La Famiglia Whitaker

(Relazione di Vicenzo Tusa in atti del seminario di studio "I Whitaker di villa Malfitano", tenutosi in Palermo il 16 - 18 marzo 1995 su "I Whitaker di villa Malfitano" a cura di Rosario Lentini e Pietro Silvestri, pubblicati dalla Fondazione "Giuseppe Whitaker" con il patrocinio dell'Assessorato dei beni culturali, ambientali e della pubblica istruzione della Regione siciliana nel dicembre 1995).

 

Della famiglia Whitaker, della loro presenza nella Sicilia occidentale fin dall'inizio del secolo scorso, del loro impatto con la società palermitana di quell'epoca, del loro comportamento e, soprattutto, di quello che, per l'aspetto socio-economico, la famiglia Whitaker rappresentò per la Sicilia occidentale, se n'è parlato anche in convegni precedenti.

Io piuttosto, in quest'occasione, in questa casa che ho iniziato a frequentare fin dagli anni Cinquanta e che mi suscita tanti ricordi, (come non ricordare, a questo punto, il buon Raffaele?), desidero, attraverso i miei ricordi personali, segnalare brevemente qualche aspetto della famiglia Whitaker, che, dico subito, noi abbiamo il dovere di ricordare per l'apporto sociale, economico e culturale che ha dato a questa parte della Sicilia. Appunto sull'aspetto culturale sono basati i miei ricordi personali. Conobbi la signorina Delia Whitaker, ultima erede della famiglia, figlia di Giuseppe cui si deve l'immissione di Mozia negli studi archeologici, nel lontano 1950: frequentavo allora la Scuola di Perfezionamento in Archeologia presso l'università di Roma e con un gruppo di allievi abbiamo fatto, nel giugno di quell'anno, un viaggio d'istruzione in Sicilia nel quale Mozia ci occupò per quasi una giornata intera.

Ci guidava Biagio Pace, il massimo conoscitore della Sicilia antica che a Mozia aveva fatto le sue prime esperienze archeologiche, allacciando rapporti di amicizia con la famiglia Whitaker. Ci ricevette, nell'Isola, con grande signorilità e, nello stesso tempo, con cordialità, la signorina Delia, accompagnata dal colonnello Giulio Lipari che si occupava di Mozia e degli altri beni della famiglia nel territorio marsalese, un uomo che in seguito ebbi occasione di conoscere benee di stimare. La signorina Delia ci parlò dell'Isola e del lavoro che vi aveva svolto, per l'archeologia, il suo genitore verso cui mostrava una grande ammirazione.

D'allora incontrai la signorina Delia in varie occasioni, sia a Mozia che a Palermo, in questa magnifica dimora, e qualche volta anche a Roma, nella villa di Monti Parioli: mi parlava sempre di Mozia e di vari episodi connessi con l'attività archeologica del padre. Una volta, ad esempio, mi disse dello scavo effettuato dal padre nella cosiddetta "casa delle anfore": osservando in seguito, sul posto, la parte scavata, espresse il desiderio che io continuassi quello scavo, cosa che feci, e lei veniva spesso sullo scavo. In uno degli incontri in questa villa, mostrando io la mia ammirazione per il parco, mi invitò a condurvi i miei figli e mia moglie, quando volevo.

Qualche volta era presente anche Biagio Pace il quale non mancava di venire a villa Malfitano ogni qualvolta si trovava a Palermo. Il discorso verteva qua si esclusivamente su Mozia. Ricordo bene che una volta la signorina Delia rivolse al professar Pace questa domanda: "Che ne facciamo, professor Pace, della nostra isoletta? chi la curerà quando noi non ci saremo più?" Pace accennò alla costituendo Fondazione (ovviamente ne avevano parlato prima) e poi, indicandone alla signorina Delia, disse: "questo giovane (allora!) se ne occuperà, e sono certo che farà bene". Furono queste parole di Pace a farmi acquistare un a posizione di fiducia presso la signorina Delia. Accompagnando Pace in albergo (Les Palmes) e sostando un pò in un salottino, il professore mi rese edotto della costituendo Fondazione e mi raccomandò espressamente, dalla Soprintendenza alle Antichità dove prestavo servizio, di adoperarmi in ogni modo per la costituzione della Fondazione e per la sua vita: quasi un testamento spirituale da parte di un uomo e di un maestro che stimavo; spero di aver tenuto fede, nei limiti delle mie possibilità, all'impegno che allora presi con il professar Pace e con me stesso.

Per via della presentazione di Pace la signorina Delia mi chiamava ogni qual volta si occupava della sistemazione delle sue cose per il futuro, ovviamente solo quando si trattava di Mozia. La costituzione della Fondazione Whitaker, avvenuta nel 1975, eretta in ente Morale e posta sotto il patrocinio dell'Accademia Nazionale dei Lincei, rappresentò l'ultimo atto della famiglia, e precisamente da parte dell'ultimo membro di essa, la signorina Delia, a favore della Sicilia, concludendo così degnamente, un'opera secolare segnata da vari interventi in vari campi di attività. Quest'ultimo, nel campo della cultura fenicio-punica del Mediterraneo, avendo come punto di riferimento Mozia, rappresenta l'attività, forse preferita, di Giuseppe Whitaker di cui la Fondazione porta il nome.

Com'è noto la Fondazione è regolata da uno Statuto che, all'art. 2, lettera b, prevede, appunto, «la promozione in generale dello studio e della conoscenza della civiltà fenicio-punica nel Mediterraneo». Voglio sperare che questo fine, sancito dallo Statuto, venga sempre perseguito e conseguito: l'isola di Mozia, che fa parte del patrimonio della Fondazione, ne fa obbligo. Ritengo opportuno, a scopo documentativo, rendere nota, in questa sede, la relazione che io feci alla Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Occidentale alla fine della campagna di scavi eseguita nel luglio- agosto 1955 da una Missione archeologica dell'Università di Leeds guidata dal professor B. Isserlin, della stessa Università.

Fu questa la prima campagna di scavi condotta a Mozia dopo quelle di Whitaker e l'altra guidata da P. Marconi nel 1930. I risultati di questa campagna sono stati in parte, pubblicati da Isserlin ed altri collaboratori - Joan Du Plat Taylor - in Motya - A phoenician and carthaginian city in Sicily, vol. 1, Leiden, Brill" 1974 e da altri scritti degli stessi autori in varie riviste.

Questa la mia relazione sugli scavi compiuti a Mozia da una missione inglese dal 18 luglio al 13 agosto 1955: «Incaricato dal Ministero con nota n. 3080 del 910711955, mi reco a Mozia per assistere la Missione Inglese che si propone di eseguire saggi di scavo nell'Isola. Detta missione, che è patrocinata dafl'Università di Oxford, è guidata dal dott. B. Isserlin, docente di lingue semiotiche all'Università di Leeds; componente della missione è tra gli altri, il Sig. B. Culighan, studente dell'Università di Oxford, specialista di ceramica punica. Gli altri componenti la missione, in numero di tre, non hanno incarichi scientifici. Come appare da una lettera del 3/12/1954 della "Oxford University Archaelogical Expedition to Motya" diretta al Direttore della Scuola Britannica di Rorna e da questi mandata per conoscenza alla Soprintendenza alle Antichità di Palermo, i risultati che con questi saggi di scavo la Missione si propone di raggiungere sono i seguenti: "recare nuova luce allo sviluppo della cultura fenicia e alle relazioni tra Fenici e Greci nel Mediterraneo occidentale, alla cronologia delle antiche colonie in quest'area come pure alla loro influenza sullo sviluppo delle culture indigene della Sicilia Occidentale". Questi risultati si vogliono ottenere mediante saggi stratigrafici da praticare in tre diversi punti dell'Isola: al centro dell'Isola stessa alla ricerca delle antiche abitazioni, vicino al kothon alla ricerca di edifici commerciali, a nord dell'Isola attraverso le mura e la vicina necropoli per stabilire la data di costruzione delle mura e i limiti dell'area nella necropoli. Il Prof. Isserlin mi diceva poi che egli sperava di trovare materiale specificatamente fenicio, appartenente cioè ai primi colonizzatori dell'Isola. Niente da eccepire sulla condotta dello scavo: questo è eseguito in maniera molto precisa e, se mai, si può dire che pecchi di eccessiva minuzia; esso dà comunque tutte le garanzie di serietà e di correttezza. Il metodo si può nelle grandi linee descrivere così: dopo aver scelto il luogo dove scavare si segnano sul terreno i limiti della trincea che spesso non supera la dimensione di m. 4 x 2. Iniziato lo scavo ci si fa guidare esclusivamente dalle trasformazioni del terreno: ognuna di queste corrisponde ad uno strato, ogni strato porta un numero (evidentemente ogni trincea ha una lettera): si raccolgono tutti i pezzi rinvenuti nei vari strati, si lavano e poi ad ognuno si da un'indicazione corrispondente alla trincea e allo strato. Alcuni pezzi, quelli proprio inuti- li, vengono scartati, dopo essere stati lavati, prima di essere numerati. Il tutto evidentemente viene segnato in un giornale di scavo. La massima fiducia quindi sulla condotta dello scavo come tale. Questo metodo è esattamente descritto, con lievi varianti, nei seguen ti due volumi in possesso della Missione: K. M. KENYON, Beginning in Archaelogy, London 1952; R. e ATKINSON, Field Archaelogy, 2^ edition, Methuen 1953. I saggi eseguiti ammontano ad otto: uno al centro dell'Isola, quattro nei pressi del kothon, due nell'area delle rovine in località "Cappiddazzu", uno a Nord dell'Isola tra la nuova e la vecchia necropoli; in questo saggio è stato rinvenuto, sottostante al presente piano contemporaneo alle mura, un sepolcro ad inumazione simile a moltissimi rinvenuti negli scavi precedenti, contenente oltre allo scheletro, una oinochoe di tipo punico, una brocca dal lungo collo e dal labbro svasato pure di tipo punico e una kiìix di tipo greco a vernice nera, tutti pezzi già noti a Mozia; di altri tre piccoli saggi accennerò in seguito. Non sto qui a descrivere minutamente i risultati di ogni saggio: per aver eseguito giornalmente i lavori sarei in grado di farlo, ma in questa sede mi sembra inutile; qui intendo piuttosto esaminare quello che può essere considerato il risultato finale di tutta la campagna di scavo.

In quasi tutti i saggi, che in profondità sono tutti arrivati o al terreno vergine o alla roccia o all'acqua quando si arrivava al livello del mare, nella parte più profonda si sono rinvenuti frammenti (è bene dire fin d'ora che non si è trovato un vaso, anche piccolo, intero: solo frammenti minutissimi dai quali molto difficilmente si può ricostruire qualche fonna) di ceramica d'impasto, bruna, caratteristica degli strati preistorici. Nel primo saggio anzi questa ceramica s'è trovata vicina a dei muri uno dei quali, che accennava ad esser circolare, poteva essere un fondo di capanna, ipotesi questa corroborata dal fatto che al di sotto di questo muro si è trovato uno strato di terra scura, grassa, tipica dei fondi di capanne: la tecnica di costruzione del muro confermava quest'ipotesi. La ristrettezza della trincea però ha impedito di stabilire esattamente di che cosa si trattasse. Lo stesso motivo ha impedito di accertare di che cosa si trattasse a proposito di certi muri scoperti in uno dei saggi vicino al kothon: qui non si è stati in grado di formulare un'ipotesi. A cominciare dallo strato più profondo, dunque, abbiamo: ceramica di impasto preistorica; pochissimi frammenti di ceramica d'importazione protocorinzia o corinzia mista a frammenti di quella ceramica locale ad "ingabbiatura rossa decorata in bruno di linee, partizioni in triglifi" (Pace, Arte e Civiltà, 11, pag. 462); segue poi quella ceramica grezza rossastra, di età non definibile e della quale a stento si può ricostruire qualche forma di tipo punico. Non è mancato qualche sparuto frammento di ceramica a vernice nera (sec. IV) o attica a f.n. e a f. r.: per questi ultimi si tratta di pochissimi esemplari spesso in strati sconvolti. Spesso, come nel saggio di "Cappiddazzu", la ceramica d'impasto si è trovata insieme alla ceramica locale ad ingabbiatura rossa, nello strato appartenente a quest'ultima, segno questo che venivano usate contemporaneamente. Tutto qui , dunque: niente che non si sapesse già da tempo.

Da un certo punto di vista i due saggi più interessanti sono stati quelli eseguiti vicino al kothon, lungo la cinta muraria; ci è stato possibile cosi vedere la tecnica di costruzione delle mura. Queste poggiano su un banco di calcare, quello stesso adoperato poi in superficie per le mura stesse, che a sua volta poggia su uno strato di argilla sedimentaria grigia. Nient'altro mi pare si possa dire sul risultato di questi scavi; l'esistenza di un abitato preistorico era pure nota. Nessun contributo di carattere storico, dunque, hanno dato questi scavi, né di carattere monumentale. Nell'ultimo giorno di scavo il capo della missione ha creduto opportuno far aprire tre saggi di scavo, uno a Nord sulla stessa linea del saggio attraverso la cinta muraria, proprio sulla battigia del mare, uno vicino al grande muro a struttura isodoma, l'altro attaccato allo spigolo del torrione N della Porta Nord: gli intenti di questi saggi dovevano essere eguali ai precedenti, almeno stando a quanto mi disse, ma ognuno può vedere quanto essi fossero aleatori: si pensi che nel secondo dei tre sopraccitati saggi si scavò solo nel pomeriggio del 13 agosto per tre ore soltanto, quindi. A conclusione di queste brevi note mi si consenta di dire che, nel caso particolare di Mozia, conoscendo già le sue vicende storiche che sono state confermate e illuminate da precedenti scavi, sia opportuno più che fare saggi, intraprendere grandi campagne di scavi che si propongano di portare alla luce, se non tutta la città, almeno una parte di essa: come, ad es., la cinta muraria, la zona cosiddetta di "Cappiddazzu", la zona dove è posta la casa dei mosaici, etc. Qualche saggio stratigrafico si può eseguire nel corso di questi scavi per avere qualche conferma sulla successione del materiale trovato.

Si continuerebbe così l'opera grandiosa di scavo iniziata e portata a buon punto agli inizi di questo secolo dal Comm. G. Whitaker e magistralmente interpretata e fatta conoscere al mondo della cultura dallo stesso Whitaker e da B. Pace.»