PREFAZIONE PATERNA

(Monologo Positivo)

da La Leggenda della Vita (1909)


Federico del cuor mio
sei una testaccia balzana
che non va un soldo, telo dico io !
Sai tu dirmi che ci ài guadagnato,
che bel costrutto ài cavato
a fare quello che ài fatto ?
Il poeta ? bravo, il poeta !
Per dieci anni ài logorato
l'encefalo e quello che in vecchia
metafisica chiamano cuore,
trascinando una inquieta
vita da sciocco, da matto,
vedendo la luna dal pozzo
e tirandola con una secchia
sfondata, bruciandoti gli occhi
per tentar di guardare il sole,
ma perché ? per affastellare
(come dicea la buon'anima)
parole, parole, parole!
tutta questa bilustre fatica
non t'à fruttato un tozzo
di brioche (non dico di pane,
perché per un poeta è troppo rozzo).
Non ài neppure un'amica:
ti sei disgustato con tutte,
belle e brutte. – Non parlo di amici……..
Così stanno le cose, mi dici
che cosa farai tu domane?
Se fossi stato assennato
avresti da canto lasciato
codesti malefici ludi,
ed oggi potresti esser – vedi -
per esempio, un discreto avvocato!
Allora sì, l'avvenire
sarebbe aperto! Potresti sposare,
prendendo parecchie migliaia
in dote, una brava massaia
che sapesse anche sonare
il piano. Avresti una bella
casetta, uno studio ben messo,
e: Parva - potresti dire,
come diceva Catone -
sed apta mihi! – Cioè, fu Catone
a dirlo, o fu Cicerone ?
vedi, bestia, ecco che adesso
non sai fare neppur una citazione!…..
Basta, ti vedo piangere
amaramente (imbecille!)
e due mesi o tre di permesso
voglio concederti ancora.
Ma se codesti tuoi spassi
letterarî non vedo venire
presto le carte da mille,
ti manderò a malora!

LA DOPPIA VITA

da La Leggenda della Vita (1909)

La mia storia è buffa ed amara.

Un giorno io pensai
d'appalesarmi a me stesso
scavando dentro il mio cuore -
d'appalesarmi agli umani.
Per gran tempo scrutai, scrutai,
scavai con un intenso fervore:
l'esser mio da l'interno rivoltai
a l'esterno, così come si fa con un guanto.
Ed avvenne che, dopo tanto
assiduo lavoro, mi vidi
e mi conobbi: ed ero
un uomo forte ed altero,
eretto su la sommità
d'ogni affanno e d'ogni viltà,
redimito della Vittoria.
Più forte perfin della Morte,
mi parve che la mia sorte
sol fosse intessuta di Gloria.

Più tardi, però, un'altra volta
volli mirarmi a gioire
di me stesso. Ma dall'alvëo ritolta
l'anima mia, fieramente
custodita, vidi venire
a la luce un altro essere, contorto,
pallido, con un sorriso
giallo, una smorfia sul viso,
e flaccido come un aborto.

Più tardi, al fin, volli unire
con sottile e tenace
legame che à nome
Poesia
i due dissimili gèmini
dell'anima mia.
Attacati così per la terga,
chiunque ne à voglia or li mira,
inseparabili, il nano
e il gigante, insiem destinati
a non andar forse lontano.
Se avviene che il forte un po' aderga
l'imperïosa sua fronte,
l'altro di dietro lo tira.
Se camminare il più bello
vuole a sé innanzi, a le spalle
sente pensarsi il penoso
e quasi inerte fardello.
L'uno guarda a un cielo grave di tempesta,
l'altro ad un luminoso orizzonte.

E la mia vita è questa
grottesca erma bifronte.

I TARPAN

da La Leggenda della Vita (1909)

L'ardor della caucasëa pianura
in estate li inebbria come fieno
che fermenti, spandendo a l'aria pura
un suo veleno

Lussurioso; una frenata e pazza
sete di spazî prende allor l'armento
dei poledri che, libero, scorazza
emulo al vento.

Allor, d'un tratto, come ad un comando
improvviso, si slancia la grande schiera
serrata a corsa folle, svolazzando
ogni criniera

Sovra i mobili dorsi: e tutte sono
simili a scapigliata selva a volo.
Sotto il galoppo con fragor di tuono
rimbomba il suolo.

Forse ànno visto a l'orizzonte. Al lume
del tramonto, il profilo di più calme
e fresche plaghe: un lago d'oro, piume
verdi di palme,

Frescure ombrose, pascoli fioriti,
tutta una meraviglia non mai vista
nella lor steppa ignuda: e son partiti
a la conquista.

Sono partiti, e il loro calpestìo
frenetico schizzar fa sterpi, fanga
e ciottoli: rovescian da un pendìo
come valanga,

S'arrampicano coi garetti elastici
pei clivi scabri, con balzi magnifici
i borri e i fossi varcano, fantastici
come ippogrifi,

Protesi gli occhi al miraggio: Sfavilla
la viva roccia talora a l'attrito
de l'ugna, e tra l'ansimar spesso squilla
qualche nitrito.

Ma quando l'ombra, come una palude
aerea lenta cielo e steppe invade
da occidente, ed ai lor occhi chiude
tutte le strade,

S'arrestan essi (e sotto la lor pelle
fumante i tesi muscoli ancor vibrano):
un'aurea nube tra le prime stelle
sola si libra

Su l'orizzonte dove sfolgorare
videro il portentoso paesaggio:
la notte ferma su l'erboso mare
il lor viaggio.

Ma non importa: bella fu la corsa!
Essi lungo rammarico non sanno.
Stanotte sotto il pio raggio dell'orsa
riposeranno,

E se domani splenderà nel cielo
ancor la visione che fu tolta
loro da l'ombra, qual turbine anelo
un'altra volta

andranno. Andranno: essi giocan con quella
visïone che correre li fa.
È loro gioia sol la corsa bella
in libertà.

A L'IDEA NUOVA

da La Leggenda della Vita (1909)

O mio santo pensiero, perdona se ancora una sosta
inutile mi tenne sospeso nel cammino mio;
perdonami qualche momento di dubbio, il desio
di farmi udir, la vana fatica che a l'anima ò imposta.

Sian questi versi come la mia ghirlanda d'addio
un po' vana, di fiori vecchi verzieri composta;
come un peso ch'io gitto per liberar la nascosta
idea che dentro il cuor mi batte chiedendo l'avvio

Idea che, s'io riguardo nel mio Desiderio, m'appare
come un luminoso, sanguigno e terribile mare:
e il cuor trema talora di giungerne i porti lontani.

Ma – Volontà – squarciata l'ultima nube, domani
io risorgerò forse, recando – fiaccola o stella -
a gli uomini una luce di rivelazione novella.


DALILA

da La Leggenda della Vita (1909)

E con la sua debole mano
ella recise la forza
chiomale del vasto dormente.
Sansone, giacente nel torpido sonno,
d'amor lasso e d'inganno
del veneficio, languiva in un sogno lontano
sorridendo bestialmente.
Restava la donna, stravolta,
a fissarlo, ghermendo i capelli
mozzi – catene fin ora al suo amore.
Dunque ella, come una volta,
poteva esser libera ai belli
palpiti ch'empiono il cuore?

Chiamò dubbitosa di gioia,
gli sgherri appiattati. Le caute
ritorte allacciaron l'enorme
corpo supino su i cuscini sfatti,
tiepidi ancor di lussuria
- e ogni membro pareva deforme,
dilatato dai muscoli compatti.
Ma l'atleta, brancicato
da le mani nemiche, un sussulto
ebbe e sbarrò i pesanti occhi,
pieni e d'attonita furia.
Su la sua nudità le avvincenti
funi, in tenacissime spire,
si tesero sotto un conato
supremo, come serpenti
disperati… Ei balzò su i ginocchi
liberi, disprigionando
da la strozza un urlo bavoso
di rabbïa, non ritrovando
più la possanza sua vittorïosa …
E i venti sicari lo strinsero
attorno, abbracandolo ai polsi
legati, a l'ispido petto,
al collo, squassandolo, bolsi
e cempennati come cagnotti
attorno a belva ferita.
Il rettileo viluppo di braccia,
di gambe, di torsi ignudi e scoppianti
sotto gli sforzi vibranti,
si dibatté a lungo, convulso, sul letto
scomposto … Sansone levò la gran faccia
orribile verso la donna,
le chiese uno sguardo benigno…
Ma Dalila, il seno discinto,
raccolta sotto la tenda,
con un livido sogghigno
guardava; e sputò inesorabile
tutto l'odio celato:
- Sei vinto,
maledetto! M'odi, Sansone,
m'odi? Comprendi che io ti detesto
al fine?… Che cosa m'à dato
la villana passïone
tua bestia? La grossa tua mano
che strozzava financo un leone,
non sapeva blandire il mio cuore
con tenere dita.
Che mai fa, che mai fa per l'amore
mio se tu sei sovraumano,
se eletto tu sei del Signore,
quando non rechi un sol fiore
profumato a la mia vita?
Mi troverò ora un amante
umile, debole, fino,
ch'io voglio cullare, ch'io voglio
proteggere come un bambino.
Cacciate, orsù, i vostri stocchi
nel ventre a questo stupido elefante…
Si porti via! Gli strappi la lingua
e gli si cavino gli occhi! … -

Ma Sansone, annichilito,
contrasse la faccia paonazza,
e senza neppure un muggito
procombé pesantemente
come un bufalo sotto la mazza.

TIMONE

da La Leggenda della Vita (1909)

- Atenïesi, io posseggo un gran fico in un podere
appena fuori la porta d'Ipila. E' stato a dovere
coltivato da mio padre e da me. Da parecchio
tempo, però, non rende più frutta, diventando vecchio,
ed è buono soltanto a far ombra agli arbusti vicini.
Sì che, avevo pensato, o amabili concittadini,
d'abbatterlo per farne legna, qui vengo per dire
a quanti di voi avesser desìo di morire
che il mio fico potrebbe fare ai lor casi assai bene.
Io non sono egoista come si crede ad Atene.
Morire è così bello per quelli che impiegano il tempo
a occuparsi del prossimo, facendone squisito scempio:
per quelli che dàn leggi, per militi, re, sacerdoti,
arconti, e quanti sono pubblicani noti ed ignoti.
Chi si vuole appiccare non può dar meglio di questo
albero così forte e ramoso. Purchè faccia presto.

CESARE

da La Leggenda della Vita (1909)

- Ave a te, Cesare! Gloria,
trionfatore! Apollo! Marte! Marte!
olimpo! Semidio!

- Vedi, Cesare, la tua quadriglia
come passa tra la folla
ebbra di tanta vittoria?
I romani a te accorron da ogni parte:
il tuo trionfo è degno anche d'un dio!
- Va, e taci! Al Campidoglio, al Campidoglio!
io soffro, vedi, e non si giunge mai...
- Ben vedo che tu ài
l'impazienza dell'eroe
e che aneli calcare il gran soglio
alto su tutto il senato...
Io bacerò ogni dì la mia mano
che questo carro ora sacro à guidato!
Largo, popolo romano!
- Ah, tornar magari indietro,
incontro ad ogni pericolo
di guerra, tra frombole e carri falcati, lontano;
ma in sella al mio fido poledro,
via da questo infame trabbiccolo!...
- Ti turba più di Farsaglia e di Tapso quest'alto coro
festoso, questo plauso popolare?
Tu sei pallido sotto l'alloro,
o dittatore! Tanto la maestà della gloria
t'à soverchiato?

- Semidio! laudato! Laudato!
Romolo! Numa! Cesare divino!

- Che l'Averno s'inghiotta il tuo ciarlare!
Apri la folla, e vola
via più spedito con le arrembate tue brenne.
Non capisci che questo cocchio del malo destino
beccheggiando qual barca sul mare
mi tira le viscere in gola?

CARLO MAGNO

da La Leggenda della Vita (1909)

Il re dei franchi già s'era appartato
a discorrer col fido segretario
degli affari di stato:
- No, no, state tranquillo, chè sapremo
rimettere tutto in ordine
senza colpo ferire.
ah, ah, messer duca, vedremo
se la vostra duchea di Benevento
basti a salvaguardar da le nostre ire
la vostra fellonia, e, per la Croce!
vi ridurremmo a far di umile ammenda
dell'alto tradimento
al solo tuono della nostra voce!

Parta tosto un legato
al Santo Padre. Renda il nostro omaggio
devoto al beatissimo Pontefice.
e gli dica che ci apparecchiamo
a calar nell'Italïa fiorita.
(Oh nostalgia dell'Umbria ancor non mia!)
Nel bello italico maggio
a Roma – ben che ancor non coronato
della ferrea corona -
noi verremo in persona
a baciargli il sacro piede
su quel seggio di San Pietro
ove, pure un po' per nostra
volontà, ora egli siede.
Dopo, se occorre, torneremo indietro
a passare l'està su le alture
di Francia o di Spagna, se i mori
non molesteran le pianure.

Quello che noi diciamo
non l'approva la vostra illuminata
saggezza? Si?… Ah, barone!… barone!…
è triste: noi già invecchiamo!
non ci si riscalda più come una volta
il fragore delle spade
e dei màngani; e manco il solleone
del mezzogiorno, che incendia
le nostre più belle contrade!

Presto, però, se a Dio piace,
a ogni vana discordia messo fine,
noi ci ritireremo ad Aquisgrana
a goderci la pace.
A proposito, ditemi, Eginardo:
in questa settimana
quante uova m'àn fatto le galline?

DON GIOVANNI

da La Leggenda della Vita (1909)

Il Bell'avventuriero d'amore,
stretto ai capelli dal pugno
marmoreo del Commendatore,
con uno spasimo di sorriso,
ma guardandolo intrepido in viso,
parlò:
- Fate piano, signore
di pietra. Voi siete una statua
e, certo, non avete cuore.
Però mi raccomando
a la vostra granitica
cortesia. Non avete cervello
anche, è naturale: sì che
minaccioso mi rimproverate
per tutte le donne ch'ò amate.
Non vedete come son bello?
Ah, se voi siete il supremo
vendicatore, il terribile
simbol di ciò che si chiama rimorso,
vi dirò che poco vi temo.
Lasciami. Ascoltami. Sai
che furono questi dieci anni
d'amore continuo per me?
Sai tu, sai tu perché ò corso
cento paesi, ò tentato
cento donne ò lacerato
cento cuori? Perché
io cercavo quel che non venne;
perché soffocavo gli affanni
dell'inutilità della mia
vita invocando un minuto solenne!
Io mi feci amar da Anna, da Maria,
da Teresa, da Elvira, perché
mi parea di di trovare in ciascuna (*)
tutta la grazia, tutta la bellezza,
e la bontà e l'amor tutto.
Ma non fu vero: nessuna
era tutta… l'amore era distrutto
dopo averlo assaporato.
Una era soltanto bella,
un'altra tenera, un'altra
soave. Ma non ò trovato
mai l'ultima… l'unica… QUELLA!

(*) in una copia in mio possesso de La Leggenda della Vita questo verso è così corretto di pugno dell'Autore:

...speravo trovare in ciascuna...

MADAME DU BARRY

da La Leggenda della Vita (1909)

- Ah, ah madama s'imbelletta. Siamo
in bizza, forse? Che cosa è accaduto?
Parlo con voi, signora. Son venuto
in ora inopportuna?
No? Allora è una vera fortuna!
Ma temo che con questi
nuvoloni per aria
il diluvio che auguro
al mondo dopo di noi,
Per me cominci da voi
con un poco gradito temporale.
Per ripararmene accetto qualsiasi ombrello.
Giannetta, è così bello
il vostro sole (chiamiamolo
sole, per adular padre Febo),
ch'io voglio solo quello
godere, onde aver l'estro a governare.
Io m'annoio – e mi sento tanto male! …

Che v'ànno fatto? Al solito, un poeta
o qualche cortigiano impertinente?
Oh! cara, non è niente:
è il caldo; li farò
io star freschi a dovere -
a la Bastiglia ci ò le sorbettiere.
Discorriamo… Ma come? Ancora
quel foglio? No, signora: un tal decreto
provocherà altri parti della coppia
cinedo – intellettuale
D' Alembert – Diderot,
e qualche altro Contratto sociale
di quello squarquoio di Rosseau.

Parliamo d'altro, orsù…
Contessa, me ne vado
a cercar di distrarmi
altrove… Cosa c'è su quella scranna?
Ah, profumi di Spagna.
Io ne uso di rado…
Sono eccellenti: lo diceva, parmi,
pure il sir di Grammont, l'altra sera…
Auff! dà qui… firmerò. Ridi, Giovanna!

MARENGO

da La Leggenda della Vita (1909)

"Amore mio, ti scrivo
pieno d'un giubilo immenso.
Desaix, il prode cui debbo
tanta parte della mia gloria
d'oggi, è morto; io stesso son vivo
per miracolo – ma la vittoria
è nostra. Gli austriaci, sgominati,
inseguiti da i miei granatieri,
àn lasciato tanti
cannoni e bandiere, e non so
quanti prigionieri e quanti
morti!… la pianura
è tutta rossa di sangue!
Ed anche i nostri sono decimati.
Ti scrivo in fretta, sovra il tamburo
forato da due o tre palle
d'un mio fido e bel giovinetto
che lasciò la vita
sul campo. L'aria è già scura
sotto la tenda. La pelle sonora
vibra a lo scorrere della matita
febbrile, che incide la carta
come uno stile. C'è ancora
clamori e squilli di tromba
sul piano ove si scava una gran tomba
pei miei morti. Io tremo ed esulto,
mia Giuseppina! Io vinco; il primo console
à battuto i più accaniti
nemici della repubblica!…
E tornerò a Parigi, un'altra volta
acclamato; e tornerò
ad abbracciarti! – Oh, troppo tempo io passo
lontano da te! Spesso un impeto
folle mi prende nel letto
vuoto, e soffoco il tuo nome
nel cuscino che mordo, come
delirando; e le mie braccia
si stringono contro il mio petto
senza trovarti,
e la mia bocca cerca la tua faccia!…"

ENJOLRAS

da La Leggenda della Vita (1909)

La prima squadra di soldati volta
in fuga, tetra su la barricata
gravava l'ombra; rigida, la scolta
vegliava; mezzanotte era sonata,

Con metallici accenti di minaccia
gl'insorti riposavano: Enjolras
solo era desto ancora, con le braccia
consorte al seno cha bolliva, ma

intento con l'orecchio, nella febre,
al russar dei dormenti e al rantolare
dei feriti. Vedea fra le palpebre
socchiuse quelle giovinezze ignare

della prossima sorte che – buttate
al suolo senza forze dopo tante
fatiche, a mala pena illuminate
da una rossa lanterna fumigante – 

parevano un gran mucchio di cadaveri
in un lago di sangue: nel pericolo
essi dormian quasi tranquilli il grave
riposo, circondati dal nemico.

Col vento, la brumosa aria tremava
di strepiti sommessi: a ora a ora
qualche rullar lontano lacerava
il silenzio. – Sul far dell'aurora

la sentinella die' l'allarme: i cento
furono in piedi. Per la via s'udiva
il passo ritmico d'un reggimento
invisibile ancora, che veniva

ad assalirli, con lo scroscio immenso
dei marosi. Enjolras gridò: "Compagni,
tocca a noi tutti morire. Io penso, però,
che sé fra voi c'è chi si lagni

di questa sorte, è meglio che s'arrenda
prima d'aprirsi il fuoco. Amici, il mondo
ci guarda e, se la fine è assai tremenda,
questo nostro morir sarà fecondo.

E che la luce ci saluti! A i regi
resisteremo, l'inno di riscossa
cantando, fin che – libera – fiammeggi
al nuovo sole la bandiera rossa !"

L'INERME

da La Leggenda della Vita (1909)

Francesco Riso, ferito , legato,
buttato sur una carretta
ove i birri lo portavano
a la Vicaria,
stava muto e aggrondato
e la sua coscia spezzata fissava
su i cui grumi di sangue
qualche mosca ingorda ronzava.
Raccomandava mentalmente l'anima
sua a Gesù, a Giuseppe e a Maria.

Procedevano ai due lati
del carro i ceffi arrossati
dal recente ardore
della breve e furiosa battaglia.
Ogni tanto gli ghignavano
contumelie e bestemmie: " Canaglia!
- Sei fritto – Ti faremo a pezzi…
- Te prima e poi gli altri briganti!…
ed egli sdegna
guardar la sbirresca imbriacaglia.
" Chi t'aiuta ora qui? Garibaldi?
lo scugnizzo del re Piemontese?
Ladri tutti!" – Egli tutti saettava
coi larghi suoi occhi i ribaldi
balbettando: " Viva l'Italia! "
Lo punzecchia con pugnale
Scalonetto: " Giuseppe Riso,
tuo padre, bisogna che muoia
se non sveli nomi de' tuoi.
E tua madre, quella gran troia…"
Egli balza, spuntandogli in viso.
Con un pugno, quel lo ricaccia
disteso sulla carretta
e, supino così, lo schiaffeggia;
un altro gli appressa una lama a la faccia:
" Se non vuoi ch'io ti mandi all'inferno
subito, grida con me:
viva il re!" Ma con bocca di scherno
egli in risposta strombetta
una divina correggia!….

LA CONQUISTA

da La Leggenda della Vita (1909)

Uggiolarono i cani su una slitta
infranta, e si disperse con un brivido
per l'aer cupo di fievole lamento.

Poi fu silenzio un'altra volta. A stento
dal gruppo informe d'uomini e di bestie
levossi un corpo affaticato. Ritta

- ombra nella gran notte – la figura
dolente mirò intorno: vaneggiavano
gl'iberboreï campi, col biancore

sinistro e senza fine nell'orrore
della tenebra greve ed impassibile
come il coverchio d'una sepoltura

Ei scrutò lungamente. Un altro sorse
in ginocchi, con ansia, domandandogli:
"Vedi tu lume?" e lui rispose: " Nulla !"

E si lasciò cader bocconi sulla neve.
– Muti: il silenzio era terribile. -
Poi sotto il cielo senza stelle corse

Un tremito di vento, ischeletriti,
i due ultimi cani, mal reggendosi
su le gambe, allungarono lo scarno

Muso, fiutando l'arïa che indarno
passava su i frantumi ove giacevano
tutti da quattro dì, spersi avviliti

Ed annientati dal mistero bianco.
Brancolando, una mano sul ghiacciaio
palpò, una voce rauca disse: "Ò fame!"

Un ululo selvaggio scoppiò: "Fame!"
ripeterono i cani, come lugubre
eco; e: " Noi siam perduti!" gemé Franco

Querini. E allor torvo come un demente,
Stokken aprì il coltello al cui metallico
scatto nell'ombra ognuno abbrividì:

afferrò un cane che guaì, guaì,
e vibrò l'arme, una, due volte, al buio;
poi trascinato cadde e ciecamente

colpì ancora… s'udiva l'ansimante
lena ed un calpestio sordo, e vedevasi
un viluppo convulso a cui, latrando,

l'altro cane saltava attorno. Quando
la bestia giacque, fu come immobile
päusa: l'uomo restò qualche istante

su la sgozzata vittima a succhiare
il caldo sangue, con le labbra tumide
di freddo e di scorbuto. – Da uno straccio

del nembo s'affacciò nel cielo diaccio
un astro, come intirizzito; un tenero
albor fè l'orizzonte biancheggiare.

E allora Franco ricordò la mamma
lontana e la sua casa. – Poi, volgendosi,
poté discerner nella semiluce

del sol di mezzanotte Stokken, truce
di sangue nella faccia, Ollier col livido
volto consunto ed arso da la fiamma

della febbre. E si videro così
a quell'aurora suprema; guardandosi
biechi e ostili, leggendosi la morte

nei visi, e innanzi a la tremenda sorte
comune dentro l'anima si dissero:
"Ma perché noi venimmo a morir qui?"

CEMULPO

da La Leggenda della Vita (1909)

La nave in fiamme, rotta, seminata
di morti, tornò in porto agonizzando;
Roudneff levò la mano insanguinata,
pallido, e ruggì l'ultimo comando;

e i feriti e i mal vivi s'affollarono
nelle scialuppe, come deliranti;
alcuni nella furia scivolarono
su sparse membra ancora palpitanti

che ingombravano il ponte – un mozzo esangue
cadde in acqua e disparve. – Il mare, mosso
lievemente dal vento, era di sangue,
imporporato dal tramonto rosso.

Tacito e instupidito, l'equipaggio
- compiuto ogni terribile dovere -
si rifugiò su le navi straniere
che stavano in quel porto a l'ancoraggio.

Salvi, attesero tutti la ruina
suprema. – Vaneggiava nel barlume
vago del fuoco la città vicina,
il nemico spariva tra le brume.

Un silenzio sinistro – singhiozzava
l'onda, stridevano le fiamme: un senso
di sgomento terribile gravava
su tutti i cuori – il ciel pareva immenso.

Ed il Variag bruciava… Di repente
esso tuonò, coprendosi di nere
nuvole: lacerato orribilmente
dal suo scoppio, s'aprì come un cratere

e avventò al cielo un turbine di fuoco
che fece tremar l'aria e innalzò le acque…
l'eco romoreggiò…poi tutto tacque -
E il Variag affondava a poco a poco

con un gorgoglio rantolante. – Il fiotto
scosse le navi spettatrici e un velo
più denso s'allargò torpido sotto
l'ultima luce di quel torvo cielo.

Attorno al loro comandante, ritti
sul Talbot salvatore, a poppavia,
fissando la lor nave, gli sconfitti
vollero salutarne l'agonia:

salutar quella che fa ricordare
la madre, i figli, la lontana riva,
salutare la casa, salutare
quel lembo della patria che moriva…

E ingoiarono il pianto per cantar
l'inno che parve un gemito nell'ora
desolata: " O Signor, conserva ognora
ai gloriosi giorni suoi lo Czar!…"

PIROTECNICA

da La Leggenda della Vita (1909)

In Russia 190…..

In un sotterraneo che odora
di fulmine. Un solo fanale
per illuminare lo strano
lavor di due uomini oscuri:
ombre di raccapriccio proiettansi
sinistramente su i muri.
Nell'ansïa funerale
del silenzio, a tratti è un fluire di polveri,
o uno stridio metallico,
come legger brividìo.

Poi è il balbettare d'un dialogo:
- Vaska, che cosa prepari?
- Un astuccetto di ferro vezzoso
che mi pagheran con i denari
di sangue. E tu, Ivan, che componi?
- Un forchello chiassoso
per fare la festa al padrone
Ed è la ricetta un secreto.
- Lo comprerebbero caro!
- Anche a palle di cannone!
- Faremo, io credo, un bel mastio.
- Discreto.
- Bello! a la forma d'un uovo…
- … covato pria d'essere nato.
- Di bell'effetto!
- E poi di nuovo!
- E del getto lucente che irraggia
nel cielo, niun vide l'eguale:
braccia e gambe a girandola, fondo
rosso, ed una corona imperiale.
- Presto, su! Completiamo il giocattolo
che sparerà a festa sul mondo.

L'opera che non à nome
ferve. E il bisbiglio terribile
nella sorda catacomba
pare a tratti fluir come
la dinamite, par stridere
come l'acciar della bomba.

IL PADRE MORTO

da La Leggenda della Vita (1909)

Ora, dinnanzi al misero cadavere
di tuo padre, ci parli ancor di lui
singhiozzando: ci dici ch'era un angiolo
di bontà, di virtù: gridi che i bui

Misteri della morte a sé lo trassero
perch'era troppo buono per la vita,
né poteva restare qui, fra gli uomini
che son tutti cattivi. – La ferita

anima tua prorompe, rimpiangendolo,
in parole sconnesse… oh, come atroce
pensar che non vedrai più que' suoi teneri
occhi, che non udrai più la sua voce!

È sincero il dolor tuo: questo povero
corpo t'amò; si, piangi su una bianca
testa: è un altro che parte e a l'egoistico
tuo sentimento affettuoso manca.

Si, piangi, piangi, piangi. – Ma la lugubre
nemica che à battuto a le tue porte
domani ti farà pensar che gli esseri
tutti, cattivi e buoni, ànno una sorte.

Fra tre giorni verrà qualche fuggevole
ricordo a risvegliare il tuo dolore,
e fra dieci le tracce delle lacrime
spariran dal tuo volto e dal tuo cuore.

Fra pochi mesi penserai che il vecchio
avea qualche difetto: amava il vino,
sputacchiava, montava sempre in collera,
e ti batteva quando eri piccino.

Fra un anno al fine aspetterai che il termine
del consueto lutto sia finito,
per tornare a i teatri, al mondo, ai circoli,
e smettere l'incomodo vestito.

IL PAZZO

da La Leggenda della Vita (1909)

Ne "Liriche dei Tempi" appare una poesia con lo stesso titolo, che viene riferita a questa, ma è del tutto diversa.

Son già passati molti anni
ch'egli fu qui: e da allora
nessuno è più ritornato
fra queste mura – ma ancora
vi resta come il sentore
della vita sua senza affanni,
senza gioia e senza dolore.

Qui riman tutto adesso
immutato, come ai suoi dì
Ogni cosa mi parla di lui.
Mi si rivela sempre qualche nuovo
tratto dell'anima sua:
e lo riconosco così
lucidamente che ne ò quasi terrore.
Talor mi domando se fui
in que' giorni qui, a viverci lo stesso,
a vivere della sua vita.
Mi faccio per la finestra
al giardino, chiuso lontano
da i monti, ed a poco a poco
mi sento prendere dal suo pensiero,
con qualche ricordanza sbïadita
di sensazioni passate…
Tutto è gigante nel piano
arboreo: - le rame assumono
fantastiche apparenze
vive con enormi occhi di fuoco…
I monti nudi ed azzurri
s'allontanan, ma appaion più grandi,
prendon forme sensitive,
quasi il dormente scheletro d'un antico mostro orrendo…
Nell'aria passan sussurri
ignoti, che intendo…

Mi faccio sopra la strada.
E le case son tutto un presepe
infantile… i veicoli enormi
tirati da enormi animali
portan degli esseri informi
e minuscoli a cui il il mio pensiero non bada…
E tutto fugge lungo ampi viali
infiniti… Guardo il mio letto,
ed è immenso come uno sgomento…
Il mio bicchiere io non oso
toccarlo, perché nel suo cavo
racchiude un invisibile mondo…
IO solo non vivo:io mi sento
lieve lieve, come una intelligenza
incorporea, sospesa nel vuoto
dell'aere profondo…
E innanzi mi riddano, senza
posa, con stravagante malìa,
quattro parole scheletriche, che
nereggian scritte in fondo
a un armadio (da lui? da me?)
- parole d'un senso terribile e ignoto:
"TUTTO FINIRA' PER ANEMIA"

INVENTARIO D'AMORE

da La Leggenda della Vita (1909)

Il passato è passato. Non resta
che il ricordo, suo profumo
un poco triste e muffito.
Ricordi delle mie gesta
d'amore! Colman quasi due cassetti! …
( Quanto, quanto è finito!)
E questa polvere d'anni
che li copre non è dunque la cenere
di tanto ardor vario d'affetti
dissolti?…

Occuperemo quest'oggi
l'ozio, catalogando
questi cimelii del cuore,
Cuore, calunniato cuore,
ma tu te ne infischi: la vana
ora che ci prepariamo
non affatica e martella
che il cervello, tuo serio cugino.
Tu eri buono, sol quanto
ti montavi per benino,
a rullare la dïana
dietro un fruscìo di gonnella.

Orsù, facciam l'inventario
del nostro breve passato.
Disporremo in un bel casellario,
classe per classe, genere
per genere le spoglie opime
di quel bel tempo assolato,
lasciando anche un poco di spazio
previggente pei giorni avvenire.
Son rime, rime, rime
quasi tutte in ore. Son fiori,
anche, ma secchi: àn perduto colori
e profumi: son come cadaveri
di bei pensieri, di belle
parole d'amore non detto.
C'è una spirale bionda, una piccola
treccia,  un serpe meduseo
quasi vivo, che mi si attorciglia
a le dita… E c'è un fazzoletto
ricamato che un giorno à bevute
lacrime di dipartita:
odorava di vaniglia,
ma è giallo, pel tempo, ora, e pute -
quel sacro soave umore
vi s'è putrefatto
come ogni cosa che muore.
E c'è uno stinto ritratto…
c'è un copribusto sottile, che ancora
d'un bel seno giovine odora -
cilestrina ragnatela
ove un dì fitto fitto impigliai
la ragione e per districarmene
pianti e scudi sonati versai…
Ma d'una, oh! D'una sola
non mi resta neppure il conforto
d'un ricordo, d'un fior, d'una parola:
ella passò, la superba,
dopo aver tutto succhiato
il miele da le mie labbra
lasciandomi solo l'amaro…
Povero amore mio non ancor morto,
l'anima sempre conserba
tracce di te, che la colmano
più che tutti gli oggetti e tutti i fiori
non colmino questi cassetti…

Via, non caschiam nel patetico!
cacciamo via tutte le fosche
idee…è questa la mia
sorte, la sorte comune
a chi riduce tutto a poesia:
trovarsi al fin con un pugno di mosche.
Così, sempre: se io volessi fare
il bilancio della mia vita,
vedrei vuota la partita
Avere e senza più margine il Dare.
Io ò dato, dato, dato
gioia piacere fuggevole,
amore, senz'aver raccolta
che la tenebrosa ebbrezza
d'un minuto, che qualche carezza
egoista…
- Un gran fascio
di lettere..- Ah no, questa volta
no, poveri timidi occhioni
neri! Io sentii tutta la tenerezza,
le rinunzie e gli abbandoni
muti e sublimi, trovai
l'amore ne la benedetta
luce di quelle pupille…
Ma il mio rancorante destino
volle al fin trarre vendetta
degl'inganni trascorsi: e fui io,
questa volta, che oltre passai…
. . . . . . . . . . . . . . . . .
La forcinella…
                            il nastrino
rosa. . . . . . . . . . . . . . .