente da scartare senza remissione, da cima a fondo. Ove scialba, ove rozza, sempre goffa e stentata, ha appena qualche baleno nei pochissimi versi, nella rare immagini che il Salomone Marino le ha conservato della prima stesura. Non a un vero poeta, né alla stessa musa popolaresca così geniale in tante immortali sue espressioni essa può essere attribuita, ma a grossolani cantastorie da Caso di Beppo e Rosina. La verseggiatura zoppica come un rozzone arrembato e s’infiora di strafalcioni metrici di questa fatta:

e ci fa battiri la stissa mota
………………………………………
cu stiddi d’ora e scocchi di rosa
……………………………………….
la rosa sfogghia e resta la spina
……………………………………….
‘Na grazia cheju, patri e signuri,
………………………………………..
lu gran mari sicca e assurgi lu funnu
………………………………………….
fammi sta grazia chi ti dumannu
…………………………………………
gran guai ci sunna e lu tempu è curtu
……………………………………………
la sangu grida vinnutta e murti
…………………………………………..
e nautru Spirdu, senza riventu:

—— Pirduta si’!... Turmentu! Tarmentu! ecc. ecc.

che pretenderebbero passare per endecasillabi. Ma citiamo, per dare un’idea più completa della deficienza dell’edizione 1913, qualche strofe per in­tero, la prima, per esempio:

Chianci Palermu, chianci Siragusa,
chianci Carini lu amara casu
chi fa petra di l’aria dulusa,
fu dragunara arbolica, marvasa
.
A cuntalla, la storia rispittusa,
lu cori abbunna e lu sangu stravasa;
ca di tirruri la menti cunfusa,
e a cu’ la senti resta l’arma ‘nvasa;
e resta un gruppu e resta ‘na rancura:
comu si persi ‘sta bella Signura!
Stidda lucenti, com’appi sta fini?
Povira barunissa di Carini.

Immediatamente il prof. Salomone Marino ci vuo­le immettere nell’atmosfera psicologica della sua real­tà; ma siccome quella realtà gli costò parecchi de­cenni di sforzi per non riuscire neppure convincente, così anche la psicologia, l’espressione e i versi sono tirati coi denti. Dulusa non si capisce se stia per do­lorosa o per dolosa; ma ad ogni modo in siciliano non esiste. Arbolico idem: non sappiamo che cosa si­gnifichi (forse per «diabolica?») e non l’abbiamo tro­vata né nei glossari né nel linguaggio parlato. Mar­vasa idem: non può stare per malvagia, a meno che non sia termine di qualche provincia o di qualche lo­calità che non fa testo in arte, poi, condizione es­senziale della efficacia è la nitidezza della terminolo­gia, che si ottiene con l’impiego di parole generalmen­te cognite. Dragunara arbolica marvasa suona all’o­secchio come un’insegna da erborista, e dove dovreb­be impressionare drammaticamente desta invece l’ila­rità. Tutto il resto delle strofe è un acciottolio di pa­role banali: paragonarla con quella corrispondente delle edizioni antiche e della presente.

Prendiamone un’altra, a caso:

Bon sagristano chi stai a la Cura,
chi sipillisti a ‘sta disgraziata,
e tu accordamilla un quartu d’ura
quanto la vju a ‘sta signura amata
chi si scontava di durmiri sula
e or’è cu tanti morti, scunsulata!

Quel «bon sagristano chi stai a la Cura» dovreb­be servire da documento al professore; ma è buffo.

Nessuno dice, parlando a una persona che sta nel dato luogo dove si va a trovarla, per esempio: «buon por­tiere che stai in portineria» o: «egregio medico che state nell’ambulatorio» o: «gentile professore, che state alla scuola», perchè ognuno di costoro lo sa, dove sta, e il sacrestano sapeva che stava alla Curia, dove Vernagallo era andato a trovarlo. Noi non lo sa­pevamo, ecco tutto, e il prof. Salomone Marino teneva a farcelo sapere per confermare una delle sue fatiche storiche.

La povera morta, in bocca all’amante, è «disgra­ziata», «signura amata» e «scunsulata» in appena cinque versi. Nella strofe bellissima che Salomone Marino ripudiò per sostituirla con questo mostricciat­tolo, l’amante invece non è nominata, non è indicata con aggettivi così flosci e disadatti, ma col semplice pronome, e l’efficacia ne risulta somma.

E questa, e tutto il resto del poemetto fatto di consimile ruminio, sarebbe, secondo il Salomone Marino nella sua lunghissima prefazione del 1913, «sublime, inarrivabile poesia che, tra le congeneri, come sole fra gli astri minori, spande su tutte luce e calore e armonia e vita... »!!...

Per fortuna, a parziale sua scusa, si può citare un’al­tra frase, immediatamente precedente, che ci spiega lo stato d’animo del Salomone Marino: «...ora che la consegno al pubblico con le ultime cure, mi accorgo che sono al declino del mio giorno, che all’entusiasmo è subentrato il disgusto, alla fede lo scetticismo».

Preziosa, per quanto ingenua confessione: il suo scetticismo giustifica quello del lettore, il suo disgu­sto attenua il nostro.

E adesso sia reso il dovuto onore a Salvatore Salo­mone Marino del 1870-73!

A lui, alla sua fede, al suo entusiasmo di giovane si deve la prima trascrizione completa e pubblicata del poemetto, generalmente riconosciuto come la gemma più preziosa della poesia siciliana. Fu lui che lo rac­colse e lo divulgò, senza eccessive preoccupazioni sto­riche e documentarie; fu lui per primo ad agire da poeta, più che da demopsicologo.

Sull’autore del poemetto nessuno finora ha potuto dimostrare qualcosa di preciso. Io dico soltanto che è assurdo fermarsi all’ipotesi che questa poesia sia nata dal popolo, che abbia un’origine corale: è trop­po evidente dalla sostenutezza di certe similitudini, dalla raffinatezza di alcune immagini, dalla squisitez­za di molti versi, che ci troviamo di fronte a un’opera nata letteraria.

E’ assai probabile che il popolo sin dall’origine se ne sia impadronito e che di secolo in secolo, passando di bocca in bocca, brani del canto primitivo siano stati sostituiti con brani di altre poesie, più antiche o me­no, che altri brani vi siano stati aggiunti; nessun trat­to però sa del barocco del seicento, né dell’arcadia del settecento, né del retorico romanticismo di molta poesia dell’ottocento.

L’autore fu certo un contemporaneo del fatto e pro­babilmente un beneficato della baronessa di Carini, Laura o Caterina che fosse, al quale non fu possibile pubblicare o divulgare sotto il proprio nome l’ispirato sirventese d’amore e d’orrore. Il Salomone Marino in un primo tempo affacciò l’ipotesi che un poeta di second’ordine della seconda metà del 500, Matteo Gan­ci, potesse essere la persona grata alla memoria della baronessa, perchè si era trovato che, professando egli l’ufficio di notaio, aveva servito la famiglia La Grua­ Talamanca. Luigi Galante con semplici induzioni persistette su questa traccia, che io trovai plausibile; ma dopo essermi provato a fare le più minute ricerche, confesso di non averne ricavato un solido costrutto.

Dato e non concesso che si potesse dar credito al sospetto che fossero stati i La Grua e i Lanza a far correre la voce falsa della morte di Caterina invece che di Laura, si potrebbe sostenere che essi stessi aves­sero sollecitato e magari comprato un ottimo poeta per costruire in quel senso un canto a carattere po­polaresco...

G. A. Cesareo, negli ultimi anni del suo insegna­mento all’Università di Palermo, espresse ad alcuni allievi l’opinione, che si riservò di avvalorare con pro­ve di fatto, che la paternità del poemetto fosse da at­tribuire ad Antonio Veneziano, il poeta che riferi­to a quel tempo su tutti gli altri «come aquila vola». E il Cesareo citava immagini e versi del Vene­ziano che forse trovano qualche rispondenza nel poe­metto. Ma a me pare che l’arte di cotale poeta, levi­gata, rigidamente armonica ed elegante, non di rado perfetta nello stile quanto quella dei migliori lirici italiani del secolo, non dia adito alle arditezze formali, all’appassionata irruenza e alla forza drammatica che s’incontrano nelle anonime strofe. Qui siamo di fronte, mi pare, a un poeta non popolare, come ho detto, né incolto, che forse conosceva anche i classici, come allora era comune fra quanti sapevan di lettere, ma più libero dai ceppi retorici dell’epoca che preludeva al barocco, e d’un non comune vigore immaginativo ed emotivo, e di una spontaneità quali s’incontrano soltanto negli artisti più originali. Io trovò che l’ignoto poeta della baronessa di Carini ha accenti mai sentiti prima di lui e che soltanto in misura senza dubbio assai meno vasta, ma non meno intensa — ricordano la Bibbia, i classici e Dante, e anticipano di parecchi anni la particolare potenza espressiva del più grande rappresentatore delle passioni umane: Guglielmo Shakespeare.

Quando io mi assunsi il compito, che sulle prime mi parve lieve, di riordinare il testo del poemetto, volli vagliare tutte le versioni. Naturalmente l’ultimo testo del Salomone Marino del 1913 (ripubblicato dagli eredi, con poca fortuna, nel 1926) l’avevo messo da parte fin dalla prima lettura. Pure, volli cacciarmi nel labirinto storico e documentario.

Per mesi e mesi compulsai testi, frugai biblioteche ed archivi, respirai polvere. Vissi tra i personaggi; ma sentii che quelli storici erano irrimediabilmente morti, divenuti cenere, e abbandonai disgustato e deluso il loro cimitero. Quelli della leggenda, invece, rimasero vivi, si fecero di giorno in giorno più vivi a collaborare alla mia fatica, mi trasmisero le gioie e il dolore della loro vita, il raccapriccio della loro catas­trofe, viva anch’essa mi parve e immortale nel canto che udivo giungermi anche dalle loro invisibili tombe.

E non esitai più a raccogliere le sparse rapsodie, ricostituirle su tracce che altri prima di me aveva seg­nato, a scegliere nel mucchio arruffato i fiori ancora fragranti.

Mi giovai in parte della versione, chiamiamola così, Gargagliano, e specialmente di quella curata dal Galante, così vicina in molli punti alla stesura antica apprestatami dal principe di Carini; ho preferito qua là alcune varianti trovate in quest’ultima e altre raccolte direttamente.

Confesso di essermi preoccupato meno di scegliere e adattare tratti da qualcuno garentiti come i più antichi, anzi, secondo il Salomone Marino, il Pìtrè e il Natoli, come gli originari di un poemetto anteriore al fatto di Carini e trattanti un argomento similare; ma posso asserire che ben poco può essermi sfuggito di quanto si è scritto, detto o cantato sull’argomento, che ho raccolto più varianti di chicchessia, sì mettendo in­sieme quelle trascritte dai miei predecessori, che trovandone direttamente altre ignote ai più e giovandomi del lavoro di mio padre. Spiegherò che mio padre nella sua giovinezza fu attore drammatico e come tale fu il primo a far sentire dal palcoscenico a pubblici sici­liani eletti la poesia piena e varia di effetti qua idilliaci, là tragici e là elegiaci del Caso, in un testo che aveva composto servendosi di quello del Salomone Marino del 1870, con varianti, tagli e aggiunte sug­geritegli dalla tradizione orale, da lui studiata non da demopsicologo quale non pretendeva essere ma da uomo di buon gusto e da cultore dell’arte.

Nemmeno io sono un demopsicologo del tipo di quelli che si compiacciono di distruggere documenti vivi, quanto non sono un sezionatore di cadaveri; e trovo detestabile chi tiene in gran conto l’anatomia e l’autopsia dell’anima del popolo. L’anima del popolo è una cosa viva, e la sua bellezza sta nella vita, nel sentimento che è immortale[8].

Mia principale mira è stata, nel non lieve lavoro di ripresentare il poemetto su la baronessa di Carini, la espressione più perfetta o più vicina alla perfezione e alla compiutezza estetica, col trovare anche l’ordine esatto della successione dei vari episodi e delle stro­fe (lavoro in cui prima di me si era provato con impe­gno e sovente con felici risultati il Galante), pure con qualche lacuna che non ho potuto colmare con elementi autentici e che quindi ho rispettato: così ho inteso portare il poemetto a una forma definitiva. Spero esserci riuscito.

 

Ho voluto accompagnare il testo siciliano con una mia traduzione quasi letterale in italiano, non per tentare di uguagliare l’originale, ma per rendere più agevole e più rapida al lettore non siciliano la com­prensione del bellissimo canto e permettergli dopo al­cune letture di intenderlo e gustarlo direttamente.

Ho dovuto qua e là sacrificare la rima e in due o tre punti perfino l’assonanza, ciò che diminuisce mag­giormente il fascino della melodia nativa; ma questa musicalità mi sono ingegnato a conservare quanto più possibile nel verso, col mantenergli spesso gli accenti e la cadenza dell’originale. Purtroppo la musica della lingua italiana è diversa da quella della siciliana; e qualunque traduzione da qualunque lingua non può mai rendere l’originaria bellezza, fatta sopratutto di suono e di tipicità espressiva.

Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
dell’aer puro...

 

sono versi che non possono essere quelli che sono se non in italiano, come i versi:

‘Ncarnaledda colava la chiaria
supra la schina d’Ustica a lu mari,
ecc.

non possono esistere che in siciliano.

Ottobre 1942

F. d. M.


[1] Michele Amaria, storia dei Mussulmani in Sicilia, 3°. Al momento di licenziare alle stampe il presente volume, il mio amico Calogero Di Mino, uno dei più sodi maestri di cultura siciliana, mi comunica un suo saggio in cui ha sostenuto i miei stessi punti di vista.

[2] Vedi: Sui canti popolari siciliani di Giuseppe Pitrè, Palermo, 1868 e, genericamente indicando la Sicilia come fonte della massima parte dei canti regionali, in Poesia popolare italiana di Alessandro D’Ancona, pag. 323-324.

[3] Vedi i suoi Opuscoli palermitani, vol. XXXII – 16, manoscritto della Biblioteca Comunale di Palermo.

[4] Letterati e critici italiani del tempo sinteressarono al­la pubblicazione, tra cui ricordiamo Alessandro D’Ancona, An­gelo De Gubernatis e Giacomo Zanella che chiamò quella poesia e piena di bellezze d’ordine superiore 5.

[5]    Benchè io, giovinotto, trepidassi alquanto dinanzi a tante personalità, tanto più pel dubbio che potessero capire il siciliano, pure riuscii a impressionarle... forse col colorito della mia recitazione. Brunetière, però, dovette intender abbastanza bene, per le osservazioni minuziose e finissime che mi fece. Quanto a Rod, ne cavò lo spunto per un articolo sul Figaro.

[6] Luigi Galante: Un poemetto siciliano del Cinquecento, con note e frammenti inediti. Catania, Casa ed. Battiato, 1999.

[7]    Che la tragedia dei 4 dicembre 1563 fesse più grave dell’uccisione di una moglie adultera e del suo ganzo, dovrebbe essere dimostrato dalla ripercussione vasta e duratura che ebbe. Storici, poeti e popolo la tramandarono. pur senza chiarirla nei particolari. Che di Caterina non si trovi registrata la morte, non è una prova negativa: essa fu sepolta di notte e clandestinamente, forse da mani pietose. La madre morì, forse pure uccisa, insieme con lei forse, o poco dono di lei. Un Vernagallo fu ucciso e sepolto la stessa notte; un altro Ver­nagallo lasciò la Sicilia per farsi monaco. Tutto ciò è sicuro. Che di Caterina non si trovi nemmeno l’atto di battesimo, non conta: di tanti altri della stessa famiglia e di mille altre non se ne trovano nemmeno, ma essa figura su un albero genealogico posteriore di molto alla sua morte, che non ha motivo di essere apocrifo, mentre tale può essere quello in cui non figura.

 

[8]    Ben a ragione, mi pare, Giovanni Gentile in Il tramonto della cultura siciliana rilevò che la critica e la negazione di un documento vivo, anche se contrario alla realtà storica, per sostituirlo con un documento morto e meno popolare che vuole a ogni costo riconoscere come il più rispondente alla realtà storica, è un mettersi «contro alla vita del popolo.. alla poesia più appassionata che sia mai scaturita dall’anim popolare».

 

 
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