L’ODISSEA RU ZU TOTO’

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Era il mese di settembre, la guerra era finita da un anno, anche se da noi era passata veloce da un pezzo. Lo vidi “nesciri” dalla grande curva, doppo il camposanto, e nello scuro della se, agummato com’e, mi pareva un piccolo sceccu . Mi parlò appena fu vicino, con un filo di voce. Cercava la strada ppì Ficarazzi. S’avvicinò e accussì potei vederlo meglio. Era curvato ad arco, sutta un zaino ranni ranni , scavusu, mairu, spardatu, ca barba longa.Puzzava di marcia longa. Veniva da lontano, ara a casa ed ancora non l’aveva capito!Mi cuntò cà era stato preso sopra Borgomanero dalle SS, dopo l’armistizio dell’8 settembre. Non lo fucilarono, ma lo portarono in Germania con gli ebrei nei vagoni, stipati come bestie, senza acqua, af-famati, sporchi, trattati senza umanità. Campo si concentramento di “Tubinga”, nella selva nera. Tirò avanti a forza di scocci di patati, ghiande per i porci e u pastuni pi cani. La sera cercavano tra la monnizza e i crucchi sparavano dalle torrette. Di giorno al gelo, tra il fango, ai lavori forzati, pulire le latrine e le baracche degli ebrei portati ai forni crematori. Desiderare tanto qualche macedonia o un pacchetto di “milit”. C’erano prigionieri inglesi, americani, tanti italiani, ficarazzoti niente ! Nei primi di luglio del 1945, i bombardamenti erano a rota continua, gli alleati entravano in Germania e una bella mattina al campo di “Tubinga” si svegliarono da soli, senza urla, senza fischi, ordini, o abbaiari ri cani. Ci fu u scappa scappa…non c’ra mancu un surdatu tedescu. U zù Totò insieme a un sergente maggiù, ad un tenente biellese ed a 4 soldati come lui, scapparono per le montagne, e tentarono di rientrare in Italia. Marciavano di notte e di giorno si riposavano nei boschi tra i pini e gli abeti che ammucciavano il cielo.Attraversano il Danubio vicino ad Ulm, a bordo di una chiatta abbandonata, poi tagliarono per Augusta e pi picca non finivano in bocca alle SS di Dachau! Sempre a piedi arrivarono a Kempten in mezzo alle grandi alpi. Fortuna che era agosto, ma sempre freddo, c’era anche la neve ed il ghiaccio. Vestivano delle giubbe grigioverdi, spardate, senza stellette, resti di ca-vusi di tele ruvida, non avevano bagagli ma solo gli occhi pi chianciri. O zù Totò dal taschino spuntava una forchetta spuntata. Senza saperlo passarono il confine, l’Austria, ancora tedesca.S’ammucciavano sempre, perché l’ordine era di sparare a vista agli italiani, traditori! Fecero un giro largo tra le vallate vicino Innsbruck e scesero per il canalone delle “stubaier alpen” fino al passo del Brennero, erano in Italia! Quanta strada, quanti chilometri, in condizioni disumane, ma la forza di continuare da dove veniva? Il pensiero volava a Ficarazzi, alla sua verde campagna, al suo mare, al sole caldo, alla zita ri sant’Elia, ai fratelli che si erano spartiti tutto: lo zappone, la scala, i panari. Lo piangevano già per morto, era da più di tre anni che non dava notizie e vestivano di nero, con la banda davanti la porta. Dal Brennero giù, a Merano, a Bolzano, era Italia ma pareva Germania…parravano tutti tischi toschi  e li taliavano mali. Senza fermarsi arrivarono a Belluno. Qui il sergente maggiù proseguì per Milano, il vecio Aldo verso Verona, con lui restò Serino da Viterbo, un ciociaro siccu siccu ma allegro. Tirarono dritto per Venezia. Dalla laguna allungarono il passo verso sud, attraversando tutta l’Italia. Ogni tanto domandava in sperduti villaggi “scusate, ma per la Sicilia vado bene?” – E la gente misera, senza più niente, sconvolta, rispondeva con un sorriso, senza parole allargavano le braccia e con le mani indicavano verso giù, il sud. Ci veniva da piangere o zù Totò, dove passavano vedevano macerie, paesi distrutti, strade scomparse, ponti rotti, animali abbandonati, treni fermi  tra binari divelti, un po’ di pace solo in campagna dove qualche parroco dal-la tonaca impolverata, sotto un campanile rotto dava loro un pezzo di pane, qualche parola di conforto e poi camminari. Poi Roma, città granni, tanti stradi, tanta confusioni, tanti camion Fiat o Bianchi pieni di gente chi trusci, di soldati, americani, inglesi, nivura cu tubu n’testa, chi cavusi curti, chi robi ordinati, lindi, chi scarpi lucidi, sigaretti a tignitè, ma pi iddi pitittu, parevanu pizzaluori. A Latina si spartiu cu Serinu.L’abbraccio fù doloroso, lui si girò per Viterbo e u zù Totò continuò il lungo cammino, a piedi s’intende, attraverso tutto il sud. Tante volte chiese la strada per Palermo. Sotto Salerno arrubbò una bicicletta, una legnano nera, che corse tra profughi, buche, polvere, cani, jeep, carretti, fino a che giunto a Palinuro si ruppe la forcella, arreri a pieri. Ppi mare, spiaggie, campagne, adagio adagio, paesi pi paesi, senza più forza. Passò Paola, passò Troppa, arrivò a Villa San Giovanni. Allo stretto il caos era sovrano, sembrava un formicaio, un mare di braccia, di gambe. Con una spadaia, di quelle che servono per piscare u piscipada attraversò da Scilla a Cariddi. Da Messina, tutta la costa, le gambe pesanti volavano, in capo ad una simana arrivò a marunnuzza ra Palma, passò u ponti, trasìu a Ficarazzi, passo a curva ru campusantu, dove l’ho incontrato io. Era irriconoscibile, nivuru, ca barba longa, con le piaghe ai piedi, ca scabbia e i pidocchi, parrava comu un tedesco, cricchiava, traballava, ngrasciatu, stancu, ma era vivo, era a casa, era tornato, era scampato all’inferno! Non era facile dimenticare.