PSICHIATRIA MOLECOLARE: MOLTE SPERANZE SENZA FACILI ENTUSIASMI

Raffaella Zanardi e David Rossini



Negli ultimi anni, soprattutto nell’ambito della ricerca scientifica, ci si è spesso trovati di fronte al termine “psichiatria molecolare”, ma che significato ha questo termine e di che cosa si occupa precisamente questa nuova branca della psichiatria?

La psichiatria molecolare, definita in senso lato, comprende un vasto campo di ricerche interdisciplinari, comprendenti la genetica, la biologia molecolare e cellulare, la patofisiologia, la psicofarmacologia, che mirano a spiegare in modo il più integrato possibile i meccanismi biologici fondamentali che sottendono i disturbi psichiatrici ed il loro trattamento.

Lo sviluppo sempre crescente di nuove e sofisticate metodologie di indagine biotecnologica ha permesso notevoli progressi della psichiatria molecolare, progressi che hanno portato una ventata di ottimismo e alla teorizzazione di promettenti strategie di approccio alla diagnosi e alla cura dei disturbi psichiatrici, soprattutto nell’ambito della genetica ed in particolare modo della psicofarmacogenetica. Per quanto riguarda gli studi genetici, si sta assistendo ad una fase di transizione che si traduce in un adeguamento dei sistemi tradizionali di studio alla maggiore complessità delle situazioni che si devono affrontare, dal momento che è ormai ben noto che le patologie psichiatriche non sono riconducibili ai semplici schemi della genetica mendeliana. I metodi usati attualmente comprendono indagini biologiche relative ai pazienti ed ai loro parenti, analisi genetiche dei pedigrees e studi dei cosiddetti sistemi marcatori di linkage (associazione), cioè di geni con precise localizzazioni a livello cromosomico, detti loci marcatori, che si presuppongono essere “candidati” per la loro importanza teorica in importanti schemi eziopatogenetici e che potrebbero co-segregare con l’ipotetico locus di suscettibilità della patologia. Finora nessun locus di suscettibilità, e più in generale, nessun marcatore genotipico per disturbo psichiatrico è stato identificato in modo inequivocabile, probabilmente sia per problemi di ordine diagnostico (non vi sono criteri di categorizzazione di derivazione biologica) che per la eterogeneità eziologica dei disturbi che rende conto della complessità degli studi di tipo genetico.

Oltre alla componente genetica atta ad individuare una possibile quanto probabile trasmissibilità genetica delle malattie psichiatriche, la psichiatria molecolare comprende la psicofarmacogenetica, branca che recentemente ha destato notevole interesse per le possibili applicazioni a livello clinico. La psicofarmacogenetica può infatti migliorare la cura del paziente aiutando lo psichiatra clinico ad individualizzare il trattamento del paziente basandosi su alcune caratteristiche genotipiche proprie del paziente stesso. Al fine di chiarire questo importante concetto, forniamo un esempio di applicazione clinica sviluppatasi partendo da alcune conoscenze, che potremmo definire di tipo neurofarmacologico, quali il noto coinvolgimento del sistema serotoninergico nei disturbi dell’umore e l’efficacia clinica nel trattamento della depressione dei farmaci, detti SSRIs, in grado di inibire selettivamente la ricaptazione della serotonina bloccando il trasportatore stesso per la serotonina. Nell’uomo il trasportatore neuronale della serotonina è codificato da un singolo gene situato sul cromosoma 17 e recentemente è stata identificata una variazione allelica nel gene promotore per questo trasportatore: sono infatti presenti due alleli, detti l (long) e s (short), con tre conseguenti possibili assetti genotipici: omozigote l/l, eterozigote l/s, e omozigote s/s. Il polimorfismo è funzionale, cioè le due varianti alleliche l e s hanno diversa efficienza nella trascrizione: l’attività di trascrizione controllata dalla variante lunga (l/l) del promoter del trasportatore è più che doppia rispetto a quella controllata dalla variante corta (s/s) e la differente sintesi di mRNA determina una differente espressione del trasportatore e della ricaptazione cellulare di serotonina. Dal momento che la variazione genotipica ha un effetto rilevante sulla funzione di ricaptazione della serotonina, che il trasportatore della serotonina è il principale bersaglio dei farmaci SSRIs e visto che la risposta clinica agli SSRIs mostra variazioni individuali  è possibile che l'assetto genotipico relativo al promoter per il trasportatore della serotonina influenzi l'effetto degli SSRIs nel trattamento della depressione. Per valutare questa ipotesi pazienti affetti da depressione sono stati trattati con un SSRI, la fluvoxamina, e la risposta al trattamento si è dimostrata in relazione al tipo di polimorfismo del promoter del trasportatore per la serotonina: gli omozigoti l/l e gli eterozigoti l/s hanno mostrato un pattern di risposta clamorosamente migliore rispetto agli omozigoti s/s .

Questo è un esempio di come un particolare assetto genetico possa dar ragione del tipo di risposta individuale ottenuta con il trattamento farmacologico. Ma siamo partiti dal fatto che la psichiatria molecolare può andare oltre, sfruttando le conoscenze di psicofarmacogenetica per aiutare il clinico ad ottimizzare, oltre che individualizzare, il trattamento del paziente. Una volta messo in relazione il polimorfismo del promotore per il trasportatore della serotonina con la risposta farmacologica, ci si è chiesti come fosse possibile sfruttare questa conoscenza per migliorare la percentuale di risposta nei soggetti più sfavoriti in quanto possessori della variante s/s. A questo proposito ci si è avvalsi di un altro dato emerso da precedenti studi molecolari condotti a livello recettoriale. Questi studi hanno evidenziato l’esistenza di un autorecettore serotoninergico, detto 5-HT1A con funzione limitante il rilascio di serotonina a livello cerebrale. In breve, quando questo autorecettore percepisce la presenza di un’alta concentrazione di serotonina all’esterno della cellula neuronale, inibisce il rilascio della serotonina stessa a livello corticale, ritardando la risposta al trattamento farmacologico con SSRIs. Nei pazienti s/s, cioè quelli con un minore numero di trasportatori espressi, vi è una ridotta ricaptazione di serotonina a livello neuronale con conseguenti alte concentrazioni all’esterno del neurone che portano ad una più intensa stimolazione dell’azione inibitoria degli autorecettori 5-HT1A e quindi ad una ritardata risposta terapeutica rispetto a quella osservabile negli individui l/l e l/s. In base a questa ipotesi di funzionamento del sistema serotoninergico, se all’inizio del trattamento con un SSRI viene associato un composto antagonista degli autorecettori 5-HT1A si dovrebbe ottenere un’accelerazione dell’effetto antidepressivo in quanto bloccando gli autorecettori si annullerebbe il loro effetto inibitorio sul rilascio di serotonina a livello corticale. Questa ipotesi è supportata da numerosi studi clinici che hanno dimostrato che la somministrazione di un SSRI (paroxetina, fluoxetina e fluvoxamina) in associazione ad un antagonista 5-HT1A, quale il pindololo,  è in grado di ridurre il tempo di latenza della risposta antidepressiva. In particolare, un interessante studio ha mostrato che il pindololo, bloccando gli autorecettori 5-HT1A, è in grado di annullare l’effetto del genotipo sulla risposta farmacologica stante che tutti i pazienti, l/l, l/s o s/s che fossero, mostravano lo stesso andamento di risposta clinica .

Volendo trarre delle conclusioni da questo lungo ma alquanto esplicativo esempio di applicazione di conoscenze derivateci dalla psichiatria molecolare possiamo dire che dal punto di vista clinico la possibilità di identificare differenze nell’espressione genica del trasportatore della serotonina può diventare un utile indice di risposta al trattamento farmacologico con SSRI e consente di utilizzare tecniche di potenziamento (i.e., l’aggiunta di pindololo) nel caso il genotipo espresso sia la variante corta e di fornire al paziente indicazioni molto più precise sui tempi di risposta così da migliorarne la compliance e accelerare l’outcome dalla malattia. 

Tornando ad un discorso più generale, la psichiatria molecolare presenta molteplici potenzialità che vanno dalla ricerca di geni associati ad una suscettibilità per le malattie psichiatriche, all’identificazione di alleli in grado di influenzare la risposta ad un dato trattamento farmacologico (vedi esempio sopradescritto), alla visualizzazione del funzionamento fisiologico e patologico di circuiti neuronali per mezzo di sempre più specifici e sofisticati traccianti (si pensi alle tecniche di brain imaging). Certamente un approccio integrato delle diverse discipline comprese nella psichiatria molecolare offre potenziali numerosi vantaggi nella comprensione dei meccanismi biologici che sottendono le malattie psichiatriche, ma attualmente esistono ancora numerosi limiti, soprattutto di tipo tecnico e metodologico. Questa branca della ricerca psichiatrica è ancora molto giovane e deve affrontare anche problemi di ordine concettuale, oltre a  quelli dati dai limiti delle biotecnologie.  Stante che l’eziologia dei disturbi psichiatrici è di origine multifattoriale, è necessario considerare tra i fattori eziologici sia i fattori genetici che quelli ambientali, nonché, e soprattutto, la loro interazione che in ultima istanza è la vera responsabile dell’insorgenza e dello sviluppo delle patologie psichiatriche. Ma quali sono i fattori genetici ed ambientali coinvolti? I fattori di entrambi i tipi proposti finora sono senza dubbio insufficienti e quindi non permettono una spiegazione eziologica convincente, né tantomeno completa. Lo stesso tipo di problema si riscontra nell’identificazione di cosiddetti possibili marcatori biologici specifici per le diverse patologie. Per fare ciò si studiano strutture (per esempio: proteine di membrana o intracellulari, aminoacidi, metaboliti) ritenute coinvolte nel funzionamento psichico degli individui, confrontando quelle di soggetti sani con quelle di soggetti affetti da malattia. Ma quante strutture conosciamo e che peso ha ciascuna di esse nel determinare un disturbo?

In conclusione, una visione di insieme di tutte queste considerazioni ci deve rendere sì consci delle limitazioni della psichiatria molecolare e di quanto, molto, rimanga da fare, ma senza dimenticare né tantomeno dare una valutazione riduttiva dell’ampliamento delle conoscenze che ha permesso riguardo ai meccanismi biologici di funzionamento delle cellule e dei tessuti nervosi e della possibilità di individuare nuove e insperate prospettive terapeutiche per i disturbi psichiatrici.

Nessun facile entusiasmo, quindi, ma certamente molte speranze!


Editoriale di Psichiatria molecolare
di Raffaella Zanardi e David Rossini
Dipartimento di Scienze neuropsichiche Ospedale San Raffaele, Milano