IL FABBRO

lo sono il fabbro. E' mio martello enorme
il pensier, che col mio braccio possente
fo risonare sul metal rovente
dell'anima, del cuore e delle forme.

E l'universo, che tutto rinserra,
è la fucina che à per foce il sole;
ivi è mia vasta incudine la terra,
e le faville son le mie parole.

Ora io disdegno quel che un dì bramai
lavoro di niello: nell'intensa
opera assorto, gigantesca e immensa,
non sudore, ma il mio sangue versai.

Io lavoro: la fiamma ansa e sfavilla,
il mantice ruggisce, il mio martello
piomba e ripiomba sui metal che brilla,
ed arso ed abbronzato io son più bello.

Picchia, batte, ripicchia su l'acciaro
che tintinna e sfavilla: io voglio aprire
agli uomini le vie dell'avvenire
e a chiudere il passato mi preparo.

E batte e batte e batte orribilmente
il maglio che riposo mai non à,
e foggia il primo e pure il più possente
magnifico lavor: la volontà.

Se il mio respiro è fumo e fiamme, il mio
braccio non piomba a martellare invano
l'arme che impugnerò come un titano,
assalirò - monte su monte - il dio.

E voi, figli dell'arte e del pensiero
nuovo ed eterno, se un'idea v'agguaglia
a me, mi avrete in mezzo a voi guerriero
di quella che sarà santa battaglia.

Forse l'ultima che combatteremo
sgominando i custodi del vecchiume:
gli altari eretti ad ogni falso nume
a nuove deità consacreremo.

Nell'avvenir la vita, e l'arte è vita
ed avvenire. La suprema prova,
- pure se io cada - veda redimita
della vittoria la Bellezza nuova!

LA DIANA

Da l'ardue solitudini del monte
io torno nella turbolenta piazza:
torno tra la gran folla che schiamazza,
con una stella di speranza in fronte.

E se la turba inetta e cieca e pazza
precludermi vorrà ogni orizzonte,
tu, ferrea Volontà, contro le onte
ostili mi sarai salda corazza.

Innanzi, innanzi un'altra volta, come
Imperioso il mio destino vuole:
al desiderio mio breve è la Terra!

E inutile la lotta nel tuo nome,
Arte, non sia, se nel mio pugno al sole
sfolgorerai - spada brandita a guerra.

AFRODITE

Goccia fecondatrice, giù dal cielo
cadde nel mare un di' l'uranio sangue,
e tra la spuma candida (non langue
ancor la grata ricordanza a Delo)

la Dea si levò, siccome un angue
flessuosa; i capelli eran suo velo;
stillante il seno all'aer nuovo anelo
e bianca tanto che pareva esangue.

O Afrodite, cui rise l'aurora,
figlia del ciel, figlia del mar, vissuta
in morte età che il rimembrar ci duole,

forse l'anima mia non nata ancora
e nel mistero universal sperduta,
era nel bacio che ti diede il sole.

GALATEA

Pigmalion tagliò nel marmo gregio
una fanciulla, con sottil lavoro;
fece alla nudità d'un ve1 decoro,
e le adornò la fronte con un fregio

di rose (forse un ugual peso d'oro
non à di quella eletta statua il pregio).
E un palpito invocò l'artista egregio
al marmo del mirabile tesoro.

A lui propizia, la Ciprigna dea
diede alla statua con un suo sorriso
anima: e così nacque Galatea.

Ma tu, muta beltà, resti al poeta
chiusa, ed è sempre gelido il tuo viso.
Forse perché non s'anima la creta.

LA PASSIONE

Ed io ti sento, con disperazione
implacata, e ti verso dal mio petto
nel sereno artifizio del sonetto,
o tempestosa onda di passione.

Impeto, dentro la strofe costretto
in quest'istante d'elevazione,
canta che sei di me tutto padrone
a chi il mio cuore à per sua stanza eletto.

Turbin non sii, ma spiega il tuo securo
voi come l'arco d'una sinfonia,
recando la novella dell'amore.

O, s'è vano l'amor, fatto più puro
arriva a lei, dicendole che sia
benedetta del mio folle dolore.

BALLATA MALINCONICA

Donna, a te batte Vale
la ballatetta di malinconia.

Malinconia d'amore
che nasce, ti saluta.
Tre volte già, nel croceo splendore
del tramonto d'aprile, io t'ò veduta.
Agli occhi tuoi parlo con gli occhi miei:
ti dico che vorrei - dentro il mio cuore
colmare il vuoto che te sola aspetta;
chiedo la benedetta
parola che amor detta - e cortesia.

Ma tu mi guardi, come
se non leggessi ancora
negli occhi miei l'affanno senza nome.
Oh! s'io tremo, e il mio discolora
or che di rose al desiderio colte
sol recinto tre volte - ò le tue chiome,
temo il veleno di profumi insani
se sboccerà domani
il fiore della passione mia!

SAFFICA PAGANA

Alla passante

Tu rechi in viso, presso i cigli, presso
la sorridente bocca, in mezzo al mento,
come l'impronta dell'animatore
                                        dito di Fidia.

Bianca si come il pario e con le bende
dell'ampia chioma che, divisa, scende
a fasciare le tempie. tu somigli
                                        Ebe coppiera.

Così direbbe un classico poeta
se ti vedesse, innamorato, in odi
saffiche, e scinta ti vorrebbe della
                                        tunica bianca

per darti un bacio in greco all'ombra sacra
del Partenone (e intanto i giovinetti
achei trarrebber con tripudi al tempio
                                        della Ciprigna).

A me tu piaci qual sei già, vestita
di casimirro, con la capotine
rossa, col velo che t'annebbia un poco
                                        gli occhi; e vorrei

poter baciarti in una disadorna
camera, al buio, palpitante, o in faccia
al sol, nei campi, o nell'ombra fuggente
                                        d'una carrozza,

ovunque: e penso a rimirarti, sana
e bella e ardita e forse incolta e piena
di grazia, penso che da noi potrebbe
                                        nascer quel figlio

che non avesse più la polverosa
anima archeologica nel seno,
e che sapesse vivere, esultando
                                        della sua vita!

INNO AL SOLE

L'alba: un timido barlume
che le brume
d'oriente, ecco, discioglie;
e una striscia d'un bel rosa
vaporosa
schiude già le aeree soglie.

La campagna è desta a l'onda
tremebonda
d'un'innumere armonia;
l'opificio alto e ferrigno
dal colmigno
fuma, e s'anima la via.

Dal visibile confine
spunti al fine
su la terra che t'aspetta,
fra un corteggio di vapori
rossi, e fuori
balzi, o fiamma benedetta!

Benedetta se squaderni
pei superni
cerchi il fascio de' tuoi rai;
o se i limpidi torrenti
alimenti
col diamante de' ghiacciai;

se riscaldi i campi arati
fecondati
dal sudore dei bifolchi;
o se vigili tepente
la semete
che maturasi nei solchi.

Bello, o sol, quando ai solstizi
tu propizi
l'infinito amor del mondo;
quando fai l'aperto mare
sfavillare
d'un ribollimento biondo!

Nei meriggi che tu avvampi
corre i campi
lene un tremolio di steli;
e nei fulgidi tramonti
oro ai monti
versi, e porpora pei cieli.

Ave, o sole! se una fibra
per te vibra,
vitali impeti disserra;
tu dissolvi ogni vecchiume
col tuo lume
sulla faccia della terra.

Ace! e sempre rinnovella
tu la bella
coscienza degli umani;
sii tu faro del destino
nel cammino
verso i culmini lontani!

Ave! e tu disquarcia l'ombra
che c'ingombra
il sentiero faticato,
mentre la gottosa turba
si masturba
sulle glorie del passato.

CANZONE DELLA VELA

O fiorita sul mar, bianca, tra vaste
solennità d'azzurro, come un segno
mite di forza contro l'infinito;
ala che adduci, incerta alle nefaste
ire dei nembi, un fragile congegno
contro il mister d'un orizzonte ambito:
sia che il cupo muggito
del flutto t'accompagni in tuo cammino
e t'urga sul pennone la bufera,
sia che - quale bandiera
di vittoria - tu giunga al tuo destino
o t'avventuri all'operoso stento,
ave, libera vela aperta al vento.

Di te con salda man, se maestrale
spiri, il gabbiere l'alto albero impenna
canterellando qualche sua canzone;
e così, gonfia del propiziale
soffio che incurva la sottile antenna,
tu trasvoli sui mar come alcione.
Fuggi, qual visione
bianchissima, dal lontanante lido,
malinconica d'una nostalgia
vaga, e la dubbia via
ti benedice qualche animo fido,
mentre ogni sguardo o vela sconosciuta
ti segue, ed ogni cuore ti saluta.

Sei bella, se di porpora t'infiamma
il riflesso d'un ciel crepuscolare,
eretta contro un fulgido orizzonte.
E tal, superba come un orifiamma
di conquista, forse un eroe del mare
t'intese alta garrir sulla sua fronte
allor che, dopo l'onte
e i pericoli dell'aspro viaggio,
dinanzi alla rostrata prua dalle onde
vide emerger le sponde
intravedute nel suo gran miraggio;
mentre in te dall'ostil lido un'ignava
turba un dominio arcano ravvisava

Sei bella quando, pel battel che porta
un grande cuore e un'umile speranza,
raccogli il greco buono a dar le reti,
o se, colta dai turbine, l'accorta
mano ti regge tra la pazza danza
dei cavalloni e dei venti inquieti.
Bella pur, se ti vieti
la bonaccia il gran volo e pendi inerte
lungo le scotte, innanzi alla fumante
beffa del tuo gigante
emulo, che, rugghiando, nelle aperte
immensità contro la verde Sfinge,
forte securo rapido si spinge.

Bella - ma tarda! ora che prigioniero
l'uomo ridusse pure il furibondo
fulmine ed a talento suo lo vibra,
e con velocità pari al pensiero
la volontà sua vola per il mondo,
fende l'acque, su nuvole si libra,
penetra in ogni fibra
più riposta la terra, la tua lenta
bellezza non è più che un bel motivo
pittorico, tra il vivo
glauco del mare, e il soffio che t'avventa
lungi è tardo anche nella violenza
per la nostra operosa impazienza.

Addio, bianca fuggente! In te sta scritto
come sopra una pagina immortale
un poema di fulgide memorie.
Tu sei, nell'implacabile conflitto
fra la natura e gli uomini, il segnale
puro d'innumerevoli vittorie,
l'esemplar delle glorie
più remote, che schiusero l'ampiezza
del mondo all'avo ardente di conquista.
Ma oggi un'imprevista
vittoria solca il mare, di bellezza
men serena e men pura di te, tarda
volante, ma più ratta e più gagliarda!

Canzone della vela,
e tu esalta nel verso ogni altra cosa
bella che giunge dall'età lontana,
Ma canta che l'umana
grandezza s'orna d'ogni gloriosa
forma, e l'industre età moderna avanza
foggiando la bellezza a sua sembianza.

LA CANZONE NUOVA

O poeti del secolo, simbolici
cantori delle nebbie e dei cipressi,
voi che bestemmiate come ossessi
mostruosi sonetti parabolici;

voi che non fate un verso, o decadenti,
mai senza un cigno azzurro o due paoni
bianchi, senza celesti visioni,
senza cavalle candide annitrenti;

petrarcheschi, idilliaci, umanisti,
voi come mummie incartapecoriti,
che curate i versetti ben torniti
atteggiandovi a classici e a puristi,

impeccabili d'arsi e d'armonia
che, per un senso di ribellione
a voi e ad Aristarco tabaccone,
ci fareste stracciar la prosodia:

io vi saluto: come un buon villano
vengo a voi, redimito d'acri fiori
di campo, arso nel viso dai calori
del mio torrido suol siciliano.

Salute, o tessitori di parole
che curate soltanto di far belle:
amanti della luna e de le stelle,
vengo a portarvi un raggio del mio sole.

Sol, colori e profumi. Ecco l'azzurro
carico del mio cielo e del mio mare,
e il rosso dei tramonti, e delle chiare
albe ecco l'oro; udite, ecco, il susurro

delle spiche ondeggianti nella brezza
che le sfiora e vien sazia d'ardente
profumo ad alitar soavemente
su la mia fronte, come una carezza.

Compiacetevi pur degli asfodeli,
dei crisantemi pallidi, dei gigli
esili: i nostri fiori son vermigli
e audacemente eretti su gli steli.

Qui, nei nostri giardini, è un turbinio
di campanule enormi, di carnose
magnolie, di zagare, di rose,
di vilucchioni e d'oleandri; ed io

come un albero forte a la calura
nei campi dai fiumi aridi percorsi,
io qui fiorisco e bevo a larghi sorsi
l'infinito respir della natura.

Voi, figli del Parnaso bizantino,
clorotici poeti degli inverni,
ricantateci pure i vostri eterni
gelidi versi a suon di chitarrino.

Ed io sono il poeta dell'estate
rossa e feconda, io son come la mia
terra: vi canterò la poesia
calda, le cose da nessun cantate.

lo leverò fra i tremuli rosai,
fra gli olivi che lucono d'argento
e i canneti melodianti al vento
una canzone non cantata mai!

CANZONE A BALLO STRAVAGANTE

O infecondo martire
d'amoroso desio!
Donne, il mio cuore è mio:
chi me lo sa rapire?

O begli occhi procaci
di donne, ond'io tremai;
labbra fatte pei baci
che invano desiai;
o capelli che mai
mi fu dato blandire;

o voci femminili
in cui cantar l'amore
sentii; membra sottili
come stelo di fiore,
che mi deste l'ardore
d'un acerbo desire:

fascino d'una bella
anima, o d'un bel viso,
ch'ora in questa ora in quella
vidi nell'improvviso
baleno d'un sorriso
o d'un gesto apparire;

o bellezze di cento
donne che ò conosciute
ed amate un momento:
perché non vi ho vedute
tutte, per mia salute,
solo in Una fiorire?

MAGIA

Ecco, ad un gesto della fantasia,
io fiorisco la terra di prodigi:
dispando in fondo ai mari, su i fastigi
dei monti, per i cieli, la magia.

Io do tinte di porpora e di croco
al vespertino cielo, quando in grembo
a l'orizzonte il sol cade fra un nembo
tragico di caligini di fuoco.

Do la limpida calma alle lucenti
onde se sta bonaccia o alia greco;
spumeggiando le impazzo, ove con bieco
furore il suo turbo aquilone avventi.

Sono il pittore d'ogni forma e d'ogni
spirito; chiedo al cielo, ai campi, al mare,
alle fiamme i colori; i lievi sogni
so in visibili palpiti fermare.

Agli occhi miei risplende d'una luce
rivelatrice ogni mistero arcano:
la magia fino a coglier nel sovrano
prato i fulgidi fiori mi conduce.

Io vidi nuove terre galleggianti
in lor pompa di verde sopra ignoti
pelaghi, pria che dai porti remoti
vi drizzasser la barra i naviganti;

sentii fremere i visceri fecondi
della terra d'innumeri esultanze
vitali e scorsi nelle lontananze
inesplorate dello spazio, mondi

sconosciuti vaganti, come sciami
accesi, ghirlandando i fermi soli,
dardi fluidi scoccar verso i richiami
degli astri ardenti i precipiti voli;

ed io li rivelai prima che il lento,
speculante pensier, con l'indefesso
calcolo, all'uomo il tenebroso accesso
dischiudesse dell'arduo firmamento.

Io sento nella mia anima immensa
con un ritmo solenne e con squisito
brivido palpitare l'infinito,
tutto che al mondo si sospira e pensa.

Io discerno, fra l'ansie ed i tumulti
oceanici delle secolari
generazioni e delle folle, i fari
a cui, traverso procelle ed insulti

del destino, si volgono - in eguale
conato - sino dalle più lontane
spiagge brumose della storia, l'ale
delle comuni ambizioni umane.

Son io colui che agli ardimenti audaci
offrì cieli più fulgidi e vi dette
il primo sospir nuovo, o giovinette,
e la rivelatrice ansia dei baci.

Tutto il cosmo non è che visione
mia: pel divino affiato che si spande
da me, non luce verità più grande
della mia portentosa finzione.

E così - artista, creatore, nume -
alitando gli ardori del mio petto
su l'argilla del nostro piccoletto
mondo, ne traggo più ampio volume

di musiche, di forme e di colori,
ne rivelo gli spiriti profondi
e, come al sol meravigliosi fiori,
io fo sbocciare mille novi mondi!

NOSTALGIA D'ORIENTE

Forse mi sarà dato alfin lasciare
queste nostre città sciocche e crudeli
e incontro a nove terre e a novi cieli
libero andar per l'infinito mare.

E un dì, giungendo nell'antico Ponto,
da lontano vedrò sui flutti queti
le cupole di rame e i minareti
nella fornace rossa del tramonto.

in un harem superbo, su le rive
del Bosforo o del Nilo, amerò cento
donne piene di stanco sentimento,
più belle de le nostre e più lascive.

Il divano sarà degno d'un uomo
indolente: cuscini alti e lettiere
di velluto, con pelli di pantere,
profumato d'aloe e cinnamomo.

Berrò con le odalische il buon caffè
arabo, misto con l'inebriante
hashish e fumerò lo stravagante
cibuk e l'odoroso narghilé.

Sul tuo capo decrepito e ancor erto
contro il cielo, al mister che in te s'infinge,
io strapperò un frammento, antica Sfinge,
vigile sentinella del deserto.

Presso l'oasi di Baghermi, assisa
fra gli hammadahs, dopo una caccia orrenda,
dormirò sotto la stellata tenda
del ciel, col capo su la belva uccisa.

Berrò al Krishna sacro, ove non più
càrolano le Apsare e al verde Giamma,
ed uno stizzo sottrarrò alla fiamma
ch'arde in onore del gran dio Visnù.

(Sorreggitore d'ogni forza viva,
nell'evocazione sovrumana
io ti vedrò, come nel Ramayana.
tendere il gigantesco arco di Siva!)

E nella baraonda di Canton,
patria di codini e porcellane,
mangerò i nidi delle salangane,
i fiori, il riso e prenderò il sau-ciong.

E una notte, partendo da Fu-ciu
in palanchin, nel plenilunio intenso,
udrò lontan gemere al vento - immenso
organo - le foreste di bambù.

Mi vedrete anche voi, brune foreste
dove fiorisce l'albero del pane.
voi, scoscese giogaie borneane
che spesso il turbo dei tifoni investe.

E nelle corse intrepide sui mari
inospiti, fra trombe ed uragani,
o Polinesia, i tuoi cento vulcani
saranno al vascel mio tragici fari.

Così, di corsa in corsa, d'orizzonte
a orizzonte, col nembo e la tempesta,
spinto da l'aliseo che mai non resta,
per le terre e pei mari, arsa la fronte

da venti soli, i piedi impolverati
dalla terra di venti regioni,
mozzo e cavaliere, coi leoni
lottando e coi selvaggi, agli iridati

tramonti, all'albe d'oro, ai fiammeggianti
meriggi, all'incantate notti, sotto
il tukul o l'estancia o i sagù, rotto
a ogni fatica, ebbro di mille amanti,

radunerò nel sen, come la salda
pianta del cocco nelle cavee foglie
la rugiada purissima raccoglie,
tutta la poesia vergine e calda.

IL BEDUINO

Il Beduino, in sella al suo koklani,
scorre il Sahara,
oggi predone e cacciator, domani
guida alle carovane d'Ahaggara.

Col suo moschetto a pietra, intarsiato
d'avorio e argento,
uccide lo sciacallo lionato
e l'antilope ratta come il vento.

Nell'ozio trova il suo maggior diletto
a fumar, delle
urhì che gli promise Maommetto
fantasticando allume de le stelle.

E' pur bello nel suo candido burno
ricco di seta,
sempre severo in volto e taciturno
come un accidioso anacoreta.

La jena un di lo troverà insepolto
là, nel nemico
deserto, dal samùm caldo travolto,
o fulminato come un ceppo antico.

LE PAMPAS

Ecco: il mio desiderio mi conduce
col pensiero alle immense praterie
che chiaman da lunghi anni, con malie
nove, l'anima mia ebbra di luce.

E la sete magnifica, il bisogno
luminoso, fan vivere alla mia
fervida e innamorata fantasia
l'illusione magica del sogno.

Un Gaucho son io, che nella Pampa
vive, rastreador della pianura
simile ad un ocean di verzura,
che ai raggi d'un'eterna estate avvampa.

Talora, in sella all'aurocrinito
poledro, fra quel mare ampio di verde,
io contemplo il deserto che si perde
nell'orizzonte fulgido e infinito:

il deserto ch'è mio, poi che vi regno
con l'uragano e il sole; aspro bifolco,
aro la terra e - pescator - poi solco
il rio nella mia piroga di legno.

Col lazo atterro i bufali e gl'indomiti
cavalli, con le bolas infallibili
infrango il cranio o gli arti ai più temibili
giaguari, con la forza dei miei gomiti.

Ho un buon moschetto: ascoso in una ruga
del terreno o da l'alto d'un dirupo,
vedo transcorrer rapido uno strupo
di alpachas messi da un coguaro in fuga.

Sparo: un fuggente cade, il fianco giallo
insanguinato... pazzi di terrore,
si sperdon gli altri; io prendo il corridore
e me lo tolgo in groppa al mio cavallo.

Poi torno, a sera, carico di strani
selvaggiumi, di pecari, di avara,
e sotto l'ombra echeggia la fanfara
gaia dell'abbaiar vario dei cani.

E' vero: se imperversa la maluria
del pampero ed abbatte alberi e svelle
picchi e ululando precipita nelle
praterie, la sua stravincente furia

che travolge e distrugge, obbligherà
il gaucho a distendersi bocconi
sull'erba fra il rombar cupo dei tuoni
e l'ululo del Vento orrido: ma

se allora anch'io dovrò contro l'immenso
nemico, per sfuggirne le atroci ire,
cercar riparo e star senza dormire
lungo un'intera notte, per compenso

nel ranchero, costrutto con percossi
rami, all'incanto delle notti chiare,
io mi riposerò, mentre echeggiare
lunge s'udrà l'urlo dei lupi rossi.

Io non ò mai bisogno d'oro ed oltre
l'armi, il corno e le bestie, non posseggo
nulla: sul nudo suol mangio e mi seggo,
e, per dormire, il poncho è la mia coltre.

Ma son libero; - esposto ad ogni rischio,
non ò paure: dopo qualche fiera
lotta con un selvaggio o una pantera,
mi bendo io stesso le ferite - e fischio I

Libero - e solo! - Certi giorni in cui
nell'afa inerte che incendia l'aria
par la Pampa più grande e solitaria,
io mi distendo pigramente sui

cespugli verdi, con la faccia in alto,
le braccia per cuscino, incontro al cielo
che par come soffuso d'un gran velo
tenuissimo d'oro e di cobalto,

e intendo l'armonia di mille rotte
voci, di mille strepiti: il fruscio
dell'erbe stanche - il vario ronzio
del tuco-tuco e d'altri coleotteri,

il pianto d'una garrula famiglia
di caimani, in riva al fiume - e intanto
un gran silenzio! - E allora, nell'incanto
dei fiori olenti, nella meraviglia

dei colori, fantasmi femminili
accendon, vani e procaci. dei raggi
del sol materiati, i miei selvaggi
desii, tormentosamente febbrili;

e,  ubbriaca sotto la calura,
l'anima mia, cullata dall'enorme
pace, in soavi spasimi s'addorme,
ed à per letto tutta la pianura.

IL TIGRE DELLA JUNGLA

Queste immagini che mi tornan chiare.
alla memoria, questa visione
fervida d'una torrida regione
scorsa da un fiume simile ad un mare,

il dominio di morte e di terrore
in un tempo lontan che nettamente
talor vedo, non è l'incosciente
ricordo d'una vita anteriore ?

Ricordo che ferisce, come un raggio
uno specchio velato, il pensier mio;
altri istinti, altra forza: e talor io
ne sento tutto l'impeto selvaggio.

Pure in questa esistenza io mai la belva
non conobbi: e ricordo; e quel paese
non vidi: e so; nè mai nessun m'apprese
l'antro e il salmastro fiume e l'irta selva.

E in in quell'antro, la cui bocca barbuta
di graminacee ed ispida di rovo
s'apria su un rivo ove l'aloe e la juta
si specchiavano, il tigre ebbe suo covo.

Spesso egli s'indugiava, sull'aurora,
paziente a scrutare da ogni lato
aspettando una preda, accovacciato
sui limitare della sua dimora.

Se un saiga veniva a dissetarsi
cautamente con le nari al suolo
e le orecchie ben tese, di fra gli arsi
cacti, vistolo a tiro, egli d'un solo

balzo gli era alle spalle, dirompendogli
il dorso, con un gran colpo di zampa;
e il morente sentiva, come vampa,
sui collo il fiato del nemico orrendo.

Ma quando insodisfatta la sua fame
restava troppo a lungo, egli veniva
fin nei campi di zucchero e d'igname
e audacemente i bufali assaliva.

Così digiuno, un vespero si pose
in agguato su un albero, aspettando
silenziosamente: a quando a quando
dalle profondità misteriose

della foresta a lui giungeva un grido
d'argo, un brusio d'insetti, i lievi accordi
dell'onorato, il pigolio d'un nido,
un crepitar di frasche, e i tonfi sordi

dei frutti assai maturi che piombavano
fra l'erba; poi udì non lunge un suono
rimbombante fragoroso come tuono:
era un tronco di tek che si spaccava.

Finalmente egli vide pei sentieri
aspri di sterpi e di liane, al trotto
venire, inconsci, alcuni cavalieri
armati e li lasciò giungere sotto

di sè; li mirò tutti: il primo gli
parve il più forte e, rapido, dall'alto
del ramo gli fu addosso con un salto,
lo rovesciò, io trasse via, sparì.

Egli amava le sue femine bionde
selvaggiamente tenero: oh gli amori
nella calda stagion, sotto le fronde
ombrose dei giganti sicomori!

Se, le notti, chiamava nel desio
la fulva amante pel deserto piano,
essa gli rispondeva di lontano
con un dolce e sonoro gnaulio.

Un giorno egli vagava irrequieto
cercando cibo alle affamate zanne:
era un sole di luglio sul giuncheto
canoro al vento che flettea le canne.

Finché, levato un àrgali, con rabbia
bramosa l'inseguì fra i cardi e i sassi
senza vedere ostacoli; i lor passi
sollevavano nugoli di sabbia.

E di sole e di caccia ebbro, le pronte
zampe ferendo e insanguinando sui
pruni, egli corse verso l'orizzonte
piano che rinculava innanzi a lui.

E così cadde alfin nell'imboscata
dei suoi nemici bianchi: erano alquanti
cacciatori montati su elefanti
che lo cingevan con la tromba alzata.

Ma non ebbe paura: rimbombò
un colpo di fucile; sanguinante
cadde ruggendo; risorse però
per balzar sulla groppa all'elefante

più vicino, squarciandogli le spalle;
furiosamente sbranò l'atterrito
mahud e l'uomo che l'avea colpito
e poi prese la fuga, tra le palle.

E fu una corsa pazza, tra le folte
piante e le spine della jungla infida:
paventando altri agguati, udì più volte
rappressarsi lo strepito e le grida.

Finché, raggiunto il suo laghetto mite
come uno specchio, estenuato giacque
sopra il soffice greto, in riva all'acque,
leccando il sangue delle sue ferite.

E il paesaggio immenso ora assai triste
gli apparve: era velata la giuncaia
melanconicamente. Avrebbe viste
più le pianure e il fiume e quella ghiaia ?

Dall'oriente già la mezzaluna
torbida s'affacciava sulla nera
foresta; in ciel la violacea sera
accendeva le stelle ad una ad una.

I CONQUISTATORI DEL SOLE

a Peppino Carnesi

I.

Fratello, e non mai tu senti dal fondo
dell'anima salir la ricordanza
meravigliosa d'un lontano mondo

ove vivemmo e un'eco d'esultanza
e di forza che nei gorghi del cuore
trema ancora fra un sogno e una speranza?

Era un paese al sol dell'equatore
prepotente di vita: erano folte
foreste, prati irrigui, sonore

valli e secure ne gioivan molte
barbare genti per aspri destini
da maree di conquiste ora travolte.

Tu ne serbi i caratteri nei crini
selvaggi attorti sull'aquileo viso,
io nel lampo dei verdi occhi felini.

Guardo nella memoria e te ravviso,
fratello, e me, nei giorni che un pensiero
ci avvinse, come oggi, in quell'eliso

d'oro, ov'io fui e tu fosti guerriero
saldo, ove il desiderio spiegò l'ale
a un primo sogno di più vasto impero

quando l'ocean con la musicale
furia un saluto arcano ci arrecava
e ne fremeva il curvo litorale.

Al par di noi nessuno soffocava
tra le braccia i jaguar, nessuno come
noi volteggiava la pesante clava.

Segno di nostra forza, tra le chiome
infitta portavamo una gran piuma
strappata ad un condore. Era tuo nome

Misoc; io mi chiamavo Guatizuma.

II

La città era Manoa: superba
nella vallea cui taglia l'Orenoco,
luccicava tra un mareggiare d'erba

alta, con le sue cupole di croco,
coi suoi templi bianchissimi, con l'oro
dei fregi che accendevansi di foco

ai meriggi; e le torri erano d'oro
incrostate e i cinquantasei spirali
steli dei porticati erano d'oro.

Oro, oro dovunque: anche gli strali
avean la punta fulva del metallo
prezioso, e i turcassi ed i pugnali

eran aurei ed il fren d'ogni cavallo.
Noi amavamo l'oro inutil, solo
per la bellezza ardente del suo giallo.

E quel paese fulgido e quel suolo
ricco era tutto nostro. Ma a guardare
nei firmamenti, innumere, lo stuolo

degli astri e al lido il biancheggiar del mare
misterioso, noi altro desio
non avevamo che di conquistare

l'arcano dell'immenso turbinio
di vita ignota che ci palpitava
attorno e diventar simili a Dio.

Fra cento donne noi solo una schiava
amavamo ad un tempo e, muta e prona
all'amor nostro, entrambi ella ci amava.

Strana! portava in fronte, una corona
di ninfee ed avea lo sguardo carco
d'una voluttà oscura e la persona

falcata e flessuosa come un arco.

III.

Il suo nome dolcissimo era un trillo
di rosignolo: la chiamavam Sini.
La sua bocca odorava di serpillo

e di verbena. Amava pei vicini
prati errar senza posa, e la foresta,
per lei, e i monti non avevan confini.

Talor, fiammante nella rossa vesta,
ci portava ridendo un fior di loto
mai visto. Infuriava la tempesta,

e lei fuggia col vento o in mare a nuoto
per ritornare col seren, recando
seco il profumo d'un paese ignoto.

Ella foggiava il pensier nostro: quando
il sol come una sfera all'orizzonte
esitava sanguigno, tramontando,

Sini, diademata nella fronte
dal raggio, ci additava con un riso
l'astro e parea tender col gesto un ponte

fra il nostro desiderio e un paradiso
di luce. E fu così, senza parole,
che ci fiorì nell'anima, improvviso,

il sogno immenso di far nostro il Sole.
"Lasciam la città d'oro: il vaticinio
muto entrambi alla gran lotta ci vuole".

E partimmo. L'aurora di carminio
tingeva il cielo. Ognun di noi sentiva
pieno il cuore del sogno di dominio.

Sini ci precedeva come viva
fiamma al mattin purpureo. La faretra
colma dietro le spalle ci tinniva

con la balestra e il tomahaw di pietra.

IV.

Ma un crepuscolo offesi nell'orgoglio
e affranti ci trovò sopra un aperto
sentier, fra i campi viridi in germoglio.

Il nostro sol moriva dietro un erto
monte che in vetta cumuli di rosse
nuvole ricingevano d'un serto.

E noi, mirando, pensavam che fosse
l'Ora, quando un fragoroso
streper di penne in cielo ci riscosse.

Battendo l'ali ampie senza riposo,
un grande stormo d'aquile qual nembo
alto passava incontro al radioso

occidente e occultava un largo lembo
d'azzurro; qualche penna, distaccata
dall'impeto del vol, ci cadde in grembo;

e nella nera nube, infaticata-
mente veloce, eran tragici e strani
lampeggiamenti rossi all'infocata

luce; il romore di loro ali immani
giungeva fino a noi come indistinto
rombo di lontanissimi uragani.

E movevano verso il sole estinto
e il monte erto, su cui pareva il cielo
un immenso arco d'or, retto da un plinto

di zaffiro. "Aquile, dove l'anelo
volo vi porta? Alla volta d'imperi
luminosi perché con voi pel cielo

non rapite gl'immensi desideri
che la nostra tarpata anima infiammano?".
Esse, lontane, quali atomi neri,

s'immersero nell'orizzonte in fiamma.

V.

Quanti anni, o giorni, volser nel viaggio
per sentieri infiniti, aspri, per monti
e valli ed altipiani, sotto il raggio

zenitale, agl'incendii dei tramonti,
alle iridate albe, contro l'eterno
rinculare di squallidi orizzonti,

curvi alle sferze del cielo, allo scherno
delle raffiche, offesi ed incalzati
dagli elementi, d'estate e d'inverno,

quanti anni, o giorni, abbiamo noi passati
così? Io mi rammento d'una stanca
sosta in un gran deserto, ove dai lati

scoperti e piani, innanzi a dritta e a manca,
ci chiudea l'orizzonte nel suo cerchio
simile ad un enorme ruota bianca

ed il cielo - azzurrissimo coperchio -
grandeggiava su noi come una fiera
minaccia. Affaticati dal soverchio

cammino stavam muti e immobili, Era
il vespero. E noi ci sentimmo allora
più piccoli con la calante sera

che invadea quell'amplissima dimora
del silenzio. Ma ci chiamò col muto
gesto la nostra amante: "Innanzi! Ancora

il giorno di posar non è venuto!"
Movemmo. Ci sanguinavan le piante
lacerate da qualche sasso acuto

per la strada; quando una rosseggiante
goccia che avea lasciato il suo vestigio
sulla terra, fiorì dopo un istante...

Ed ogni goccia ripetè il prodigio.

VI.

Ma ben la disperata ora suprema
ci attendea sulla strada dolorosa
e anche al ricordo il mio cuore ne trema.

Sini era sempre bella e flessuosa,
ma noi già vecchi e affranti dai conflitti
acerbi del cammin senza mai posa.

E a lei che ci traeva derelitti
di vallo in vallo, genuflessi ai suoi
piedi, implorammo: "Noi siamo sconfitti,

Sini; arresta: è la morte! Dove vuoi
condurci ancora? Vedi che il cammino
percorso torna sempre innanzi a noi?

Noi non conquisteremo il sol divino
come fu tua promessa e sogno nostro,
or che per sempre ci piegò il destino.

Così, dunque, doveva essere prostro
tanto desio dal disinganno edace?
Ma tu, perché tu ci offeristi al rostro

dell'avvoltoio dolore, e alla pace
di Manoa ci strappasti e qui guidati
ci ài nel viaggio inutilmente audace?

Meglio non era restar nei dorati
ginecei, piuttosto che da tante
vane angosce morir dilaniati?".

Fulgeva la suprema alba. L'amante
- muta, eretta - parea contro i bagliori
dell'invocato Sol fatta gigante.

E noi sentimmo in estasi i dolori
vanir quand'ella ci baciò l'esangue
bocca e additò, sempre ridente, i fiori

germinati per via dal nostro sangue.

LA MIA TOMBA

Il giorno ch'io morrò, mi rapirà
un forte alla ridicola menzogna
dell'umano compianto, e dove sogna
la mia speranza mi seppellirà.

In fondo al mare, sotto le foreste
di coralli e madrepore, le oscure
selve piene di tenebre e paure,
solo di squali e di meduse infeste.

Cosi, dormendo chiuso fra l'intensa
silenziosa vita degli abissi,
rivivrò dei miei sogni, che già vissi
invano, al bacio di quell'onda immensa.

Liberata per sempre dai volgari
sentimenti mondani e dalla ria
inanità degli uomini, la mia
anima sarà l'anima dei mari.

IL CADAVERE

L'inerte materia non s'era ancora ravvolta
nel freddo mantello
che sentì come dilatarsi da un gaudio celato,
palpitando un'altra volta
d'un benesser di vita novello.
Fu come un dissolversi lento
e crescente di tutte le membra,
un disgregarsi d'atomi fecondi,
quale, dopo millennaria attività, nel popolato
spazio, dal ribollimento
irradiante delle nebulose,
esuberanti di vitalità si scagliano i mondi.
E ogni cellula del corpo morto
visse di sé come il mondo
nuovo che, appena espresso
dal fiammeo grembo di forze complesse, à un secondo
suo ardor d'esistenza indefesso.
Così, sotto molteplici forme,
egli dalla sua morte trasse molteplici vite.
Venne per vie infinite
- in umore attraverso la terra
grassa, in fluido galleggiante
nell'aria, in fecondante
corpuscolo - a dare alimento
a tutta la famiglia enorme

degli esseri che àn nella vita sensibil dimora.
Tornò ad esistere ancora
nella linfa vitale
che abbevera la quercia ed il frumento;
del cervello immortale
si nutrì un frutto che offerse le pure
soavità del sapore
a ristorare umane creature;
e nacque dal cuore
travolto nel tacito esilio
delle zolle opprimenti, qual palpito
supremo, un fiore vermiglio.

Ma ci fu pure qualcosa
di più tenue, di più leggero,
che si staccò da lui per andare più su, più lontano,
nello sconfinato impero
dell'eterno, nell'arcano
azzurro, ardente e radiosa
come una stella.
E qui da prima fu, nella
cognita immensità,
come una lieve nave di gioia, fendendo i celesti
oceani. Ad una ad una
raccolse, fulgida messe, le verità più sconosciute, seppe le parole
più secrete. Ed alfine, compito
il suo divino viaggio
attraverso la notte infinita
che squarciava per lei ogni gramaglia,
si dissolse nel fuoco del sole,
a benedir con un raggio
l'occulta e rinnovatrice bontà della morte, che agguaglia
l'eterna bontà della vita!