Mozia come la conobbi

di Benedikt S.J. Isserlin

Traduzione e commento di Gioacchino Falsone

 

Queste pagine (scritte da Isserlin mezzo secolo fa) non sono una mera descrizione folklorica di luoghi e di gente, come quelle del viaggiatore straniero del Settecento, ma piuttosto impressioni vissute e scritte da un inglese che ogni anno e per tanti anni - dal 1950 - è tornato in Sicilia, a Marsala, quasi a continuare una tradizione ormai leggendaria - quella dei Whitaker, degli Ingham e dei Woodbouse -, e al quale va il merito di aver condotto un'impresa archeologica per la quale i marsalesi e noi tutti siamo riconoscenti. Sono pagine dense di nostalgia, di ricordi, di amore verso un lembo di Sicilia ormai scomparso, verso un'isola e un ambiente unici al mondo.

 

La prima volta che mi recai a Mozia fu agli inizi degli anni Cinquanta. Il giorno cominciava a divenire tempestoso, e remare per riportare la barca indietro verso la terraferma era una fatica immane per i due uomini che la conducevano. Erano i fratelli Vincenzo e Giuseppe Pugliese, che avrei avuto modo di conoscere e stimare negli anni a venire. La barca a remi era allora il solo mezzo di trasporto per andare all'isola; più tardi comparvero l'albero e la vela e, molti anni dopo, anche il motore. Il cambiamento fu sintomatico di una più generale trasformazione, come per le biciclette che i nostri operai a poco a poco rimpiazzarono con la lambretta e infine con l'automobile. L'isolamento rurale si veniva a poco a poco infrangendo, insieme a un vecchio stile di vita che si avviava al tramonto.

Quando iniziammo gli scavi a Mozia questo processo era appena cominciato. La quiete campestre regnava assoluta nell'isola e nei dintorni. Solo ogni tanto si sentiva a distanza lo sbuffare del treno che procedeva lungo la linea Trapani-Marsala. Molto più raramente si udiva un clacson di automobile. I suoni dominanti erano lo sciabordio delle onde sulla spiaggia, il vento tra i pini, il canto delle cicale e talora il verso del gallo sull'isola di Santa Maria, a cui rispondeva il gallo di Mozia. A parte qualche barca da pesca, le acque della laguna erano vuote distese, dominate a distanza dalla cupola del Duomo di Marsala. Le imbarcazioni a motore, come anche le case di villeggiatura, non avevano ancora cominciato a ravvivare il paesaggio, né le alte palazzine avevano ancora trasformato lo skyline, della città.

 

Miss Delia e il Colonnello

Per andare a Mozia bisognava appostarsi sulla balza vicina al molo di contrada Spagnola e sventolare un fazzoletto. Fino a quando la tua presenza non veniva notata dagli isolani che sarebbero venuti così a prenderti. Ma spesso e volentieri tutto questo richiedeva una lunga attesa. C'era bisogno anche del permesso rilasciato dal colonnello Lipari, che amministrava l'isola a favore della proprietaria Miss Delia, figlia di Joseph Whitaker, l'antico pioniere degli scavi di Mozia. Miss Delia visitava l'isola di tanto in tanto: di solito vi passava il mese di maggio e abitava nella villa che suo padre aveva costruito, con al seguito due bei cani che venivano lasciati in custodia agli isolani durante la sua assenza. Il colonnello Lipari veniva spesso e a volte si fermava per un po' nella casa di campagna adiacente alla villa.

 

I romantici convogli della laguna

Nelle vicinanze c'erano anche le abitazioni degli isolani, che erano circa una dozzina e tutti imparentati. Le loro occupazioni principali erano due: custodire e mantenere in ordine l'isola e i suoi monumenti, i sentieri, i giardini e coltivare i campi e le vigne. La pesca era un'attività sussidiaria. Le tecniche erano quelle tradizionali; per il trasporto, in particolare, a quei tempi si usavano i carretti tirati da muli, specialmente per portare la sterpaglia da Mozia a Birgi grazie all'antica strada ora sommersa che attraversa la laguna (1). Allora li si poteva vedere in processione, con le bestie che affondavano nell'acqua fino all'altezza del petto. L'introduzione dei trattore ha gradualmente cancellato i muli da questo scenario, e i romantici convogli attraverso la laguna ormai non si vedono più. Bisognerebbe ripristinarli per mantenere e far rivivere una pagina suggestiva di folklore siciliano.

Un altro evento abituale a Mozia era l'arrivo delle capre. Guidava il gregge un uomo piccolo e avvizzito, che portava dei grandi stivali (2). La produzione di uva e vino costituiva comunque l'economia dominante. Non ci fermavamo mai abbastanza per assistere alla vendemmia, anche perché i visitatori erano di impaccio in quel periodo. Ma più di una volta ci accadde di trovarci ancora sull'isola durante i preparativi, quando si doveva levare il vino vecchio dalle botti per far spazio al nuovo. Tutto questo si faceva pompando il vino per travasarlo, attraverso tubi di plastica, in appositi contenitori collocati su una zattera ancorata a una certa distanza dalla spiaggia, pronta a partire per la terraferma (3). Il rumore della pompa e le grida di comando agli operai continuavano fino a notte inoltrata, tanto da non farci prender sonno. Per ovviare a tale inconveniente il colonnello ci dava in dono alcune bottiglie di vino moziese, che era un liquore meraviglioso.

 

Le papere ubriache e i fantasmi di Cappiddazzu

Le altre specie di frutta erano di poca importanza. Come alcuni alberi di gelso, i cui frutti venivano trascurati: anche se noi ne mangiavamo, gli isolani ci nutrivano le papere. Una volta, essendo il frutto fermentato, le papere erano cosi ubriache che si vedevano barcollare in modo impressionante. Begli alberi di pesco, coltivati dagli isolani per il proprio fabbisogno, crescevano coi rami che pendevano afflosciati lungo un muro ed erano protetti da un cartello che diceva "zona avvelenata." Misure più energiche venivano prese qualche volta contro i ladri di uva. Nel 1955, quando i primi grappoli cominciavano a maturare, notammo che il custode più anziano andava in giro tutte le sere a fare la guardia armato di fucile e cartucciera. Tuttavia ci fu detto che qualche volta si era avuta protezione da una fonte ancor più sorprendente.

Le rovine di Cappiddazzu, dice la storia, prendono il nome da un fantasma che portava in testa u' cappeddu (sic. per cappello). E sì che ce n'erano tanti di fantasmi. Un giorno accadde che dei pescatori vennero a rubare uva al tempo della vendemmia, mentre tutti gli isolani erano andati via momentaneamente da Mozia. Purtroppo incontrarono i fantasmi che dissero: "Voi pensavate che non ci fosse nessuno sull'isola, ma eccoci qua!" I pescatori fuggirono terrorizzati e non tornarono più.

 

Scavi con decauville e spalaneve

Al tempo in cui lavoravamo a Mozia non vi furono incidenti e il pattugliamento fu abbandonato. Tuttavia il colonnello portava sempre con sé una pistola, e, almeno nei primi anni, avevano il dovere di portarne una anche i funzionari della Soprintendenza alle antichità che collaboravano con noi. Una volta uno del nostro gruppo in visita a Selinunte fu assalito e derubato dell'orologio; il ladro fu rintracciato dai Carabinieri e l'orologio venne recuperato. Ma qualunque cosa potesse succedere sulla terraferma, la vita sull'isola rimaneva tranquilla. Forse era un tantino monotona per i suoi abitanti e a prima vista sembrava che avessero pochi mezzi di divertimento. Negli anni Cinquanta c'era un vecchio grammofono a manovella, che venne sostituito dalla radio e poi dalla televisione, quest'ultima proprio in tempo per consentire ai nostri operai di interrompere il lavoro per guardare il primo atterraggio dell'uomo sulla luna. Quanto agli scavi, si ricordavano ancora quelli intrapresi molti anni prima da Giuseppe Whitaker. Il colonnello Lipari li aveva visti quando era ragazzo. Ci raccontava dei binari della ferrovia decauville che Whitaker usava e di un rozzo marchingegno tirato da un cavallo, simile a uno spalaneve di legno, che veniva utilizzato per liberare dal fango il bacino del Cothon.

Gli scavi più antichi come quelli di Schliemann avevano lasciato poche tracce nella memoria della gente del luogo.

 

"Ma Colonnello, che cosa mi fá?"

All'inizio di ogni campagna di scavo ci sarebbe stato difficile far a meno dei tanti consigli e dell'aiuto insostituibile che il colonnello ci dava così generosamente. Era sempre interessato a tutti gli aspetti della nostra impresa e controllava, ad esempio, che noi potessimo comprare le nostre attrezzature a poco prezzo. Ricordo ancora l'esclamazione disperata di un negoziante: "Ma colonnello, che cosa mi fà?" Inoltre, selezionava e sorvegliava i nostri operai con l'assistenza di Vincenzo Pugliese. Nessuno avrebbe potuto desiderare una squadra di uomini migliore: erano lavoratori instancabili, capaci e cortesi, e non c'era bisogno di un caposquadra. Quando c'era un problema, essi chiamavano ad alta voce uno del loro gruppo il cui giudizio era rispettato. "Paolo !", era la parola che circolava; e Paolo veniva e la faccenda era sistemata nel migliore dei modi con soddisfazione generale. Ogniqualvolta a mezzogiorno si apprestavano a mangiare, ci invitavano a dividere il loro pasto frugale dicendo: "vuole favorire?". Fummo in grado di ricambiare l'invito quando, durante il dragaggio del Cothon, li lasciammo liberi di prendere le succulente anguille che vi si rifugiavano. Tra i molti operai che lavorarono per noi nel corso degli anni, ce n'era uno che aveva un insolito passato. Una volta ci chiesero di impiegare un uomo che era stato per molti anni in carcere, al quale bisognava dare l'opportunità di riadattarsi alla vita normale. Era la più mansueta delle persone e non ci diede mai alcun fastidio, a parte una volta che mi fece sentire piuttosto a disagio. Eravamo andati a mangiare dei gelsi e, malgrado ogni precauzione, avevo la camicia piena di macchie rosse. Mi guardò e disse: "Oh, ma che cosa ha fatto? Ha commesso un assassinio?" Non si poteva far a meno di chiedersi se egli ne sapesse abbastanza di questo genere di cose per non sentirsi preoccupati. Un bel giorno egli sparì e non si seppe più niente di lui. Altri uomini venivano da un ambiente più normale. Ogni giorno facevano i pendolari tra l'isola e le loro case sulla terraferma, quantunque alcuni riuscissero a trovare una sistemazione temporanea a Mozia. Gli isolani, quando erano liberi, ci aiutavano e così anche le loro donne, che svolgevano per noi le faccende domestiche. La nostra cuoca era Maria che fu con noi per parecchi anni dall'inizio fino alla fine dei nostro lavoro. Noi alloggiavamo in parte nella villa; ovviamente lo splendore edoardiano degli appartamenti privati della signorina Whitaker era al di fuori della nostra portata. In parte eravamo ospitati nella casa di campagna del colonnello. Più tardi, quando la signorina Whitaker fece appositamente costruire con la consueta generosità una casa ad uso degli archeologi britannici e italiani che lavoravano a Mozia, potemmo alloggiare e lavorare anche là. Una volta ci fecero usare anche delle vecchie tende da campo che non erano state più usate dai tempi di Whitaker.(4)

 

Acqua, ghiaccio e luce per gli archeologi

La nostra squadra di archeologi era numerosa e creava non pochi problemi di varia natura. Per prima cosa avevamo bisogno di acqua potabile. Questa si doveva quotidianamente portare da Marsala, dove, al tempo in cui siamo arrivati, era carente e veniva erogata in determinate ore del giorno. Tuttavia, l'acqua non ci mancò mai grazie alla cortesia dell'Hotel Stella d'Italia. Un altro problema era costituito dal procurarsi e mantenere cibi e vettovaglie che potevano avariarsi. Non essendoci elettricità, per molti anni non ci furono frigoriferi a Mozia - un generatore fu istallato solo molto tempo dopo la nostra prima campagna. Di conseguenza si comprava ogni giorno a Marsala un grosso blocco di ghiaccio che veniva portato in un sacco insieme alla carne, il pesce, il burro e altri generi alimentari - i quali nondimeno, in giornate particolarmente afose, potevano andare a male lo stesso durante il tragitto. All'arrivo a Mozia il ghiaccio veniva sistemato insieme alle provviste in una vecchia ghiacciaia nella casa di campagna: col risultato che la mattina dopo, anche se il cibo era ancora buono per l'uso, il ghiaccio si era sciolto formando un piccolo lago sul pavimento della cucina. Più tardi, quando arrivarono i frigoriferi, ci fu permesso di utilizzarli. Nondimeno, questo e altri aspetti con l'andare degli anni procuravano non pochi grattacapi a mia moglie, che governava le faccende domestiche. Fu soprattutto grazie alla sua cura che nel complesso i problemi di salute furono ridotti al minimo (fatto interessante, i giovani americani che partecipavano agli scavi, cresciuti in condizioni di massima igiene, erano soggetti a intenzioni molto più degli altri). Quando qualcuno si ammalava, potevamo beneficiare della capacità professionale del dottor Casciola di Marsala, verso il quale abbiamo un grande debito di gratitudine. La mancanza di elettricità a Mozia comportava il fatto che per molti anni non ci fu luce, a parte candele e lumi a petrolio. Ogni anno ciascuna spedizione comprava un'enorme quantità di piccoli lumi, che la sera venivano distribuiti ai membri dello staff, prima che si ritirassero nelle loro camere in una sorta di processione a luce di torcia. Inoltre, una lampada posta su una pietra all'esterno della casa illuminava le nostre riunioni serali. All'interno dell'edificio un grande lume a petrolio, quasi un pezzo d'antiquariato, sospeso sopra la tavola da pranzo, dava una luce eccellente ma causava ansietà praticamente di anno in anno. Pendeva in un modo tale che le persone più alte che si alzavano precipitosamente dal loro posto vi sbattevano regolarmente la testa: il tubo di vetro dunque si rompeva e questo era per noi un grave handicap. Per fortuna c'era ancora a Palermo un negozio che vendeva tubi di questo antico modello e ci consentiva di sostituirli ogni volta, malgrado il nostro timore che la riserva fosse già esaurita.

 

Storie di animali

La nostra vita sull'isola rifletteva, sotto vari aspetti, quella che normalmente si conduceva nel circondario. Questo è probabilmente vero anche rispetto alla grande quantità di animali selvatici che ci circondava. Le lucertole erano comuni e i serpenti apparivano più occasionalmente a distanza o potevano cadere addosso a qualcuno da un cespuglio: si supponeva che fossero innocui, ma spesso ci chiedevamo se loro se ne ricordassero.(5)

Farfalle meravigliose amavano i fiori del glicine che ornava l'entrata principale della villa, ma avevamo il tempo di osservarle solo la domenica mattina. Vicino alla spiaggia banchi di pesci si scaldavano nell'acqua calda, ma fuggivano precipitosamente quando sentivano l'appressarsi di qualcuno.(6) I granchi si potevano vedere tra le pietre vicino al molo, con una lieve bava alla bocca, o mentre si crogiolavano al sole su un sasso in mezzo alla laguna. Venivano catturati per cibo o per farne esca; ma ce n'erano alcuni più grossi, neri e ripugnanti che ci cantavano sotto le dita dei piedi, quando lavoravamo nel bacino dei Cothon.(7)

 

La civetta acrobata e l'isola dei topi

La scena cambiava al calar della notte. Dei ragni enormi e dalle lunghe zampe venivano allo scoperto a quell'ora e si appostavano sulle loro tele fuori la casa di campagna, quasi a volersi godere il tramonto; frotte di pipistrelli volteggiavano intorno e talora penetravano nelle stanze attraverso le finestre alla ricerca di un posto dove stare. Più tardi nella notte, quando un fascio di luce abbagliante dal faro di Favignana penetrava dalla finestra nelle nostre camere nella villa a intervalli regolari, si sentiva il grido della civetta che scandiva il tempo con una cadenza regolare come un orologio.(8) Mi è stata raccontata una storia straordinaria circa questa specie di uccello; il maschio, quando fa la serenata alla femmina, farebbe un giro come un acrobata intorno al ramo sul quale sta appollaiato ed emetterebbe il suono, che noi ascoltavamo, quando ritorna di nuovo nella posizione superiore. Ho chiesto a un ornitologo se aveva senso questa strana storia. Mi guardò pensoso e mi rispose che era possibile: gli uccelli fanno cose straordinarie! Ma la parte meno piacevole del regno animale era soprattutto rappresentata dalle zanzare. Il più delle volte non erano un grosso inconveniente; ma una volta, a settembre, divennero una tale piaga che nel tardo pomeriggio, quando venivano fuori, dovemmo abbandonare il lavoro all'esterno e chiudere porte e finestre per tutta la notte. Topi e ratti di solito non costituivano un problema, poiché non mancavano sull'isola gatti semiselvatici. Una gatta di nome Susa si distingueva per il suo miagolio lamentoso da Cassandra e fu per noi una peculiarità dell'isola. Tuttavia, una volta furono organizzate delle vere e proprie cacce ai topi col fucile. La vera dimora di questi roditori - ci fu detto - era l'isolotto di La Scuola, nota popolarmente come "Isola dei Topi". Quando il cibo vi scarseggiava, abbandonavano l'isola guidati dal topo più vecchio e più savio e nuotavano per la laguna fìno a Mozia. Quando venivano cacciati, ripartivano da Mozia per la terraferma, sempre guidati dallo stesso topo anziano e savio, dopo di che non si vedevano più.(9) E' vero? E' possibile.

 

Commiato

La morte della signorina Whitaker, seguita poco dopo dalla malattia e scomparsa del colonnello Lipari, pose fine al contesto in cui avevamo lavorato per tanti anni. Il suo gentile consenso aveva reso possibili le nostre ricerche sull'isola, verso le quali ella mantenne un enorme interesse fino alla fine. L'aiuto del colonnello, sempre pronto in ogni momento, fu altresì un beneficio incalcolabile per la nostra impresa. La Fondazione Whitaker, alla quale Miss Delia lasciò Mozia, continuò a rendere possibile il nostro lavoro sull'isola come ella aveva fatto (cosa per cui siamo grati); lo stesso ha fatto il figlio del colonnello Lipari, Edoardo, che ha continuato la tradizione paterna (al quale siamo altresì riconoscenti). Tuttavia, per le mutate condizioni economiche e il bisogno di preparare la pubblicazione dei risultati degli scavi, ci consigliò di fermarci. Abbiamo lasciato Mozia con nostalgia e nella speranza che quest'isola, che offre una così unica combinazione di rovine antiche e di bellezze paesaggistiche, possa continuare a mantenere il suo carattere in particolare, che possa a lungo adornare l'isola la splendida pineta piantata da Whitaker, una delle tante glorie e memorie per cui egli merita riconoscenza. Queste poche pagine di reminiscenze, in segno di stima e riconoscenza, le dedico a Vincenzo Tusa e alla signora Aldina, che ci accolsero benevolmente e aiutarono la nostra missione archeologica per molti anni. Forse alcuni dei miei ricordi coincideranno con i loro, accumulati in particolare nei giorni in cui Tusa era impegnato nei suoi interessanti scavi a Mozia assieme alla missione dell'Università di Roma, come pure nei periodi in cui ci venne incontro come funzionario della Soprintendenza alle antichità; quando era in carica, egli si ado- però tanto per promuovere gli studi fenici e punici nella Sicilia Occidentale.

 

 

Note

* Titolo originale: "Motya as I knew it: a vanished piece of rural Sicily", in "Studi sulla Sicilia Occidentale in onore di Vincenzo Tusa". Bottega di Erasmo, Padova 1993, pp.101-104. Traduzione e note di Gioacchino Falsone.

1) La sterpaglia a cui si riferisce lsserlin consisteva di agavi, lentischi e vegetazione spontanea, che veniva estirpata dai campi incolti allorquando si doveva preparare una nuova piantagione a vigneto. I carretti in genere servivano per trasportare paglia, fieno, sulla e uva al tempo della vendemmia. Di solito si formavano file di sei o sette carretti, guidati dai mezzadri residenti a Birgi, che mattina e sera dovevano attraversare la laguna per andare a lavorare nei campi. A Mozia, invece, i custodi possedevano fino agli anni '50 un solo carretto e un mulo che erano tenuti in una stalla apposita.

2) Il personaggio qui descritto era il pastore Simone Figuccia, detto Scimuni, che per tanti anni portava il gregge a Mozia prima in autunno e poi in primavera. La tradizione di famiglia fu continuata dai numerosi figli fino agli inizi degli anni '80. Il gregge veniva prima trasportato in piccole barche mosse con le pertiche (anzicché a remi). In tempi più recenti veniva trasportato su una chiatta trainata da una barca a motore.

3) Il vino veniva trasportato agli stabilimenti vinicoli di Marsala. La chiatta sostava in mare nel punto più vicino al magazzino dei vino, cioé nell'area di fronte alla Casa dei Mosaici. Il racconto di Isserlin si riferisce a tempi recenti (anni '60). Prima, invece, si usava un grosso barcone delle saline, detto civu, ove si potevano portare ben otto barili o fusti di legno, detti bozzelli, di 300/400 litri, che venivano fatti rotolare fino al molo e poi sistemati nel civu; questo veniva a sua volta azionato nella laguna con l'aiuto di lunghe pertiche, dette pinituri. Un altro tipo di imbarcazione usata nelle saline dello Stagnone erano gli schifazzi, che servivano per trasportare il sale fino a Trapani. Erano delle grandi imbarcazioni a vela, provviste di stiva, che venivano spinte sull'acqua con le pertiche quando non c'era vento.

4) Probabilmente si tratta delle tende che Whitaker, amante di caccia grossa e di uccelli, usava nelle sue escursioni in Africa. Le tende sono rappresentate in un dipinto dei Lojacono, oggi ancora conservato nella Villa Malfitano a Paler- mo, il cui tema riguarda appunto una battuta di caccia in Tunisia.

5) I "serpenti" di Mozia non sono altro che delle comuni bisce di colore nero. Sono del tutto innocue, ma possono attaccare l'uomo, solo se disturbate mentre sono avvinte in un amplesso amoroso.

6) I pesci vicino al molo sono per lo più muletti, vuggiuna, qualche piccola spigola, orata e neonata del sarago. Un tipo di sarago detto caporale viene a deporre le uova nello Stagnone.

7) I granchi sono catturati nello Stagnone per la pesca a mare aperto e sono un'ottima esca per polipi, viole e altri piccoli pesci. Nello Stagnone vivono tre specie di granchi, detti volgarmente aranci: a) aranci di luna, così detti in quanto hanno più polpa quando c'è la luna piena; b) aranci di 'mmerda, detti così perché molli: sono di colore nerastro o grigio scuro e stanno sulle pietre o sulle rocce vicino alla spiaggia; c) aranci pilusi o pelosi, di color marrone, sono dei granchi di tana che stanno lungo le coste (mai a mare aperto), nelle rocce, nei moli o nelle trisce. Pesano fino a 200/300 grammi, sono i più saporiti per la zuppa o al sugo, ma anche i più pericolosi perché attaccano se disturbati. Quanto ai granchi del Cothon, cui si riferisce lsserlin, è probabile che siano quelli del secondo o terzo (?) tipo.

8) Evidentemente si tratta del "chiù", che prende il nome dal verso tipico che lo caratterizza e che in siciliano è detto iacobbu.

9) Anch'io ho sentito dire questa storia. Mi hanno inoltre raccontato che il capofila, cioè il capo dei topi, una volta in acqua nuota e guida gli altri in fila indiana; questi ultimi si afferrano alla coda di quello che li precede e si lasciano trainare stando a pancia all'aria. Come per gi elefanti, la fila evita che qualcuno si disperda e al tempo stesso viene seguita la via più corta e dritta che il capo conosce a perfezione.