La Spada d'Orlando
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Aldo Capasso
su Santa Maria della Spina

Lucio D'Ambra su
La Spada d'Orlando

La Barunissa di Carini: Introduzione, traduzione e note di 
F. D. M.

 

Queste pagine sono in corso di allestimento

PREFAZIONE
(di Lucio d'Ambra)

Federico de Maria, poeta e drammaturgo italiano, nato a Palermo, rimasto a Palermo, inchiodato a Palermo... Questo vuol dire, in generale, uno scrittore che vale il doppio di quello che pare, uno scrittore che meriterebbe almeno due volte la riputazione, la fortuna, i lettori, gli spettatori che, pur da Palermo, laggiù in fondo all'Italia, nel dolce nirvana del sole troppo caldo e dell' azzurro troppo radioso, è riuscito a conquistare. L'Italia è troppo lunga e la fetta più grossa, più larga, più ricca, più popolosa, è lassù attorno a Milano, tra Lombardia e Liguria, Piemonte, Veneto ed Emilia. Roma, capitale, riesce ancora a difendersi nel predominio letterario del Settentrione, Firenze, tra quella e questo, lotta col prestigio di Dante e con le risciacquature in Arno del Manzoni. 

I guai grossi cominciano a Napoli: si scende verso il Sud. E son più grossi ancora in Sicilia dove fa fama letteraria ha poca risonanza, dove di rado scendono le compagnie drammatiche, dove scarseggiano editori e giornali, dove gli uomini di lettere son pochi - disuniti e disorientati - dove uno scrittore siciliano non riesce veramente a salvarsi dal sonno dei meriggi meridionali troppo grevi di stanchezze che se volge una volta per tutte le spalle al sole per cercare la nebbia e se va a fare - come Giovanni Verga e Federico de Roberto ai bei tempi o come Luigi Pirandello e Rosso di San Secondo più tardi - il siciliano a Milano.

Federico de Maria per Milano è passato spesso ma senza fermarcisi mai. Nei foyers dei teatri in voga, nelle anticamere dei più grandi editori, nelle relazioni dei più diffusi e potenti giornali, nei famosi caffè letterarii che dispensano a larghe dosi la popolarità rumorosa, il poeta non ha fatto che apparire e sparire, tra due treni, correndo, scendendo dalla Germania, filando dritto su Palermo, senza fermarsi mai davvero nei cinquecento metri quadrati che, attorno al Duomo, fabbricano in serie i grandi uomini per le mode di stagione. 

Errore. Grosso errore. E un giorno Federico de Maria sosta a Milano per lasciare ad un attore, Annibale Ninchi, un poema in quattro atti ed in versi. Poi aspetta, a Palermo, notizie. Queste giungono: buone, ottime, il poema piace. L'attore lo metterà presto in scena, a Milano. Il poeta, dalla sua isola, non s'informa. Non esige, non pretende. Non chiede quali attori abbia attorno a sé il valoroso Ninchi di solito solo e male accompagnato. Non si preoccupa di sapere di quali mezzi disporrà la compagnia per una messa in scena complicata e difficile. Non pensa nemmeno a sapere in quale teatro e in quale stagione il poema sarà rappresentato. Aspetta, sognando, come se la realtà, a contrasto dei sogni, non ci fosse. E un giorno lo chiamano a Milano. Su le ali del sogno il poeta vi accorre, come spingendo con la sua ansia, più di quanto la macchina lo trascini, lo sleeping. E, a Milano, nella Milano a scartamento ridotto non dei residenti pratici dei passanti idealisti, quale amara realtà l'aspetta? Una stanca stagione già quasi estiva, un lontano teatro quasi popolare, una compagnia men che mediocre attorno un attore pieno sì di belle forze ma scarso di sostenute energie, una messa in scena rimediata alla meglio o peggio, la soppressione delle comparse per economia, i tagli fatti alla cieca sul manoscritto a furor di matita, una mezza sala di spettatori svogliati, quattro critici oramai - è maggio inoltrato - stanchi della stagione invernale, non vogliono più indossare per i ritardatari l'abito di gala delle grandi occasioni. Tuttavia, pur conciato a quei modo, il poema resiste e raccoglie molti applausi, I critici, in maggioranza, lodano. L'attore fraternamente promette: in altre città, dopo l'estate, 1'opera sarà meglio rappresentata. Invece, essa scompare subito dal repertorio, La breve eco dei Paladini di Francia a Milano si perde nella penisola distante o indifferente succedersi continuo, e più chiassoso, d'altre opere nuove. Saviarnente commercializzate. 

Il poeta è a Palermo, di nuovo silenzioso, lontano, E un giorno, in casa di una signora intelligente e sensibile, uno propone a de Maria di passaggio (sempre di passaggio) per Roma: - "Leggici i tuoi Paladini... " Sta bene, Il poeta ha con sé il manoscritto integrale. Ci si riunisce la sera stessa. S'è desiderata la lettura ma al momento di subirla se n'ha forse paura. Quattro atti, in versi, in un manoscritto che non finisce più,.. Comunque, ci si rassegna. Avanti... Il poeta, con bella voce, magnifico dicitore e, se volesse, stupendo attore, comincia a leggere. La gente, dapprima distratta, si fa sempre più attenta. E, d'atto in atto, si sale, si sale... Alla fine, all'ultimo atto, ci si rammarica che gli atti, i quattro atti, sien pochi, che il poema sia già per finire. E, a lettura compiuta, ci si accorge con melanconia che c'è nell'Italia letteraria e teatrale, tra tante ingiustizie, un 'ingiustizia di più e il poema di Federico de Maria, embrionalmente rappresentato a Milano e poi per sempre sepolto senza rimorsi, dà, forse, una sensazione di capolavoro.


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Nella povertà del teatro contemporaneo, che o fotografa per la millesima volta la mediocrità quotidiana degli uomini o li deforma in grottesche caricature che anch'esse tutte si rassomigliano o si ripetono, un poeta ambisce di riportar finalmente su la scena le grandi voci della poesia, il lirismo delle immense favole, la fantasia del mondo eroico e fiabesco, il più che umano della realtà. Egli stesso lo dice: "Io so che per interessare i fanciulli le fiabe tanto più piacciono quanto più s'allontanano dalla realtà... So che l'uomo che si diverte è vicino al fanciullo. Il godimento non cerca mai di farsi pensoso né grave: è lieve ed aereo, è una piccola parte di noi che s'impenna di ali. Se una pensosità involontaria esso lascia, è una traccia lucente che s'accenderà col ricordo, più tardi..." Così è, o signori del piccolo teatro chiuso nei confini stretti del reale. La "parte di noi che s' impenna di ali " evade dal reale nell'ideale, sempre sale dal mondo al cielo, dalla cronaca alla favola, dalla verità alla fantasia, cerca e tocca il mondo lirico delle commedie di Shakespeare, dalla Tempesta al Sogno di mezza estate.

Tuttavia la vita, pur evadendone, esiste. Anche nell'irrealtà la realtà ci accompagna. Nell'aerea favola della shakesperiana " Notte di mezza estate" fate e silfidi della fantasia incontrano la realtà sotterranea dei gnomi malvagi e dei nani difformi, come nell'isola deserta e nelle tempestose magie d'Ariel la brutale realtà di Calibano contrasta e insidia la sublime irrealtà di Prospero. E, risuscitando il mondo irreale delle canzoni di gesta e della fantasmagoria ariostesca, il poeta dei Paladini chiama a sua volta il reale a contrasto dell'irreale, mette la vita come antitesi al sogno, pone contro Orlando paladino e burattino eroico, che non fa che "cantare", la miseria calcolatrice ed insidiosa di Truffaldino, uomo il quale non sa che "dire" e anche la musica del sogno tace, bell'idea di poeta drammatico, quando egli nella favola apre bocca. Chi sono, gli eroi, i poeti della cavalleria, i cavalieri dell'amore e della cortesia? Burattini, acchiappanuvole... Che cosa sono per lui, uomo delle reali misure e delle più cognite cose reali l'elmo di Mambrino che difende da tutt'i colpi come "l'onestà", il cavallo Baiardo veloce e indomabile come il "diritto", il corno olifante che s'ode a qualunque distanza come la voce della "fama" l'Ippogrifo che si solleva nelle stelle come la "fantasia", la spada Durendala che assicurano essere quella della "giustizia"? Favole da bambini, storie da far credere ai gonzi, astruserie di cartapesta, favolosi aggeggi, "giocattoli sacri dell'umanità spirituale"... E ride. Poiché l'uomo-realtà ride sempre dell'uomo-poeta, Truffaldino gettandosi con la sua miseria in mezzo alle grandi favole cercherà bucarne il leggero involucro illusorio. Nel mondo poetico e lirico che per lui è tutto cartapesta getterà egli sue ossa e la sua carne d'uomo pratico e sensato. E poiché nelle favole ci si trova davanti l'episodio d'Orlando impazzito per l'amore d'Angelica e che la insegue per monti e per valli, Truffaldino si getterà fra gli amanti favolosi con la sua massiccia e grossolana volgarità degli istinti senza ideali, della pesante carne senz'ali per sollevarsi un palmo più su della terra. Ma gli eroi si difendono coi sogni contro il vero. E allorché Orlando, morendo, deve separarsi dalla sua spada, l'eroe, il poeta, il cantore, non la lascerà su la terra, su la misera terra reale ove non è più chi possa degnamente impugnarla; ma la getterà lassù, nel cielo, dove il prodigio celeste e la magia del sogno la faranno splendere in eterno, stella, costellazione, più su degli uomini, sogno degli uomini, leggenda d'eroismo, spada astrale che un giorno un nuovo eroe, un poeta, potrà riprendere per l'ultima battaglia che sarà la redenzione degli uomini. E se, morto Orlando, par "vuotato il mondo", Astolfo giura per gli eroi e i poeti, per tutti gli eroi e tutti i poeti:

«Noi lo faremo eterno, o Poesia

Così contro la realtà l'irrealtà trasfigura il romanzo cavalleresco, il poema eroico e la favola meravigliosa. E il tempestoso dissidio tra reale e irreale si acqueta, più su degli uomini, ma venuto dagli uomini, nel Mito.

Grande materia di poesia, come ognuno vede; e tal che basta ad onorare un poeta averla tentata. Ma come giunse alla ribalta un'opera siffatta e tal da esigere al massimo grado una perfezione scenica capace di diffondere negli spettatori l'atmosfera necessaria alle illusioni della fantasia, agli aerei e luminosi giuochi d'una favola delicata e tutta sospesa in aria, su esili fili, tra reale e irreale, tra burattini ed eroi, tra teatro e poesia? Basti un episodio per tutti. Lo racconta un critico illustre, Ettore Romagnoli, dell'Accademia d'Italia, traduttore sì vivo e moderno della classica commedia d'Aristofane, più d'ogni altro adatto per sentire in Truffaldino la mescolanza saporosa e sottile tra eroico e grottesco, tra fiaba e realtà, tra leggendario e attuale. Leggetelo: "Truffaldino, per coronare i suoi ladronecci, vorrebbe impossessarsi. anche di Durendala, la famosa spada d'Orlando. Ma costui, in punto di morte, supplica il Signore di non far cadere la nobile arma in mani sì turpi; e poi la scaglia verso il cielo. La spada non ricade e si trasforma in costellazione. Ma, per dare scenica attuazione a questa bella fantasia, Durendala fu legata con una corda che al momento opportuno, avrebbe dovuto farla ascendere al cielo. Sennonché, quando si presentò in scena Orlando che la impugnava, avvenne che si vedeva la corda più della spada... Orlando rientra allora tra le quinte per sciogliere la corda. Poi ci rientra ancora per scagliare in alto la spada senza che la si veda ricadere. Confusione. Un paio di "scene vuote", sia pure brevissime... E così il finale andò a picco".

Così può una rappresentazione mal preparata tradire una poeta e assassinar nel ridicolo la poesia. Certo è che un'opera come questa di Federico de Maria esigeva da tempo la pubblicazione, che oggi avviene, in volume. Meglio che una rappresentazione approssimativa le gioverà lo spettacolo fantastico e meraviglioso che, attraverso le pagine del libro, potrà con lei darsi lo spettatore dans un fauteuil. Spesso il teatro, il teatro della quinta e del fondate, del macchinista e dell'elettricista, dell'attore e del suggeritore, ha tradito i poeti. Ne fu vittima, in un disastro, e con un gioiello di poesia, anche Alfred de Musset alla sua prima prova. E il disgusto e il furore del poeta per lo scempio che il "teatro" aveva fatto della sua Nuit Vendienne furon tali da indurlo, per tutta la vita, a cercare nei lettori in poltrona il pubblico delle sue meravigliose fantasie di teatro. Oggi anche Federico de Maria fa appello al pubblico e alla critica dalle pagine del libro, senza intermediari. E se già i critici della disastrosa rappresentazione sentirono, non ostante le avverse circostanze, il singolare valore dell'opera, quanto potrà oggi al favore del loro giudizio aggiungere una tranquilla e totale conoscenza di quest'autentica opera d'arte? Già atta recita di Milano Ettore Romagnoli vantò "l'alta nobiltà artistica" dei Paladini. Già Renato Simoni ne esaltò la poetica e grandiosa visione e la stupenda scena della morte di Ferraù. Ma credo che l'opera, direttamente rivelata ai suoi giudici, meriterà ben più calororosi giudizi alla lettura d'appello.

Lettura d' appello alla quale purtroppo si giunge nell'impossibilità d'ottenere un secondo giudizio attraverso una seconda rappresentazione. Ma, intanto, la critica, l'alta critica d'Italia e di Francia si lamenta: il teatro decade, la commedia commerciale invade i palcoscenici, Broadway, commediaccia americana di poliziotti e di girls, travia sempre più il gusto del pubblico già traviato e guastato dal cinematografo. Ma di chi è la colpa? E forse aperta, oggi, agli artisti, ai poeti, se non piegano il collo ai "generi" correnti sul mercato, la porta grande del teatro? S'entra - quando si possa entrare - dalla porta laterale e dalle scale di servizio tra la noncuranza degli impresari, la sfiducia degli attori, l'insufficienza dei mezzi scenici. Ed è naturale. Oggi uno "spettacolo" come il poema di Federico de Maria, per essere degnamente allestito, esigerebbe decine e decine di migliaia di lire. Chi mai può, nello sviamento del pubblico, tentar sì rischiosa avventura? In realtà solo i teatrini Stato potrebbero e dovrebbero salvare ancora, a teatro, la poesia. In Germania ne ha uno ogni grande città e Berlino ne ha sei. La Francia ne ha due e non le bastano. Il teatro di poesia, la commedia drammatica, l'opera d'arte senza lenocini commerciali - ingombri la Comédie e l'Odéon per il repertorio classico che la Francia, a ragione, non vuole lasciar morire - non hanno più casa. Peggio ancora è in Italia dove lo Stato non sovvenziona, nemmeno col nuovo regime, un solo teatro di prosa. Così i poeti sono oscuramente ridotti dal palcoscenico al libro. Orfeo non canta: stampa. Un Cyrano di oggi non troverebbe forse modo d'essere degnamente allestito. E Federico de Maria dà ad un editore un'opera con la quale egli aveva sognato di rivalutare e di riconsacrare, nella poesia, il teatro.

Ma quando, nati laggiù laggiù, in fondo alla penisola, nel sole d'oro di Palermo, tutta nascosta tra gli aranci, non si fa che passare fuggendo nelle operose nebbie di Milano dove anche la poesia sa farsi affare, il destino è questo: meritar con un dramma centomila spettatori e cercare invece con un libro un migliaio o due di lettori...

Queste pagine che Federico de Maria e il suo editore mi hanno chiesto di preporre, nel volume, al magnifico e sventurato poema, non vogliono, tra il primo e i! secondo giudizio della critica, anticipare sentenze. Esse hanno esclusivamente un valore di cronaca.

Ma, anche se non perfetta, l'opera di Federico de Maria mi appare tale che il teatro contemporaneo non può ricusarle un posto d'altissimo onore. La vastità geniale della visione, la nobiltà della sua concezione, l'alto lirismo che tutta la pervade, la sua intenzione allegorica, il vivo e robusto fuoco della sua poesia, la solida e piena struttura dei suoi versi, la sua graduale ascesa a una sempre più vasta significazione del suo mondo fantastico, la stupenda trasfigurazione mitica su cui essa in così augusta e pura solennità si conchiude, sollevano il poema del de Maria a ben altri livelli artistici di quelli in cui oggi si perdono, all'incerto confine tra arte e non arte, i quattro quinti del teatro contemporaneo, non solamente in Italia. La sua opportuna divulgazione attraverso la stampa gioverà senza dubbio alla fama d'un poeta il quale, là dove gli altri si spingevano avanti per farsi vedere e sentire, sempre amò sdegnosamente (ma quante volte è fatto di timidezza un apparente disdegno?) ritirarsi in disparte, consumarsi in solitudine tra vani sogni e amare malinconie.

Ma la pubblicazione di questo poema potrà giovare anche ad altre due cose: cioè ad avvertire i poeti e ad ammonire lo Stato. I poeti vedranno in queste pagine luminose e libere che la via maestra dell'arte drammatica è sempre quella che cerca nel mondo lirico, nella passione eroica, nella trasfigurazione poetica, gli eterni e più profondi sensi dell'umano destino e che dove l'ambizione è grande il poeta leva sempre, più su del dialogo quotidiano, la sua voce in un canto. E lo Stato, in quest'iniqua sorte toccata ad un'opera d'arte che, pur tra i suoi errori, sarebbe stata dovunque onore d'una letteratura, potrà forse sentire che è giunta l'ora, lungamente attesa e invocata, in cui la sola che possa, cioè la Nazione, potrà e dovrà dare ai poeti le case della Poesia, i teatri della libertà degli artisti. Se le braccia hanno negli stadi, per volontà dei governi, il loro campo di allenamento, si può più oltre rifiutare ai poeti nazionali quello stadio spirituale che si chiama un teatro e neI quale essi si prepareranno per sciogliere nel cielo delle anime i canti della nostra antica razza, del nostro nuovo tempo e della nostra passione italiana?

Noi siamo, s'intende, i perditempo e gl'illusi. Ma dovessero gli uomini pratici farci a pezzi, poi grideremo tutti finché potremo l'assurdità di considerare più necessario all'avvenire d'una patria più grande un match che un poema, un atleta che un poeta. L'atletismo di un grande paese ha sempre due nomi. Uno, sì, si chiama forza, Ma l'altro si chiama e si chiamerà sempre poesia.

LUCIO D' AMBRA

Cannes, maggio 1929

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