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E' nullo il
licenziamento attuato per ritorsione
alla mancata adesione a un accordo aziendale
Il licenziamento per ritorsione alla mancata adesione a un accordo
aziendale può essere ritenuto discriminatorio. Ne conseguono la nullità del
provvedimento e il diritto della persona oggetto dello stesso alla reintegrazione, in base
all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Queste, in sintesi, le affermazioni
contenute in una recente sentenza della Cassazione (Cass. 20 novembre 2000, n.14982).
Un camionista ha rifiutato d'aderire a un accordo aziendale, voluto dalla società datrice
di lavoro e accettato da tutti gli altri dipendenti (in numero inferiore a 15), in base al
quale, per poter conservare il posto di lavoro, avrebbe dovuto rinunciare a tutti gli
eventuali diritti maturati fino al quel momento in costanza del rapporto, fatto salvo solo
il TFR. Egli è stato licenziato, con motivazione riferita alla necessità di sopprimere
il suo posto. Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, sostenendo che esso era stato
attuato per ritorsione al suo rifiuto di sottoscrivere l'accordo accettato dai suoi
colleghi e che la società aveva impiegato, al suo posto, un camionista inquadrato alle
dipendenze di altra azienda.
Egli ha pertanto chiesto la dichiarazione di nullità del licenziamento, per la sua natura
discriminatoria, in base all'articolo 3 della legge 108 del '90 e la reintegrazione nel
posto di lavoro, nonchè la condanna della società al risarcimento del danno in base
all'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L'articolo 3 della legge 108 prevede che il licenziamento determinato da ragioni
discriminatorie, ai sensi dell'articolo 4 legge 15/7/66 n. 604 e dell'articolo 15 dello
Statuto dei lavoratori, è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta,
quale che sia il numero dei dipendenti occupati, le conseguenze previste dall'articolo 18
dello Statuto dei lavoratori. A loro volta, l'articolo 4 della legge n.604/66 e l'articolo
15 dello Statuto dei lavoratori considerano illecitamente discriminatorio il licenziamento
determinato da ragioni di fede politica o religiosa, dall'appartenenza a un sindacato,
dalla partecipazione ad attività sindacali, ovvero da discriminazione per razza, lingua o
sesso.
Il pretore ha dichiarato la nullità del licenziamento, ritenendolo attuato per motivo
illecito di ritorsione e ha affermato l'applicabilità dell'articolo 3 legge 108/90,
nonchè dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Pertanto, ha ordinato la
reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro e ha condannato l'azienda al
risarcimento del danno (decisione confermata dal tribunale).
L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo che il licenziamento per
ritorsione non rientra tra quelli qualificati dalla legge come "discriminatori".
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, affermando che dev'essere considerato
discriminatorio anche il licenziamento intimato per ritorsione e rappresaglia, in quanto
esso attua comunque un'illecita discriminazione rispetto agli altri dipendenti.
In materia, ha osservato la Corte, deve ritenersi applicabile anche l'articolo 1345 del
Codice civile, che sancisce la nullità degli atti dettati da motivo illecito. La
Cassazione ha perciò ritenuto che i giudici di merito abbiano correttamente applicato,
nel caso in esame, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ricordando che questa
norma, secondo l'interpretazione datane dalla Corte Costituzionale nella sentenza 22
gennaio 1987 n.17, è dotata di forza espansiva, tale da renderla applicabile anche a casi
diversi da quelli da essa contemplati, ma assimilabili sotto il profilo dell'identità di
ratio.
(tratto da "Rassegna Sindacale", a cura di RGL News) |