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Antonino Di Giorgio, marito di Norina in divisa militare

IL GENERALE DI GIORGIO TRA VITA MILITARE E POLITICA

(Relazione di Giuseppe De Stefani in atti del seminario di studio "I Whitaker di villa Malfitano", tenutosi in Palermo il 16 - 18 marzo 1995 su "I Whitaker di villa Malfitano" a cura di Rosario Lentini e Pietro Silvestri, pubblicati dalla Fondazione "Giuseppe Whitaker" con il patrocinio dell'Assessorato dei beni culturali, ambientali e della pubblica istruzione della Regione siciliana nel dicembre 1995).

Il mio compito è quello d'esporre in breve il tema su: Il generale Di Giorgio tra vita militare e politica, argomento molto vasto ed impegnativo che rientra nella fase storica dal liberalismo al fascismo, in particolare dall'Italietta umbertina alla nascita del fascismo; a ciò si aggiunga, anche, il legame tra il predetto personaggio ed i Whitaker. In linea di massima ho rielaborato quanto ho già scritto quando ho avuto l'onore di curare il libro Ricordi della grande guerra (1915-1918) del generale Antonino Di Giorgio, stampato nel 1978, con introduzione del professore Massimo Ganci, comprendente carte inedite più un'appendice (scritti, discorsi, epistolario, note) ed un profilo biografico, pubblicato dalla Fondazione Whitaker e credo, forse, quello sia stato il primo volume dato alla luce dal predetto sodalizio; quelle carte pervennero in lascito dal depositario avvocato Capel (amico del Di Giorgio) all'Istituto del Vittoriano che attraverso la, ora compianta, professoressa Emilia Morelli furono versate alla Fondazione Whitaker (da poco sorta), nella persona del suo primo presidente - l'insigne professor Bruno Lavagnini -, dato che l'istituzione siciliana rappresentava il naturale erede morale del connubio del binomio Di Giorgio-Whitaker. Sensibilità di squisitezza antica e, ormai, sempre più rara.

Ciò posto, vediamo, in rapida panoramica, chi fu Antonino Di Giorgio.

Nacque a San Fratello, in provincia di Messina, il 22 settembre 1867 da una famiglia di piccola borghesia; vocato alla carriera militare sin dalla giovane età ebbe il consenso dei genitori, che altra via avrebbero desiderato per il figlio primogenito, per questa scelta precoce; ottenne l'ammissione al collegio militare della Nunziatella, a Napoli, celebre e prestigioso istituto d'istruzione scolastica medio-superiore tra i più antichi d'Europa nel suo genere, unico esistente in quel momento in tutto il meridione d'Italia, ove compì i suoi studi classici e propedeutici alla formazione militare.(1)

Frequentò poi la Scuola militare di Modena(2), che ancora non era denominata accademia ma che assolveva a tale livello, e, dopo un biennio (era l'epoca dei corsi brevi),(3) ne uscì sottotenente di fanteria nell'estate 1888. In autunno fu assegnato al 77° Reggimento Fanteria (Brigata Toscana), a Pescara, e lì ebbe la fortuna d'avere per comandante il colonnello Cesare Airaghi. Questo personaggio gli fu maestro di vita non solo militare, ma anche civile, nel senso lato del termine, ed il giovane ufficiale si legò, a quel tempo, d'affetto filiale per l'austera paterna figura di missionario laico che fu il predetto colonnello: uomo celibe tutto dedito con fine altruismo, al senso del dovere nella chiave culturale più ampia e profonda; per brevità, l'Airaghi fu quella figura di militare colto e valoroso indicata con ammirazione dal Croce nella sua Storia d'Italia.(4)

Fu così che in breve tempo un uomo d'intelligenza assai viva quel'era il Di Giorgio diventò un ottimo ufficiale anche dal lato operativo, mettendo a frutto le doti spontanee del suo ingegno e gli insegnamenti positivi che aveva ricevuto nei suoi vari stadi evolutivi, da fanciullo in un ambiente familiare moralmente sano e, poi, a Napoli, a Modena ed al reggimento. Qui il pensiero corre al Marselli ed al suo fondamentale libro sull'importanza della vita educatrice che questo illustre scrittore valutava essere assegnata al reggimento, quale ente non solo tattico, organico ed amministrativo.(5)

Dopo qualche anno formativo e la promozione al grado di tenente, il Di Giorgio superò, alla fine del 1895, gli esami, molto selettivi, per l'ammissione alla Scuola di guerra (a quel tempo a Torino) che consentiva, al ternúne dei corsi triennali, l'accesso al Corpo di Stato Maggiore dell'esercito. Ma il giovane ufficiale che pur si era preparato studiando con sacrificio per conseguire il traguardo dell'ammissione alla Scuola di guerra, che comportava per chiunque insonni notti di studio sui libri e sulle carte, e che arnbiva per naturale inclinazione conseguire quel genere di specializzazione militare nel ruolo dello Stato Maggiore, non esitò a rispondere, con animo generoso, ad un 'alto richiamo che aveva sentito dentro di sé quando percepi che per servire la patria, quindi l'esercito, vi era un altro dovere più urgente, perciò necessario e superiore, da compiere per il paese.

Il 7 dicembre 1895 era accaduto il rovescio d'Amba Alagi, sul confine etiopico della colonia italiana d'Eritrea, dove fronteggiando prepoderanti forze avversarie, cadde eroicamente il maggiore Toselli con il grosso della sua colonna di ascari; l'episodio costituì l'avvio della "guerra grossa" italo-abissina del 1895-96 condotta, in età crispina, dall'enorme esercito capeggiato dall'irnperatore Menelik.

Di Giorgio non si occupava di politica, così com'era costume nell'esercito italiano; ciò sia per la tradizione liberal-democratica risorgimentale che per la matrice dinastica sabauda che stavano all'origine dell'organizzazione nazionale delle forze armate, che in parallelo alla storia unitaria italiana era pervenuta da tempo ad una peculiare integrazione nell'ambito statuale borghese.

Inoltre, egli non era un africanista (cioè un fautore ad oltranza dell'espansione coloniale italiana in Africa) e guardava al colonialismo con moderato favore, come a qualcosa solo d'accessorio, che dal punto di vista personale non l'attirava in modo particolare e che giudicava secondario nel quadro dello scenario generale italiano, interno ed internazionale. Tutto ciò era naturale, perché quel giovane ufficiale, che non era un anticolonialista, così come non lo era il comune sentire europeo nell'età della belle époque (a parte piccole minoranze che, ovunque, perdevano consenso con il progredire della spartizione territoriale in Africa ed in Asia), avvertiva lo stesso orientamento che allora era generale in tutto l'esercito italiano; infatti, i militari italiani, senza eccezioni, privilegiava- no le esigenze dell'assetto strategico europeo così come richiedevano le ragioni d'equilibrio internazionale che avevano condotto al tripolicismo. Di Giorgio, quindi, non appartenne a quella piccola schiera di giovani ufficiali romantici (senza influenza allora nell'esercito italiano) che, andati nel decennio precedente per servire nei possedimenti coloniali acquisiti frattanto dall'Italia in Eritrea, erano stati contagiati dal mal d'Africa. Egli che pure, come tra breve si vedrà, fu un eminete ufficiale coloniale che difese, entro limiti ben precisi, il ruolo coloniale dell'Italia nel Continente Nero, specie dopo la vicenda di Adua, non fu mai affetto dal sentimentalismo per l'Africa e di qui la sua costante posizione razionale, durante tutta la sua carriera núlitare, anche dinanzi il problema del predetto espansionismo.

Così, al pari di centinaia di ufficiali d'ogni grado e di migliaia di soldati italiani, all'indomani dello scacco d'Amba Alagi il tenente Di Giorgio si offri volontario per la guerra d'Africa. Egli fece parte delle truppe spedite a scaglioni di rinforzo, a decorrere da quel momento, dall'Italia in Eritrea. Al momento della mobilitazione si trovava, casualmente, a Bologna, partì da Napoli il 30 dicembre 1895, tra i quadri suppletivi, con il piroscafo Perseo; sbarcò a Massaua il 6 gennaio 1896 e, avviato sull'altopiano eritreo, fu assegnato, al campo di radunata presso Adrigràt, quale ufficiale addetto al comando del 6° Reggimento d'Africa sotto gli ordini del colonnello Airaghi (che da qualche anno si era ritirato dall'esercito per motivi personali, ma che per la circostanze si era offerto volontario ancora una volta ed era stato richiamato in servizio), nell'ambito della II Brigata comandata dal generale Dabormida.

Di Giorgio era alla sua prima esperienza di guerra e ricevette in quella tremenda campagna militare africana il battesimo del fuoco, quando un comandante in capo affatto incapace, il Baratieri, condusse allo sbaraglio tutto il Corpo d'operazine italiano nell'infausta giornata del 1° marzo 1896. Il tenente Di Giorgio si batté con calma e con indomito coraggio sul campo di Adua, dove tra gli altri caddero da prodi il generale Dabormida ed il colonnello Airaghi (entrambi medaglia d'oro alla memoria), riuscendo, per ventura, sia di essere tra gli scampati che illeso; per la sua brillante condotta tenuta durante la battaglia quanto nel corso della ritirata meritò la sua prima decorazione al valor militare, una medaglia di bronzo che fu certo al di sotto delle benemerenze acquisite (ciò accadde per molti, sia tra i sopravvissuti che tra i deceduti di quei combattimenti rimasti senza eguali).

La vicenda di Adua vaccinò per tutta la vita il Di Giorgio e quella prova straordinaria lo trovò già preparato e lo fortificò al massimo, lasciandolo maturo molto al di là dei suoi giovani anni.

Subito dopo Adua, il tenente Di Giorgio ritornò in prima linea con rinnovata tenacia ed ardore invariato; passò, a richiesta, nei battaglioni indigeni in via di ricostruzione (che avevano bisogno di nuovi ufficiali, perché quelli antecedenti la battaglia erano caduti quasi tutti) e sotto gli ordini del nuovo comandante in capo, il generale Baldissera, un condottiero geniale, partecipò alla seconda fase della campagna d'Eritrea, che portò alla liberazione del forte assediato di Adigràt; nel vittorioso fatto d'armi di Agaà, dove guidò con perizia la sua centuria di ascari, il giovane ufficiale meritò la seconda medagli di bronzo al valor militare (2 maggio 1896).

Di tutta la vicenda africana il Di Giorgio fece tesoro: trasse insegnamento dall'esser stato a contatto in azione con gente sperimentata e di vaglio come l'Airaghi, specialmente, ed il Dabormida, ma anche con altri valorosi soldati e dall'aver visto all'opera un generale quale il Baldissera, presso il quale fu poi contiguo in una sua fase successiva della carriera.

Rimpatriato al termine della guerra, il Di Giorgio non era solo un veterano temprato da prove di alto livello, ma un soldato che era già in potenza un capo militare naturale, nonostante l'estrema modestia del grado che allora ricopriva, e tutto lascia comprendere che egli ne era consapevole. Questa coscienza, comunque, non gli diede alla testa e ciò era segno di vero equilibrio professionale. Tuttavia, egli era un uomo più adatto ai momenti difficili che alle vicende prosaiche del quotidiano dove, in genere, si preferiscono o prevalgono i personaggi che più si adattano ai compromessi.

In Italia frequentò, finalmente, i corsi della Scuola di Guerra, dalla quale uscì ufficiale di Stato Maggiore e, poco dopo, fu promosso capitano, nel 1902.

Intanto, quando il generale Baratieri pubblicò le sue meschine memorie africane(6), il giovane tenente Di Giorgio scrisse un saggio fondamentale nella storiografia sulla disgraziata campagna di Adua,(7) la cui sconfitta era rimasta da parte dell'Italia senza rivincita adeguata (a causa di motivi finanziari oggettivi), e confutò le affermazioni capziose di quel generale contro i soldati d'Italia, tacciati con accusa di viltà proprio da chi li aveva portati senza senno ad una disfatta che non sarebbe dovuta accadere. Di Giorgio era un reduce con le carte in regola e difese pubblicamente il valore delle truppe italiane, assumendosi il ruolo, non apologetico, di coscienza critica dell'esercito nel quale serviva con tutto il suo animo e senza cecità di pregiudizi. Mai nessuno smentì in vita il Di Giorgio a quel proposito, né alcuno poté confutarlo dopo la morte e quell'autorità morale gli fu riconosciuta in modo implicito nell'esercito a decorrere da questo episodio sul finire del secolo; ciò al di là del suo grado ancora modesto di ufficiale e delle di lui sorti personali, che spesso furono poi in ombra, almeno in parte, perché le sue grandi capacità non sempre vennero utilizzate dalla collettività nazionale come sarebbe stato possibile in astratto.

Nel frattempo pubblicò un bel saggio sulla figura del generale austriaco Benedek,(8) il vinto della battaglia di Sadowa (1866), un comandante sconfitto che, però, si era comportato sempre in modo ben diverso da quanto aveva fatto il Baratieri.

Inoltre, nel 1901, curò la pubblicazione di un volume di scritti del defunto colonnello Airaghi, accludendovi un importante e corposo profilo biografico.(9)

Dal 1902 prestò servizio quale capitano di Stato Maggiore agli ordini del prestigioso generale Baldissera, comandante dell'VIII Corpo d'Armata con sede a Firenze.

Sino a questo momento, lo si noti, la carriera del Di Giorgio era stata senz'altro lenta e ciò rientrava anche nel generale ristagno dei quadri militari italiani in quel periodo.

Nel 1906 il capitano Di Giorgio commemorò in Palazzo Vecchio, a Firenze, la figura e l'opera dei generale Fanti, l'artefice dell'amalgama delle milizie italiche nell'esercito unitario nazionale del 1861; ciò nel centenario della nascita di quell'insigne generale e non fu un discorso di circostanze: lo tenne, infatti, alla presenza del duca d'Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia, generale allora capo del corpo d'armata di Napoli (x) e poi comandante della 3a Armata durante la prima guerra mondiale e delle massime autorità militari (tra cui il Baldissera) e civili, parlando, con un testo che fu stampato, ad alto livello concettuale.(10) In seguito a quell'episodio il Di Giorgio entrò in relazione di corrispondenza privata con il generale Cadorna, dapprima solo in termini storico-culturali e poi di sodale amicizia (anche con incontro diretto) per stima reciproca, nonostante il divario gerarchico esistente tra i due e che pur veniva rispettato per la parte burocratico-disciplinare.

L'anno dopo (1907), il Di Giorgio scrisse un grosso opuscolo in cui confutò con autorità e saggezza l'eresia modernista militare del celebre pubblicista Fabio Ranzi,(11) già brillante ufficiale di carriera dell'esercito che si era dimesso da circa un decennio per darsi all'attività di scrittore e che, progressivamente, era diventato un agitatore populista assai pericoloso ed inquietante tra le forze armate, trasformandosi, da angelo prediletto delle alte sfere militari (era stato l'uomo prescelto per la solenne commemorazione sulla morte dei maggiore Toselli a pochi giorni dalla battaglia di Amba Alagi nel Circolo ufficiali di Roma), in una figura luciferina quasi sediziosa. Lo scritto, corposo, del Di Giorgio fu molto importante perché rappresentò un contromanifesto, ben argomentato, con logica lucidissima, proveniente dalle file stesse dell'esercito e da un ufficiale ineccepibile; questo saggio costituiva un trattato organico, in linguaggio accessibile a tutti, della concezione liberale, di matrice risorgimentale, che avevano, ed era giusto che così fosse per l'Autore, le forze armate in un moderno paese d'ordinamento costituzionale e parlamentare come, appunto, era il Regno d'Italia.

Nel 1907 il Di Giorgio aveva ottenuto la promozione d'avanzamento a scelta" per meriti eccezionali, da lui maturati negli anni antecedenti e per il brevetto conseguito alla Scuola di Guerra; un riconoscimento cui, in sostanza, aveva diritto.

Nell'ambiente militare egli era conosciuto ed apprezzato, così nel 1908, quando in Somalia vi fu bisogno di un ufficiale di sicuro affidamento per rimediare alla situazione locale. di una gestione politico-militare poco efficace (frutto sempre dell'espansionismo italiano condotto all'insegna del risparmio), il maggiore Di Giorgio fu inviato a comandare l'esiguo presidio coloniale del Benadìr, da riordinare e territorio dove occorreva riscattare qualche piccolo scacco che vi era stato. In Somalia il Di Giorgio rivelò in pieno una rara simbiosi di dotto teorico e di comandante di truppe, dotato di grandi qualità, strategiche, tattiche e logistiche. Egli, dopo aver riorganizzato con poche risorse (dell'usuale disponibilità italiana) un minuscolo corpo di truppa, condusse una rapida e brillante campagna vittoriosa contro bellicose tribù somale dell'interno, che vennero battute e sottomese nei loro stessi territori.

Ma a quel punto, quando era il momento di preparare il colpo sucessivo per sfruttare e consolidare i brillanti risultati sin lì conseguiti, accadde l'imprevedibile. Il governatore civile della colonia, Tommaso Carletti, forte della sua autorità politica, s'intromise, per mera rivalità personale ed incompetenza tecnica delle necessità militari, impedendo al maggiore Di Giorgio di poter sviluppare l'opera di consolidamento armato conducendo una seconda campagna in profondità nell'entroterra circostante. I fatti, poi, dimostrarono in modo inequivocabile chi fra i due aveva torto o ragione (nell'ottica coloniale del tempo).

Il Di Giorgio, dopo aver protestato, obbedì, ma a condizione di lasciare il comando e di essere rimpatriato; egli fu irremovibile, e tale era il suo dovere di capo militare sia pure con logicità in sotto me a a potestà politica, ad accettare una composizione con cedimento che reputava dannosa per il proprio paese e che (memore della lezione storica di Adua) valutava indecorosa per la sua coscienza di soldato, così nel 1909 fu richiamato in Italia. Sospese le operazioni in Somalia dopo la sua partenza e perduti in fretta i frutti dei successi sin li conseguiti con sacrificio, fu poi necessario correre ai ripari, non senza danno e costi d'ogni genere, sinché un altro valoroso ufficiale venuto dall'Italia poté rimediare con un'altra proficua campagna militare, riprendendo l'opera che era stata inibita al Di Giorgio per motivi sconsiderati da parte del ministero degli Esteri (ancora non esisteva quello delle Colonie). In Italia, poi, vi fu uno strascico clamoroso, dove il Di Giorgio, privo d'appoggi politici, attaccato a torto dalla stampa giolittiana che lo aveva criticato in favore del Carletti, sostenuto dal ministero degli Esteri (mentre quello della Guerra non aveva alcuna autorità di governo sugli affari coloniali), si difese in tribunale e, su querela di parte, ottenne giustizia. Ma per la brillante operazione coloniale che aveva saputo condurre il Di Giorgio non ebbe alcun riconoscimento ufficiale, non una medaglia al valore, non una onorificenza, non una promozione; il suo prestigio, però, uscì non solo integro, ma accresciuto negli ambienti militari da quella vicenda di comando autonomo retto con tanta perizia.

Di Giorgio aveva fatto tesoro della vicenda disgraziata di Adua, non solo in termini di esperienza tecnico-militare, ma anche di responsabilità politico-militare e pertanto non si era prestato a fare la parte dello sgabello nel Benadir sia all'assunzione del comando che durante l'esercizio di esso e poi all'atto della lungimirante rinuncia per motivi non egoistici.

Nel 1911, scoppiata la guerra di Libia, il maggiore Di Giorgio venne mobilitato al comando di un battaglione dell'89' Reggimento Fanteria e per la terza, ed ultima, volta fu mandato in Africa con il Corpo di spedizione del generale Caneva. Nel febbraio del 1912 si distinse al comando di un gruppo tattico italiano, vincendo alcuni combattimenti contro le forze turco-arabe nella Tripolitania e per questa azione fu decorato con la croce dell'Ordine Militare di Savoia; passato poi al comando di un battaglione di ascari eritrei, ottenne ancora altri successi negli scontri per l'occupazione dell'entroterra libico, meritando la medaglia d'argento al v.m. e fu promosso tenente colonnello. Dopo la fine del conflitto rientrò in Italia, ma prima dei rimpatrio aveva continuato ad avere una corrispondenza epistolare privata con il generale Cadorna anche sugli eventi libici.

Ormai, almeno in Sicilia e nel messinese, Di Giorgio era diventato un personaggio, noto stimato per essere stato un soldato che si era sempre distinto in tutte le azioni di guerra alle quali aveva partecipato, e, poiché godeva di considerevole prestigio personale e fama d'integrità morale adamantina, gli fu offerto di presentarsi candidato alle elezioni politiche generali del 1913, le prime che si svolsero in Italia con il suffragio universale (di fatto) maschile, nel collegio del circondario di Mistretta (Messina). Di Giorgio accettò e si presentò da indipendente in una competizione assai difficile, dalla quale uscì vincitore al turno di ballottaggio (il 2 novembre) prevalendo (con ben 5.775 voti su 6.793 suffragi validi espressi) sul candidato ministeriale (dopo essersi misurato anche contro un candidato radicale ed uno socialista); nel suo paese natio, ove fu anche benvoluto, raccolse la quasi totalità delle preferenze. Si pensi che non essendo un candidato ministeriale non godette dell'appoggio prefettizio, a differenza di quello giolittiano sul quale prevalse e che era sostenuto dal parlamento uscente che più volte aveva ricoperto il mandato.(12) Soldi nella campagna elettorale non ne profuse, non solo perché non era nella sua mentalità ma comunque non ne aveva ed egli viveva del semplice stipendio di ufficiale, né i suoi familiari avevano cospicue disponibilità economiche. Egli prevalse perché rappresentava qualcosa che era in sintonia con i nuovi tempi di un'Italia in evoluzione e che, in parte, si percepiva anche in Sicilia. Il suo esordio politico era avvenuto con un brillante discordo tenuto, il 20 settembre 1913, al teatro Mastroieni di Messina, per invito della locale sezione della Lega Navale Italiana (che pubblicò il testo del suo intervento), su l'Avvenire Marittimo ed Industriale di Messina.(13) Nel discorso il Di Giorgio auspicò la rinascita e lo sviluppo di questo porto siciliano, importante nel passato e che era stato colpito dal terremoto del 1908, attraverso l'incremento della basa navale messinese quale terzo arsenale militare marittimo, dopo quello di La Spezia e Taranto, in relazione alla nuova posizione che l'Italia avrebbe dovuto assumere nel Mediterraneo in seguito all'acquisizione della Libia. Si ricordi che gli anni dall'ultimo Ottocento sino alla prima guerra mondiale furono anche quelli del c.d., "navalismo" e pure l'Italia non era rimasta estranea a tale fermento di portata internazionale, così come la Lega Navale Italiana fu un veicolo, insieme ad altri, di istanze nazionali. E in questo quadro che si deve collocare quel discorso e la felice affermazione al suo primo esordio politico.

E qui è opportuno cercare di capire qual era l'orientamento politico del personaggio. Egli non fu mai un uomo politico in senso stretto; era e rimase sempre un militare, che sperò di poter conferire un apporto tecnico per il suo specifico settore di competenze per il proprio Paese alla Camera dei deputati ed anche al di là delle parti intese quali fazioni. Di Giorgio non concepi mai l'esercito quale corpo separato dello Stato e della società civile italiana, ma senza sconfinamenti; e fu sempre ostile ad una chiusura antiliberale di estraneità dall'ambito della vita nazionale costituzionale e parlamentare.

Quale ufficiale dell'esercito e cioè quale appartenente ad una istituzione nazionale unitaria volle rimanere sempre in posizione indipendente rispetto ai partiti politici del suo tempo, e, certo, per tutta la sua vita non svolse nùlitanza di tipo partitocratica. Ma se fu estraneo a quel tipo di attività, ciò non significa che egli non ebbe un suo orientamento ideologico. Questo non è facile definirlo per il Di Giorgio e, tuttavia, ebbe delle costanti di continuità pur nel cambiamento dei tempi nella storia d'Italia e della quale fu figlio. Fu sempre d'inclinazione, ma non di fazione, nazionalista. Peraltro, la sua posizione filo-nazionalista era in chiave d'eredità risorgimentale italiana, cioè moderata, misurata in tutto da quella mediazione liberale peculiare della storia unitaria e della quale era anche depositario l'esercito; egli era monarchico per fedeltà e convinzione, ancor prima che per obbedienza al giuramento prestato in quanto militare; credeva con lealtà nello Stato costituzionale e nel sistema parlamentare del quale fu partecipe. Tuttavia, deprecava il trasformismo e la degenerazione assembleare nel parlamentarismo, il settarisrno d'ogni tipo che si andò configurando nel volgere del tempo; aspirava a far più grande e rispettata l'Italia nel novero delle grandi potenze dell'epoca, nell'età dell'imperialismo permeata dalla gara espansionista e delle rivalità nazionali; ma non fu guerrafondaio, non fu colonialista ad oltranza bensì in chiave equilibrata, non fu militarista pur auspicando che le forze armate fossero moderne e potenti il più possibile nell'interesse della patria (fu, ad es., favorevole al concetto della nazione armata, ma nella visuale moderna e non certo in quella arcaica che sopravviveva solo nel mito democratico ormai improponibile al di là d'ogni limite che aveva già avuto nel passato). Da buon siciliano, aduso al crogiolo di civiltà e popoli, non aveva preclusioni ad intendersi con l'uno o l'altro paese straniero se non si opponeva agli interessi legittimi dell'Italia; credente e non bigotto, era laico e non fu massone; aveva una concezione austera del senso del dovere ed, altresì, una concezione aristocratica della vita, ma nel senso non del privilegio di nascita quanto del merito e non fu affatto oligarchico; rifuggiva dalla demagogia e dal facile consenso, pertanto non fu populista; aperto al progresso in ogni campo, non era un democratico per concezione dottrinaria e per atteggiamento esteriore, anche se per temperamento d'animo e convinzioni razionali fu sempre sollecito al benessere degli uomini (si pensi anche all'insegnarnento avuto dall'Airaghi), non solo per i suoi soldati (si rifletta che non ebbe figli) ma pure per il suo prossimo in genere e specie per i più unúìi; i suoi modi erano signorili al pari dei suoi sentimenti ed il suo comportamento era elegante nel tono come nel vestire, sia in borghese che in uniforme. Era, in fondo, una sorta di conservatore di stampo inglese e se fosse vissuto in Gran Bretagna quella sarebbe stata la sua stabile collocazione politica naturale. Ma era italiano e visse nel suo paese, figlio delle passioni aspre di questa terra e delle conflittualità del proprio tempo; in questo ambito lo si può definire un liberal-nazionalista, il che è qualcosa che non coincide per intero con il liberalismo di destra e, peraltro, differisce molto dal fascismo.

Nella XXIV legislatura egli entrò in ottimi rapporti con l'on. Federzoni, il leader della piccola ed attiva pattuglia di deputati nazionalisti che allora per la prima volta era entrata alla Camera, e strinse, man mano, buone relazioni con numerosi ed influenti uomini politici, parlamentari e ministri tra i quali Orlando; appoggiò il governo Salandra, ma con molta discrezione e sempre da indipendente senza particolari esternazioni. Alla Camera svolse pochi, ma significativi interventi e, del resto, l'Europa intera ormai si avviava verso la guerra mondiale con marcia inarrestabile, drammatica, come nella fatale attrazione di un miraggio. Di Giorgio, meglio di molti altri, intravide l'avvento della guerra imminente e scorgeva, perciò, la necessità che l'Italia fosse pronta ad affrontare quella grave prova; pertanto, sin dal marzo 1914, egli cercò di far intendere all'opinione pubblica e, soprattutto, alle autorità di governo che bisognava rafforzare l'esercito.(14)

Sopravvenne lo scoppio della prima guerra mondiale ed il Di Giorgio proseguì in quel suo impegno, consapevole che l'Italia non sarebbe rimasta comunque a lungo spettatrice. A quell'epoca il generale Cadorna aveva accettato per necessità di responsabilità verso il proprio paese, dopo gli antecedenti ripetuti e fermi rifiuti da lui opposti in periodo giolittiano, di assumre la carica di Capo di Stato Maggiore generale dell'esercito italiano, ma aveva posto condizioni molto nette di garanzie sull'indipendenza tecnica del suo ruolo e sul rafforzamento militare del paese, il che era stato accettato, almeno in linea di massima, sotto la spinta forte dei venti di guerra che ormai incombevano.

L'Italia, però, era in ritardo nei preparativi bellici che avrebbero richiesto un esercito mobilitato in guerra con un apparato di gran lunga accresciuto rispetto a quello di pace e ciò perché i governi avevano cercato di risparmiare nelle spese militari per non sottrarre ingenti risorse allo sviluppo civile del paese; ma le rivalità d'ogni genere tra gli Stati avevano minacciato la pace europea già da molti anni, dietro una facciata di spensieratezza, e da tempo le varie nazioni avevano compiuto la loro corsa agli armamenti. L'ltalia, che era la più piccola tra le grandi potenze, doveva accelerare il suo sforzo di potenziamento e ciò fu compiuto in buona misura durante la fase della neutralità italiana dopo l'agosto 1914. Fu allora, in particolare, che il generale Cadorna si avvalse per aiuto proficuo alla propria opera organizzativa del suo ben più giovane amico entrato in parlamento, l'on. Di Giorgio, e quest'ultimo svolse con molta discrezione un lavorio di mediazione a livello politico,(15) dietro le quinte della vita pubblica romana, fiancheggiando l'attività del Capo di Stato Maggiore, che, a sua volta, non riuscì mai ad istaurare un rapporto duttile d'intesa con la classe politica italiana e ciò per una reciproca incapacità di compenetrazione mentale tra il vertice militare e quello di governo. Ma ciò non fu un fenomeno esclusivo dell'Italia, quanto un portato dei tempi nuovi a parte le singole asperità caratteriali di contrapposizione umana e, per altro, non erano mai mancate nella storia universale le conflittualità di ruolo tra politici e militari durante i periodi di guerra, né poi sono scomparse sino ai nostri giorni. L'On. Di Giorgio, che pur non era vocato a far da mediatore, fu allora una sorta di pontiere.

Di Giorgio fu "interventista", ma naturalmente non nelle piazze, per senso di disciplina militare, e solo con voto parlamentare. Come si svolsero quelle vicende sino al "radiosomaggismo" è cosa risaputa, comunque, per la sua duplice veste egli era diventato alla vigilia della guerra un personaggio conosciuto ai livelli medio-alti della società italiana.

Nel maggio 1915 quando l'Italia entrò in guerra il Cadorna volle che il tenente colonnello Di Giorgio gli fosse vicino, quale ufficiale addetto al Comando Supremo, ma il sodalizio fu di breve durata per scelta di quest'ultimo. Cadoma era un accentratore ed aveva anche altri collaboratori. Di Giorgio non si trovava a suo agio a quel posto, era un uomo che non si adattava e non era un carrierista, non condivideva per intero determinate scelte del Comando Supremo, inoltre, ormai, egli stesso era un personaggio ingombrante che andava valorizzato o accantonato. Pertanto, il generale Cadoma, seppur a malin cuore, lo accontentò trasferendolo al fronte. Per breve tempo il Di Giorgio era stato inviato quale ufficiale di collegamento del Comando Supremo con la 3^ Armata ancora comandata, per poco, dal generale Zuccari e vi fu accolto cordialmente, ma lì gli sembrava di essere inutile ed era contrario a sovvrapposizíone nelle funzioni di comando che invece hanno sempre richiesto esercizio unitario.

Così, Di Giorgio fu assegnato quale Capo di Stato Maggiore dell'VIII Corpo d'Armata (gen. Della Noce) inquadrato nella 2^ Armata (gen. Frugoni); egli resse l'incarico con competenza e nel 1915 fu promosso colonnello. Nella primavera del 1916 ebbe la qualifica di colonnello brigadiere ed assunse il Comando Brigata Bisagno (reggimenti fanteria 209° e 210°), unità di nuova formazione costituita con reclute della classe 1896, assegnata al X Corpo d'Armata (gen. Grandi) della I^ Armata (gen. Roberto Brusati e poi Pecori Giraldi). Di Giorgio si distinse con la sua brigata sul fronte del Trentino e contribuì ad arginare la Strafe Expedition austriaca dell'estate 1916.

Alla fine d'agosto 1916 il Di Giorgio passò a comandare il IV Raggruppamento Alpini (gruppi 8° e 9°), grande unità a livello di brigata che nelle truppe alpine assumeva, allora, quella denominazione. Questa era una delle formazioni di truppa scelta da montagna destinata a partecipare all'attacco progettato contro l'Ortigara, che, però, più volte differito dagli Alti comandi venne lanciato solo nel giugno del 1917 e cioè con grave ritardo. L'unità del Di Giorgio dipendeva dalla 52^ Divisione Alpini (gen. Corno) del XX Corpo d'Armata (gen. Montuori), punta di diamante della 6^ Armata (gen. Mambretti) già denominata Comando Truppe Altipiani, designato (il XX) per scardinare le difese sull'Ortigara ed aprire, così, la via all'offensiva italiana sulla direttrice del Trentino.

L'infelice esito della sanguinosa battaglia è troppo noto perché vi si accenni, ma è doveroso sottolineare come il raggruppamento Di Giorgio sia stato quello che si spinse più avanti e che conquistò pressoché per intero i propri obiettivi. Se l'azione dei comandi superiori fosse stata diversa, per efficace tempestività e coordinamento degli sforzi specie in appoggio alle truppe del Di Giorgio, la battaglia dell'Ortigara non verrebbe ricordata solo come una pagina di sfortunato valore e come la più gloriosa impresa degli alpini durante la grande guerra, bensì come una vittoria o, almeno, come un successo tattico.

Di Giorgio considerò sempre come il suo maggior titolo di merito l'aver avuto l'onore di condurre gli alpini sull'Ortigara, in quella che, nonostante i sui esiti disgraziati, rimase la più grande azione di guerra di montagna dell'intero primo conflitto mondiale; e qui s'intende non solo per il teatro di guerra italiano, ma per tutti. Secondo il Di Giorgio quella battaglia testimonierebbe la possibilità di sfondamento strategico che una più oculata azione offensiva sviluppata lungo le direttrici del predetto settore avrebbe offerto all'esercito italiano nel corso della guerra.

Promosso maggior generale, assunse poco dopo, il comando della 5I^ Divisione in Valsugana, nel XVIII Corpo d'Armata (gen. Tettoni) della I^ Armata (gen. Pecori Giraldi). Era un comando tranquillo, dislocato in una zona di guerra piuttosto calma. Lì, fu tenuto estraneo persino dall'azione di Carzano, del settembre 1917, che egli averbbe guidato assai volentieri, tanto più che ricadeva territorialmente sul suo stesso settore del fronte; dopo il fallimento di quell'attacco si disse che se il colpo di mano fosse stato affidato ad un comandante della tempra del Di Giorgio l'operazione, probabilmente, avrebbe avuto esito positivo.(16)

Lo sfondamento nemico a Caporetto colse il Di Giorgio mentre era a Roma, ove si era recato per partecipare alla seduta di riapertura della Camera (e presumibilmente il motivo della sua presenza nell'Urbe non era solo formale); nella capitale, però, si ignorava ancora l'entità della rotta che l'esercito stava subendo. Neppure il ministro della Guerra, generale Giardino, fu in grado, la sera del 25 ottobre, di fornirgli informazioni; queste giunsero solo l'indomani. Di Giorgio parti in treno quella sera stessa alla volta di Udine, richiamato d'urgenza al Comando Supremo dal capo di Stato Maggiore dell'esercito; l'indomani sera, pertanto, egli si presentò al Quartier Generale ed ebbe subito un lungo colloquio con i generali Cadorna e Porro.(17)

In quell'ora critica, Cadorna aveva pensato di rivolgersi al Di Giorgio, allora appena da qualche mese nel grado. Risulta che al Quartier Generale, in quei momenti di comprensibile turbamento, più d'un ufficiale si sia rammentato del giovane e brillante generale e lo abbia ricordato al Capo di S.M.; in realtà la segnalazione fu superflua, perché il generale Cadorna vi aveva già pensato da sé. Infatti, il predetto Comandante in capo dispose tempestivamente, sin dal mattino del 26 ottobre, la creazione di una nuova grande unità d'emergenza, un corpo d'armata di formazione, per arginare l'avanzata nemica e coprire la ritirata delle truppe dall'Isonzo.

La decisione d'affidare il Corpo d'Armata Speciale (così si chiamò ed era speciale solo perché non ordinario) al generale Di Giorgio era un attestato di fiducia particolare in quel grave mornento, ma anche un incarico estremamente difficile da assolvere. Si trattava di coprire i ponti del Tagliamento, cioè un arco del fronte di trenta chilometri circa, sull'ala sinistra della 2^ Armata (quella sfondata dal nemico), con un corpo d'armata improvvisato, costituito da due, poi, tre, piccole divisioni e reparti minori raccogliticci, quasi senza artiglieria,(18) con le truppe ancora in fase di concentramento per dar vita alla formazione. Questo eterogeneo raggruppamento, dall'inizio alla fine della sua costituzione, contò una forza attiva di poco più di 8.000 uomini. Il Corpo d'Arrnata Speciale ebbe vita breve, ma onorevole; quattordici giorni in tutto, dal 26 al 10 novembre e furono quelli decisivi per il superamento della crisi sullo scacchiere di guerra italiano.

Il C.A.S. fece quanto era in suo potere, attestandosi sul lunghissimo fronte assegnato, dal ponte di Trasaghis a quello di Pinzano, improvvisando posizioni che non ebbe il tempo di consolidare ed imbastite appena da pochi reparti, mantenendo piccoli caposaldi e riserve retrostanti, con i quali cercò di coprire con elasticità le linee difensive. Al ponte di Pinzano accadde la dolorosa perdita dell'esigua e valorosa Brigata Bologna, sacrificata da una tragica serie di ordini e contrordini dei comandi superiori che si sforzavano di coordinare i movimenti della ritirata e contro i quali Di Giorgio protestò invano. A Cornino, invece, si verificò la pagina nera del C.A.S. per il cedimento di una piccola brigata che, nonostante gli ordini impartiti dal Di Giorgio per correggerne il dispositivo, rimase schierata e frazionata, lasciandosi così sorprendere in modo inglorioso.

Ma non mancarono combattimenti accaniti e riusciti come il fortunato scontro di Monte Ragogna; si susseguirono, poi, gli spostamenti del C.A.S. fra Tagliamento e Meduna, le manovre dal Meduna alla Livenza e dopo al Monticano, e di qui infine sino al Piave. Combattendo, manovrando e ripiegando, sempre in buon ordine e con precisione, mantenendo i vincoli di reparto, assicurando coperture e collegamenti, il C.A.S. cedette lentamente terreno, guadagnando così momenti preziosi per la ritirata generale dell'esercito e per l'apprestamento della nuova linea di resistenza definitiva delle forze armate italiane; l'irrompere delle numerose ed ancora agguerrite divisioni nemiche, che in quella particolare fase intermedia non era ancora possibile arrestare, fu contenuto ed il minuscolo corpo del Di Giorgio diede al nemico la sensazione di avere dinnanzi a sé forze ben più numerose e potenti. Gli austro-tedeschi dovettero, quindi, procedere con cautela, perdendo lo slancio iniziate e cominciando sia a logorarsi che a subire le prime perdite consistenti. Il C.A.S. riuscì, in tal modo, a sottrarsi alla pressione nemica, evitando il proprio annientamento, e preservando la sua forza di deterrente.

Infine, la sera dell'8 novembre, dietro ordine superiore espressamente diramato dall'alto comando, il Corpo d'Armata Speciale iniziava l'arretramento verso il Piave, nuova linea generale di resistenza dell'intero esercito; armati ed inquadrati, i reparti del Di Giorgio furono gli ultimi ad attraversare il fiume, la mattina del 9 novembre 1917. L'indomani il C.A.S., assolto il suo compito, venne sciolto per essere rifuso con altre unità ed il Di Giorgio passò a comandare i resti del XXVII Corpo d'Armata (già del gen. Badoglio) che erano riusciti a salvarsi nella ritirata da Caporetto, grazie al generale Caviglia, che se ne era assunto l'onore (aggregandoli al proprio contiguo e non scosso corpo d'armata), e che furono schierati per concorrere alla difesa del Grappa.

Il C.A.S. aveva dato il meglio di sé e neppure una più robusta unità avrebbe potuto fare di più. Nei frangenti della ritirata, lo stesso fatto che le sue colonne in armi marciassero contro il nemico, in direzione opposta alla via calcata da altri reparti in ripiegamento, risalendo, su strade ingombre ed in mezzo a gravi disagi sia materiali che logistici, le fiumane di sbandati, di profughi e di disertori, costituì un titolo di merito particolare che si deve ascrivere a quanti fecero parte di quel Corpo. Sebbene né il Di Giorgio, né il C.A.S. abbiano poi ottenuto alcun specifico riconoscimento ufficiale di citazione al valore per la loro azione, essi furono sempre considerati quali esempio di fermezza e di ardimento dinanzi alla sconfitta, segno della volontà popolare di riscossa. Di Giorgio, che aveva emanato in quei giorni ordini di eccezionale severità nei confronti degli sbandati e dei disertori (disponendo di passare immediatamente per le armi quanti ostacolassero la resistenza), riconobbe costantemente durante l'azione il valore dei suoi soldati e, nel congedarsi da loro, li additò alla propria ed altrui ammirazione.(19)

Dal 10 novembre egli divenne tenente generale ed assunse le funzioni, l'anzianità ed il trattamento di tenente generale comandante di corpo (il comando del C.A.S non gli venne computato essendosi trattato di un incarico straordinario); da quel momento, pertanto, era uno dei più giovani comandanti di corpo d'armata e con la minima decorrenza di grado. Durante la ritirata egli aveva avuto ai suoi ordini generali di grado anche superiore al suo e colleghi che lo precedevano all'annuario, circostanze assai rare nell'esercito italiano.

La parte avuta dal Di Giorgio nella difesa del Monte Grappa, durante la prima battaglia, alla guida del XXVII Corpo d'Armata (nella 4' Armata del gen. di Robilant, poi Giardino), e, dopo, nella seconda battaglia del Piave (con l'8^ Armata del gen. Pennella, poi Caviglia), cioè dal novembre '17 al giugno '18, misero in luce, di nuovo, non solo la tenacia, ma altresì la sua grande competenza tecnica al comando di grandi unità.

E' solo il caso di ricordare che al vittorioso epilogo della guerra il Di Giorgio partecipò ancora alla testa del XXVII Corpo e che la sua unità fu tra le prime ad attraversare il Piave, partecipando all'ultima offensiva in quegli stessi luoghi ove si era compiuta la ritirata dell'anno precedente. Vittorio Veneto premiava e coronava gli sforzi di lunghi anni di guerra, trovando il Di Giorgio tra i capi più prestigiosi dell'esercito vincitore: significativo ed emblematico rappresentante di una generazione di giovani generali saliti di grado esclusivamente per merito di comando, cresciuti in una guerra che avevano fatto interamente al fronte e bruciando le tappe della gerarchia militare, da comandante di battaglione a capo effettivo di corpo d'armata.

Per aver mantenuto con successo la difesa della parte occidentale del Grappa, per la fermezza e l'iniziativa dimostrata nelle battaglie dei Piave (sul Montello) e di Vittorio Veneto, Di Giorgio ebbe due promozioni nell'onorificenza dell'Ordine Militare di Savoia (il massimo), del quale venne nominato commendatore e gran'ufficiale.

Finita la guerra, Di Giorgio tornò in politica, ma la pace fu per lui, come per molti altri italiani, assai diversa da come era stata immaginata nel maggio del '15 e nei seguenti anni di lotta.

La vecchia Europa usciva trasformata, irrimediabilmente mutata e stremata da una guerra suicida che tutti gli europei non avevano saputo evitare e dalla cui catastrofe nessun paese era potuto restare estraneo; anche il trattato di pace era stato fonte di amarezza tanto per i vincitori (in varia misura tra questi), che per i vinti. La visuale nazionale che dell'Italia aveva avuto il Di Giorgio naufragava nella duplicità della crisi del proprio paese, interna ed esterna. Non soltanto svaniva l'idea di una grande Italia appagata in tutte le sue aspirazioni di grande potenza, ma sembrava rischiasse di scomparire anche la piccola e sana Italia d'anteguerra. Egli non auspicò mai egemonie imperiali, ma aveva creduto in un ruolo comprimario dei proprio paese nell'ambito politico internazionale. Era un modo di pensare di pretta marca aristocratico-conservatrice che nel primo dopoguerra ebbe poca eco politico.

Di Giorgio accettò i deliberati di Versailles, ma non si astenne dal criticarne i contenuti e dal denunciarne i limiti; deplorò il trattamento riservato all'Italia dagli alleati ed intuì i pericoli che per il proprio paese ne sarebbero potuti derivare.(20

Fu, probabilmente, in virtù di questa intuizione che egli mantenne una posizione non solo cauta, ma addirittura moderata nei confronti della spinosa questione adriatica. Egli era proclive ad una soluzione di compromesso che fosse accettabile per tutti, che non scontentasse l'Italia nelle sue aspirazioni fiumane e non ne ledesse il prestigio, ma altresì auspicava un'intesa con gli slavi ed era propenso ad accogliere la Jugoslavia nell'Adriatico, in veste di buon vicinato. (21)

Fu per Fiume italiana, sempre. Nella tutela dei diritti di questa città fu irremovibile, ma puntò sul negoziato e non sulla prova di forza.

Non fu favorevole al fiumenesimo emotivo, parolaio e barricadero, ma difese, invece, la sostanza migliore del movimento. Avversò il dannunzianesimo. Del poeta non accettò la retorica, né la marcia di Ronchi. Egli era un uomo semplice, di gusti austeri, di natura riservata e contrario al disordine di qualsiasi genere. Ufficiale di carriera dell'esercito, vincolato da un giuramento di obbedienza sentito oltre che prestato, nutrì disgusto per ogni ribellione e sovversione, tanto più se militare o di militari.

Il movimento legionario fiumano, o dannunziano, obiettivamente coinvolgeva l'esercito, lo divideva per sentimento e tentava di comprometterlo; prevalse nella stragrande maggioranza il senso di disciplina, anche per merito dei capi, ma il travaglio degli animi fu grande ed autentico per tutti. Per Di Giorgio, così come per il suo amico Caviglia, l'esercito era una sal vaguardia nazionale costituzionale, al di sopra delle parti, neutrale in politica ed al servizio dello Stato, non dei singoli partiti, bensì del governo.

Il 12 gennaio 1920, nel centenario della nascita, commemorò Crispi esaltandone la figura patriottica ed il ruolo unitario culminato nell'adesione alla monarchia italiana, pronunciando un appassionato discorso nel Pantheon di San Domenico a Palermo; testo che fu pubblicato, poi, in opuscolo.(23)

Così come aveva disapprovato il dannunzianesimo, egli fu avversario delle intemperanze degli arditi del popolo; altrettanto contrario fu, agli inizi, al fascismo ed alla rozzezza, alla violenza delle camice nere. Ma il Di Giorgio modificò il proprio giudizio quando queste cominciarono a sembrare meno facinorose, mentre il fascismo, rinunziando ad essere movimento, si costituzionalizzava in attesa di maturare quel processo politico che sarebbe sfociato nel regime.

Sembrò al Di Giorgio che fosse tornata la calma, che la tranquillità civile fosse stata, comunque, ristabilita e che Mussolini offrisse qualche credibilità, divenendo, inoltre, garante e moderatore nei confronti delle squadre fasciste.

Il paese legale aveva, ormai, quel volto ed egli, passando sopra al nuovo stile inelegante, fu indotto a credere nel fascismo mussoliniano, non ancora dittatoriale e che, anzi, ritenne fosse una sorta di versione moderna dell'autoritarismo crispino.(24)

Furono, del resto, in molti a farsi questa illusione in Italia, tra cui parecchi nazionalisti ed anche esponenti che andavano dal liberalismo al cattolicesimo, alla democrazia sia borghese che socialista. La spinta alla conversione del Di Giorgio può, con ogni probabilità, esser dipesa, come ulteriore avallo di scelta, dal suo amico Luigi Federzoni, il maggior esponente politico del movimento nazionalista che alla fine del 1922, asceso al potere Mussolini, aveva promosso la fusione tra le file nazionaliste e fasciste. Una fusione che fu determinante per l'ampliamento del consenso e degli apporti culturali italiani al fascismo.

La metamorfosi del Di Giorgio, tuttavia, non fu immediata; lo prova la lettera che ancora in data 7 dicembre 1922 il generale spedì, da Acquedolci (suo luogo di residenza nel messinese, dopo la frana di San Fratello), al senatore Luigi Albertini.(25)

Di Giorgio, lo si è accennato, non era politicamente un dernocratico, ma credeva nella democrazia come sistema di governo ed era un parlamentare (come mentalità anche quando fu assente per una sola legislatura); però si era stancato delle crisi assemblari che, insieme ad altro, travagliavano l'Italia ed aveva finito, senza dubbio, col nutrire sfiducia nelle capacità di funzionamento di questo istituto già logoro nel nostro paese.

Nel 1919 Di Giorgio aveva ripresentato la sua candidatura ed era stato confermato; questa volta, data la modifica del sistema elettorale e l'abolizione dei collegio uninominale, era stato eletto nella circoscrizione di Messina. Questa città, dopo la guerra, gli aveva conferito con una solenne cerimonia la cittadinanza onoraria, in riconoscimento dei suoi meriti sin dall'epoca del terremoto nel quale egli aveva perso suo padre.

Alla Camera, come si è già accennato, intervenne solo nel dibattito sull'Inchiesta di Caporetto, difendendo l'onore dell'esercito e polemizzando con deputati della sinistra;(26) prese la parola anche su problemi di politica estera e coloniale; intervenne, ancora, sulla questione adriatica, accettando con riserva il Trattato di Rapallo e votò, a malincuore, la fiducia a Giolitti. Nelle elezioni del 1921, pur non avendo a temere insuccessi, preferì non rinnovare la candidatura e si ritirò dalla politica, amareggiato dal nuovo corso delle vicende italiane, che sperò provvisorie; egli si trovava a disagio nella diversa configurazione e, persino, regolamentazione partitocratica della Camera.

Dal 1922 si era ritirato a vita privata, per una pausa di riflessione, aveva cercato di mettere in sesto le sue modeste risorse economiche, si accingeva a tornare in servizio attivo nell'esercito e, finalmente a 54 anni prese moglie.

Il 6 febbraio 1922 sposò a Palermo la signorina Norina Whitaker, esponente di una famiglia di origine inglese trapiantata in Sicilia sin dai primi del secolo scorso, signorile, altolocata e di stile aristocratico. La posizione economica dei Whitaker era tra le maggiori dell'Isola e derivava, principalmente, dall'esercizio di attivi commerci vinicoli.

Si consideri che fu una unione tra persone mature, Norina aveva 37 anni quando sposò, e solo da ciò erano derivati i dubbi, molto comprensibili sia di entrambi prima di rinunciare alla reciproca indipendenza che da parte dei genitori di lei, specie la madre signora Tina, allorché nell'estate del 1921 si profilò quell'idillio imprevisto. Il generale aveva solo nove anni meno della futura suocera e ben diciassette più della promessa sposa, né per alcuno può essere facile rinunciare di colpo alle proprie abitudini quando si è vissuto a lungo da celibi; inoltre, la signorina Norina era malaticcia, ma non al punto da pregiudicare un matrimonio e così il parere medico, che ella aveva voluto, confortò la decisione sentimentale di lei. Si pensi che Norina Whitaker Di Giorgio morì, poi, vedova a Roma, il I° aprile 1954, a 69 anni, ma la sua salute poco buona era peggiorata molto tempo dopo la scomparsa precoce del marito.

Il fatto che lei fosse anglicana e lui cattolico non costituiva di per sé un ostacolo nuziale, perché era sufficiente una dispensa matrirnoniale per sponsali con rito misto, e ciò in Sicilia era abbastanza usuale anche in consonanza alle tradizioni locali di tolleranza religiosa, del resto nella stessa famiglia di lei c'era il precedente persino dei suoi genitori; infatti, l'anglicano Joseph Whitaker aveva sposato la cattolica Tina Scalia senza alcun problema e con ottimo esito.

Quanto al fatto che vi era un grande divario patrimoniale, perché il pretendente non era ricco a differenza della richiesta sposa, non costituiva una questione insormontabile, sia peché lui non era uno spiantato e non lo si poteva sospettare, nemmeno da lontano, di essere un arrampicatore sociale, che un cacciatore di patrimonio altrui; infatti, il generale era un personaggio già affermato, anche se possedeva solo il suo stipendio (o quasi) ma di alto livello (cioè, per vivere bene, non aveva bisogno dei soldi dei Whitaker), inoltre portava in dote, con i suoi limitati emolumenti ed un nome onorato, il proprio ingegno ed il peso della sua duplice posizione conseguita nella vita militare ed in quella politica al servizio dell'Italia. Esisteva, quindi, la base sufficiente perché, per entrambi, i sentimenti fossero sinceri e disinteressati al pari di tutti gli altri comuni mortali che sposino in età avanzata.

A tutto ciò si aggiunga che esisteva un contesto che favoriva l'approvazione all'unione nella famiglia della sposa. Pip Whitaker era un uomo molto colto e di grandi aperture mentali, il che lo rendeva idoneo ad intendersi con persone di alto ingegno a prescindere da gretti averi materiali; in particolare, egli era stato un caldo fautore dell'intervento italiano a fianco dell'Inghilterra dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, causa che aveva perorato con un corposo opuscolo tutto finalizzato a quello scopo,(27) e, pertanto, sin da quel tempo si era trovato dalla stessa parte nella quale era schierato il Di Giorgio.

Esisteva, quindi, una solidarietà insospettabile e radicata da tempo tra i due personaggi su questioni di fondo nelle visuali politico-sociali.

Inoltre, la moglie di Pip Whitaker e madre di Norina era Tina Scalia figlia del generale Alfonso, un valoroso patriota siciliano e combattente delle guerre risorgimentali per l'indipendenza italiana; ciò faceva sì che questa signora di energico carattere fosse imbevuta, sin dalle sue tradizioni familiari prematrimoniali, di sentimenti fortemente patriottici. Ella, quindi, al di là delle umane apprensioni materne per una propria figlia, aveva per il generale Di Giorgio una stima che sconfinava in ammirazione profonda ed era visto da lei come una sorte d'eroe nazionale. Pertanto, dal compiacimento d'averlo come amico di famiglia a quello d'averlo come genero il passo fu breve da parte di Tina Scalia Whitaker; ciò tanto più perché era opinione diffusa che quel personaggio, d'indubbi meriti, aveva ancora dinanzi a sé la prospettiva di raggiungere traguardi di successi maggiori di quelli sin lì conseguiti.

Si delineava, così, con quel matrimonio imprevisto una naturale convergenza ed integrazione delle ambizioni da parte dei tre ceppi Di Giorgio, Whitaker e Scalia. Si pensi anche che esistevano pure rapporti antecedenti trasversali e collaterali a livello sociale tra il Di Giorgio ed il clan dei Whitaker, come, ad es., persone che avevano fatto parte dell'esercito a livelli minori, tra questi il generale Raffaele Cocco Pedicini, e che certo avevano goduto dell'amicizia influente del predetto deputato e generale. Quanto alla figura di Biagio Pace, un personaggio di spicco che accomunava i Whitaker ed il Di Giorgio, si dirà tra breve.

Di Giorgio fu accolto bene nella famiglia Whitaker e vi si trovò sempre a suo agio, perché vi fu reciprocità; anche il suocero volle bene al genero e l'armonia interna non fu mai turbata da motivi d'interesse o da contrasti personali.

Il matrimonio fu riuscito e, per i canoni convenzionali, lo si può dire felice dall'angolazione sentimentale, anche se non fu coronato da prole, dato che Norina non poteva averne, ma l'assenza di figli non logorò quel rapporto. Tuttavia, è lecito pensare che, forse, la maternità avrebbe potuto impedire, almeno in larga misura, le fisime di cui la signora Norina soffri da vedova.

Il matrimonio, come ora si vedrà, durò in tutto solo un decennio, perché il marito morì in relativa giovane età per causa occasionale. A parte le delusioni sul piano della vita pubblica che di lì a poco toccarono al Di Giorgio, nell'ambito domestico familiare non vi furono nubi, solo ovvi fastidi sia nel bene che nel male per coloro che stanno molto in alto nella società.

Si noti sin d'ora che dopo un anno circa, che segnò l'apogeo familiare del binomio tra Whitaker e Di Giorgio, iniziò per entrambi i nuclei la lenta via verso la loro decadenza d'influenza pubblica. Un meriggio che coincideva anche con quello più ampio della vecchia Sicilia in genere, già allora in atto e che si andò percependo nella seconda metà degli anni Venti.

Il matrimonio costituiva di per sé una spinta psicologica per un uomo come il Di Giorgio a non rinunciare alle sue legittime ambizioni di carriera, ma nonostante fosse indotto a ciò dagli inviti poco velati che gli venivano dai suoceri (specie dalla suocera, che confidava molto e con sincerità su nuovi successi del genero), egli non era disposto a spendersi per mere transazioni di potere e, tanto meno, ad impegolarsi nelle lotte politiche siciliane, troppo rissose e particolaristiche come spesso è tipico delle faide locali. Di qui il protrarsi della sua attesa al di fuori della mischia partitocratica, sia italiana che regionale, inadatta per lui.

Così, il generale Di Giorgio, rimase estraneo alla politica per tutto quell'anno e per buona parte di quello successivo, pur continuando a seguirne le vicende. In questo periodo egli attese esclusivamente agli affari familiari, compì qualche viaggio con la moglie e, quindi, cessato il periodo d'aspettativa, tornò in servizio attivo, restando, tuttavia, momentaneamente a disposizione.

Nella seconda metà dei 1923 il Di Giorgio maturò l'idea di un suo ritorno in politica, come dimostra una lettera del generale Cadorna, del 15 settembre, in risposta a quella dell'anúco che gliene aveva confidato il proposito. Fu l'on. Federzoni a far incontrare, nell'ottobre del 1923, il generale siciliano con Mussolini, che non lo conosceva di persona e ne rimase favorevolmente impressionato.(28)

A livello siciliano, invece, il tramite naturale e di maggior garanzia personale per lui con il fascismo locale fu, senza dubbio, costituito da Biagio Pace, dato i legami che esistevano a livello di sodalizio culturale e di amicizia personale tra questo insigne archeologo e la famiglia Whitaker. Infatti, il professore Pace era un esponente di spicco del fascismo in Sicilia: personaggio che fu sempre coerente con le proprie idee ed uomo amabile per carattere, tanto da essere molto apprezzato al di là delle ideologie politiche, e per di più fu estraneo alla lotta delle correnti interne a quel partito; non a caso, restando ai margini delle fazioni che di volta in vota si contrapposero tra loro, egli fu uno dei pochi che superò indenne l'intera parabola del regime fascista, senza essere mai accantonato.(29) Inoltre, la passione archeologica accomunava l'illustre studioso con il più anziano Pip Whitaker, che aiutò negli scavi di Motya e gli fu consulente negli studi tanto da essere in grande amicizia con l'intera famiglia di quel Mecenate anglo-siculo.

Ma con tutto ciò, una trattativa relativa ad un personaggio di spicco come il Di Giorgio (che non ambiva ad esercitare un ruolo d'influenza politica locale) andava ben al di là della possibilità del professore Pace (che dal 1924 fu eletto deputato alla Camera per il P.N.F. nelle ultime consultazioni del sistema liberale) e, persino, dello stesso Alfredo Cucco, il leader fascista principale nella Sicilia occidentale per la struttura organizzativa di quel partito e che proveniva dalle file del movimento nazio nalista confluito, dal 1923, in quello mussoliniano.

C'è poi da considerare la posizione del Di Giorgio nella rosa dei vertici militari italiani a quell'epoca; egli era svincolato rispetto ai principali capi dell'esercito: sia lo stesso Diaz (la cui figura, ormai, era simbolica, che Badoglio, Caviglia e Giardino; ma anche i più giovani, in raffronto ai predetti, Albricci, Ferrari e Vaccari (che avevano qualche anno di più del generale siciliano ed uno stato di servizio grosso modo analogo o paragonabile); né era stato un cadorniano, nonostante le relazioni private d'amicizia. Pertanto, Di Giorgio era, anche per la sua esperienza politico-parlamentare (che nessuno aveva tra i predetti), una carta potenziale di valore massimo (se utilizzata) oppure, senza via di mezzo, nullo (qua- lora inutilizzabile). Ciò spiega i termini delle proporzioni legate agli interventi su questo nome.

Di Giorgio era quel fiore all'occhiello che mancava al fascismo siciliano, che era sorto tardivamente nell'Isola e che lì non si era ancora profondamente affermato come altrove; inoltre, in esso era assai forte sia la componente d'estrazione nazionalista, che quella di matrice agraria e legalitaria. Era, quindi, evidente che una figura di militare e di politico come quella del generale Di Giorgio fosse desiderabile per un rnovimento che tendeva a presentarsi quale espressione degli ex-combattenti ed in funzione di partito d'ordine. Cominciarono, così, quelle pressioni e quegli inviti di amici e simpatizzanti che finirono per attrarre il Di Giorgio al fascismo. L'avvicinamento, però, avvenne necessariamente al vertice e non in periferia, almeno come fase conclusiva; infatti, sin dal mese di novembre o, comunque, poco più tardi, esisteva già un accordo mediante il quale egli diventava il candidato in pectore di Mussolini per il ministero della Guerra, quale successore di un personaggio di rilievo come il generale Diaz.

L'esercito versava, ancora, nella crisi di smobilitazione del dopo guerra; problema che si inquadrava nella più generale crisi politica attraversata, in quel momento dal paese. Era necessario, in quel contesto rimediare alle condizioni sfavorevoli delle forze armate; bisognava, soprattutto, porre fine in qualche modo al disagio morale e materiale di esse, troppo a lungo trascurate. Date le vicende del paese, il problema non era ancora uscito dalla fase preliminare e generica del discorso politico, né esisteva un generale orientamento comune, sia tra i partiti che tra gli stessi militari. La sistemazione delle forze armate era resa più difficile dalle ristrettezze di bilancio, dalle necessità di economie, oltre che dall'incancrenimento della gestione dovuto al tempo trascorso, ai provvedimenti a spizzico ed alla sempre delicata congiuntura politica interna dell'Italia.

Le autorità militari sembrava quasi che attendessero su questo banco di prova il fascismo, verso il quale avevano mostrato simpatia e fiducia, ma senza tuttavia assumere il ruolo apertamente attivo e di sostegno diretto. In quanto istituzione, le forze armate avevano mantenuto una benevola neutralità, né intendevano essere realmente coinvolte nel gioco dei partiti, a tutela della loro indipendenza presente e futura. Tutto questo Mussolini lo sapeva bene, comprendeva di essere considerato ancora in prova e si era ben guardato dall'insidiare questa autonome per non pregiudicare il compromesso raggiunto in modo spontaneistico.(30)

Il generale Di Giorgio sembrava la persona adatta cui affidare lo spinoso problema. Egli era all'apice della carriera, con un brillante passato di soldato e di parlamentare; inoltre, offriva solide garanzie politico-professionali a tutti i gruppi di pressione della società italiana. Anche i partiti di democrazia borghese seguivano con cresciuta sensibilità le vicende militari italiane.

Di Giorgio, poi, era un ufficiale di sicuro attaccamento alla Corona e ciò lo rendeva ben visto a Vittorio Emanuele III, che dalla fedeltà dei ministri militari traeva la maggiore garanzia dinastica. Il generale siciliano era sufficientemente stimato dal partito fascista, ma soprattutto da Mussolini cui ispirava fiducia, sia per le convinzioni politiche che per l'indipendenza di giudizio. Fra l'altro, il capo del fascismo non voleva che alcun esponente del suo movimento avesse troppo potere.

Inoltre, Di Giorgio era ben visto dalle stesse opposizioni politiche demoliberali, interessate a mantenere l'indipendenza dei militari ed a sottrarli all'influenza del fascismo, che apprezzavano il principio dell'apoliticità e neutralità dell'esercito sostenuto da questo alto ufficiale; quest'ultimo era, al tempo stesso, un esponente del vecchio parlamentarismo e ciò lasciava sperare che potesse mantenersi afascista. Anche le alte gerarchie militari non venivano lese da questa nomina, perché, a parte inimicizie o gelosie personali, non veniva prescelto alcun generale fuori servizio che avesse aderito al fascismo, né preferito un qualsiasi esponente di una delle correnti o dei gruppi verso i quali erano orientati i principali esponenti dell'esercito.(31)

Mussolini, pertanto, non appena il Diaz manifestò il proprio desiderio di dimettersi e di lasciare ad altri il compito di riordinare l'esercito da lui restaurato, ma che non si sentiva, in quelle condizioni, di riformare personalmente, decise d'affidarsi al Di Giorgio, dandogli carta bianca in quell'incarico.

Era quanto egli si aspettava da tempo e si affrettò ad accettare, spinto più che da lusinghe personali, dal desiderio di attuare l'ambizioso disegno che aveva sempre accarezzato senza successo.(32)

Molte volte, in passato, il Di Giorgio era stato officiato per quell'incarico e sempre aveva dovuto rinunciare poiché si era messo nelle condizioni di non farsi assegnare quella carica prestigiosa. Già nel marzo 1916, quando era semplice colonnello-brigadiere, era stato invitato dall'allora sottocapo di S.M., generale Porro, e per conto del Cadorna, ad accettare la nomina di sottosegretario del ministro della Guerra. Successivamente per ben due volte era stato sollecitato da emissari del governo e, forse con il consenso del Cadorna, ad assumere il dicastero della Guerra; precisamente nel febbraio e nel settembre-ottobre 1917. Ancora, nel gennaio-febbraio del '18 un'eventuale designazione del Di Giorgio era attesa da molti e dovette, comunque, essere stata presa in considerazione ad alto livello civile e militare, senza che poi la cosa avesse seguito. L'indisponibilità del Di Giorgio per questo incarico risiedeva principalmente nella divergenza d'opinioni sulla condotta della guerra nei confronti sia del Comando Supremo che del governo. Queste idee sono ampiamente esposte dal Di Giorgio nei suoi Ricordi.

La scelta del Di Giorgio nel 1924 fu, però, un clamoroso fallimento nella dimensione politica; egli, infatti, pur essendo ben visto a tutti, finì col non riuscire gradito a nessuno per eccesso di qualità ed in una contingenza storica particolare. La sua posizione risultò, appunto, troppo indipendente, senza che questo elemento si traducesse in un punto di forza; rappresentò, anzi, un fattore di isolamento debilitante, determinato da una condotta impolitica e priva di disponibilità mediatrice. Ma se fosse stato un politicante rotto al compromesso ad ogni costo egli sarebbe venuto meno al suo compito di riformatore.

Infatti, il generale siciliano finì con l'avere tutte le parti contro di sé.

Egli era stato un ammiratore del sistema della "nazione armata", sin da prima della guerra, ed il conflitto mondiale lo aveva convinto ancor più della necessità di esso. Nel dopoguerra questa teoria godette per qualche tempo di una determinata popolarità, ma non uscì mai dai propositi generici, peraltro, spesso, contraddetti dai fatti; inoltre, l'instabilità politica del paese e la crisi economica ritardavano la possibilità di una vasta ed organica riforma militare, che, oltre tutto, sembrava priva di precedenti e molto ardita. Tuttavia, c'è da osservare che la teoria della "nazione armata",(33) nell'accezione tecnica e moderna in cui l'intendeva il Di Giorgio non aveva nulla, o comunque ben poco, a che vedere con il rispolveramento della ottocentesca mitica concezione democratica che ne davano gli uomini politici del tempo. Se l'impostazione di Bonomi era ancora vicina a quella di un Cattaneo, quella di Di Giorgio se ne allontanava, non sul terreno delle garanzie democratiche offerte da una milizia popolare, quanto su quello degli sviluppi tecnologici e professionali; questa diversa concezione, frutto delle mutate condizioni dei tempi, costituiva un superamento che, di fatto, svuotava all'interno il significato dell'antica teoria.

La riforma Di Giorgio, infatti, poneva l'accento su un sistema basato in nuclei stabili di limitate forze militari e mezzi molto ampi forniti di dotazioni numerose, moderne ed aperte all'evoluzione tecnica, scientifica e dottrinale; a questi si sarebbero affiancati per brevi periodi d'addestramento e permanenza ai reparti quadro i cittadini soldati, inclusi gli ufficiali di complemento, che di volta in volta avrebbero rinsanguato queste unità ombra, ma complete con vuoti d'intervallo relativamente lunghi, tra una leva di reclute e l'altra.

Il Di Giorgio si era battuto in favore di queste idee anche alla Camera tra il '19 ed il '20; aveva cercato pure di fare opera di proselitismo; se ne ha traccia nella sua corrispondenza con il generale Cadorna, in particolare nella lettera di risposta che questi gli inviò il 10 gennaio 1923; anche la già citata lettera del sen. Albertini ne è indice, e così pure l'entusiastico giudizio dato dal Federzoni nel suo libro di memorie a proposito del progetto ideato dal generale siciliano costituisce una postuma testimonianza indiretta nel senso suddetto.(34)

Quando Mussolini, nel gennaio 1924, sciolse la Camera ed indisse le elezioni generali per l'aprile successivo, Di Giorgio era certo, in modo quasi virtuale, di essere il prossimo ministro della Guerra. Egli aderì da indipendente al "listone" fascista, creato dalla legge Acerbo, e collaborò, su designazione di Mussolini, con il ministro Gabriello Carnazza alla elaborazione della lista per il collegio unico regionale siciliano, poi ratificata nel mese di marzo. Fu Di Giorgio ad indurre Orlando ad entrare in lista con lui, anche se si trattò di un atto di concordia discorde da parte di quest'ultimo;(35) infatti, dopo il voto, l'adesione fu ritirata dal Presidente della Vittoria. Ma, intanto, fu un colpo importante, di portata politica nazionale, messo a segno dal fascismo; i rapporti tra i due risalivano a vecchia data e l'azione persuasiva dei Di Giorgio dovette avere un peso notevole per quell'adesione, passeggera.

Il 30 marzo il futuro ministro della Guerra tenne il discorso elettorale, in apertura di campagna politica, nel teatro Mastroieni di Messina. Egli esordì affermando: "non ho chiesto e non ho accettato la tessera del partito fascista perché soldato non posso conoscere altri doveri che quelli liberamente giurati nell'atto di vestire la divisa". Non meno sensazionale fu la conclusione con cui terminò l'appassionato discorso, affermando che di fronte alla marcia su Roma, così come ad Aspromonte e a Fiume, "l'esercito avrebbe sicuramente obbedito al potere legalmente costituito solo che questo potere avesse avuto il coraggio di dare l'ordine della resistenza", e finì dichiarando come fosse "nella tradizione dell'esercito italiano di vivere estraneo alla politica, strumento fedele nella mani della potestà civile".(36) Questi stessi concetti egli li ribadì, poi, dopo la sua elezione, alla Camera, e già nella nuova veste di ministro, rivolgendosi all'on. Pivano.(37) Sul fatto che l'esercito doveva essere né fascista, né antifascista, ma soltanto esercito regio ed italiano, il Di Giorgio tornò altre volte e prese, anche, provvedimenti in tal senso nei confronti delle forze armate. Come si vede c'era una continuità coerente nelle idee del personaggio, dagli anni giovanili alla maturità, e ciò perché vi credeva in buona fede. La linea Di Giorgio era facilitata, in quel momento, dal fatto che essa piaceva a Mussolini, il quale non chiedeva, allora, alle autorità militari nient'altro che la neutralità, cioè un appoggio passivo; infatti, già la semplice obbedienza delle forze armate al suo governo rafforzava il fascismo.

Tuttavia ai ras tipo Farinacci, al fascismo più rozzo ed alla stessa milizia, la cosa non andava a genio, sicché la condotta del ministro della Guerra era da loro mal digerita.

Di Giorgio era entrato in carica ai primi d'aprile, subito dopo la riapertura della Camera avvenne l'assassinio dell'on. Matteotti, il fatto politico che produsse una svolta nel fascismo ed indusse Mussolini ad accelerare i tempi per l'instaurazione della dittatura.

Fu nella seconda metà del '24, in piena maturazione e crescita della crisi politica del fascismo determinata dal caso Matteotti, che Di Giorgio irnpostò il suo progetto di riordinamento dell'esercito. Il mornento non poteva essere meno propizio, specie per un disegno di questo genere.

Com'è noto, in questa fase di incertezza che fece vacillare il fascismo, si verificarono vari e concomitanti intrecci di operazioni di dissenso o di iniziative che miravano alla sostituzione di Mussolini, ed erano sia nell'ambito stesso del partito che ai margini di esso, da parte di composi- ti gruppi fiancheggiatosi. Tra questi vi erano, ad es., quello dei combattenti che mirando a riabilitare il Cadorna, in disgrazia presso Mussolini, in contrapposizione a Diaz, già membro del governo fascista, intendeva sottrarre alle camice nere il monopolio del combattentismo ed il consenso dell'esercito. In questa circostanza Di Giorgio sostenne Cadoma per sincera e schietta stima, ma riuscì ad indurre Mussolini a recedere dalla propria ostilità nei confronti di quel vecchio generale solo in virtù di invocati motivi di necessità ed opportunità politica.

Accanto a quella iniziativa frondista ne fiorirono altre, tra queste: quella delle medaglie d'oro, quella degli ex nazionalisti con numerosi loro deputati, quelle di personalità politiche, civili e militari dello Stato prefascista, assai ben rappresentati in Senato. Sarebbe eccessivo parlare di piani coordinati o di unità d'intenti e, tanto meno, di saldatura con le opposizioni, in quel mornento, rinvigorite dei partiti antifascisti, sia moderati che di sinistra, oltre tutto però incerti e divisi tra loro, tuttavia,'in quel periodo il fermento fu grande, anche in seno al fascismo. Nel dicembre del '24 i ministri liberali di destra si dimisero, ma quelli militari, Thaon di Revel e Di Giorgio, rimasero al loro posto dando così la loro solidarietà a Mussolini; ciò per timore di un suo appello alle squadre fasciste, in agitazione interna autonoma, e quindi per impedire il rischio di disordini civili ed un salto politico nel buio, che destavano le preoccupazioni conservatrici.(38)

Quando già l'oltranzismo fascista stava riguadagnando il terreno perduto, Di Giorgio varò il suo progetto di riforma. Il disegno elaborato dal ministro non fissava in modo stabilito il quantitativo minimo della forza bilanciata; questa, pur mantenendo inalterato il numero delle unità, dei comandi e dei reparti, sebbene non si facessero cifre circa il numero degli uomini da tenere alle armi, chiaramente ne decurtava in modo drastico l'entità. La qual cosa, specie in un momento di crisi e di tensione come quello che l'Italia stava attraversando, poteva essere ben visto solo dal fascismo; anzi le correnti più estremiste di quel movimento erano desiderose di politicizzare l'esercito, di subordinarlo ed assorbirlo nella milizia che proprio allora era stata forinalrmente riorganizzata ed istituzionalizzata.(39) Quest'ultimo provvedimento negli intenti di Mussolini doveva servire da freno alla milizia, per moderarla ulteriormente e costituzionalizzarla nell'ambito dei poteri governativi e, quindi, porla sotto il suo diretto controllo, sottraendola allo squadrismo; ciò era ancora in corso, ma i ras non erano propensi a sottomettersi ed i quadri della milizia aspiravano ad un ruolo egemone nell'ambito della difesa nazionale, per ovvi motivi.(40)

E' chiaro che quando il progetto Di Giorgio, contrariamente alle incaute previsioni dello stesso personaggio promotore, fu sottoposto all'esame consultivo del Consiglio Superiore dell'esercito andò incontro al naufragio più completo.

Nel novembre del '24, il Consiglio Superiore respinse nettamente il documento sottoposto al suo esame, subordinandone l'approvazione a radicali modifiche che ne avrebbero mutato la natura. Pochi giorni dopo; qualche indiscrezione giunse alla Camera ed il ministro dovette rispondere con reticente ambiguità. Ma più irnbarazzante fu la discussione in sede di bilancio, avvenuta alla Camera un mese più tardi; tuttavia, non si era ancora alla presentazione del disegno di legge ed il dibattito non andò avanti, ma, anzi, fu trovato l'espediente per tentare d'assorbirne le generiche critiche.

Nel frattempo, il 17 novembre, il Consiglio dei ministri approvò il disegno di legge ed il 5 dicembre fu presentato al Senato, in considerazione della presenza in quell'aula di tecnici eminenti. Ma gli attacchi, dalle più diverse provenienze, crebbero anche sulla stampa.

Le resistenze erano state sottovalutate; per cercare d'uscire dall'impasse Di Giorgio scrisse ai due marescialli, Diaz e Cadorna, chiedendo il loro parere.

Rispose Cadorna, prima in senso positivo e con qualche riserva marginale, ma poi ritirò l'adesione. Diaz era contrario e con lui tutti i capi più autorevoli dell'esercito, sia quelli in servizio attivo che quelli membri dei Senato; il più tenace avversario del ministro era, però, il generale Giardino. Qualche consenso esisteva, invece, tra i generali in posizione ausiliaria ed in aspettativa.

L'iter parlamentare al Senato fu disastroso. La Commissione senatoriale dell'Ufficio di Presidenza approvò la relazione contraria proposta da Giardino, undici voti contro due, bocciando quella favorevole avanzata dal di Robilant, unico generale rimasto a sostenere il progetto di legge.

Al Senato, pertanto, si profilava un clamorso rovescio antigovernativo da parte della maggioranza. In questa situazione incandescente e di fronte alle pressioni per ritirare il progetto, il Di Giorgio si intestardì e rifiutò d'abbandonarlo. Era nel suo carattere; il farlo gli sembrava un rifuggire dalle proprie responsabilità. Mussolini, in quel momento, gli mantenne ancora la fiducia; ma, ormai, non poteva che essere un espediente tattico. Egli non impedì che il progetto giungesse in aula, ma lì avvenne il colpo di scena, secondo il tipico stile ed inventiva del Duce.

Quando dopo un mese di rinvio, dovuto alla "indisposizione" di Mussolini, il progetto fu sottoposto al dibattito, il I° e 2 aprile, il nuovo ordinamento fu attaccato in modo drastico, persino da Cadorna, in un clima di crescente tensione. Mussolini, comprendendo l'inanità di quel braccio di forza, che sarebbe stato sterile anche se l'avesse vinto, intervenne con una sortita in apparenza improvvisa, ma certo da tempo calcolata, con la quale volle mostrarsi in veste di moderatore e pacificatore. Con gesto retorico, Mussolini chiese la sospensione del dibattito per avere il tempo di riesaminare ed approfondire i problemi, nel più ampio quadro della materia della difesa nazionale. Egli, così, abbandonava il ministro, senza rinnegare alcunché, non avendo formalmente ritirato il progetto. Era una soluzione di compromesso che già anticipava, solo in modo implicito, l'arrangiamento successivo, scaturito con Mussolini ministro della Guerra (carica che non lasciò più sino al 1943), Badoglio capo di S.M. Generale e Cavallero sottosegretario dei dicastero. Di Giorgio, che non era una persona accomodante e nemmeno un arrivista, dopo un rapido scambio di lettere con Mussolini, si dimise, nello stesso giorno, dalla carica ministerial,e che aveva ricoperto per un anno; il 4 aprile le dimissioni venivano formalmente accettate.

Fu il preludio dell'uscita di scena. Egli continuò, ancora per qualche tempo, a far parte della commissione della Camera per l'esame dell'ordinamento Badoglio-Cavallero ed il 29 gennaio del '26 prese la parola per l'ultima volta intervenendo in modo blando nel dibattito su quell'argomento. L'ex-ministro si dichiarò contrario, avanzò qualche critica, ma affermò di non volersi opporre per motivi di lealtà, rimettendosi alla maggioranza.(41) Era un modo per sottolineare, con quel pacato atteggiamento di distacco, che la sua non era una questione di tipo personale.

Nel frattempo, il generale Di Giorgio aveva ripreso servizio attivo. Fu dapprima capo del corpo d'annata di Firenze e poi, nel '26, venne destinato al comando di quello di Palermo, secondo il suo desiderio. In Sicilia egli concluse la sua carriera.

Nel giugno del '27, pronunciò il discorso inagurale per il primo congresso regionale in favore del rimboschimento dell'Isola.(42) In quel lo stesso anno entrò in vivace dissidio con Mussolini, per il grave contrasto che l'oppose al prefetto Mori, per i metodi ed i criteri che quest'ultimo impiegò durante la sua indiscriminata repressione del fenomeno mafioso in Sicilia. Al Di Giorgio, ancora deputato, si erano rivolte le lagnanze dei suoi elettori e di molti che ritenevano eccessiva l'opera del prefetto.(43) Il generale si fece interprete presso Mussolini di queste proteste, ebbe scambi di lettere e colloqui, ma non la spuntò; anzi la sua posizione, duramente attaccata dal Mori come quella di un difensore della mafia, ne risultò incrinata, non già in quanto compromessa, bensì perché scomoda per il capo del fascismo. Sia chiaro, tutta l'offensiva condotta contro il Di Giorgio dal Mori fu strumentale, priva di qualsiasi fondamento e rientrava nella riduzione sotto il regime fascista d'ogni espressione allotria; che la diversità fosse onesta o criminosa non importava nella logica dittatoriale, sia pure all'italiana (perciò la meno truce fra tutti gli assolutismi totalitari moderni). Ma una volta conseguita questa vittoria fu pure la fine del "prefetto di ferro", perché altrimenti sarebbe diventato troppo potente e ciò non poteva essere consentito nell'ambito del regime. Si rifletta, del resto, che Mussolini gestì con la stessa tecnica di metodo riduttivo il partito fascista durante il Ventennio, nel contesto di una dinamica più ampia dove s'inserirono come fatti accidentali le vicende politiche. Il Duggan,(44) peraltro, dopo il sottoscritto, ha fatto giustizia nel suo testo affermando l'infondatezza delle accuse avanzate dal Mori contro il fratello del generale Di Giorgio, ma non è il caso di dilungarsi sull'argomento. Comunque, si noti che su 38 deputati eletti nel listone fascista il generale si classificò solo diciannovesimo e ciò proprio perché la politica la faceva in modo non clientelare.

Nel 1927 Mussolini fece bloccare il provvedimento di nomina del Di Giorgio a generale designato d'armata.(45) Il 5 marzo 1928 il Di Giorgio, sdegnato del trattamento iniquo che gli era stato riserbato e delle accuse ingiuriose lanciate contro la sua persona, ricredendosi nei confronti del sistema fascista, si dimise per protesta dalla carica di deputato e rassegnò anche il comando militare, chiedendo di essere collocato in posizione ausiliaria nell'esercito.

Dopo la definitiva rottura con il regime ed il ritiro a vita privata, egli si raccolse «nell'intimità familiare..., curando l'agricoltura, viaggiando, riordinando le sue memorie che era sua intenzione venissero pubblicate dopo la morte».(46) Questa lo colse improvvisa e prematura il 17 aprile 1932, per crisi cardiaca sopravvenuta al decorso di una operazione cui aveva voluto sottoporsi.

Egli non fece in tempo a terminare il libro su La battaglia dell'Ortigara, che stava allora scrivendo, e che venne pubblicato poi ugualmente,(47) dato che era quasi ultimato, né i suoi Ricordi della grande guerra, pure già scritti in larga misura, e che più tardi ha pubblicato la Fondazione Whitaker.

NOTE

1. Per eventi bellici durante la seconda guerra mondiale l'archivio della Scuola militare della Nunziatella andò distrutto e con esso la documentazione sugli allievi; egli, fu iscritto con numero di matricola 1137 e frequentò i corsi, dal 3° al 5°, degli anni 1883-1886. Queste notizie sono state fornite cortesemente, con lettera da Napoli del 20 ottobre 1977, dal colonnello Silvio Martino comandante, alla data predetta, del prestigioso istituto partenopeo e che è l'unico collegio rimasto dell'esercito italiano.

2. Proveniente dalla Scuola militare di Napoli, fu ammesso, dal 6 ottobre 1886, a frequentare il 33° corso accademico di Modena del biennio 1886-1888; terminò il 1° anno di corso classificandosi 108°, su 421 allievi, con la media di 14,28/20 mi di punteggio e nel ° anno di corso si classificò 88°, su 297 allievi, con la media di 14,11/20 mi di punteggio; il 23 luglio 1888 fu nominato sottotenente di fanteria. Notizie fornite cortesemente, con lettera da Modena del 12 settembre 1977, dal generale Natale Dodoli comandante, alla data predetta, dell'Accademia militare di Modena (unica attuale dell'esercito italiano) e questo alto ufficiale ha poi raggiunto il grado di generale di Corpo d'Arrnata ricoprendo, tra l'altro, il comando in Sicilia che già aveva avuto il Di Giorgio.

3. A quel tempo, per l'ampliamento dell'esercito, accresciuto in particolare di due corpi d'armata, e dovendo sopperire all'aumentato fabbisogno di giovani ufficiali subalterni, i corsi triennali furono contratti ad un biennio e, perciò, furono detti corsi "accelerati", ma, con ironia, nell'ambiente militare vennero definiti corsi "scellerati" perché troppo brevi; cfr., sul punto: E. De Bono, Nell'esercito nostro prima della guerra mondiale, Milano, Mondadori, 193 1, p. 77. Di quei corsi brevi ve ne furono solo tre ma, nonostante tutto, al contrario delle critiche per l'esiguità di tempo per la formazione (il che in termini oggettivi era vero, però si pensi che ciò accadde sempre ed ovunque in epoca di guerra e con esiti, in concreto, positivi per le esigenze che li determinava), da essi uscirono ufficiali molto validi che si illustrarono in tutte le guerre affrontate dall'esercito italiano. Per una trattazione ampia e sistematica delle istituzioni v. la monumentale opera dei generale F. Stefani, Storia della dottrina e degli ordinamenti dell'esercito italiano, vol. 1; Dall'esercito piemontese all'esercito di Vittorio Veneto, Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, Roma, 1984, cap. X ss.

4. B. Croce, Storia d'Italia dal 1870 al 1914, Laterza, Bari, 1928, r. 1967 pp. 188, 285, 305 (una nuova edizione: Adelfi, Milano, 1992).

5. Il riferimento è: al celebre libro del colonnello, poi generale, N. Marselli, La vita del reggimento. Osservazioni e ricordi, Firenze, Barbera, 1889, n. ed. a c. di V. Gallinari, Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito, Roma, 1984.

6. 0. Baratieri, Memorie d'Africa 1892-1896, Bocca, Torino, 1898; Id., Memoires d'Afrique 1892-1896, pref. di J. Claretie (accademico di Francia), Paris, Delagrave, s.d. (ma fine 1898). Inadeguata la r. an. del testo italiano, a c. di G.B.R. Figari e con intr. di C. Asciuti, in due ed. coeve che differiscono solo per la copertina cart., entrambe Genova, una ed. I Dioscuri e l'altra Melita Ed., 1988 ma distr. nel 1989 e che costituisce una chiara operazione commerciale.

7. A. Di Giorgio, Le 'Memorie d'Africa'del gen. Baratieri e il soldato italiano, in "Rivista Politica e Letteraria" (Milano), apr. 1899, pp. 97-133; poi in: Id., Scritti e discorsi vari (1899-1927), a c. della moglie N. Di Giorgio [Whitaker], Dante Aligheri, Milano, 1938, pp. 1-37. La vedova dei generale fu assistita per questa raccolta dal prof. Biagio Pace, amico di famiglia (v. anche avanti).

8. A. Di Giorgio, Benedeck, in "Rivista Politica e Letteraria", ott. 1899, poi in: Id., Scritti e discorsi vari .... cit., pp. 37-47.

9. C. Airaghi, Scritti vari, raccolti e pubblicati a c. dei ten. colonnello A. Pezzini e del tenente A. Di Giorgio, Tip. Lapi, Città di Castello, 1901, con note ed un profilo biografico su "Il colonnello Cesare Airagbi" del Di Giorgio, pp. 1-65 (il ricavato era destinato a beneficio della "Dante Alighieri"). Il saggio biografico fu ripubblicato poi in: A. Di Giorgio, Scritti e discorsi vari ..., cit., pp. 48-98.

10. A. Di Giorgio, Il generale Manfredo Fanti, discorso pronunziato l'8 apr. 1906, in: Scritti e discorsi vari .... cit., pp. 99-113.

11. A. Di Giorgio, Il caso Ranzi e il modernismo nell'esercito, Firenze, Bemporad, 1908 (ma licenziato alle stampe nel nov. 1907), pp. 95 dell'opuscolo; poi in: Id., Scritti e discorsi vari .... cit., pp. 114-191.

12. Si rimanda al contributo di chi scrive qui: Profilo biografico di Antonino Di Giorgio, in: A. Di Giorgio, Ricordi della grande guerra .... cit., p. XL ss., e 324 (n.) s.

13. A. Di Giorgio, L'avvenire niarittimo ed industriale di Messina, v. in: Scritti e discorsi vari .... cit., pp. 236-248.

14. L'interessante giudizio dell'on. Di Giorgio intervistato da "Il Giornale di Sicilia", a. LIV, n. 91, 28-29 mar. 1914; poi: La situazione militare e il compito del nuovo ministro della Guerra, in A. Di Giorgio, Scritti e discorsi vari..., cit., pp. 296-304. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata del 2 mar. 1915, intervento dell'on. A. Di Giorgio; poi in: Id., Scritti e discorsi vari ..., cit., pp. 305-313.

15 G. De, Stefani, Profilo biografico di Antonino Di Giorgio, cit., pp. XLIII-XLIV, 325 (n. 31).

16. Questo giudizio fu avanzato dall'ideatore dell'impresa di Carzano ten. colonnello C. Pettorelli Lalatta, L'occasione perduta, Carzano 1917, Munia, Milano, 1967 (già: Il sogno di Carzano, Cappelli, Bologna, 1926, ed. sequestrata), in particolare pp. 86-87, 87 n. Questo parere fu ripreso poi dal generale E. Faldella, La grande guerra, vol. I: Le battaglie dell'Isonzo (1915-1917), Milano, Longanesi, p. 347. Dello stesso avviso fu: L. Bissolati, Diario di guerra, Einaudi, Torini), 1935, (postumo), p. 104.

17. Il generale in capo Cadorna nell'assegnare al generale Di Giorgio quel comando speciale disse: "Il nemico ha invaso il paese. Non ho che due divisioni libere, sicure: le affido a lei, caro amico, perché protegga con esse la ritirata. Fido su lei"; così secondo la testimonianza del cappellano militare (legato ad entrainbi i personaggi) don G. Minozzi, Il genercile Di Giorgio, Amatrice (Rieti), tip. Orfanotrofio Maschile, 1935, p. 6.

18. C. Borntraeger, Dal Tagliamento al Piave. L'artiglieria del Corpo d'Armata Speciale Di Giorgio, Dante Alighieri ed., Milano, 1934. Un testo poco o punto noto.

19. T. De Rizzoli, Il Corpo d'Armata Speciale (Di Giorgio), pref. del generale Luigi Segato, Lattes, Milano, s.d. (ma 1933).

20. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata del 15 lug. 1919, del 1° lug. e del 25 nov. 1920; poi in: A. Di Giorgio, Scritti e discorsi .... cit., p. 321 ss., 387 ss., 420 ss.

21. Ibidem, passim.

22. In particolare ibidem, p. 404.

23. A. Di Giorgio, Crispi, Palermo, Libreria Trimarchi, 1920; poi in: Id., Scritti e discorsi vari ..., pp. 372- 386. Si noti che negli anni dei primo dopoguerra italiano furono in molti, da più angolazioni politiche, a rivisitare la figura di questo personaggio, alla luce delle nuove vicende del paese, e Di Giorgio fu tra i primi.

24. Per un moderno punto di vista critico v. il libro di: M. Ganci, Il 'caso' Crispi, Palumbo, Palermo, 1976. Per una vasta rassegna v. L'accurata monografia di: G. Tricoli, Francesco Crispi nella storiografia italiana, Palermo, I.L.A. Palma, 1992. Dopo chi scrive qui si è soffermato sul predetto discorso del generale Di Giorgio il saggio di: F. Bonini, Il mito di Crispi nella propaganda fascista, in "Rivista di Storia Contemporanea", n. 4, ott. 1981, pp. 548, 574.

25. Sul punto v. in: A. Di Giorgio, Ricordi della grande guerra ..., cit., "Lettere sparse", (1.30), pp.284-285; da: L. Albertini, Epistolario. 191-1926, vol. IV, Il fascismo al potere, a c. di 0. Barié, Mondadori, Milano, 1968, p. 1659.

26. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata dei 12 sett. 1919; poi Caporetto, in: A. Di Giorgio, Scritti e discorsi vari .... cit., pp. 337-371. Inoltre, v. sul tema: Id., Ricordi della grande guerra .... cit., passim e in particolare cap. 11, p. 25 ss.

27. J. I. S. Whitaker, La grainde guerra. Inghilterra e Germania. L'Italia - Dicembre 1914, Palermo, Tip. Virzì, 1914, pp. 60.

28. G. Capri, Come il fascismo estromise Di Giorgio, in "Osservatore Politico Letterario", gen. 1973, p. 37. 29. G. Tricoli, Mussolini a Palermo nel 1924, Ist. Sicil. di Studi Politici ed Economici, Palermo, 1993, passim. Il Tricoli ha rilevato con molta esattezza che il Di Giorgio firmò un articolo sul giornale fascista cucchiano "La Fiamma", n. 43, del 28 ott. 1923 e che ciò segnò l'allineamento dei generale al P.N.F. (ivi, p. 78 e 102 n. 83); non era, infatti, un atto accidentale in. quanto era avvenuta proprio allora l'adesione a Roma da indipendente per l'incarico designato di prossimo ministro della Guerra in vista delle nuove elezioni politiche nazionali dalle quali Mussolini si attendeva di conseguire sotto il simbolo del fascio la maggioranza parlamentare, sin lì raccogliticcia.

30. M. Mazzetti, La politica militare italiana fra le due guerre mondiali (1918-1940), Beta, Salerno, 1974, p. 43.

31. Ibidem, p. 46 ss. Inoltre v. anche: G. Rochat, L'esercito italiano da Vittorio Venetoì a Mussolini, Laterza, Bari, 1967, cap. XX. Cenni sulla vicenda connessa al Di Giorgio si trovano in varie moderne trattazioni generali sull'esercito ita liano. J. Whittam, Storia dell'esercito italiano, tr. it. (ed. inglese 1977), Rizzoli, Milano, 1979, pp. 348-353. G. Rochat - G. Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano dal 1961 al 1943, Einaudi, Torino, 1978. L. Ceva, Le forze armate, vol. XI della Storia della società italiana dall'Unità ad oggi, U.T.E.T., Torino, 198 1, pp. 194-200.

32. G. De Stefani, Profilo biografico ... del Di Giorgio, cit., passim, e v. i due cit. discorsi parlamentari del 15 luglio '19 e 1° lug. del '20.

33. Sulla tematica ha scritto: G. Conti, Il mito della 'nazione armata', in "Storia Contemporanea", 1149-1195.

34. L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, Milano, 1967, p. 183 (significativo e singolare fu che nel suo intervento durante la riunione procellosa del Gran consiglio fascista del 1943 Federzoni citò il saggio dei Di Giorgio sulla guerra di Adua; ivi, p. 298).

35. Sulle elezioni nell'Isola v. anche: G. C. Marino, Partiti e lotta di classe in Sicilia. Da 0rlando a Mussolini, De Donato, Bari, 1976. Sulla figura del Presidente della Vittoria v. la biografia di M. Ganci: Vittorio Emanuele Orlando, La Navicella, Roma, 1991.

36. A. Di Giorgio, Discorso elettorale di Messina, in: Id., Scritti e discorsi .... cit., pp. 432-442. Questo discorso era stato pubblicato nella raccolta: I grandi discorsi elettorali del 1924, Imperia ed. 1925; fu ripreso encomiasticamente da Alfredo Cesareo nelle "Cronache d'arte" sul "Giornale di Sicilia" del 31 mar. 1924.

37. R. De Felice, Mussolini il fascista, t.I.: La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino, 1966.

38. Ibidem, p. 704.

39. E' significativo un punto, che per quanto risulta non è mai stato segnalato da alcuno, che, con uno dei suoi primi provvedimenti, il generale Di Giorgio nominò nel 1924 quale primo Capo di Stato Maggiore della M.V.S.N., allora appunto in via di riordinamento, il palermitano e suo amico generale di divisione (uff. d'artiglieria e di S.M.) Carlo Bazan, richiamato in servizio attivo dalla posizione ausiliaria speciale per assumere quella carica.

40. M. Mazzetti, (op. cit., pp. 48-51. C. Rochat, La politica militare del fascismo, nel vol. collettaneo Fascismo e capitalismo, Feltrinelli, Milano, 1976, p. 163.

41. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni, tornata del 29 gen. 1926, poi in: A. Di Giorgio, Scritti e discorsi vari .... cit., pp. 505-515 (questa raccolta comprende anche gli altri precedenti sia alla Camera che al Senato, p. 443 ss.).

42. A. Di Giorgio, Per il rimboschimento in Sicilia, tenuto il 12 giugno, fu pubblicato negli Atti del primo Congresso regionale per il rimboschimento della Sicilia, Messina 12-14 giugno 1927; poi in: Id. Scritti e discorsi vari .... cit., pp. 516-528. Superfluo sottolineare l'attualità del tema.

43. Si rinvia alla n. 62 di p. 327 nel profilo, cit., di chi scrive: frattanto la bibliografia si è molto ampliata sull'argomento in generale, il testo più recente è quello di: G. Tessitore, Cesare Mori. La grande occasione perduta dell'antimafia, Pellegrini ed., Cosenza, 1994.

In linea generale v. cenni ed inquadramenti in : M. Ganci, La Sicilia contemporanea, Storia di Napoli e della Sicilia, Palermo, 1980 (1° ed. ampl. r. Ediprint), p. 106 ss.; F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. II; Dalla caduta della Destra al fascismo, Sellerio, Palermo, 1985, p. 375 ss., in particolare p. 383; S. Lupo, L'utopia totalitaria del fascismo (1918-42), in La Sicilia, a c. di M. Aymard e G. Giarrizzo ( Einaudi, Torino, 1987, p. 382 ss., in particolare p. 405 e 405 n. 1; 0. Cancila, Palermo, Laterza, Bari, 1988, pp. 424-432.

44. C. Duggan, La mafia durante il fascismo, pref. di D. Mack Smith, Soveria Mannelli (CZ), Rubettino, 1986, p. 229 ss.

45. La nomina era stata preannunciata per lettera dal capo di S.M. dell'esercito generale Giuseppe Ferrari al collega, ma il provvedimento era ormai inopportuno nella logica dell'appiattimento che era in corso sia in Itilia che nell'Isola (incluso Mori di lì a poco). Mori, com'è noto, fu nominato senatore nel 1928 e nel 1929 fu collocato in pensione. Di Giorgio, naturalmente, non raggiunse mai il grado di generale d'armata (che sarebbe stato alla sua portata) ed altresì non fu nominato senatore, per alcuna delle categorie nelle quali rientrava, dato che il capo del governo si astenne, per motivi politici, dal farne la proposta al sovrano.

46. G. Caprì, Antonino DiGiorgio soldato e politico, in "L'Osservatorio Politico Letterario", dic. 1971, p. 38.

47. A. Di Giorgio, La battiglia dell'Ortigara, a c. del colonnello Q. Mazzolini (aiut. onorar. di campo di Vittorio Emanuele III), Ardita, Roma, 1935 (postumo).