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Diritto & Lavoro

 

Licenziamenti per ragioni organizzative.
Importante sentenza della Suprema Corte.

Un lavoratore è stato licenziato nel dicembre ’93, per ragioni organizzative.
Ha impugnato il licenziamento davanti al pretore, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento dei danni in base all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il pretore e, in grado d’appello, il tribunale hanno ritenuto il licenziamento illegittimo, ma non hanno disposto la reintegrazione, in quanto hanno escluso l’applicabilità dello Statuto per mancanza del requisito numerico (oltre 15 dipendenti in servizio). I giudici hanno infatti ritenuto non computabili nell’organico i lavoratori avventizi, di fatto occupati a tempo indeterminato dall’azienda. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, in quanto ha ritenuto che il tribunale avesse applicato criteri erronei nel calcolare il numero dei dipendenti, e ha rinviato la causa, per nuovo esame, al tribunale di Terni. Il lavoratore ha riassunto il giudizio, chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro.

Il 30 gennaio del ’99 la società, pur non avendo ripreso in servizio il lavoratore, gli ha comunicato un secondo licenziamento per ragioni organizzative. Nel giudizio di rinvio davanti al tribunale, l’azienda si è opposta alla reintegrazione, sostenendo, da un lato, che al momento del licenziamento, anche adottando i criteri stabiliti dalla Cassazione, essa aveva meno di 15 dipendenti e, dall’altro, che comunque la reintegrazione non poteva essere disposta, perché il lavoratore era stato nuovamente licenziato. Il tribunale, in base ai risultati di una consulenza tecnica, ha ritenuto che l’azienda al momento del licenziamento avesse oltre 15 dipendenti e pertanto ha ordinato la reintegrazione nel posto di lavoro. Il tribunale ha affermato che il secondo licenziamento era "del tutto privo di effetto, perché intimato nei confronti di un soggetto non legato all’azienda da alcun rapporto di lavoro". La società ha proposto ricorso per cassazione, sostenendo, tra l’altro, che il tribunale avrebbe dovuto riconoscere valido il secondo licenziamento, in quanto, per l’illegittimità del primo, il rapporto di lavoro doveva ritenersi, per legge, non interrotto.

La Suprema Corte (Cass. 5 aprile 2001, n. 5092) ha rigettato il ricorso, affermando che il tribunale ha correttamente escluso l’esistenza del rapporto di lavoro nel momento dell’intimazione del secondo licenziamento. L’azione diretta a invalidare il licenziamento, perché privo di giusta causa o giustificato motivo, ha osservato la Corte, è azione d’annullamento e ha pertanto natura costitutiva, in quanto mira a modificare una situazione preesistente, nel senso di togliere validità all’atto viziato; ne consegue che, nel caso d’impugnazione di un licenziamento sotto il profilo della carenza di giusta causa o giustificato motivo, fino a quando non interviene una sentenza che, in accoglimento dell’azione, lo annulli, esso produce regolarmente l’effetto di far cessare il rapporto di lavoro. Ciò comporta che un ulteriore licenziamento, intimato in corso di causa e prima della sentenza d’accoglimento, deve considerarsi privo di ogni effetto per l’impossibilità di adempiere alla sua funzione. Né l’effetto retroattivo della sentenza che ne accerti l’illegittimità, ha aggiunto la Corte, vale a far acquisire efficacia al secondo licenziamento, operando la retroattività solo in relazione alla ricostituzione del rapporto e non anche a quei comportamenti o manifestazioni di volontà datoriali, da ritenersi "disattivati", perché svoltisi nell’arco di tempo in cui il rapporto di lavoro era ormai estinto.

(Rassegna sindacale n.18, maggio 2001)

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