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XVI

Il giorno dopo quel duello, quando usciva uffici del giornale in compagnia di Gino Arguti, trovò dinanzi alla porta un'automobile di gran lusso. Dallo sportello si affacciava il viso sorridente di Myriam Casazza-Stefanovich. 

— Mi concedete di accompagnarvi, Soveria? — gli chiese essa con voce soave, in cui s'avvertiva appena quella punta leggera leggera d'aggressività che egli ben conosceva. Ma era come se si fossero lasciati ieri, l'ieri di otto anni prima, alla porta del consolato italiano, o del palazzo di Rue Ès-Sadikya, a Tunisi. 

Bruno, colpito in pieno petto, non seppe rispondere che: 

— Veramente... 

— Oh, — insisté la bella creatura, la sirena di Nino, la fascinatrice di Peppino, — vengo a voi per una missione: e se ambasciatore non porta pena, tanto meno ambasciatrice. 

— Non vorrai rifiutare simile passaggio — sussurrò Gino all'orecchio dell'amico e, strettagli la mano, e scappellatosi a Myriam che gli rispose col più luminoso dei suoi sorrisi, li lasciò soli di fronte. 

— Vi prego, Bruno, — disse allora Myriam, fattasi serissima — ho da parlarvi. 

Il meccanico intanto aveva aperto lo sportello. Bruno montò e sedé accanto alla donna di Mareth. 

Mareth, poi la casa dell'amante morta, balenarono alla memoria di Bruno, insieme con l'oscurità del passato impreciso di Vienna, di Trieste e di Venezia. Si preparò con durezza al colloquio che non aveva potuto evitare, anzi che accettava, anzi che aveva per otto anni desiderato senza esserselo mai detto. 

L'automobile si mosse, verso una meta certamente già stabilita. 

— Perché tacete? — domandò Myriam, graziosa. — Non vi dispiace troppo ritrovarvi con me? 

— Non mi dispiace, — rispose Bruno — né mi piace. 

Ella fece ironicamente "Ah! ah!". Egli concluse: 

— Soltanto non ne vedo l'opportunità. 

— Curiosa questa parola in bocca vostra — commentò Myriam, più amara che sarcastica. — Quando fummo... sì, quando fummo amici, non mi lasciaste mai intendere d'essere uomo ligio alle opportunità. No, non rispondete! So già che sapreste trovare la risposta.., opportuna. Vogliamo conversare un po' in pace, senza cattiveria? 

— Perché no? So essere sempre gentiluomo con una donna. 

Myriam lo guardò di traverso, poi si rivolse verso lo sportello e non disse nulla. Anche lui guardò nella strada, che attraversavano rapidamente, guizzando tra i molti veicoli, tra scampanii di tram elettrici, strombettii rauchi e note gracchianti di claksons d'automobili. Varcato il ponte Cavour, la loro vettura correva ora sotto gli alberi del Lungotevere Mellini. Il meriggio ardeva sui marciapiedi, sui palazzi accecanti, sulle acque pigre del fiume, diffondendo ovunque un senso prepotente di vita. Quasi tutti i passanti si volgevano a guardarli, richiamati dall'eleganza e dalla bellezza vistosa di Myriam e dalla marcata figura di lui che cominciava ad essere notissima. Dove andiamo? — fece per domandare Bruno; ma temé di apparire poco garbato e si trattenne. Ella gli lesse quella domanda sulle labbra e spiegò sorridendo: 

— A me piace discorrere sulla terraferma. Se non avete nulla in contrario, vi conduco a casa mia. 

— Ma casa vostra non è in via?... 

— Quella è la grande, ove si sta con mio padre. Io possiedo, però, da pochissimi giorni, in via Settembrini, quasi in piena campagna, un villino tutto mio, che non ho ancora inaugurato. Possiamo considerarlo territorio neutro... 

— Io dovrò lasciarvi presto — disse Bruno risoluto. 

— Siete poco gentile, — rispose Myriam, contrariata. — Qualcuno vi attende? Vostra moglie, forse? 

Egli trasalì. 

— Io non ho moglie, ancora. 

— Una donna, certamente. Non dico una signora, perché pare che voi non usiate più questa parola. 

Bruno sentì la botta; ma gli piacque e si rabbonì. 

— Donna, talvolta, è più che signora. Poco fa non ci ho messo l'intenzione che voi avete voluto rilevare. Siete permalosa. 

— Sempre... come voi. Voi, anzi, mi superate. Non siamo qui, in questo momento, così, dopo otto anni, per la vostra permalosità? 

Egli fu per rispondere; ma troppe parole facevano impeto sulle sue labbra e preferì non raccogliere la sfida. Myriam si accorse che era presto per andare così oltre e mutò tono. 

— Non vi ho detto ancora che il motivo principale che mi conduce a voi è la gratitudine. 

— Di che cosa? 

— Dell'atto veramente nobile da voi compiuto una settimana fa, in via Bocca di Leone. Ho detto gratitudine; ma da parte mia è ammirazione. La gratitudine è da parte soltanto di Casazza. 

— Ecco, — esclamò Bruno volgendosi a lei, senza riuscire a dominarsi — l'unica mia preghiera è di non farmi sentire, pronunziato da voi, cotesto nome. 

Myriam, di slancio, gli afferrò le mani. Ma in quel momento l'automobile si fermava dinanzi un villino minuscolo, cinto da aiuole, e il meccanico scendeva per aprire lo sportello. 

— Venite, vi prego. 

Lei stessa aprì il cancello e poi la porticina del fabbricato, con piccole chiavi. Lo introdusse, per stanze in parte disadorne, dai mobili ancora imballati che sentivano di vernice fresca e di tappezzeria, fino a un salotto già ultimato. Ansimava, traendoselo dietro per mano. 

— Aspettami lì. Torno subito. Ti tengo a colazione con me. 

— Ma... — obbiettò egli, stordito. 

— Zitto! Dobbiamo celebrare la pace — e uscì, per una porticina che le si richiuse alle spalle. 

C'era, dentro Bruno, una contrarietà, un'irritazione sorda, ma, sotto di essa, come una grande risata. Ma sì, tutto logico e naturale, in fondo! Che cosa voleva questo eterno musone, questo drammatizzatore di tutti gli eventi, annidato dentro di lui, sempre li, fra il cuore e le viscere? Presentì quel che stava per accadere ed ebbe curiosità di attendere come se la sarebbe cavata. Pure, fuori di ogni logica e di ogni naturalezza, si mise a pensare a Peppino Foresi, quello della trincea, faccia arsa e occhi di vetro, incaponito a dir "No! no! no! no!" E se lo immaginava lì, dove egli si trovava, su un soffice divano tra le pareti coperte di gobelins, di fronte a un prezioso Budda di porcellana dal ventre gonfio e nudo, composto in una smorfia buffa e inesorabile. Ma più in là, su un mucchio di cuscini, stava un altro Peppino, quello abulico, tardigrado e disadatto delle bische e dei caffè, intento ad arricciarsi una ciocca di capelli con un dito. E li, su un savonarola, c'era Bruno allegro e spensierato di Annie che conversava con Bruno inferocito e rosso su una guancia per lo schiaffo di Rénouard; dinanzi allo specchio antico e opaco, Bruno di mamma Vittoria guardava nell'atmosfera nebbiosa del cristallo l'immagine qua. si dissolta di Bruno barbuto e orrendo, uccisore dell'uomo del Reno. E altri Bruno, innumerevoli, che non riuscivano a diventare uno solo, il solo che forse era quello, colmo soltanto di una grande risata, che ora dall'ottomana ove stava seduto, avanzava una mano per prendere il Budda, rovesciarlo, e leggervi sotto un ghirigoro le parole "Made in China". 

La porticina si riaperse e ne sfiammò Myriam in accappatoio rosso. 

Bruno - un Bruno, dei tanti - afferrò le mani che ella gli tendeva. Un altro Bruno pensò: "Com'è bella e desiderabile!" E un altro: "E' lei che mi ha fatto il più gran male della mia vita". E un altro disse: 

— Io non vi comprendo. 

— Lo so — rispose la Myriam di quel momento. — Voi non mi comprendeste neppure allora. Se mi aveste compresa, la nostra vita sarebbe stata diversa. 

— Chi sa? — disse ancora il Bruno che parlava ascoltato e contraddetto in silenzio dagli altri. — Io, certo, non avrei mai potuto accettare la vostra vita quale ora la vedo. 

Myriam sedé sull'ottomana, traendo lui a sedere su uno sgabelletto di fronte. I lembi dell'accappatoio si socchiusero un po' più: sotto la seta rossa ella era nuda. Parlò: 

— Con un uomo come voi bisogna spiegarsi. Io crebbi, Bruno, diventai giovanetta e poi donna, senza prendere nulla sul serio, se non il mio capriccio. Possedevo già la ricchezza che può dare alle donne tutto quello che serve ad alimentare la loro vanità: toilettes, ritrovi mondani, viaggi, ogni passatempo e ogni lusso. Ma fino a venti anni ignoravo il piacere dell'amore. 

Parlava con voce diversa, di una Myriam ignorata. E dentro Bruno curvo sullo sgabello, intento a guardare le scarpette nere, le nere calze demoniache, i lembi dell'accappatoio che si andavano scostando a poco a poco sulle ginocchia di lei, c'era chi ricordava, in quella voce triste, le parole e l'accento di Katscha Graberg al Parco Monceau. E c'era chi pensava: "Eppure Peppino nella trincea operò una cosa ben più grande, e l'uomo che uccisi avrebbe desiderato qualche cosa di più umile". 

Myriam diceva: 

— Il piacere soltanto perché nessun'altra attrazione esercitavano gli uomini su di me. Quando conobbi voi, avevo già esperimentato quest'ultimo piacere. Sì, Bruno, è vero. Ma mi accorsi che voi potevate darmi di più, che io stessa potevo darvi anche tutto, oltre quello, che mi pareva poco nella mia ricchezza di vita, che avevo dato fuggevolmente e per curiosità a un altro. Ero forse romantica quando pensavo di poter essere per voi la compagna, la moglie, l'eguale. Ma voi mi faceste intendere che avreste rifiutato la donna che non vi si fosse presentata, moglie e compagna, intatta, ed ebbi paura, per la prima volta paura, di essere disprezzata e respinta. Non osai neppure, come avviene in simili casi nei romanzi e nei drammi, confessarvi la verità, il mio orgoglio non sapeva piegarsi a una scena a forti tinte, di lacrime e di giuramenti. Ma attesi da voi, dal vostro amore, l'intuizione dei miei sentimenti, attesi di essere rimessa al vostro fianco da uno scoppio di quella passione che accetta tutto. Invece voi passaste oltre... 

E Bruno fu colpito, un attimo, dal chiarore di questa verità: che forse aveva avuto la colpa che ella gli faceva evidente. Ma pensò anche: "Tanto, l'avrò ora lo stesso!" E anche: "Se avessi fatto quel che lei dice, avrei mai provato la felicità dell'amore di Alba?" 

Continuava Myriam: 

— Mi eravate piaciuto più di tutti gli altri uomini perché mi avevate fatto credere che potesse esistere un uomo diverso da quelli che io comunemente incontravo. E ogni volta che mi pareva di essermi ingannata, ecco che qualche vostro atto sopravveniva a confermarmi nella mia convinzione. Anche l'avermi trascurata, alla fine, m'irritò e mi esaltò. Se sposai Casazza fu per farvi soffrire, come voi avevate fatto soffrire me. Cercai altri per sostituirvi, nomini capaci di dominarmi per forza d'ingegno, di carattere, uomini eroici. il vostro amico Guevarra mi sfuggì... Il vostro amico Foresi mi si rivelò deplorevolmente debole e uggioso... 

Un altro lampo, dentro Bruno: "Ma Nino Guevarra seppe, per me, rinunziare a lei!". 

— Altri, straordinari all'apparenza e alla fama, nell'intimità mi parvero nulli. Il capitano Puccio è un mascalzone. Oh, Bruno, Bruno, il mio sentimento è diventato irresistibile quando ti ho visto, dopo avere salvato Casazza, minacciare con un dito quell'eroe triviale: il tuo dito era più grande di tutto lui! Avrei voluto in quel momento essere io capace dell'eroismo di buttarmi fra le tue braccia innanzi a tutti, di gridarti: tu solo sei il mio uomo, tu, tu devi esserlo, non me lo negare, non fuggirmi più... 

"Io, dopo Puccio?" gridò una delle voci interiori di Bruno. Intanto, però, l'accappatoio si era completamente aperto, mostrando le avide carni della donna desiderata, le calze nere, trattenute sopra il ginocchio da due giarrettiere rosse dalle fibbie di diamanti che incorniciavano una piccola scritta: "Honny soit qui mal y pense". Appariva anche ciò che vi ha di più nascosto. Bruno di Myriam pensò che lì era tutta la gioia della vita, che un piacere immenso, perchè da lungo tempo desiderato - gli era offerto, che il godimento è la sola cosa sicura nel mondo. E ancora un altro pensiero sorse, il ricordo dell'atroce definizione della donna fatta un giorno da Carlo Quilici, insieme con l'ira che questo potesse dirsi anche di altre donne che Bruno aveva amato e che adesso gli riapparivano: sua madre, Alba. 

— No, Bruno, non importa; ascoltami: a nessuno ho dato tutto quello che darò a te, mi comprendi? Ho appreso gioie inaudite, ma per goderle con te solo: ho raccolto piaceri, per essere per te il piacere maggiore, che tocchi l'ultimo segno. Non importano gli altri se sono serviti a farmi maggiormente desiderare te, a preparare l'ora o gli anni che tu vorrai gioire con me! Ho accumulato in me infinite ricchezze per dissiparle con te solo, dovessi poi ancora respingermi! 

Ma Bruno esasperatamente eccitato dalla lussuria, Bruno dai mille impulsi e dai mille istinti, Bruno tormentato da pietà e da nostalgie, colse repentinamente in sé tutti i frantumi di se stesso. Afferrò pei polsi la donna nuda che istericamente si convelleva contro di lui, la staccò da sé tenendosela di fronte e le disse: 

— Guardami: vedi come mi piaci, come ti desidero? Ma c'è un altra cosa! Non voglio, capisci? No! no! no! no! 

Myriam senza comprendere si tirò indietro, e accovacciata sul divano lo guardò col muto terrore che dà lo spettacolo della pazzia. 

*** 

Forse parve pazzo anche ai radi passanti che lo videro uscire correndo dal villino di via Settembrini. 

Invece Bruno unico era felice. I suoi pensieri, chiari e luminosi come in un sole meridiano, dicevano: "Oggi sì, più che ieri. Più che pei duelli, per le zuffe, per la guerra, per la fuga, per l'uccisione del soldato; più che per avere salvato e assolto Tommaso Casazza! Più di Nino Guevarra, che rinunziò a lei per non fare soffrire me! Quanto, forse, Ibrahim-Ben-Kassar che accolse, salvò e tese la mano a me, nemico!" 

Ma, a casa, la vista di Aura lo fulminò. Essa lo attendeva, andante per l'insolito ritardo. Essa esisteva, dopo quell'altra! 

— Che hai fatto? Non sapevo più che pensare, — e aveva l'aria quasi d'averlo ritrovato dopo un pericolo, forse dopo un viaggio dal quale essa aveva temuto di non vederlo più ritornare. 

— Nulla, — rispose Bruno macchinalmente — non ti avevo detto: un altro duello. Ma sono incolume. 

— Mio Dio! Sarà l'ultimo, spero. 

— L'ultimo? Chissà!... 

Non poteva esser l'ultimo. Guardava lei, mentre faceva colazione da solo, in silenzio, (Donato aveva preteso che tutti si mettessero a tavola con lui che doveva tornare in ufficio) e considerava la sua vittoria, di fronte a questa colpa. A questo delitto, anzi. La creatura che lo fissava e che pareva ormai aver fatto di lui tutta la propria vita, era il frutto della sua cieca voglia di piaceri e di godimenti. Egli - no: la mala bestia voluttuosa che era in lui - si era compiaciuto a pervertire questa donna semplice e innocente. Non era riuscito a vincersi nei riguardi di lei, ma se n'era servito come di un giocattolo, per secondare un suo malsano capriccio, incurante del turbamento che operava in quell'animo. 

Però nascondeva qualche cosa, Aura. Ogni tanto gli occhi di lei battevano come abbagliati, incontrando i suoi, e poi guizzavano via per non farsi leggere dentro.., che cosa? quale segreto? Bruno glielo chiese; essa rispose: 

— Nulla — e proseguì. — La zia non sta bene. Soffre di continue vertigini. Mi ha detto stamani che, se morisse, vorrebbe essere sepolta anche lei con la tua mamma e il tuo papà... 

— Che idee! 

— L'ho appunto sgridata. Ma sorride e scuote il capo. Dice pure che a Palermo il notaio Cortese custodisce il suo testamento. 

— Dille che pensi a star bene. 

Bruno guardava quei capelli tagliati che lasciavano vedere la tintura, quelle gote impiastricciate di belletto, e ne provava una pena indicibile. Il manichino del suo amore distrutto! Ma di quella che ci stava dentro, di Aura, che cosa ne avrebbe fatto?

XVII

E anche la prozia Anna se ne andò per la grande strada, la strada dell'ombra, da cui il viandante trabocca e sparisce, non si sa dove, lasciando per ultima traccia un mucchietto, poche pugna, di cenere. Un giorno fu vista vacillare ed abbattersi. Aura ed Erminia accorsero per sollevarla: aveva gli occhi spalancati, di pietra, e non respirava più. Da una bottega lì vicino telefonarono a Bruno e a Donato. 

— Che cosa terribile! — singhiozzava Aura — è la prima volta che vedo morire. Perché il Signore, per chiamarci a sé, lo fa in modo così spaventoso? 

Bisogna accontentare lei e la morta: accompagnare il feretro a Palermo, per inumarlo nella tomba gentilizia dei Soveria. Chi l'accompagnerà? Bruno, naturalmente. Ma anche Aura vuole andare. Donato si oppone, dato che egli non può ottenere su due piedi un congedo. 

— Oh, non occorre. La tua presenza non è necessaria: io e Bruno basteremo. Condurrò meco Dorotea. 

— Ma sei pazza! Io non ti lascerò partire. 

— Provati. Se tu avessi la velleità di fare scene in questi momenti, io partirei lo stesso, ma per non ritornare più ricordalo! 

— Che dirà la gente? 

— Dirà che due cugini partono anche per andare a raccogliere l'eredità della congiunta che debbono seppellire. 

In quei momenti aveva la voce aspra e la risolutezza di sua madre. 

Donato, pallidissimo, ammutolito, si ritrasse nella sua stanza. Aura restò accanto al feretro, già pronto per essere trasportato alla ferrovia. Bruno esitò un momento poi seguì Donato. Dietro l'uscio chiuso si soffermò, sentendo. dei gemiti. Aprì piano ed entrò. 

Trovò Donato ai piedi del suo lettino, seduto con Dorotea sulle ginocchia. L'abbracciava e le parlava piano con una voce che non aveva avuto mai, una voce lunga e querula, intersecata da singhiozzi, atrocemente pietosa. 

— Tu non lo lascerai il tuo papà... il tuo papà solo solo!... 

Ma avvertì la presenza di Bruno e si volse, raschiandosi la gola e tirando in su col naso per rifare la sua voce naturale: 

— Che vuoi? 

Bruno si appressò e gli appoggiò le mani sulle spalle: egli si strinse tutto in su e abbracciò la bimba più forte. 

— Senti, Donato... 

— Lasciami stare, tu! — protestò il marito di Aura, infastidito, senza guardarlo. Ma Dorotea sporse le braccia sorridendo e chiamò: 

— Zio Bruno bello! zio Bruno bello! 

Donato si mise a piangere. Bruno gli appoggiò con più forza le mani sulle spalle. 

— Senti, Donato: lascia che venga con me, Aura. Non temere. Non temere più, Donato. Condurremo la bimba, sì: sarà un bene per tutti. Ti giuro sulla memoria di mia madre che ritorneranno, che non ti lasceranno solo. 

Donato fece spallucce come un bambino e si mise a baciare su figlia, senza dire più nulla, ma piangendo più forte. Bruno ritornò via, con la gola stretta, ma deciso. 

Partirono. La zia Anna non fu più che un nome aggiunto a un epitaffio, sul marmo. Il suo testamento assegnava un patrimonio di circa quattrocentomila lire, ai due parenti preferiti: due terzi a Bruno figlio di suo fratello, un terzo ad Aura, figlia di sua nipote. 

Ma le pratiche per venirne in possesso si presentarono lunghe e complicate. Bruno aveva una gran nostalgia della casa di Alba, la sua casa, il villino fuori porta ora vuoto: gl'inquilini che l'avevano tenuto per un anno, lo avevano lasciato da venti giorni. Bruno, dopo due sere passate in albergo, vi fece portare i mobili e le suppellettili che già la zia Anna aveva messo in deposito in un magazzino prima di trasferirsi a Roma, e vi andò a stare con Aura e Dorotea. Il pianterreno restò disabitato: Bruno aveva ripugnanza di far passare Aura per le stanze ove Alba era venuta al mondo, era stata bambina, aveva dormito, cominciato a sognare di Astolfo e di lui. Gli parve anzi fin dal primo momento che fosse una profanazione per la stessa memoria della sua mamma introdurre ora Aura nella camera ove essa era vissuta, ove era passato anche il suo amore per la madre di costei. 

Volle, del resto, che le loro camere da letto fossero ben lontane l'una dall'altra: egli tornò nella sua di ragazzo e collocò Aura e Dorotea in quella che era stata della zia Anna. Presero a servizio la figlia del giardiniere e per le compere Bruno si affidò a Salvatore, il vecchio fattorino e portiere dei Collebrina. 

*** 

Egli, Bruno, fu quasi felice di rivivere nel ricordo i bei giorni trascorsi. Il giardino, specialmente, lo attrasse. Ora le robinie erano diventate alberi immensi, una latania giganteggiava fra i cedri e un'araucaria, che era stata piantata ancora arboscello per la nascita di Alba, aveva superato il livello dei tetti: venti corone di rami, venti anni. Alba appena al prossimo Natale avrebbe compiuto venti anni. Tenera madre lontana, sperduta col suo bambino di quattro anni. Ma Bruno aveva saputo, prima di lasciare Roma, che finalmente il nulla-osta era stato accordato e che fra pochi giorni la questura di Palermo gli avrebbe consegnato il passaporto. 

Dopo pochi giorni Erminia scrisse di essere stufa di fare da governante al signor Donato divenuto un piagnone, e che avrebbe voluto raggiungere loro. Ma Bruno. si oppose: 

— Non si può abbandonare del tutto quell'uomo. 

A sentirlo parlare così, Aura si fece pallida. 

— Tu non mi vuoi più bene, Bruno? — gli domandò. 

— No, Aura, ti voglio bene — rispose Bruno esitante. 

Ma al sentimento elementare della giovane donna appariva strano che egli non avesse più cercato i suoi baci dal giorno dell'insolito ritardo per l'ultimo duello, come egli stesso aveva spiegato. E un'inquietudine, uno smarrimento senza chiaro perchè, s'impadronivano d'ora in ora di lei. Bruno comprese. 

— Vedi, dopo quel fatto che tu mi hai ricordato, quella brutale visione della tua infanzia, io temo sempre che tua figlia possa sorprendere ugualmente noi due; e questo pensiero mi atterrisce. 

— E' vero; ma un simile timore fino a quindici giorni fa non l'avevi. 

— Quindici giorni fa, — ribatté Bruno con una improvvisa nota di durezza nella voce — ero cieco! 

— Bruno! — esclamò Aura spalancando gli occhi e sbiancandosi — siamo arrivati già a questo? 

Egli evitò rispondere; ma sentì, terribile, il suo doppio torto: d'avere indotto Aura ad amarlo ed ora di volerla indurre a non amarlo più! 

Un giorno il postino, portando una lettera da Roma, s'incontrò in Bruno e gli disse: 

— Dica un po': lei non ha mai avuto una raccomandata proveniente dall'America? 

— No. Quando? domandò Bruno, col sangue improvvisamente fermo nelle vene. 

— Parecchi mesi fa, non so precisarlo. Era diretta qui, ma gl'inquilini diedero l'indirizzo di Roma che sua zia aveva lasciato prima di partire, e il mio collega addetto alle raccomandate fece proseguire la lettera. 

Bruno corse alla direzione delle poste e presento un regolare reclamo. Bisognò fare ricerche che presero parecchi giorni, in capo ai quali si poté ricostruire che una lettera raccomandata col bollo quasi illeggibile di una località degli Stati Uniti era giunta a Palermo all'antico recapito di Bruno Soveria; trasmessa poi a Roma, era stata consegnata, come risultava dalla ricevuta firmata: "A. Corben" o "Corbell" non si capiva bene. 

Bruno tornò a casa eccitato. Divisò d'investire Aura, di costringerla a consegnargli la lettera, che essa aveva trafugato, era chiaro. Appena, però, se la vide di fronte, trasandata nel vestire, senza più colore sulle gote, gli occhi arsi, l'ira sbollì. 

— Che c'è? — domandò Aura con ansia. 

— Senti, Aura, — chiese lui ostentando un'aria trascurata, senza guardarla — sai dirmi che se n'è fatto della lettera raccomandata proveniente dall'America... 

Aura gli volse vivamente le spalle, per andare a mettere in ordine alcuni bicchieri, già ordinatissimi, sulla credenza. Bruno intanto proseguiva: 

— ... respinta da qui e, dagli antichi inquilini, avviata al nostro giusto indirizzo a Roma? 

— No, non so nulla, — rispose Aura senza voltarsi. 

— Eppure devi saperlo, perché sei stata tu a firmare la ricevuta. Ho visto la tua firma.

Bruno pronunziò queste parole con fermezza e guardandola così fissamente che essa parve sentire l'attrazione dei suoi occhi, e si voltò. Era terrea, le labbra bianche e convulse. 

— Cos'è? Una delle tue imprese da poliziotto dilettante? — articolò, rauca: tutta Flavia quando mamma Vittoria l'aveva scacciata. — Non so nulla. Forse l'avrò firmata io... Che so?... credo che Dorotea poi l'abbia stracciata per gioco... Non ti si è voluto dir niente; anche la zia lo sapeva. 

— Non mentire, Aura! non mentire! la zia non poteva saperlo, la zia te l'avrebbe impedito, ti avrebbe detto... 

— Che cosa? Di quella? Lo so, sì!... Ma tu penseresti ancora a quella bardassella dai capellacci di stoppa? 

— Aura, — gridò Bruno perdendo la testa anche lui — bada! E' la madre di mio figlio! 

— Ah, la madre!.., e come te l'ha fatto quella p... 

Bruno le applicò con forza una mano sulla bocca, le fece inghiottire la parola infame, la scrollò. 

— Taci! taci! o... 

Aura urlò, si contorse, si buttò per terra tirando calci. Le sue strida fecero accorrere la servetta tutta spaurita e Dorotea piangente. Bruno la sollevò, stringendola forte poiché essa si dibatteva con furia da belva, e la portò sul letto. Lì le bagnò replicatamente il viso con acqua fredda, finché non la vide calmarsi e poi prorompere in pianto dirotto. 

Allora le passò una mano sulla fronte madida di sudore e d'acqua, le ravviò leggermente i capelli con le dita. Essa ebbe un soprassalto e gli si aggrappò al collo, senza interrompere il pianto, e parlò, tradusse in parole e lacrime lembi della sua carne e fiotti del suo sangue. Per fortuna la serva aveva portato via Dorotea, che invocava ora la mamma da un'altra stanza; e così Bruno soltanto udì quelle querimonie in cui il sesso spasimava impastato con l'anima. 

— Bruno.., non mi lasciare... Sono pazza di te: ammazzami, ma non mi lasciare! Non so dirti le cose che lei ti dice, ma ti amo quanto lei.., no, più di lei: vedrai! Ti darò tutti i piaceri che vuoi, capisci? Anche se non me li insegnerai, li inventerò, eh?... Bruno, senti, se tu non avessi fatto per me quello che hai fatto.., sì, te lo debbo dire adesso... se non fossi venuto tu a me, sarei venuta io a darmi.., una notte mi alzai per farlo, ma Donato si destò... Ricordi quando mi dicesti quelle cose per via, che andavamo con Dorotea? Come mi amavi allora! Quando mi dicesti che avresti voluto annientarti nelle mie viscere, mi son sentita morire: avrei voluto davvero sentirti in me, lì, in mezzo alla via, dinanzi a tutti... solo per mia figlia mi trattenni. Capisci quanto ti amo? Lei, quella, ne sarebbe capace? Morivo di te, Bruno! Muoio sempre di te!... Ma se tu non mi vuoi più, tienimi almeno vicina, non ti domando altro, Bruno, te ne prego... e promettimi: né io né lei, te ne supplica in ginocchio!... 

— La tua piccina piange, non odi? — le disse lui, con tristezza, continuando a carezzarla. E pensava al maledetto istinto sessuale che li aveva ridotti a questo, entrambi; ma che, mentre in lei aveva avuto qualche lampo di luce, in lui non era stato che carne. 

— Dorotea! Tea! Tea! — chiamò la donna, ritornata madre. La bimba accorse singhiozzando ed ella se la strinse al petto frenetica, e continuò a piangere sulla sua fronte. 

*** 

Lettera di Alba, che Aura aveva distrutta: 

"Bruno mio! Bruno mio! ti ritrovo questa volta! So che sei veramente vivo. Ho avuto ragione a non fidarmi di quanti ti davano per disperso, per scomparso, per morto. Ho letto io pochi giorni fa un giornale con un tuo articolo e la tua firma! Non ci sei che tu nel mondo a chiamarti Bruno Soveria, il nome più bello dell'Universo, il nome che mi circonda e che mi chiude. Non ci sei che tu a saper dire di queste cose, a trovare le ragioni di tutto, a vedere dove gli altri non vedono! Questa volta la mia lettera non l'affido a uno qualunque, ma scappo io con Cesare a Laredo per impostarla raccomandata, dovessero dopo chiudermi di nuovo in una stanza più giorni, come fecero un'altra volta che tentai fuggire. 

"Capisco che non hai ricevuto più lettere mie, chissà da quanto! La tua ultima arrivata a me è del maggio 1918; io ti risposi subito, ma non ebbi più un tuo rigo. Nel giugno corse la nuova della tua scomparsa, dopo una battaglia; io continuai a scriverti in Germania, dove ero sicura che fossi prigioniero, dove eri prigioniero certamente, ora non ne dubito più. In agosto partimmo per Barcellona e poi per New Orleans. Ti scrissi ancora. Più nulla. 

"Ma per ora non posso raccontarti tutto. Sappi che siamo in una fattoria, comprata da Guttierez col nostro denaro, in società con un suo parente che già stava in questi luoghi. Società per modo di dire, perché costui (si chiama Barone) non ha fatto che la proposta e le trattative, assicurando che in queste terre si trova argento e che ci sarà da arricchirsi e si dovrà fare metà per uno, metà lui e metà Guttierez. Cioè, la mamma; perchè in questo, almeno, la mamma è riuscita a farsi valere e a fare acquistare il terreno a nome suo, se no dichiarava di non muoversi da Palermo prima e poi da New Orleans ove il contratto è stato firmato. 

"Non t'ho scritto finora che quando si partì da Palermo io ero ancora ammalata e mi hanno portata quasi di peso; se non fosse stato per questo, forse ci sarei riuscita a restare con la zia Anna. Ma tutti erano contro di me, perfino Diana che per tutt'altro aveva litigato con la mamma e Guttierez. Tutti a dirmi le cose più orribili di te, finché io mi son sentita diventare di dentro come un fascio di verghe d'acciaio e ho gridato: "No! Bruno è Dio, e chi me lo tocca morirà fulminato! a Hanno avuto paura, credo, perchè mi guardarono come una spiritata e mi dissero che bestemmiavo, che non mi si riconosceva più! 

"Basta, mi portarono fin qui, nel Texas, a quindici miglia da questa cittadina che si chiama Laredo, in una valle collinosa, che da lontano si vede un gran fiume: il Rio Grande del Norte. Terreni incolti, vacche, buoi, capre, polli e cavalli: ecco la fattoria. Il casamento ove abitiamo noi sta sopra un colle. Ci siamo giunti in barca, risalendo il fiume, e poi in carrozzina Per qualche giorno m'è piaciuto; e anche Cesare guardava attorno trasognato dicendomi: "papà! papà!" perché credeva che si venisse in cerca di papà suo, del quale gli parlo ogni giorno, da quando è nato. 

"Poi ci siamo intristiti: un anno d'aspettare te, o tue notizie, o la possibilità di scappare. Sì, mi son tessa a pensare a questo, guardando il fiume immenso, mare di febbri e di nostalgie. Qua e là alberi enormi, laggiù una foresta, dall'altra parte lontanissimi monti sfumanti, celesti chiari chiari che sembrano disegnati nel cielo. Intorno a noi, poche macchie selvagge piene di rettili, da dovercene stare tappate nel recinto della fattoria, noi donne e il piccino. 

"Noi donne siamo io, la mamma, una certa Juana, moglie di quel Barone, rissosa e cattiva, che mi faceva dapprima la gelosa; sì, gelosa di quel suo omaccio dal cappellone e dalle pelli di capra che lo assomigliano piuttosto a una bestia. C'è pure una vecchia meticcia addetta ai servizi di casa più grossi. Costei mi fece l'amica sulle prime, tanto che io le affidai una lettera per te da impostare a Laredo; ma essa mi tradì e la consegnò invece a Pablito. Questo Pablito è il capo dei lavoranti, che son tutti meticci o pellirosse: il capataz dicono qui, un messicano giovane, dalla faccia d'assassino, vestito e agghindato come in certi films americani. Egli mi sorrideva sempre quando mi vedeva, in un modo che mi dava noia. Figurati che propose a Guttierez di sposarmi. E costui a invogliarmi, mentre - di nascosto alla mamma - anche lui mi guardava con certi occhi che mi facevano schifo. Una volta tentò rubarmi un bacio; ma Cesare, che mi stava in braccio, diede un urlo e gli lasciò andare una manata in faccia e poi giù un pianto strepitose. Accorse la mamma e da quella volta cominciò a capire e a sorvegliare di più suo marito. 

"Un'altra volta, mentre mi trovavo sola nella mandra a guardare i capretti nati da poco, fui sorpresa da quel Pablito, che tentò abbracciarmi di dietro. Non so come mi sia venuta fuori tanta forza, fatto è che gli avventai le unghie in faccia e lo costrinsi a lasciarmi mugolando come un lupo ferito. Da allora non vado più attorno quando ci son gli uomini in riposo, e porto sempre con me una piccola rivoltella che ho preso fra le tante che se ne trovano in fattoria. Mi accorgo che il luogo è brutto e pauroso, specialmente di giorno. Di notte no, si è più sole: gli uomini, tranne Guttierez e Barone che dormono in casa, vanno via tutti in un capannone in cima a un altro colle. Col sereno si ode la musica del fiume, ch'è come una nota bassa di mille violini. Ogni tanto vi piombano dentro, larghi larghi, due o tre rintocchi del campano d'una vacca che scuote la testa nel sonno; e subito altri campani giù, ridesti anche loro, e poi quelli più piccoli delle capre, e fanno un breve concertino che sembra come uno scoppiettio di bolle di rame sopra l'argento. Poi nitrisce un cavallo e tutta l'aria scura si arriccia di piacere. Poi le trombette dei galli, stonate, acute, sgangherate, che si contraffanno l'una con l'altra. Sarebbe bello e ci starei sempre se ci fossi anche tu. 

"Ma tu ci sei se guardo in alto. Se vedessi quante stelle, e quante nuove e diverse da quelle italiane! Ho riconosciute, a una, a una, le nostre duecentosettantadue: e le guardo spesso perchè so che quella è la pagina in cui leggi anche tu. 

"La mamma, per farmi star meglio, ha fatto comprare un vecchio pianoforte a coda a Laredo. Ho pianto quando me l'hanno portato. E' scordatissimo, ma mi risponde abbastanza quando gli chiedo di ricordarmi i giorni di Villa Alba passati con Bruno. Ha una voce coperta di polvere e di ruggine, ma ciò le dà quei senso lamentoso. di dolore che copre tutti i nostri pensieri e le nostre anime. 

"Nostre, sì: di me, di Cesare e della mamma; perchè ormai anche la mamma si è riaccostata a noi. Essa capisce e teme. Mi ha confidato che suo marito l'assedia per aver fatta donazione, se non di tutto, di metà, o di avere una grossa parte in un testamento che la induce a sottoscrivere. Un giorno è venuta a trovarmi per confidarmi piangendo questo ed anche altro: che lei non l'avrebbe seguito qui, se avesse supposto il cambiamento operatosi nei modi di lui verso di lei, dopo tanti anni che le aveva fatto il devoto e l'appassionato. Sì, questo è il brutto: fin da quando il mio povero babbo era ancora vivente, io credo. Lei mi dice che cominciò a dargli ascolto solo dal novecentoundici. 

"Essa è d'accordo con me ora per trovare una via d'uscita per me e per sé. Vedessi come s'è invecchiata coi suoi cinquantaquattro anni. Fino a poco tempo fa ne dimostrava dieci di meno; ora ne dimostra dieci di più. Ecco che cosa abbiamo fatto: mi ha dato l'indirizzo di Titì a Nuova York che lei sola sapeva e non aveva confidato a nessuno dopo la guerra, quando fu dichiarato disertore in Italia. Mi ha fatto scrivere una lettera, di nascosto, per richiamarlo, perché venga a trovarci; ha dato del denaro e ne ha promesso dell'altro a un vecchio fattore di origine siciliana, Turi, perché mi conduca con sé di nascosto in carrozzino fino a Laredo, uno dei giorni che lui va per fare le provviste o per sbrigare qualche affare dei padroni. A Laredo imposterò la lettera per Titì. Ma io, all'insaputa anche della mamma, scrivo pure questa per te e un'altra pel console italiano di New Orleans, perché mi dia il mezzo di tornare subito in Italia, per raggiungere mio marito. 

"Debbo appunto a Turi d'averti ritrovato. Fu lui che dall'ultima sua gita a Laredo riportò, con alcuni giornali americani, La Patria degli italiani, perché tutti davano la notizia della firma del trattato di Versailles. In un numero ho trovato riprodotto un tuo articolo. Ah, Bruno, la mia felicità! Ho baciato il giornale e l'ho fatto baciare a Cesare; l'ho mostrato alla mamma ch'è rimasta di sasso e poi s'è messa a piangere come una creaturina. Adesso da tre notti lo tengo sotto il mio guanciale. 

"Non so se e quando potrò scriverti di nuovo. Ma io mi preparo già a rivederti. Vienimi incontro, Bruno, vieni presto a New Orleans o a New York: ci ritroveremo. O attendimi, se non puoi venire. Alba".

XVIII

Agli amici del giornale che sollecitavano il suo ritorno a Roma, Bruno chiese invece un congedo di tre mesi. Aura scrisse secca secca a Donato che c'erano centoquarantamila lire da prendere e che valevano quindi la pena di un più prolungato soggiorno a Palermo. Erminia, stufa di badare a troppe bestie, affidò a un conoscente molto compito che partiva per la Sicilia, Sahib e Ciccio, per riportarli al padrone. 

Di nuovo Bruno si convinse che fossero questi i suoi migliori compagni. Fecero insieme gran festa, ritrovandosi nella casa nota. Però i due animali annusavano sempre con diffidenza Aura; il gatto se ne stava anzi lontano e la guardava come se la detestasse. Qualche volta Bruno andava, solo, a sedere fra gli alberi, sulle foglie secche, e lì i due muti amici venivano a raggiungerlo e ad accovacciarglisi accanto. Si guardavano negli occhi, e in silenzio, parlavano dell'assente. Bastava che Bruno sussurrasse piano "Alba" perchè Sahib prorompesse in latrati furibondi e Ciccio drizzasse le orecchie e fissasse le grandi pupille. Così complottavano insieme di rivederla. 

Un giorno il notaio Cortese e l'avvocato Geraci convocarono Bruno per comunicargli che finalmente si era venuti a capo di una matassa un po' arruffata della eredità della zia: la gabella di una terra in provincia di Trapani, dalla quale non si ricavava più nulla da un anno e che intanto rendeva per quattro. Il gabelloto consentiva, prima che si ricorresse alle brutte, a pagare anche gli interessi sull'arretrato e a rinnovare il contratto triplicando l'importo della gabella purché, nel caso di vendita di cui s'era buccinato, egli potesse essere favorito a parità d'offerta. 

— Senta, sor Bruno: vada lei sul posto e decida. Se vuol venderla, il momento è buono. Se preferisce tenerla, si sbarazzi per lo meno di quel gabelloto e cerchiamone un altro, o diamola, se crederà meglio, a un buon mezzadro. 

L'idea di quella gita gli sorrise. In questura gli avevano promesso il passaporto entro altri due o tre giorni. Avvertì Aura della sua breve assenza. Partire? per andar dove? — Ad Alcamo. — Davvero? — Davvero. Telegrafò il suo prossimo arrivo al curatolo, il fattore del podere, un tale Leonardo Ferro, inteso zu' Nardo, apprezzato negli alti ranghi della maffia, già uomo di fiducia della zia Anna; e partì. Il podere di Fontanagrande era situato a mezza strada fra Alcamo e Calatafimi, in vista del tempio di Segesta: venti ettari circa, metà in collina e metà in pianura, a olivi, mandorli e noci, con ventimila viti americane di quattro anni, bene attecchite; più giardino, fattoria, palmento e stalle. Prima d'incontrarsi col gabelloto, Bruno volle visitare la terra, che ricordava vagamente per esservi stato una volta nella sua infanzia, di ritorno da una visita allo zio Giovanni, con la mamma e la zia Anna. Dopo, non si era mai mostrato tenero della campagna e la zia non gliene aveva più fatto parola. Leonardo Ferro, che passava quasi tutto l'anno a Fontanagrande, era venuto alla stazione, serio e atticciato nell'abito da festa. Era un uomo sui cinquantacinque anni, con baffi e fedine, alla moda dei più evoluti giovani del novanta. Poi si fece trovare ad aspettarlo a Fontanagrande. 

Quando Bruno vi giunse, egli lavorava nell'orto dietro il caseggiato. Zappava leggero leggero in un riquadro di terreno presso i broccoli e i cavoli, per seminarvi le lattughe. Laggiù a valle, lungo i filari delle viti, si vedevano andare piano piano camicie bianche d'uomini e corpetti rossi di donne. Curvi, frugavano fra i pampini. Una voce femminile cantava; qualche uomo commentava e gli altri ridevano. Dal palmento giungevano piccoli tonfi cadenzati e voci parlottanti. Nell'aria si spandeva l'afrore della vendemmia e il presentimento di quel vino che è il più inebriante e il più profumato del mondo.

Bruno non era conosciuto da quei contadini e aveva già manifestato a Leonardo Ferro il suo desiderio di restare incognito. 

— Come sarà l'annata, zu' Nardo? — gli chiese, tanto per attaccar discorso, ma distratto, e guardando attorno i campi, i colli, il profilo aureo del lontano tempio di Segesta. Il contadino interruppe il suo lavoro. 

— Buona. Ora che ci sono braccia per lavorarla, se ne ricaverà di più. Ma costano care, queste braccia, adesso, e il valore di tutto si fa alto. 

— Effetti della guerra. E forse ne vedremo di più brutte. 

— Niente, cavaliere, niente. Lasci fare. Ogni tanto ai cavalli riottosi e a certe persone sanguigne, bisogna cavare un po' di sangue per farli star meglio: si manda via il sangue pazzo. Quello che c'è stato e che ci sarà ancora è il salasso dei popoli. O staranno meglio o se ne andranno per sempre. In un caso o nell'altro, il mondo s'aggiusterà. 

Bruno sorrise e s'interessò alla conversazione. 

— Ma i popoli sono composti di uomini, zu' Nardo. Che faranno gli uomini a furia di salassi? 

— Io non sono scienziato — rispose il contadino con un sorriso, ma pieno di dignità — né so di lettera come vossignoria. Ma mi permetto farle osservare che le persone istruite non vanno d'accordo con noi quando parlano di uomini... Gli uomini non possono perire; le popolazioni sì. 

Bruno considerò il suo interlocutore con attenzione: le sue parole gliene ricordarono altre — quelle di Ibrahim-ben-Kassar che con queste avevano una strana analogia. 

— Signore — proseguiva Leonardo Ferro — non si chiamano, almeno per noi gente di paese, uomini tutti quelli che portano i calzoni. Gli attributi mascolini non bastano. Uomo noi diciamo a chi sa stare al mondo ed è maturo per guardare gli altri e per mettere e condurre se stesso in mezzo agli altri. 

— E quelli che conducono gli altri, allora, che cosa sono, secondo voi, Nardo? Saranno divinità, no? — volle dirgli Bruno per provare a coglierlo in fallo. 

— Chi lo dice? — ribatté calmo il contadino. — Possono essere uomini, possono essere grossi pupi dall'aspetto d'uomini. No, signore: Garibaldi era uomo, che conduceva davvero e io me lo ricordo che ero giovanotto quando venne l'ultima volta a Palermo nell'ottantadue. Ma re Francesco e i suoi ministri, che volevano condurre, come mi raccontava mio padre buon'anima, erano persone coi calzoni. 

— Allora bisogna, secondo voi, essere tutti Garibaldi. 

— Sissignori; ma ognuno facendo quel che può. Bisogna essere Garibaldi di dentro. Garibaldi, Ruggero Settimo, il generale Corrao, il paladino Orlando... Vossignoria conosce questi nomi meglio di me. Ognuno era uomo, nel suo ramo. C'è chi vince cento battaglie, chi una sola; c'è chi non ne vince nessuna, ma partì per vincerla. C'è chi non farà battaglie, ma ha cuore di farne e di vincerle ed è rispettato, perché si capisce che è uno di quelli. Vossignoria, io lo conosco bene, so quello che ha fatto, mi sono sempre informato dalla zia buon'anima, fin da quando era ragazzino: e posso dirle che vossignoria sa essere uomo. 

— Grazie del complimento... — rispose malamente Bruno, impacciato. — Ma le vostre definizioni non mi convincono. 

— Io sono un ignorante e non posso parlare con lei. Parlo alla siciliana. Vossignoria mi capisca. Voglio dire che non c'è bisogno d'essere celebre per essere un uomo: anche un contadino di cui s'ignorerà sempre il nome a Palermo, un artigiano povero e senza lettera, può essere un uomo. Basta che egli sappia stare al mondo e non abbia paura né di morire né di vivere, quando la vita è cattiva, e non si chini mai sotto la piena come il giunco e non tragga profitto dalla miseria e dalla debolezza dei poverelli. 

— Perché tutti gli uomini possano fare così — ribatté ancora Bruno — ci sono le leggi. 

— Qui lo volevo, vossignoria. Ecco, questa è la prova fra uomini e non uomini. Con le leggi si va avanti, lei dice, tutti a un modo. Immagini un momento che tutte le leggi, quelle del padre parroco, quelle del tenente dei carabinieri, quelle del sindaco, rimangano sospese, che non ci sia più mezzo e maniera di farle osservare. Gli uomini continueranno a vivere egualmente rispettando e facendosi rispettare: i falsi uomini diventeranno subito lupi di rapina. Molti, in verità, sono tali anche con tutte le leggi in piedi... 

— Voi non credete in nulla, Leonardo? Non siete religioso? 

— Credo, vossignoria. Credo che se pianto il frumento, ne viene fuori la spiga e che dalla vite ogni anno sgrana il grappolo. Nella terra c'è Dio, nella vite c'è Dio. C'è la Madonna per gli ulivi, c'è Sant'Isidoro per le messi, c'è San Martino per la vendemmia e San Francesco di Paola per la pioggia. Dio, la Madonna, i santi badano a queste cose, alle cose della terra, delle acque e del cielo. Ma per altro no. Per le cose delle persone non c'è divinità! sono troppo storte per poter asserire che Dio e i santi ci s'immischino. Le persone fanno le leggi e poi le cambiano; fanno le macchine che poi si sfasciano. Le persone fanno le case, le torri: belle, ma finiscono col cascare. Le persone fanno anche le guerre. E vossignoria ne sa discorrere... 

La definizione virgiliana: vir era l'eroe, Enea. La concezione pagana del mondo: una divinità per ogni elemento, il caso cieco per gli eventi umani. Il tempio di Segesta, lassù, aveva agli occhi di Bruno l'aspetto non di una reliquia, ma di un emblema immortale, nella terra che era stata patria di deità della zolla, dell'acque, del fuoco. L'inconsapevole contadino di Alcamo continuava una tradizione secolare, pur con parole e con nomi diversi. Bruno restò all'ombra del caseggiato ad ascoltarlo ancora e a fantasticare. Poi gli nomini e le donne sospesero il lavoro, vennero verso di loro, salutarono chiedendo la benedizione a zu' Nardo, coi segni del massimo rispetto per lui come per l'ospite. Mangiarono insalata di pomidori e cipolle e pane bigio: e Bruno godette a mangiare con loro. Per lui furono colte anche quattro pere e gli fu approntato un grappolo d'uva scelta. 

— Credete che si troverebbero una dozzina fra uomini e donne disposti a partire per l'estero, un luogo ancora incolto, da farne un bel podere come questo? 

— E perché no? 

- E voi ci andreste? 

- Secondo con chi, vossignoria lo capisce. 

Quando, al tramonto, Bruno tornò ad Alcamo per incontrarsi col gabelloto, sentiva dentro di sé una irrequietezza come nei momenti più decisivi del suo passato. Aspirava l'aria a grandi boccate e si guardava attorno, parendogli di scoprire un mondo. Il cielo era immenso, il paesaggio immoto e sazio di luce; e tutto dava il senso della bellezza e dell'eternità della vita. 

*** 

A Palermo il giorno dopo trovò Aura nervosissima. 

— Non volevi che si ritornasse a Roma? Partiamo — gli disse subito dopo il saluto. Egli la guardò sorpreso e le vide la solita faccia di quando gli nascondeva qualche cosa. 

— Sì, partiamo. Partiremo domani: avvertirò Donato — le rispose fissandola. 

— Donato, sta bene! — rispose essa, febbrile — ma si potrebbe partire stasera. 

— Stasera è impossibile: debbo definire un affare col notaio e con l'avvocato. 

Aura non disse più nulla, ma non celò il suo malcontento. Però non si partì neppure il giorno dopo, per via di Dorotea. 

Un solo pesce rosso sopravviveva nella vasca verde e torbida del giardino: ed era la delizia di Tea che passava ore a spiarlo, per vederlo, tratto tratto, affacciarsi dal limo. 

Il giorno prima vi si era attardata sotto una pioggerella minuta, mentre la mamma non badava a lei; e la mattina del giorno stabilito per la partenza fu assalita dalla febbre. Aura allora ebbe paura e rimorso. Infieriva in quei giorni di nuovo il male predace dai tanti nomi: spagnola, influenza, grippe. 

— Un medico! Il miglior medico per la mia bambina! — invocò piangendo. 

Bruno corse subito pel medico. Conosceva, fin da quando Alba era piccina, il dottor Giovanni di Martino, pediatra illustre, che in molte occasioni gli aveva dimostrato simpatia e stima. Era uno di quegli spiriti eletti che sentono quasi sempre in modo diverso dai più e che fanno della vita una disciplina casta e austera. Lo trovò, dopo quattro anni che non si vedevano, invecchiato, anzitempo, e con una piaga al viso, appena coperta da un cerotto, che gli divorava il naso e mezza gota. 

— Che cos'ha, professore? non poté frenarsi dal chiedergli. 

— Nulla; un epitelioma, dicono i miei colleghi... Forse di natura specifica, aggiungo io. 

— Medice, cura te ipsum. 

— E' vero. Ma non ho tempo. Dovrei andare in Germania, anche, ove alcuni amici clinici m'invitano a tentare una cura che sembrerebbe molto seria. Ma con l'epidemia di grippe che si fa sempre più preoccupante, non mi è possibile abbandonare i miei ammalati. Ho trovato un siero, che ha già guarito molti bambini. 

Bruno lo ascoltava così stupito da dimenticare perfino il motivo della sua visita. Ma Di Martino lo sollecitò a dirglielo e, saputolo, si dichiarò pronto ad andare con lui, nella sua automobile che aspettava alla porta. 

Osservò la malatina, che stava a letto accesa e smaniante, diagnosticò l'influenza e prescrisse il siero. Fu difficile trovarlo, perché in alcune farmacie non si conosceva, in altre era esaurito. Ma finalmente, la sera, l'iniezione poté essere fatta. 

La servetta era scappata via, impaurita, al primo annunzio del male che si sapeva contagiosissimo. In casa, per qualche servizio, Bruno non poteva più contare che su Salvatore, vecchio e zoppicante, rimasto vedovo, senza figli, portati via dalla guerra, e senza altri cespiti the la magra pensioncina statale: "Mangio sui miei morti", diceva piagnucolando. Ma anche costui, benché si sforzasse a non darlo a vedere, guardava di malocchio Aura, intrusa nella casa dei suoi antichi padroni. 

E Bruno sentì di nuovo una grande pietà per la creatura sacrificata a lui, non amata da nessuno in quel momento, neppure dalla sua bimba, irrequieta e ostile nell'egoismo del suo male. 

*** 

— Ah, Bruno! Bruno! La mia piccina morirà e io sarò punita su di lei di quello clic ho fatto! 

Bruno. dovette rincuorarla, convincerla ad avere fiducia. Di Martino pure cercava rassicurarla, ma essa non si lasciava persuadere, ripetendo sempre che sarebbe rimasta sola nella sua sciagura. Bisognò che Bruno le dicesse per farla trasalire e ammutolire: 

— E di suo padre non ti ricordi? Che direbbe anche lui? 

Andò, così muta, a distendersi sull'ottomana nella sala da pranzo, accanto all'uscio aperto della camera ove Tea era immersa nel sonno pesante della febbre. Bruno le stava vicino. 

Cominciava a far buio. Era il venticinque settembre millenovecentoventi. Bruno ripeteva mentalmente questa data. Ancora, quattro anni e due mesi prima, s'era trovato lì, in quella stessa stanza, con Alba. Ora tutto ritornava ad allontanarsi. Bruno, che aveva creduto sei settimane prima, faccia a faccia con Myriam e con tutta la sua vita sensuale, edonistica, vincersi e superarsi, aveva ora nuovi dubbi su se stesso: che cosa avrebbe fatto di questa donna e dell'uomo che piangeva ed aspettava a Roma? La pietà! la pietà! non era una debolezza? In tasca aveva già il passaporto, sì; e avrebbe potuto partire la stessa sera se avesse osato. 

Nella stanza era scuro. Sahib dormiva, acciambellato su un tappeto. Gli stava addosso il gatto, gli occhi socchiusi, russando lievemente e affondandogli ora l'una ora l'altra delle zampette anteriori nel pelo fulvo. Dalla finestra aperta, oltre la rete nera degli alberi stampati nell'ultima luce, grandeggiava il cielo puro d'autunno, d'un viola cupissimo appena sfumato di rosso. Sul contorno dei monti traluceva una grossa gocciola d'oro, una delle duecentosettantadue stelle, forse, custodi del giardino. Dal viale giungeva ogni tanto lo scampanio lontanante di un tram elettrico, accompagnato dal rombo delle ruote veloci. Ora quella strada non era più solitaria e il villino non era più l'ultimo della città al confine con la campagna: numerosi altri ne erano sorti attorno e più innanzi; le case e gli uomini colmavano l'antica solitudine. Quei tram passavano a intervalli quasi eguali; il rombo e lo scampanio arrivavano dapprima fievoli, ingrossavano, invadevano quasi la stanza, diminuivano, s'allontanavano, si spegnevano, come una doppia scala a vertice, opposta e simmetrica, di suoni. 

Uno di quei rombi e di quegli scampanii rimase tronco a metà. Un silenzio. Poi i tre tocchi impazienti di campana che sollecitano il segnale per riprendere la corsa. Poi il campanello che dà il via; ma chiaro, lì, alla finestra, come per destare Sahib e Ciccio... 

Infatti Ciccio e Sahib si sono improvvisamente destati, in furia, spinti in piedi, miagolando e abbaiando, avventati alla finestra, con un impeto che scuote e assorda la stanza. Abbaiamento e miagolio che sanno di frenesia. Un passo affrettato e leggero s'appressa per la strada, un ticchettio di piccoli tacchi che pare trascorrano anche sul cuore di Bruno. E una voce sale dalla terra, empie l'aria, sgorga come un'altra stella dal cielo: 

— Bruno! 

Ha riempito tutto il mondo, quella voce. 

— Alba! — urla Bruno e si precipita, folle, preceduto dalle due bestie, valanga d'urli, di gemiti, di felicità, per le scale, attraverso il giardino, al cancello. — Alba! 

— Bruno! 

Quando Alba e il suo piccolo Cesare stavano per varcare il cancello che Bruno aveva aperto, scorsero anche di fronte a loro l'ombra ostile e muta, fosca nel buio della sera, di una donna. Alba la guardò un istante senza riconoscerla. Ma si tirò indietro, stringendosi il figlio alle ginocchia: 

— Bruno, — disse con una voce ben diversa da quella di Alba piccina — se in casa tua c'è chi non lascia più posto per me, dimmelo. Non vengo per far male né a te, né ad altri. Tornerò indietro con mio figlio. 

— Alba, questa è la tua casa! — gridò Bruno. Poi, reciso e aggressivo, rivolto all'ombra ostile e muta: 

— Aura, è mia moglie. 

Ed ebbe appena il tempo di accogliere fra lo braccia Alba che crollava, svenuta. 

*** 

Mentre la portava su per le scale, col piccino piangente attaccato alla falda della sua giacca, Bruno sentiva le dolci carni ardentissime: Alba aveva la febbre. 

— Presto! — ordinò — Prepariamole le lenzuola fresche nel mio letto. 

Aura, muta, col viso pallido coperto di chiazze scarlatte, come se una mano spietata l'avesse allora schiaffeggiata, lo aiutò macchinalmente a preparare il letto, a spogliare e poi adagiare Alba che a poco a poco riprendeva i sensi. Ma, un momento, lo trasse per un braccio presso la finestra e gli domandò: 

— E di me? cosa intendi fare di me? 

Aveva un'altra volta la faccia dura e la voce sibilante di Flavia. Bruno non le rispose; corse a prendere i sali. 

— Non sarà niente, — balbettò Alba, felice, leggendogli la preoccupazione in viso - la stanchezza soltanto... Sentirai, adesso, ti racconterò tante cose. Sono tua come allora, sai? unicamente tua. 

Bruno si stringeva al petto il ninni, che aveva una gran voglia di dormire. 

— Cesare! Cesare! Cesare! 

Aura era andata ad accucciarsi accanto alla sua bimba, con la testa sullo stesso guanciale, fiato a fiato, perduta. 

— Signore! Signore! — mormorava, serrando i denti per non singhiozzare — fate morire quella maledetta donna! 

Era lunga e romanzesca la seconda parte, l'ignorata, della storia di Alba. Dal letto, ella la veniva raccontando al suo Bruno, animata dalla febbre e dalla gioia di riaverlo lì, di fronte, come quattro anni prima. Gli enumerò tutte le lettere che gli aveva scritto. Si spiegarono come e perché non le avesse ricevute — tranne per l'ultima di cui egli non volle dire il come e il perché — e apparve evidente anche perché egli non le avesse potuto rispondere. Poi Alba raccontò tutto quello che nelle lettere già gli aveva scritto. 

Gli raccontò come, dopo quella sua ultima raccomandata da Laredo, fosse finalmente arrivato alla fazenda suo fratello Titì allarmatissimo, accompagnato da un funzionario del consolato italiano e da un agente di polizia. Titì, un po' con le buone, un po' con le cattive ottenne di riprendere con sé, a dispetto di Guttierez, la mamma e la sorella, pur sacrificando una parte dei capitali impiegati nell'impresa dell'argento. 

A New York, Alba riebbe un po' di pace. Da lì mandò un'altra raccomandata; non ebbe risposta neppure a quella. Temé che Bruno non volesse più saperne di lei, che amasse un'altra, che forse fosse già ammogliato sul serio. E allora la decisione di partire, di ritrovarlo, di ripresentarsi a lui col figlio, anche a costo d'esserne scacciata, s'impadronì di lei. Ottenne, dal fratello e dal console d'Italia, gli aiuti necessari a imbarcarsi e rimpatriare, con l'intento di presentarsi a Roma, alla redazione del giornale ove sapeva che Bruno lavorava. Ma lì le dissero che egli era da più di un mese a Palermo. E dopo un telegramma che evidentemente all'arrivo qualcuno aveva intercettato, rieccola in viaggio, dando fondo ai suoi ultimi mezzi, in un treno che non arrivava mai... 

Ma è giunta, finalmente, e non importa niente altro! Non importa nemmeno che il dottore Di Martino, venuto la mattina dopo per visitare Dorotea, trovi anche in lei febbre altissima e congestione polmonare.

 
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