LA VECCHIA CASA

La vecchia casa crolla,
scoperchiata, smantellata
dal piccone inesorabile:
è un mostruoso cadavere straziato d'enormi ferite.
Ora la guarda la folla
che lo stupore, ammirando, à fermata
attorno al caos inerte di pietre, di travi annerite.
La vecchia anima, vibrante
di mille echi, vigilante di pupille
nei biechi angoli bui,
s'è esalata a poco a poco.
Quante tracce restavano, invisibili
caratteri dal tempo scritti, sui
muri e su le pareti,
che soltanto leggeva il silenzio?
Chi eresse i pilastri, i giganti
archi e spalmò di cemento
le sovrapposte pietre, accompagnando lo stento
dell'opera rude con lieti
motti, con grida di sforzo, con teneri canti?
Qual fastoso superbo la volle
ornata dell'arme patrizia all'altissima fronte
e la sperò eternamente
sicura contro le onte
degli anni? - Che importa? Rimani
anonima sempre per noi,
con tutto l'inutile pondo
del tuo passato, dei tuoi
scialbi ricordi lontani.
E meglio che lasciarti
più oltre a ingombrar tanto spazio
d'azzurro e tanto infecondo
suolo e a far ombra a tante umili case
or che sei rotta, cadente, sfasciata,
meglio che regger la tua sconquassata
obesità con puntelli
e rinsaldare i tuoi muri infranti,
è meglio che ti sfracelli,
o vecchia ed inutile casa:
noi ti lasciamo demolire senza rimpianti!

Ma quando al suoi sarai rasa
con ogni tacita e inutil memoria,
con l'ignorata tua storia
ripetuta dai secoli in cento altre case oscure,
noi con le tue pietre fabbricheremo fumanti
opifici animati da la romba
delle macchine - enormi spole
che tessono un nuovo mantello
a la vita gagliarda - fabbricherem con la tomba
del passato la cuna fervida al mondo novello,
con ponti sui fiumi, con moli
sui mari, con ardue vedette
su gl'inacessibili monti,
o, in briciole, le spargeremo
sotto le guide ferree o lungo le strade maestre
ove sfrecciansi i nuovi veicoli come balestre.
Fabbricheremo in fine nuove case
men sontuose e più pure
per la gran turba delle nuove creature
che a un ideale d'amore s'avvia.
Crolla, crolla, o vecchia casa!
E su le tue fondamenta
livelleremo una libera via,
nuovo flusso di vita per la città all'opere intenta,
aperta al passo delle generazioni future!

AL VENTO

Impeto che mi vènti in faccia con ùluli acuti,
greve e vampante d'ardori
dall'immobilità dei calvi deserti venuti,
o aspro di mar, flagellato
lungo la turbinosa corsa che qui ti conduce,
su quanti paesi d'azzurro e di luce
o foschi di nebbie non sei tu volando passato?
- Il portentoso tuo volo
ti slancia a dominio di piaghe infinite, dal polo
al tropico, in attimi brevi:
tu porti, furiando, alla steppa
un alito d'alghe ed al lido
sentori sottili
di prati; tu sciogli le nevi
su le inaccesse vette negli aprili,
e soffi, squassando, schiantando, abbattendo in tempesta,
su la disperata ramaglia della foresta.
Quante querce secolari
le tue raffiche folli àn mietute
su gli aperti pianori ampi, d'autunno,
procellàti da tutte le sferze degli elementi;
quanti picchi e rupi acute
ànno divelto e infranto le tue aeree e strapossenti
catapulte quando - pàmpero - ti scagli
con rombi di tuoni su i culmini delle Cordigliere;
e - armattan - quando
i tuoi mille invisibili magli
con fischi e ruggiti di fiere
sradicano e dirompono, avventando
le livide furie del mare alle rive indifese,
quante case e selve e Vite
tra le acque e le rocce e le sabbie non ài seppellite?
Poi placato - e profumato
di pace e d'inerte
distruzione - alla fine
stanco, cadendo, come alito lieve,
blandissimamente trascorri su tante rovine.

Impeto che mi vènti in faccia con ululi acuti
e mi mordi col tuo tramontano gelo -
disvelli case, schianta alberi, incalza
onde, infrangi alpi, rombando
sonoramente nella cristallina campana del cielo;
ma un grido ognor vittorioso innalza
l'anima mia che pure à domato la tua cieca possa!
Centro della natura che intorno mi palpita e freme
e mi combatte con collera rude,
io t'ò domato, come domato ò le forze supreme
della vita universa che in me si rispecchia e racchiude.
Io ti domai fin dal giorno remoto
in cui il mio primo fratello
attratto dalla verde ansia del mare,
nell'abete scavato slanciandosi, volle sfidare
l'immensità dell'ignoto
che all'orizzonte s'inciela
e con fatidico gesto che l'avvenir dismagava
impennò su l'informe nave la prima vela!
Per te fu mio l'oceano invarcabile e io mossi
con te all'ardua conquista di novi ignoti mondi.
Per te io feci fecondi i flutti, ogni volta che con la carena
del mio bastimento,
sotto la scorta serena,
propiziale del firmamento,
per non percorsi cammini
segnai d'un solco candido l'azzurro,
come aratro - fatale fecondator di destini!
Io ti domai, e mi fosti sommesso
compagno nell'opra amorosa,
nell'opera pacifica di bene,
quando col soffio tuo lene
dirrotolasti la faticosa
macina sul mite frumento.
E propizi sorrisero i turchini
cieli, ogni volta che al tuo
fiato operoso nei campi
s'animo la bianca solennità dei mulini.

Impeto che mi venti in faccia con ululi acuti,
un giorno, forse non lontano,
di vittoria suprema, tu mi farai pur signore
dell'etereo mare che non à lidi e confini.
Dall'anime di Mongolfiero
e d'Andrée, dissolto nell'immensità muta del polo,
nascerà ancora un eroe - cavaliero
del vento -
che affidato alle tue vaste penne l'aereo portento,
levandosi nell'infinito ad un magnifico volo,
t'avrà sottomesso al timone
del suo potere. E forse, superbo
più delle aquile sue fiere sorelle,
bramoso di dominazione
sconfinata, rivolgerà
la prora del suo desiderio - ebro - incontro alle stelle!

A UN VINCITORE

Pel raid di Scipione Borghese

Partiamo, signore. C'è ancora
di là dal visibil confine
aereo qualche altra regione
che l'anima ignora
e l'anima nostra oggi vuole
giunger del mondo alla fine.
Andiamo: per strade ignorate,
su zolle non anco solcate
da ruota veloce.
Che i torpidi echi di quelle
contrade remote e deserte
apprendano nuove parole
esultino alla nostra voce
le solitudini aperte
su cui le notti s'ingemman più rade di stelle.
Con la nostra gioiosa fatica
noi segnerem sul cammino una scia,
provvido filo teso fra due mondi,
traccia d'una nuova via.
Al volante! al volante! ci aspettan valanghe, procelle,
angosce e rovine.
Ma sventola su i nostri capi con suoi garriti giocondi
l'entusiasmo - stendardo!
Il mondo sarà la gran pista.
La gloria starà sul traguardo.
Al volante! al volante! con scoppi di forza si sferra
il veicolo alla conquista
ultima di dominio supremo sovra la terra!

Oh, attoniti spazi ove romba
l'ansare fuggente
del carro, furibondo in corsa
come una belva divina!
Dall'alto d'un vertice, piomba
in un abisso, ruina
in uno stagno, infrangendone
per la prima volta la spera
quieta che specchia da secoli
gli alberi prossimi e il cielo;
s'arrampica, rabbioso e anelo,
su per una costa scabra;
scivola sopra una glabra
ghiacciaia cristallina....
E tutte le cose che da lunge lo vedon venire
dapprima guardano ostili e stupite;
poi i monti, le inaridite
rupi si scagliano contro di lui
come frombole, senza colpire.
Gli alberi, dannati in turbine,
gli si scaraventano in faccia
squassando minacciose braccia....
ma poi fuggono, al suo passare.
"Chi è ? che vuole costui?"
si chiedono attorno i severi paesaggi
in scompigliata imperiosa fuga.
Il monte, il prato, il burrone, la valle,
cinematografia viva che sfili ai suoi lati,
gli si svela un momento al passare,
spaurita, e poi gli si arruffa alle spalle.
Più presto! più presto! queste cose che solo
conoscevano l'uragano
e il fulmine, tremino e oscillino
anche, o carro, alla nuova tempestosità del tuo volo
e ne faccian giungere il grido
a orizzonte più lontano.
Più presto! più presto! ratto così da sbiadire
solo in una confusa onda di grigio fuggente
i pianori, le alture, le convalli
attorno, e soltanto l'ebbrezza della rapida corsa sentire!
Più presto, o carro! più che con la forza
dei quaranta ansimanti cavalli
del tuo compresso vapore,
presto con la tenace volontà del tuo signore -
la volontà, ch'è tuo, cuore!
Presto, follia della corsa! noi schizzerem fuor dal rotondo
guscio dell'orbe, troppo alla velocità nostra piccino,
via per il ciel che lo serra
e ci offrirà più lungo e più sterminato cammino,
Urrà! ecco la meta, ecco il troppo facil destino!
Urrà, cavaliero del mondo!
Urrà per la tua corsa precipite sopra la terra!

Sta! - Ora rimane soltanto
quel che in un sogno d'azzurro ài veduto
perché il conquistatore tuo volo
sia tutto compiuto.
Questa piccola palla vivente sospesa nel vuoto,
a partir dal tuo remoto
avo fu vinta in millennaria guerra.
Domani spunteran fiori
dietro la ruota vittrice
che à fatto col suo solco una cintura alla Terra!

AREOPLANO DI LATHAM

1910
Pel primo volo umano nella tempesta

Passino, nere pel cielo
e tumide di bufere,
le nubi, radendo con ale
di baleni le torri i colmigni le cime;
sibili, con schiamazzante
ànsimo, tra la fluida foresta
del nembo, l'avverso uragano;
rulli per l'aria sonora
irrompendo da lontano
il tuono, col suo stamburare gigante:
l'areoplano sale
possente e fragile, sale sublime
simile a vasto aquilone
su un invisibile filo
di desiderio - fra le rabbie della tempesta.

Sale, la navicella
alata, librandosi ai venti
con lievi sussulti:
à tutt'intorno il fumante scenario della procella.
- Timoniere, dritta la barra
nell'aerea malfida via.
E' il tuo cuore che vola. Gl'insulti
degli impazzati elementi
sono la tua sinfonia.
Sul tuo capo le nuvole, cariche
di fulmini, a poco a poco
rallentano il volo
sgomente al tuo ratto passaggio,
ed ala ti fan, ritraendo
le guizzanti lor spade di fuoco.
L'aria che muove muggendo
a gara con te, nello spazio fa guerra
infuriando con tutti i suoi soffi
contro il tuo portentoso viaggio.
Vola! vola! raggiungi un gran cumulo
fosco, che tenta sbarrarti il cammino,
perfora il suo greve umidore
bigio che acceca, sconvolgi con le ali
gli atomi suoi di volante
mare. A traverso un turchino
forame del torbido velo,
d'un balzo, improvviso, sbucando, risali
nel libero cielo,
incendiati in uno sfolgorare di sole un istante.
Se un gorgo ti atturbina a un tratto,
salda la mano al motore
che bolle con scoppi affamati
di velocità. D'uno scatto
liberati e vola, vola
ancora più rapido, rapido tanto
da crederti immobile, solo tacito - sola
cosa tacita e immobile, solo piccolo enorme
mondo fisso tra tal furibondo
tumultuare di suoni e di forme.
Il nembo, ecco, scivola in alto,
correndoti incontro e parendo uniforme
e liscio alla rapidità
della corsa, chiazzato qua e là di cobalto;
la terra, ai tuoi occhi annegante
e fatta assai più profonda
per l'umido vel che la veste,
come sfera galleggiante
rotea sotto di te,
portentoso giocattolo che lascia vertiginando
emerger volta a volta
dalla nebbia, in diorami,
case, montagne, foreste.
E attorno, schimazzando,
con voce che pare t'acclami,
stupite, ora che la natura
muta in te le sue leggi millenarie,
ti fanno corteo
in volante corona uno stormo di procellarie.

Ma dopo l'ebbrezza d'un volo
che cosa farai tu per noi,
per l'anima nostra indefessa
che ti sognò, ti previde già son quattromila
anni? Altri, a te simili, eroi
ci diedero tutti i domini:
noi conosciamo i cammini,
di tutta la terra, e disquarciando ogni velo
adempimmo ogni ardua promessa.
Navigatore del cielo,
e tu ci porterai più lontano,
di là d'ogni uragano
faticoso, di là d'ogni cosa immensa, infinita,
quale già la nostra vita
assaporò, fino alla piccola,
all'umile gioia ?
Puoi tu, perché in basso non muoia
il nostro piccolo ed esuberante
cuore, portarlo più in su,
tra cose più tacite e belle,
ove non fatichi più
solo pago della sua luce,
palpitando come le stelle?

A L'EROE CHE VERRA'

O libero, che nascerai
da un uomo dall'enorme fronte
e da un donna salda
dal grandissimo cuore,
io ti porto, simile a un fiore
sanguigno, il saluto di tutto il passato,
dalle cui ultime impronte
io stesso ti liberai.
Io ti saluto in nome di tutto quello che muore.
Tutta la vita è esistita
sol perché te à preparato.
Il primo atomo vivo
che si librò nello spazio infinito
e s'incendiò di sua luce,
la forza misteriosa che tutte le stelle conduce
a rotare pel firmamento,
nacque per te. Per te si vestì d'alberi e d'acque
la terra, spira per te il benefico soffio del vento
che le foreste investe
rubandone i pollini che poi più lontano trasporta:
(li porta ove, fra cento
anni, verdeggeranno le chiome di nuove foreste
offerte a novello furor di vivifico vento).
Per te il primo simile giacque
dopo un cammino audace,
e da lui, più agguerrito, poi nacque
chi invessillò la sua prima conquista.
Per te arse la guerra tremenda
dei piccoli contro l'immane,
palmo a palmo fu dominata
la zolla, il monte, il mare,
il fuoco, l'anima, in lenta vicenda
sublime: per te, per offrirti domata
ogni forza, per farti più piane
tutte le vie della vita che libero devi calcare.

Tu sarai, dunque, l'eroe
del futuro, il definitivo
conquistatore, il vincitore di tutto.
T'assiderai, calmo e grande,
tra quanto è morto ed è vivo,
d'ogni trascorsa fatica coglierai l'ultimo frutto.
Tutto il mondo sarà chiuso in te stesso.
Ogni giorno per te segnerà
un trionfo, ed ogni ora
un palpito di felicità.
L'anima tua, signora
della vita, trascorrerà
di bene in bene, su ali
leggere: tu non saprai mali.
L'universo sarà quel che vuoi,
tutto inchinato e sommesso
ai desideri tuoi.
T'addormirai ogni notte bendicendo la vita.
E ti preparerai la dimora
più bella, allor che la tua fiamma
vitale, per sempre uscita
via dalle spoglie carnali,
andrà in altri mondi, che noi
presentiamo, in novelle
forme, in compagnia delle stelle,
- eterna - ad esistere ancora.

Ave, eroe! io ti porto il saluto
di coloro che ànno vissuto
per te! Io m'innalzo dal male
solo al pensiero divino
che predice il tuo nuovo destino!
E poi che un poco somiglio
a quello che tu sarai,
e poi che nell'oggi vermiglio
io così vaticinai
il tuo avvento fatale,
voglio chiamarti  MIO FIGLIO!

DROETTO


- Affediddio! - sclamò messer Droetto
rivolto ai suoi compagni - scommettiamo
ch'io tocco il petto
alla bella sposina?
                                - Scommettiamo! -
E, detto fatto, con la man sull'elsa,
con fare da spavaldo, il bel guerriero
si parò innanzi
alla giovine coppia. - Enfant, avete
armi addosso? Conviene
che frughi: permettete? -
Ma la scommessa finì poco bene,
non per Droetto solo,
né pei compagni suoi che cadder tutti
trafitti, nella gloria del Vespro
scampanante festoso a Gesù
resuscitato, ma più
d'ogni altro per re Carlo cristianissimo
che dopo qualche dì bestemmiava
i santi e la Madonna,
apprendendo che un soldataccio infame
gli aveva fatto perdere il reame
per le mammelle d'una bella donna!


1878

Francesco Crispi disse: "Riferisca
al Camerlengo queste mie parole:
continuino le lor commediole
intransigenti, ma che non si ardisca

tener conclave fuor di Roma; quando
gli eminenti se ne saranno andati,
farò tosto occupare dai soldati
il Vaticano: lo farò, sfidando

anche i trattati! Sarà loro piana
la via, ma che si scelgano un soggiorno
novello, o troveran Roma, al ritorno,
soltanto capitale italiana!

E pel venti settembre, in fede mia!
farò portare attorno pei rioni,
adornati d'alloro, quei cannoni che apriron la breccia a Porta Pia.

S'accomodino. - Ah, dica finalmente
che non vogliano troppo confidare
nella Francia... laggiù ci hanno da fare.
Buon Giorno." Il messo uscì tacitamente.

 

IL PAZZO

"Ah, tu mi guardi stupito,
ragazzo? Sai chi son io,
nevvero? Io posseggo un tesoro:
ò per monete d'oro tutte le stelle
sparse nell'infinito.
E lo scrigno è qua, vedi? è il mio
cranio. Io ò per cervello sai che cosa?
Un'enorme nebulosa.
Io discerno anche l'angolo più
oscuro dell'universo.
Io vedo nella notte come tu
non puoi - quanto! quanto!
La notte è la verità
che nasconde in un velo
i suoi rarissimi frutti;
il giorno è la menzogna, che sa
adornarvi come una donnaccia, offrendosi a tutti.

Io potrei rivelarti tante cose
se tu sapessi intendermi, piccino.
Chi sa molto non parla a suo agio.
Per Quello, per il Divino,
è così povero - vedi - qualunque umano linguaggio!
e eterne luminose...
una stella e un moscerino...
l'attimo e l'eternità...
l'uguaglianza, la fine infinita,
la gran gioia della vita,
l'inesistenza della morte...
Ma tu non mi comprendi!
Vorrei poterti far valicare quelle porte
e sapresti quel che uomo non sa.
Io conosco, ma non posso dirtela,
LA VERITA'.

IL BIMBO


Il bimbo, giocando nel giardino vasto
le cui mura eran state suo orizzonte
fino a quel giorno, smarrì
il pallone elastico
che a un balzo violento
fra i rami d'un albero era forse rimasto.
Ed egli allora salì,
arrampicandosi a stento
su per le branche, sinché
quasi alla cima pervenne.
Lassù, nel guardar tutt'intorno,
lo colpì uno spettacolo solenne
mai visto fino a quel giorno,
che, con attoniti occhioni,
ad ammirar lo rattenne.
Vide immensità sconfinate
che dilatarono a un tratto
la sua vacillante animuccia,
e furono simili a tuoni
muti di verde, a tempeste
d'azzurro, a turbini d'oro:
campi prati foreste
crepuscolo ed onde...
Rimase a lungo abbagliato
come dinanzi a un tesoro
misterioso, a una bella cosa terribile e oscura.
Stormirono a un tratto le fronde
al vento, ed egli ebbe paura...

Dall'albero scese e sentì
il cuor gonfio gonfio nel petto.
Rientrò a casa guardandosi attorno.
E la sera, quando la mamma
lo baciò mettendolo a letto, 
e gli chiese perché fosse triste,
egli con una fiamma
insolita negli occhi domandò
nuovi giocattoli, grandi,
grandi come le cose che aveva visto quel giorno.

LA DOPPIA VITA

La mia storia è buffa ed amara,
Un giorno io pensai di palesarmi a me stesso
scavando dentro il mio cuore,
di palesarmi alle genti.
Per gran tempo scrutai, scrutai,
scavai con intenso fervore:
l'esser mio da l'interno rivoltai
a l'esterno, così come si fa con un guanto.
Ed avvenne che, dopo tanto
assiduo lavoro, mi vidi
e mi conobbi: ed ero
un uomo forte ed altero,
eretto su la sommità
d'ogni affanno e d'ogni viltà,
redimito della vittoria.
Più forte perfin della morte,
mi parve che la mia sorte
solo fosse intessuta di gloria.

Più tardi, però, un'altra volta
volli mirarmi e gioire
di me stesso. Ma dall'alveo ritolta
l'anima mia, fieramente
custodita, vidi venire
a la luce un altro essere, contorto,
pallido, con un sorriso
giallo, una smorfia sul viso,
e flaccido come un aborto.

Più tardi, al fin, volli unire
con un sottile e tenace
legame che à nome
Poesia
i due dissimili gèmini
dell'anima mia,
Attaccati così per le terga,
chiunque ne abbia voglia ora li mira,
inseparabili, il nano
ed il gigante, insieme destinati
a non andar forse lontano.
Se avviene che il forte un po' aderga
l'imperiosa sua fronte,
l'altro di dietro lo tira.
Se camminare il più bello
vuole a sé innanzi, a le spalle
sente pesarsi il penoso
e quasi inerte fardello.
L'uno guarda a un cielo greve di tempesta,
l'altro ad un luminoso orizzonte.

E la mia vita è questa
grottesca erma bifronte.

L'UNICA

Io ti conobbi per la prima volta
in una visione
primaverile di campi
e di giardini fioriti
quand'ero bambino, oh così
bambino !: eri una cosa divina che non capivo
e che più non ricordo
che come in un sogno.

Io t'adorai, senza saperlo,
nelle preci che mia madre
mi faceva ripetere
ogni sera e ogni mattina,
giungendomi le mani in atto pio
e indicandomi il cielo
d'onde mi guardava Iddio.

Poi ti conobbi nelle fiabe
che mi narrava la fante
nelle serate d'inverno, aspettando
il babbo, mentre la pioggia scrosciava
su i tetti; e rammento che quando
sentivo il tuo dolce nome
non avevo più paura
dei tuoni: tu ti chiamavi
Bianca - come - La - neve e Rossa - come
il - sangue
. - Poi ti conobbi
nelle storie che inebbriavano
la mia prima adolescenza
e accendevan d'eroiche follie
i miei sognanti occhioni;
t'evocai nelle mie sentimentali
romanticherie di fanciullo,
t'intesi ne' miei primi
impeti, nei miei odii
contro la scuola, nei folli
desideri di luce, nei pensosi
languori di pubescente;
ti ravvisai nei romanzi
di Walter Scott, nei versi
di Byron e di Victor Hugo,
nelle vecchie stampe, nei quadri
antichi, nei mazzolini
di fiori secchi, scordati
in fondo ad un cassetto.

Poi, più tardi, mi parve di ritrovarti ancora
nelle donne che amai
anche per una sola ora:
eri tu nei loro occhi,
tu nei loro capelli,
nel loro sorriso, nel loro
pallore, nella lor voce
eri tu, eri tu, eri sempre
tu! Ogni mio dolce martirio, ogni gioia, ogni pianto
ogni desiderio, ogni cupa
disperazione - o chiusa dentro il mio
petto - eri tu che ora vedo viva, dal mio passato salita.

E ora per me sei colei da cui prende nome la vita!

IL TUO LETTO


Ah, nel virgineo lettino
che qual bianca visione
m'appariva fra le socchiuse
imposte del tuo balcone,
io l'ò scorto quel terribile
mostro che ancor tu non vedi:
io l'ò scorta l'invisibile
piovra, che cresce, che a poco
a poco diventerà
gigantesca, fino a cingerti
tutta con le sue omicide
braccia, ad arderti col fuoco
del suo amplesso mortale!
La vedo nascere già
quella che il tuo cuore non vide
finora in me, che non sai
discernere in me, che mai
mi dà tregua: la Fatale
presto s'appaleserà
a te negli ignoti spasimi
ch'io so, nelle lunghe notti
insonni ch'io so, nell'odio
d'ogni cosa che non sia
l'essere amato ch'io so,
ch' io so - infinita agonia!
E tu pure soffrirai
per me, forse, o per un altro
(oh, per me! per me!); e allora
nell'angoscia violenta
saprai riconoscer la
mia follia che ti sgomenta!

CAPELLI

Scioglili tutti, bambina,
sì che ti copran le spalle
come un morbido mantello
lucente d'oro - ti sfiorano
fin le ginocchia! - Oh, son lunghi,
son fini e belli e non ànno
- altro profumo che un lieve
odor di sudore, assai
dolce! Così tu somigli,
coi neri attoniti occhioni
splendenti nel bianco viso
tra le chiome disciolte, alla
Magdalena. Sì, sorridi.
Oh, come tu mi fai mite,
come addolcisci ogni tristo
sentimento nel mio cuore;
oh, come io divento puro
e mi sento in petto l'anima
d'un fanciullo ! Questo nodo
di tenerezza che sale
da le mie viscere fino
alla gola, è un desiderio
di pianto. Io sento un soave
bisogno di perdonare,
di benedire, se tu
mi guardi, se mi sorridi
Lasciami immergere il viso
fra i tuoi capelli disciolti:
mi parrà di respirare
un'atmosfera di sogni
e di dolcezze e di pace!
Legami a te strettamente,
allacciami le tue trecce
attorno al collo, cosi,
e fa ch'io più non ti lasci.
Stringimi. Io indovino
qualche lontano pericolo
nel mondo che mi circonda:
oggi ò paura del mondo!

L'APPUNTAMENTO

 

Dove sei ? dove sei ? perché ritardi
questa sera ? Non senti
che suona già l'ora ? Ma pensa
che t'aspetto, con la febbre intensa
di rivedere i tuoi lenti
occhi che mi dàn le vertigini!
Amore, amor mio, non sai
ch'io son qui ad aspettarti, impaziente,
contro ogni cosa imprecando ?
Perché tardi, o desiderata ? Quando
verrai ? Forse tu ti delizi
ad assaporar da lontano
il tormento del tuo pazzo, che vede
le ore trascorrere in vano.
Come sei cattiva - e come
t'amo! Oh, la tua bocca, fresca
al pari d'un tepido frutto!
oh le tue pesanti chiome
che sembrano vive, attorte
quali serpenti dal bronzeo squame!
Oh, tutto, tutto, tutto
di te adoro! - E tu forse m'irridi,
mentre io vorrei vederti soffrir le infinite
torture che mi fanno demente!
Ma vieni, dunque, maledetta, vieni !...
non senti il desiderio mio
che t'invoca follemente ?

IL MIO DIO E L'ALTRO DIO

Il mio Dio è un piccolo dio,
piccolo come una lucciola
fra i grandi astri superbi ed immoti,
piccolo come un fiato
d'aria odorosa che increspa appena
l'acqua diafana d'un fossato.
La sua divinità è tutta
nella sua impossibilità a essere qualcosa.

Il mio Dio non è il buio né la luce,
né la vita o la morte,
né il giusto o l'ingiusto.
E' un atomo sperduto
che bisogna sapere scoprire nell'immensità,
nell'immensità che è fuori e che è dentro di noi.
Ma è anche l'eternità.

L'altro Dio è un immenso e tronfio dio
grande come tutte le cose visibili e ideabili,
che abbraccia tutto e che sotto diversi nomi
è adorato dagli uomini, anche dagli atei.
Insegna tutto in ogni lingua, in ogni religione,
ma non può nulla; anch'egli è inerte
e lascia che ogni cosa e ogni persona
si muova, pensi, agisca per lui
o contro di lui, tutto permettendo
e perfino scoprendo; impropizio
oggi all'eroe o al santo, propizio domani
al bruto e a chi lacerò le sue leggi;
esaltatore e pervertitore; più Belzebù
che Jehova; benedetto pei suoi prodigi,
adorato pei suoi misfatti;
ma soprattutto sordo ed incapace a reagire
alla preghiera come alla bestemmia,
pago d'essere implorato o maledetto.

Io disprezzo un simile dio
che si lascia così severamente
giudicare da me. Egli non è eterno.
Egli nacque dopo gli uomini e morirà prima degli uomini.

EDIFICIO

Il caso, o il destino, o Dio,
- quella cosa che è fuori di me,
insomma, e che io
conosco e nomo confusamente -
mi assegnò da che nacqui
tutto quello che occorre perché
potessi costruire
la casa della mia vita
anch'io, come tutta la gente
del mondo. Infatti, da bimbo,
ò visto e ò saputo che attorno
a me parenti ed ignoti
e lontani inalzavano il loro
edificio, giorno per giorno:
chi un palazzo, chi una colossale
rocca, chi una bicocca
disadorna, chi una mole
caotica, chi una grama
capanna, chi una cattedrale.
Qualcuno, anche, restava
neghittoso sopra la terra
nuda, pago soltanto del sole.

Io, dunque, ebbi quello che occorre
per costruire: ebbi molta
pietra e molta calcina,
che bastavano per un castello
grande quanto tutta una metropoli,
con più di una torre
ciclopica, con campanili
sonanti di cariglioni,
con alti pinnacoli - asili
di falchi e colombe.
Ma il caso, il destino, Dio,
l'entità oscura che incombe
su me, mi aveva assegnato
- non so per qual beffa macabra -
insieme con tanta materia
prima, uno spazio di terra
angusta e brulla, una fossa
quasi, di un metro quadrato
o poco più, quanto bastava
appena per farmi una tomba.
E poi che io tentava
evadere da quella scabra
piazzuola e cercarmi più mondo
attorno, mi fecero guerra
i vicini e i lontani, d'accordo
con la beffarda deità,
per cacciarmi meglio anzi in fondo.

Allora restar nel fossato
con tanta pietra e calcina
inutili? No! Costruire
ugualmente, se son nato
per costruire. Sull'area
che basta appena a giacere e a morire,
sovrapponendo pietra
su pietra, sempre più in alto
io vado elevando sul breve
fondamento un'esile torre
ch'è come un assalto
ai liberi spazi, uno stelo
marmoreo che m'allontana dal suolo
conteso, come in un volo
lento nel lucido cielo.
E se gli uomini, violatori
inesorabili, con le lor snelle
macchine aeree m'inseguono
nelle più immacolate regioni
d'azzurro, io metto ancor pietra
su pietra, nella follia
di libertà, nel delirio
d'un'immensità tutta mia,
per dar la scalata alle stelle.

O meta, ti so irragiungibile!
Odo il mareggiare della folla
ancora e sempre salire
d'intorno. Son troppo vicino
ancora alle case degli altri
uomini e sotto i piedi sento
che il mio smilzo edificio, perduto
in mezzo a nubi, fra terra
e firmamento, già crolla.
Potere almeno smarrire
ogni mio senso, prima
di precipitare
per sempre, ed illudermi
di restare là, sulla cima
del mio edificio, un po' più vicino
al cielo, che non nel fossato
buio, per me preparato
dal caso, da Dio o dal destino!