La "zattera" di Mozia

( Articolo di Luisa Maria Famà pubblicato dalla Fondazione Whitaker nella rivista Kalòs)

Storia di un'isola tra archeologia, letteratura e paesaggio.

L'isola di Mozia, quasi una zattera sul mare di Marsala, ha subito nel corso dei secoli una quantità di eventi eccezionali. Posto di comando strategico della potenza punica in Sicilia, tragicamente distrutta dai Siracusani nel 376 a.C., all'inizio del secolo venne acquistata da Giuseppe Whitaker il quale intraprese le prime ricerche archeologiche costruendovi un museo. Oggi Mozia, tra storia, letteratura e cronaca, aspetta urgenti interventi operativi per salvaguardare il suo patrimonio archeologico, architettonico e naturalistico.

 

Mozia è un'isola piccolissima, una zattera tonda che galleggia, fragile, nel cuore dello Stagnone di Marsala. "Sembra infatti, una volta su codeste sponde, di essere penetrati in uno degli impossibili specchi d'acqua che nel deserto si formano illusoriamente ai margini dell'orizzonte, e riflettono palme, cespugli, cammelli in un'acqua limpidissima che non esiste". Con queste suggestive parole Cesare Brandi introduce Mozia nella sua Sicilia mia, e così Vincenzo Consolo descrive nel Retablo le impressioni di don Fabrizio al suo giungere a Mozia: "Camminando, s'appressava a noi, sorgendo appena da quello spesso mare evaporato il bel teatro delle mure gialle, con torri e porte che lungo la spiaggia concludevano l'isola e il verdeggiare suo di terebinti, palme, ampelodesmi, pini d'Aleppo, ferule, agavi, giunchiglie, nell'intensa e calda, nella corposa luce dello specchio d'acque, luce fenicia, di riflesso porpora, di vetro o di conchiglia, che avvampa e assolve ogni più vera, dura consistenza".

Sottrarsi al fascino di quest'isola è impossibile, anche per chi vive e lavora e studia a Mozia, isola misteriosa perché ancora le sue case, le sue piazze e i suoi mercati fenici e punici sono nascosti nella terra, sotto i vigneti, i pini ad ombrello e le ferle.

 

Le ricerche archeologiche.

Certo molto si è fatto in questi ultimi trent'anni e lo si deve al Soprintendente archeologo Vmcenzo Tusa, professore di antichità puniche all'Università di Palermo, che vi ha condotto i suoi scavi (nel Santuario di "Cappiddazzu", nella Necropoli arcaica, nel quartiere artigianale dei vasai, in un settore dell'abitato) ed ha consentito ad illustri archeologi di condurre ricerche di importanza eccezionale: Antonia Ciasca ha portato in luce il Tofet ed un largo tratto delle Fortificazioni, B.S.J. Isserlin ha eseguito scavi a Porta Nord, al Cothon e a Porta Sud, per citare i più importanti. Ma alla ricchezza dei dati raccolti nel corso di queste ricerche corrisponde l'estrema penuria di conoscenze sull'urbanistica e sulla cultura abitativa della città antica. I monumenti allo scoperto infatti sono privi del tessuto connettivo, della trama necessaria per "vedere" la città, la sua forma e le sue parti interne. Le conoscenze sul sistema viario si limitano a due segmenti di strade, l'asse che partendo da Porta Nord si interrompe in corrispondenza del Santuario di "Cappiddazzu" ed un'altra via, orientata in senso nord-ovest/sud-est, scoperta nel settore centrale dell'isola. Si conosce - inoltre un'ampia zona all'aperto (forse una piazza) nell' "area K", dove è stata scoperta la ormai famosissima statua marmorea del "Giovane".

Oggi a Mozia la Soprintendenza di Trapani prosegue le ricerche nell'abitato, curate da chi scrive e da Antonia Ciasca, alle Fortificazioni ed in altri punti dell'isola, ma ancora molto occorre fare per dare un volto a questa città.

Diodoro Siculo così la descriveva: "abbellita artisticamente in sommo grado con numerose belle case, grazie alla prosperità degli abitanti" (Diodoro, XIV, 48). Fondata alla fine dell'VIII sec. a.C., era diventata ben presto una delle più importanti colonie fenicie del Mediterraneo, grazie anche alla sua felice posizione geografica. Nel VI sec. a.C. toccò l'apice della sua fortuna, quando vennero realizzate grandi opere pubbliche fra le quali, forse più importante, la strada costruita sul mare che metteva in collegamento l'isola con la costa antistante. Ma nel 397 a.C. la prosperità di Mozia ebbe fine tragicamente ad opera del tiranno Dionisio di Siracusa che la distrusse, utilizzando anche le catapulte (Diodoro, XX, 48); uomini, donne e bambini vennero trucidati ed i prigionieri venduti come schiavi. L'anno successivo venne ripresa dai Cartaginesi, ma il suo splendore era ormai un ricordo.

Di quella distruzione restano cospicue tracce lungo le fortificazioni, abbattute e ricostruite frettolosamente in più punti dagli assediati, nel quartiere artigianale, dove i muri delle officine vennero utilizzati come estrema difesa, a Porta Nord, da cui proviene la maggior parte delle punte di frecce di bronzo.

Adesso queste armi, documenti di guerra e dolore, sono ammirate dai turisti nel Museo locale.

 

Gli inglesi a Mozia.

Il Museo venne costruito nei primi anni di questo secolo da Giuseppe Whitaker, appassionato cultore di archeologia e scienze naturali, che acquistò l'isola dai pochi contadini che l'abitavano per eseguire i primi scavi sistematici e per dedicarsi ai suoi otia naturalistici.

Questa sua impresa non venne accolta di buon grado dalla moglie, Tina Scalia, che a tale proposito ebbe a dire: "Mi sforzo di fargli evitare spese eccessive. Bisogna pensare al futuro delle ragazze!" Ma il Whitaker continuò le ricerche e a poco a poco raccolse una gran quantità di dati e materiali che pubblicò nel suo libro Motya, A Pboenician Colony in Sicily, nel 1921.

Oggi l'isola appartiene alla Fondazione "G.Whitaker", istituita nel 1971 per volere della figlia Delia, quando era ormai vecchia e senza eredi.

Protetta dai vincoli archeologico, architettonico e paesaggistico, Mozia si è conservata inviolata, a dispetto dei tempi; fa inoltre parte della Riserva Naturale Orientata dello Stagnone, istituita in anni recenti. Queste condizioni particolari e privilegiate potrebbero indurre a pensare che l'isola sia un piccolo paradiso terrestre, ed in parte lo è, ma per chi abita e lavora a Mozia la vita non è facile: non c'è acqua e non c'è luce. Il rifornimento idrico è affidato alla generosità, assai scarsa, del cielo, e la luce proviene da un gruppo elettrogeno. Le vecchie case in cui abitano i custodi e in cui lavorano gli archeologi sono fortemente malandate, anche se pittoresche, e andrebbero restaurate prima che il tempo cancelli queste amene testimonianze di architettura rurale, e così pure la chiesa. Inoltre, non si può costruire a Mozia e gli spazi disponibili sono molto limitati. Sempre più pressante diventa la necessità di restaurare la Palazzina Whitaker per crearvi il nuovo Museo e per dare spazio e giusta esposizione ai reperti provenienti dagli scavi in corso e per evitare che questi vengano trasferiti fuori dall'isola.

La vegetazione inoltre, ha sofferto molto della mancanza di acqua e di cure, e molti pini sono stati abbattuti dalle tempeste di vento, incluso quello che al molo accoglieva, ombroso, i visitatori.