Contributo dei siciliani al rinnovamento
artistico dell'800 e del '900
Forse il primo rinnovatore fu Vincenzo Bellini, quando - dal 1827, col Pirata
- cominciò a versare sui cuori degli uomini mari di melodia. Musica impensata,
che non somigliava ai giochi, sia pure mirabili, di note dei suoi predecessori,
alle costruzioni, sia pure gigantesche, di alcuni suoi grandi contemporanei.
Egli trovò, naturalmente, il mezzo di diffondere tra gli uomini il linguaggio
dei cieli.
Ma, notiamolo bene, gli fu necessario uscire.
La letteratura in Sicilia, allora, quasi non esisteva tranne come musa
vernacola, in cui seppe - però - essere somma. Giovanni Meli fu indubbiamente
il rinnovatore e l'innovatore nella poesia dialettale e solo dopo di lui e in
parte ispirandosi a lui sorsero in altre regioni d'Italia poeti popolari,
parlanti il linguaggio del paese. Ma già da tempo la letteratura siciliana
vantava monumenti insigni tra cui quell'immortale poemetto della Barunissa di
Carini, opera da taluni messa non a torto accanto alle principali della
poesia italiana.
La pittura siciliana, secondo le storie dell' arte, non è esistita neppure
nell'ottocento. Gli è perché essa non poté, come le melodie di Bellini,
uscire, dilagare nell'aria. La pittura e la scultura la quale aveva avuto invano
due innovatori geniali nel Marabitti e in Giacomo Serpotta che appena oggi dopo
due secoli comincia a essere un "sentito dire", - la pittura e la
scultura erano allora più che oggi un po' le ostriche delle arti, che
rimanevano ove nascevano, sulle pareti di conventi, sugli altari di chiese,
nelle anticamere di signori. E rimanere in Sicilia - quando vi si doveva
arrivare dal più grande centro meridionale di terraferma, in quattro o cinque
giorni di vela - era un torto: le pareti, gli altari, le anticamere dei signori,
vedevano passare ben di rado dinanzi a sé stranieri e conoscitori del
continente che ne diffondessero la fama, come accadeva per le gallerie, i templi
e i palazzi di Roma, di Firenze, di Milano e di Venezia. Qui qualsiasi opera
poteva attingere la sublimità del capolavoro anche in ciò che rende più
sublimi le opere belle:1' inutilità.
La letteratura, ò detto. Certo, essa fu quasi nulla per lungo volgere
d'anni, specialmente nel campo dell'arte, nel romanzo, nella novella, nel
teatro, nella poesia. Gli scrittori siciliani seppero essere eminenti soltanto
nella storiografia e come tali apportarono un contributo potente alla produzione
storica italiana. Ce ne fu anzi almeno uno geniale: Michele Amari, che nella Storia
del vespro e nella Storia del mussulmani In Sicilia ebbe il gusto e
il pugno michelangioleschi.
Ma che cosa era, del resto, in quello stesso tempo tutta la letteratura amena
italiana? Ammutoliti Leopardi, Foscolo, Manzoni, che cosa fecero i loro
immediati successori ? Tutta Italia si assopì nella luce manzoniana, cullata
dai ritornelli pratiani e dolcificata dal lattime aleardiano. Ebbe forse più
buonsenso e buongusto la Sicilia a tacere, finché non mise fuori il primo grido
di protesta con la Palingesi del suo moderno Lucrezio. Comunque si voglia oggi
giudicare Mario Rapisardi, che la moda carducciana e il vezzo dannunziano fecero
troppo trascurare fino a ieri, è innegabile che egli disse una parola nuova e
audace nella poesia italiana, che portò un soffio poderoso a cui si sconvolsero
i castelletti di carta della lirica chitarristica dilagante fra il 1850 e il
1875. Cos'erano romanzo, novella, teatro? Miele, miele abbondantemente
annacquato, con un po' - qua e là - di veleno da topi, messo per burla. La più
rancida romanzistica francese trovava nella penisola imitatori che mandavano in
sollucchero i lettori. Rocco de Zerbi pareva uno scrittore endiablé —
e Malombra di Fogazzaro sonava un po' scandalo. Leopoldo Marenco era
additato come il grande poeta del teatro italiano, con que' suoi amabili
pasticcetti ripieni di bianco-mangiare. Quand'ecco, dal picco dell'Etna,
staccarsi un macigno e rotolare, rotolare giù ingrossando, diventando valanga,
da prima con un rumore sordo, che a poco a poco si accompagnò di echi, poi di
tuoni: e questa valanga, che si chiamò I Malavoglia, Mastro don
Gesualdo, Vita dei campi, questa valanga arrivò al piano per fare
sentire finalmente ovunque il nome d' un uomo, illustre solo nella vecchiaia,
celebre dopo la sua morte, come uno dei più grandi artisti dell'età moderna :
Giovanni Verga.
Solo oggi, mentre da un lato si tenta galvanizzare il cadavere di carta del
fenomeno attualistico nato morto, dall'altro lato aumentano le schiere di coloro
che riconoscono in Giovanni Verga il grande artista rinnovatore della
letteratura narrativa italiana. L' arte del Verga è antiletteraria e quindi
rivoluzionaria in un paese che da secoli aveva tradizioni rigidamente
letterarie; dove per lo stesso Manzoni, rinnovatore in un'epoca di legittimismo,
la risciacquatura dei panni in Arno era stata preoccupazione precipuamente
letteraria, e l'artista solo inconsapevolmente aveva presa la mano al letterato,
tanto da fargli azzardare la frase un po' ingenua, un po' imprudente: " I
critici trovano nel mio romanzo tante belle cose che io non sapevo d'averci
messo".
Giovanni Verga sapeva invece, scrivendo I Malavoglia e Mastro don
Gesualdo, che le belle cose vi affluivano dal grande libro sul quale egli
aveva rifatto la sua anima e le sue conoscenze: quello della natura, quello
della realtà umana e popolaresca, che gli suggerì anche le forme e il
linguaggio eterni e universali grazie a cui l'arte rimane sempre viva attraverso
il tempo e lo spazio. Ed ecco, nello stesso tempo, e da questo medesimo equoreo
lembo di terra italica, drizzarsi - suo emulo - un altro scrittore, un altro
campione dell' antiletteratura: Luigi Capuana. Oh, non lo ànno ancora
completamente scoperto, ma verrà pure la sua volta. Guardiamolo, questo
artista, non al lume algebrico della critica gonfia di presupposti, né sotto
l'analisi biochimica della scienza letteraria, ma rispetto alla sua epoca e alla
nostra, all'interesse che suscitò ed è sempre capace di suscitare la sua arte
netta, limpida, cristallina. Meno profondo di Giovanni Verga, ma più ricco di
motivi e più vario di toni, egli realizza più compiutamente di tanti altri che
si sono affannati sui libri per riuscirci, la serena arte greca. Oggi che il
Mediterraneo è diventato di gran moda in tutti i campi, ecco veramente in Luigi
Capuana il primo scrittore che abbia diritto nella letteratura italiana di
chiamarsi mediterraneo.
Novelliere potente quasi quanto Guy de Maupassant, egli supera tutti quando
crea nell' Italia moderna la fiaba, gl'immortali capolavori di C'era una
volta...
Ma eccone un terzo, di antiletterari: Federico de Roberto, magistrale
levigatore di monoliti di pario, eleganti e poderosi. Verga, Capuana e De
Roberto occupano tutti i campi nella letteratura del secondo ottocento. Ma, a
parte Fogazzaro, D'Annunzio e la Serao, che tentano pure con vigore loro vie,
chi in quello stesso periodo balza fuori dalla mediocrità, anche aurea, chi
raggiunge le prime linee? Chi? Un altro siciliano, prosatore anche lui, del
quale il Marzocco accoglie di tanto in tanto novelle che interessano dapprima,
che poi stupiscono, che finalmente appaiono prodigiose: Luigi Pirandello.
E qui non c'è da dimostrare nulla: il successore di Giovanni Verga non à
dovuto aspettare, come il Maestro, un postumo meriggio per la sua gloria : essa
gli è arrivata piena, completa da tutti i lati dell'orizzonte, dal più
lontano, anzi, prima che dal più vicino.
E' la teoria dell' uscire, a cui ò accennato poco fa, e che pei siciliani -
in fondo - è la chiave di volta della riuscita. Un proverbio - siciliano - lo
afferma, del resto : "Chi esce, riesce".
Ma ecco che finora io non ò avuto I' aria di dirvi alcun che di nuovo, di
dimostrarvi nulla di peregrino, di ripetervi, anzi cose che già non sapeste.
Però, permettetemi, per incidenza, di ribadire che se pure tutto ciò che
abbiamo constatato è chiaro e riconosciuto, ufficialmente non à avuto nessuna
grande sanzione. Noi abbiamo sentito dire che Rapisardi, Verga, Capuana e De
Roberto furono quadriade formidabile, che Tommaso Cannizzaro ti tino scrittore
geniale sebbene farraginoso, che Giuseppe Aurelio Costanzo cantò meglio di
parecchi suoi emuli e prima dello Stecchetti la poesia della soffitta e della
giovinezza goliardica, che Giuseppe Pitrè fu maestro europeo della letteratura,
dell'arte e dell'indagine vernacola, che Giovanni Alfredo Cesareo è stato uno
dei più acuti restauratori della critica estetica, che fra i più giovani
italiani di fama mondiale, su forse cinque almeno due si chiamano Giuseppe
Antonio Borgese e Rosso di San Secondo ; che se veramente esiste una cosiddetta
arte novecento, appunto il San Secondo ne disse la prima parola. Ma tutte queste
verità vanno in giro come troppo spicciole e vanno in giro, fra i siciliani
stessi ai quali questo mio capitolo vuole essere dedicato, come jus
murmurandi.
Prego i miei amici critici e scrittori non siciliani di non prendere quel che
io dico come gretto e provinciale regionalismo: protesto, anzi, che noi
siciliani abbiamo il difetto opposto, siamo, cioè, malati della preoccupazione
di potere apparire provinciali e affettiamo un certo disdegno per tutto quanto
sa di nostro. Per questo L'aria del continente di Nino Martoglio è una delle
critiche più esatte e più profonde dell'anima siciliana, presa all'
ingrosso.
Avrò l'aria di avere meno portato vasi a Samo e nottole ad Atene quando,
dopo avere constatato il contributo al rinnovamento artistico dei siciliani che
uscirono, riconoscibile e in gran parte riconosciuto, passerò a parlare anche
dei siciliani rimasti in Sicilia. Uno scrittore dei più illustri, Lucio
d'Ambra, occupandosi anni or sono alla Radio di Roma e sulla Nacion di Buenos
Ayres del libro di un siciliano, ebbe questa frase "il tal dei tali è
noto in Italia pure standosene nella sua Sicilia; il che vuoi dire valere almeno
due volte di più di quel che pare". Strana affermazione, che non sai
se più ti lusinghi o ti umili; ma che vale quello che vale e bisogna accettarla
alla lettera. Rileggiamo insieme, in un libro di appunti che io conservo nella
mia memoria e che taluni forse man mano al mio dire rammemoreranno, una pagina,
alcune pagine di vecchia cronaca. Ma la cronaca, con l'andare del tempo, diventa
documento storico. Chissà se non sia già giunta l'ora di cominciare a
chiamarla storia?
L'ottocento è trascorso, ne conosciamo già le figure maggiori. Siamo
all'alba del novecento. Guardando a quegli anni, molti compilatori di antologie
e di storie letterarie, oggi, considerano con molta attenzione e serietà tutto
il vasto movimento che potremmo con una sola parola chiamare rinnovatore,
compiutosi e culminato finalmente nelle due scuole futurista e novecentista.
Tutte le tendenze nuove, rinnovatrici, evoluzionistiche, oggi in auge,
attribuite ad alcuni sacerdoti novissimi, che ànno acquistato pieno e
incontrastato diritto di cittadinanza, avanguardismo, intimismo,
crepuscolarismo, indipendentismo, sono monopolio principale di scrittori dell'Italia
media e settentrionale. C'è oggi chi rivela grandi deità straniere, perfino, e
su quelle si atteggia e ai loro canoni estetici dichiara uniformarsi. C'è chi
trova che Valery è il messia della poesia contemporanea, Proust della prosa
narrativa, Joyce della ricerca interiore ; c'è chi asserisce perfino di avere
scoperto - proprio ieri - Mallarmè e Rimbaud....
Ma - ahimè ! a parte Gabriele D'Annunzio che non disse mai a nessuno di
avere fatto per primo un abbondante tuffo nell'arte di questi poeti francesi,
chi veramente poi li ritrovò e tentò introdurli nella letteratura italiana col
loro passaporto originario esente da falsificazioni, fu - proprio all'alba del
novecento - un giovanotto messinese che non aveva ancora venti anni. I primi
saggi di simbolismo e di ermetismo nella poesia italiana, ispirati agli
anacoreti dell'immagine e del tropo, sono dovuti a questo giovanotto di Sicilia,
che ancora studente collaborava a una rivista intitolata Ars Nova. Ars Nova era
un po' stentata nella veste tipografica; ma tutta la materia che essa toccava
intendeva trasformare in oro, e sdegnava dir giovane e diceva giovene, e
riteneva mercantile il nome di Messina e la richiamava Zancle ; ma soltanto il
nome del suo direttore non aveva saputo spogliare del suo originario odore di
bassa cucina e l'aveva lasciato nudo e quasi crudo quale era Giuseppe Arrosto!
Povero Giuseppe Arrosto, magro e segaligno e ingenuo, ma pieno di fede, di
sacro fuoco, d'idealità, innamorato dei suoi redattori, specialmente del giovene
zancleo che rielaborava i simbolisti francesi, e di Angelo Toscano, il
parnassiano goliarda, come noi lo chiamavamo e di Virgilio Saccà, il fiorentino
del Bosforo d'Italia, morti - questi due ultimi - con lui tra le macerie della
nobile città, all'alba fatale del 28 dicembre 1908!
O' dimenticato dirvi che quel giovane simbolista, precorritore di tre lustri
dei simbolisti recentissimi, si chiamava Enrico Cardile, oggi dal simbolismo
passato all'ermetismo e alla magia bianca con interpretazioni dello stregone
Lullo e con esegesi del mistero poetico a base di trigonometria e calcolo
infinitesimale. Egli non ebbe compagni o a immediati continuatori che il
trapanese Tito Marrone e il geniale italo-egiziano Agostino Sinadinò. Non so
perché da alcuni anni l'Egitto s'incontri così frequentemente sposato con
l'Italia nella nascita e formazione di poeti d'eccezione...
Tito Marrone, che nel 1906 raggiunse la rinomanza per la sua traduzione dell'Orestiade
in collaborazione con Antonio Cippico, rappresentata con grandissimo successo e
gran numero di repliche all'Argentina di Roma dalla compagnia stabile di
Ferruccio Garavaglia, aveva pubblicato, appena nel 1901, un volumetto
lievissimo, di sole dieci poesie, fuori commercio, dal titolo "Le Gemme
e gli Spettri".
Un poeta oggi abbastanza noto, se pure poco letto, viene fatto passare come
un caposcuola di ermetismo, di purismo al cento per cento. Dico poco letto,
soltanto perché egli scrive poco. Le sue poesie più lunghe non superano gli
otto versi; talune sono fatte anzi di otto sillabe, oltre il titolo. Io
riconosco la buona fede e l'ingegno di questo poeta; ma - parlando come se Mallarmè
e Rimbaud non esistessero ed egli fosse convinto di non essere il loro doppione
- le poesie di Tito Marrone, pubblicate in Italia tredici o sedici anni prima
delle sue, stanno là ad attestare che egli anche in Italia era stato già
preceduto nella poesia spinta all'assoluto, fatta di essenze triple e quadruple.
In quegli stessi anni, a Palermo, sorgeva un altro gruppo di giovani, palermitani
alcuni, trapanesi altri, che si schieravano attorno a un piccolo giornale
assiduo e animoso "La Bohème" e passarono poi a un altro "L'era
nuova" e finalmente a un terzo, che uno di essi - appena ventenne -
s'assunse di dirigere: "La Fronda". Eravamo negli anni dal 1901 al
1905. Quei giovani si chiamavano: Vincenzo Gerace, Giuseppe Piazza, Tito
Marrone, Giuseppe Carnesi, Giuseppe Maggiore, Francesco Biondolillo, G. A.
Borgese, Giuseppe Minutilla Lauria e un altro, il giovanissimo direttore appunto
della Fronda che amò accendere la sua oscurità col luminoso pseudonimo di
"Elio Apocalista".
La Fronda visse soltanto diciassette settimane: ma combatté diciassette
battaglie. Le battaglie d'allora, quando non erano entrati nell'uso i gas
asfissianti, le tanks, i lanciafiamme e i lancia-bombe, che oggi son diventati
comuni anche nella letteratura, oggi sarebbero considerate semplici scaramucce,
dopo la conquista da molti operata in questi ultimi anni delle trincee del senso
comune e della grammatica. Ma allora si trattava di scalzare i formidabili
baluardi della tradizione, della retorica, dello scolasticismo e del
dannunzianesimo imperante.
Fu di Vincenzo Gerace, calabrese, il vanto di scrollare le colonne
dannunziane con un formidabile articolo, lucido e vitreo, in cui sviscerava il
fenomeno letterario di colui ch'egli chiamò per primo il "nuovo aretino",
pur facendone buoni gl'innegabili pregi esteriori. Fu di Giuseppe Carnesi
l'onore d'instaurare la difesa del naturalismo sorgendo a parlare di Verga,
Capuana e De Roberto attaccati in quei giorni da un quotidiano romano intitolato
"Il Cittadino". Ma fu sopratutto di Elio Apocalista lo scatenamento
della guerra, che chiameremo dei venti anni perché durata dal 1903 al 1922,
contro la retorica, il professorismo, l'abitudine e la cristallizzazione dei
cervelli, contro - in una parola - tutto ciò che vi era non d'antico ma di
vecchio, nella nostra arte e nella nostra letteratura. Già dal 1901 questo
giovanotto, anzi ancora imberbe e presuntuoso ragazzino precoce, aveva
pubblicato sulla Bohème e sull'Era Nuova i primi saggi lirico-polemici del suo
rivoluzionarismo : e nella poesia Il Fabbro, precedendo di quasi tre anni
Giulio Orsini al secolo Domenico Gnoli, aveva cantato:
...Io voglio aprire
agli uomini le vie dell'avvenire
e a chiudere il passato mi preparo.
...O custodi del vecchiume,
gli altari eretti al vostro falso nume
il nostro vero li rovescerà.
Nell'avvenir la vita ; e l'arte è vita ed
avvenire !...
E con queste parole definiva la nuova coscienza degli uomini che avrebbero
quanto prima iniziato il rinnovamento, lo svecchiamento dell'arte: "Ecco
venuto lo sport, alleato allegro e spensierato del meccanicismo, che
rinvigorisce i muscoli, allarga i polmoni, allenta i nervi. La vita si fa più
mossa e gaia; la vita è dinamismo anch'essa, come i motori che da ogni parte la
sollecitano con l'affrettato ritmo". Diceva anche: "La grande
rinascita generale da tempo si disegna nell'aria torbida di avvenimenti. Le tre
tendenze passatista, presentista e avvenirista, s'incontrano ovunque, ove fuse,
ove separate. L'ultima, di cui fu araldo in America Walt Withman, comincia ad
avere la sua arte. Guardatela quest'arte nuova, specialmente nell'architettura
in cui gi… trionfa, guardate i grandi edifici che parlano gi… dell'avvenire:
le fabbriche gigantesche, i quais e i doks anneriti dal fumo e grandi come città,
i palazzi a trenta piani dalle ossature d'acciaio, i ponti inauditi sull'Oceano,
le torri di ferro che toccano le nuvole: edifici a stile semplice cime ànno la
bellezza della forza e dell'utilità razionale". E diceva ancora :
"Dateci oggi l'arte che rispecchi la vita, questa vita protesa verso il
divenire: ogni opera d'arte deve essere una pietra, piccola o enorme, che viene
aggiunta all'interminabile edificio della civiltà. Chi fa arte oggi deve essere
uomo d'oggi, figlio di questi due ultimi secoli ardenti di luce meravigliosa,
fratello di coloro che à dato all'umanità il motore a scoppio, le macchine
elettriche, il telegrafo senza fili, e mille fulgide promesse per l'avvenire".
Queste parole apparvero nell'articolo di fondo del primo numero del giornale
"La Fronda" il 16 maggio 1905. Ricevuto quel giornale, F. T.
Marinetti da Milano plaudi e fece sapere che considerava anche come suo lo
stesso verbo, riconoscendo al giovane collega il pregio di essere stato il primo
con tanto coraggio a muovere in guerra contro la letteratura erudita da
biblioteca. E gli chiedeva i suoi versi "Le Canzoni rosse"
pubblicati l'anno prima, che - per unanime riconoscimento della critica, anche
di quella contraria - contenevano i primi saggi di questa poesia singolare e
rinnovatrice nell'ispirazione, nelle forme e nel metro.
Il 28 settembre 1905, Filippo Tommaso Marinetti scriveva una nuova lettera
d'adesione al Direttore della Fronda in cui fra l'altro diceva: "Il
vostro libro à per me la doppia attrattiva della sua bellezza commovente e
della sua originalità rivoluzionaria, I vostri poemi sono effettivamente dei
potenti gridi di rivolta contro tutta la vecchia poesia. Io sono perfettamente
con voi, e d'entusiasmo, nella nobile iniziativa di creare un'espressione
poetica assolutamente sincera, utilizzando tutte le risorse e tutte le sfumature
della lingua familiare...
E' assai difficile esprimere tutte queste idee ; ma io vi sono
riconoscente di avermi fornito l'occasione di parlarne"¯. Un anno dopo
il giovane poeta e teorizzatore palermitano, in una conferenza al "Circolo
di cultura" e in una serie di articoli apparsi sul giornale L'Ora
disegnava la nuova estetica degli artisti del secolo ventesimo, sorti in un
mondo diverso da quello di soli cinquant'anni innanzi, e faceva la prima esegesi
del metro libero.
Negli anni che corsero fra il 1905 e il 1909 in Sicilia, si parlò e si
scrisse di queste nuove forme letterarie: da Messina Angelo Toscano ed Enrico
Cardile, da Catania Gesualdo Manzella Frontini, a Palermo chi ò già nominato,
sostenuti a Roma sulla Vita letteraria dalla strenua campagna di Tito
Marrone e di Giuseppe Piazza, siciliani. Non si leggevano più poeti defunti e
neppure contemporanei, ma un nuovo vangelo: L'Estetica di Benedetto
Croce, ove ognuno credeva trovare la dimostrazione della propria grandezza. Nel
dicembre del 1909 finalmente Marinetti comunica al suo amico palermitano
l'intenzione di bandire il verbo di una nuova scuola che si chianierà futurismo
e gli chiede la sua adesione, mandandogli la prima copia del proclama. Quel
primo proclama parlava del rinnovamento già operato nelle coscienze dal
meccanicismo, dalla nuova architettura americana, dagli aeroplani, dallo sport,
dalla esaltazione della vita qual'è, sopratutto all'aria libera, dall'amore
patrio, dal nazionalismo, dalla preferenza da dare al sole sulla luna e a tutto
ciò che è solare su ciò che è lunare: tutte cose che il direttore dalla
Fronda aveva già sostenuto nel suo piccolo foglio e nei suoi libri, nelle sue
conferenze, nella sua azione, insieme con queila.dei suoi amici, dal 1901 alla
vigilia. E quindi egli diede volentieri il suo consenso. E il primo manifesto
del futurismo apparve sul "Figaro" di Parigi recando in calce
quattro sole firme, quelle di Marinetti, Buzzi, Cavacchioli e De Maria.
Per tutto quello che ò detto sul rinnovamento e sui rinnovatori non vorrei
essere frainteso. lo non intendo togliere nulla a Marinetti che rimane quell'uomo
geniale che è, né voglio togliere nulla a quelli che per altre vie ànno
portato nuove voci nell' arte e nella vita italiana - parlo di voci vitali e
coscienti, non di grida incomposte, né di vagiti. Col massimo rispetto dovuto a
tutti coloro che in nome di idee combattono e riportano vittorie o sconfitte, ò
voluto palesare una pagina poco nota della storia letteraria e non letteraria
dell'alba di questo secolo in Italia. Il futurismo, dopo il primo manifesto, si
allargò; nuovi proseliti iscrisse nel suo albo nell'epoca più pericolosa per
esso: quella dei fischi e dei legumi. Vi entrarono successivamente Aldo
Palazzeschi e Giovanni Papini toscani, Folgore e d' Alba, romani, Cardile,
Manzella - Frontini, Armando Mazza, siciliani. De Maria poi se ne ritrasse ed
altri si ritrassero con lui e dopo di lui. Però i dimissionari di quel gruppo,
che il movimento auspicarono come salutare, tengono anch'essi alla priorità di
quel che nel primo manifesto fu riassunto.
Rileggendo quel manifesto e gli scritti che lo avevano preceduto in Sicilia,
voi vi renderete conto che li si trova l'involontario vangelo della gioventù
italiana, anche di quella parte di essa che lo à dimenticato o combattuto, ma
che vi si è - forse inconsapevolmente - ispirata attuando il regime fascista,
esaltore del dinamismo e dell'attivismo, della giovinezza fattiva, della sanità
dello spirito, dell'amore alla vita, della passione per la Terra in cui siamo
nati.