DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO

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La tavola era apparecchiata con la tovaglia rossa a quadretti, a pignata era mesa, il fumo della furnacella a legna annigghiava tutta la camera; i vetri della persiana erano m’pannati, un filo fino fino d’acqua tagliava nel mezzo la bottiglia del vino.  La radio era spenta, a televisione cu Mario Riva, e l’inter  di Herrera la vedevamo alla sezione della Fiamma, del severo Zu Ginu, u duci! Il padre si sedeva a capotavola, tirava dalle sacchette ri cavusi di matapollo il coltello per n’zitari; lo apriva, prendeva il vastellone, tondo, pieno di giuggiulena, della signora Melchiore, se l’appoggiava al petto e come un abbraccio, con la punta del coltello vi marcava una croce e poi cominciava a tagliare le fette e l4e dava ai figli. L’episodio mi torna spesso nei ricordi . Le fornate contate, il fumo dolce del legno degli ulivi, le fiammate rosse che uscivano dalla bocca del forno tra i patatoni rossi, cotti; Totuccio che infilava in quella bocca pistoloni, vastelloni, scalette, con la pala di legno dal manico lungo; il forno camiato e tutti intorno ad aspettare a muffoletta per conzarla con l’olio e sale. A casa i figli erano tanti attorno alla tavola e il pane si spartiva con parsimonia , con sacralità, senza sprecare una briciola, un cozzo. Ma l’altro ieri vidi una scena che mi ha fatto rivedere quel quadro familiare pulito, pulito, con tutto il suo valore perduto. Guardavo il movimento frenetico del mercatino del martedì, alla Spinosa, vitti, fra i piedi della gente che pistiulava strada e monnizza, un panino, ittato la, uno di quei bianchi panini di grano tenero, forma lungo, che i ragazzi si portano a scuola nello zaino. Un panino fatto in passato dalla Pierina o da don Vito, oggi da Masetto o da Meli. Rotolava, ignaro mortificato fra i piedi orbi, e poi una pedata più decisa lo ammuttò fuora tiro. Una signora si fermò, lo taliò, s’abbassò e lo pigliò su, lo aprì, era vuoto, ma forse fu cunzato! Io ero li e vidi tutto, tre strati: cacio, burro e prosciutto. Un’angolo era smozzicato – vi erano i segni dei denti – ma forse non era piaciuto o magari era caduto, chissà! Il fatto è che il panino era là e i piedi erano il rullo del benessere che ne faceva giustizia. La signora restò col panino in mano, disse “mah”!, cchiù chi manu, che chi parole e lo posò su una gabbietta e se ne andò. Ricordi affiorano dal buco del tempo: la merendina dell’infanzia, zucchero, o olio e sale, pomodoro; un pezzo di pistuluni con al massimo, la fetta di mortadella della signora Rosa; la mezza mafalda chi panelle dello zu Pippinu u panillaru; il panino consumato, alle scuole elementari con in mezzo il formaggino olandese, tra corridoi e marmi lucidi e lo sguardo dolce della signora Maria e quello bonario di don Totò; il pistolone mangiato con i ricci, tra gli scogli dei Fifillini; la vastedda, mangiata tra una pausa e l’altra in campagna, a stricasale; la nonna che si calava, stentando, sulla schiena se un cozzo di pane cadeva in terra: lo tirava su, lo puliva col tovagliolo, vi soffiava sopra come a togliere la polvere e poi lo baciava quasi ad autenticarne la sacralità. Il pane tondo di Renzo e Lucia, i Promessi Sposi; il pane della tessera, durante la guerra; la baghetta parigina; il pane di segala dei tedeschi; il bread degli inglesi, il baker degli americani; il pane di Piero Califfi, nei campi di sterminio, quando si cambiava la maglia per una pietra di pane, verde di muffa e di fango, quando la fame era fame, necessità di mangiare per sopravvivere e non soltanto desiderio. Li al mercatino quel giorno fu come se un vento, freddo, furioso, un maestrale che saliva dalla marina, avesse cancellato la nostra preghiera del mattino: “Padre nostro che sei nei cieli dacci oggi il nostro pane quotidiano…” e le parole di Gesù dopo il miracolo: “Raccogliete quel che è rimasto perché nulla vada perduto”. Domandatelo ai dottori dei picciriddi: i bambini oggi che soffrono di “inappetenza”; che mangiano solo se gli prometti un regalino, un robot, Dragon Ball, Play Station; bambini che col cucchiaio in mano vengono assicurati a mare, in casa, nei parchi, sulla giostra – “dai caro mangia” - ; qualche nonna, residuo di nonna, gli racconta la favola di Cappuccetto Rosso e loro strillano – “no non mi piace” – lasciamoli senza Buondì, Nutella e Pinguì, non sogneranno pance vuote, i loro incubi non saranno tavole vuote, dispense vacanti, pane schittu! Giocattoli costosi e inutili, buttati in un angolo, montagne di pane perso in ogni casa, che finisce nella pattumiera o nella scodella di black (ma anche lui storce il naso e si gira). E intanto c’è chi ha fame, anche ora, ora che tutti spendiamo e sprechiamo e non pensiamo che il trionfo della “moneta – carta” può mettere in pericolo il pane quotidiano della nostra fatica. Amen

Giuseppe Morreale