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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MESSINA

FACOLTÀ DI GIURISPRUDENZA

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LE MODIFICHE TACITE DELLA COSTITUZIONE

 

 

 

 

 

Tesi di Laurea di:

Lucio Nicolò FONTI CASTELBONESI

           

                                                                   Relatore:

                                                                 Ch.mo  Prof.  Gaetano SILVESTRI

 

 

 

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Anno Accademico 1996-97

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                        «In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo

                                                     per mantenersi  vivi e continuare  a sognare»

                                                                                                                                                                

 (Henry Laborit)

 

 

 

 

 

Messina 11 ottobre 1997

 

 

 

 

Sono graditi i vostri commenti:

mailto:luciofc@tiscalinet.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 1

LE MODIFICAZIONI “ESPRESSE” DELLA COSTITUZIONE: LA REVISIONE COSTITUZIONALE EX ART. 138

 


1.1 IL PROCEDIMENTO.

Con un gioco di parole, potremmo dire che parlare di «modificazioni tacite» della Costituzione significa ammettere implicitamente che essa possa modificarsi espressamente; preliminare, dunque, ad un discorso sulle prime mi sembra quello sulle «modificazioni espresse» del testo costituzionale e, segnatamente per il nostro ordinamento, quello sulla revisione costituzionale prevista dall'articolo 138 (combinato con il 139 aggiungerei), della Costituzione della Repubblica Italiana. [1]

Il fatto che la Costituzione[2] traduca in termini normativi l'assetto fondamentale che un vasto gruppo sociale ha inteso darsi in un determinato momento della sua storia, organizzandosi come Stato, ed abbia perciò una funzione «eminentemente garantista»[3], finalizzata ad assicurare «la stabilità e la certezza dei valori, dei fini istituzionali e della servente struttura garantista dello Stato, in modo da perpetuarne nel tempo la vigenza e da fissare le regole del gioco fra le varie parti sociali»[4], e l'ulteriore considerazione che a volte si configuri come Costituzione «rigida», non significa affatto che essa sia immodificabile.[5]

Tale assetto, infatti, altro non è che il risultato del contemperamento degli interessi facenti capo alle varie ed eterogenee componenti della comunità statale sottostante, della visione dello Stato che queste hanno in uno spazio temporale definito, e la previsione espressa di una procedura aggravata di revisione costituzionale è anzi un chiaro indizio della sua rivedibilità. [6]

Attenendoci al dato positivo della Costituzione repubblicana (articoli 138 e 139), una prima considerazione da trarre dall'enunciato normativo è che il testo costituzionale non è emendabile attraverso una legge ordinaria, ma occorre a tal uopo una procedura aggravata; la nostra Costituzione, dunque, si caratterizza per essere dal punto di vista formale una Costituzione rigida, avente nel sistema di graduazione delle fonti una forza particolare, un grado gerarchico superiore a quello della legge ordinaria.[7]

Una seconda considerazione va fatta riguardo la peculiarità del procedimento di revisione e/o di formazione delle leggi costituzionali, esso cioè non riguarda tanto la fase della iniziativa quanto quelle della promulgazione e della pubblicazione, con differenze sostanziali riguardo la fase dell'approvazione.

Dal I comma dell'art. 138 si evince che, per l'adozione di una legge di revisione costituzionale, occorrono due successive deliberazioni[8] da parte di ciascuna Camera ad intervallo non minore di tre mesi tra la prima e la seconda e una maggioranza qualificata (metà più uno dei componenti di esse) per l'approvazione del progetto di legge, ciò dà conto della particolare importanza che il legislatore costituente ha voluto attribuire alla materia oggetto di revisione, coerentemente prevedendo che interventi su di essa incidenti siano fatti oggetto di una maggiore attenzione rispetto ad altri riguardanti le materie di legislazione ordinaria. Ciò in considerazione delle possibili reazioni che i primi possano ingenerare nell'opinione pubblica durante il periodo intercorrente tra la prima e la seconda deliberazione, e prevedendo così al II comma l'espletamento di un apposito referendum confermativo qualora venga richiesto nelle forme prescritte.

Le oscillazioni interpretative, riflettutesi anche in sede applicativa nei primi anni di vigenza della carta costituzionale, circa la consecutività o l'alternatività della doppia deliberazione sono state risolte dai regolamenti della Camera (1957) e del Senato (1958) accogliendo la procedura della votazione alternativa prima nell'una e poi nell'altra camera e, a distanza non minore di tre mesi da ciascuna deliberazione, la seconda votazione di nuovo ognuna nelle rispettive sedi. Tale soluzione è stata infine confermata dai regolamenti del 1971 (artt. 97-100 RCD e 121-124 RS) con la previsione della  trasmissione del progetto di legge all'altra camera dopo la prima deliberazione.

Sempre ai sensi dei predetti regolamenti ai fini della seconda deliberazione viene previsto il riesame del progetto di legge costituzionale nel suo complesso da parte della commissione competente, la quale riferisce all'Assemblea. Successivamente alla discussione sulle linee generali del progetto si passa alla votazione finale senza discutere i singoli articoli. Sono ritenuti inammissibili o.d.g., emendamenti[9], richieste di stralcio di una o più norme. Sono, invece, sempre possibili le dichiarazioni di voto.

Il progetto di legge approvato ai sensi del I comma non si trasforma automaticamente in legge, non viene inserito nella Raccolta Ufficiale degli Atti normativi della Repubblica Italiana e la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ha solamente una finalità conoscitiva allo scopo di consentire, entro i tre mesi da essa, l'esercizio della facoltà di richiedere il referendum popolare confermativo, previsto dal  II comma del 138, da parte dei soggetti legittimati.[10] Le modalità per la richiesta e per lo svolgimento sono disciplinati dagli artt. 1-26 l. 25 maggio 1970 n. 352.

Il referendum viene indetto dal Presidente della Repubblica ed il progetto si intende approvato se ottiene la metà più uno dei voti validi (escludendo cioè dal computo le schede bianche e nulle). La sua facoltatività fa si che qualora non venga richiesto nel termine,  il progetto si intende approvato tacitamente dal corpo elettorale.

Solo a seguito di pronuncia espressa favorevole o di mancato esercizio della facoltà di richiesta referendaria il progetto di legge diviene legge costituzionale, ed è promulgato dal Presidente della Repubblica e pubblicato nelle forme previste.

Al referendum non si fa luogo, per una presunzione assoluta di approvazione[11] da parte del corpo elettorale dovuta alla percentuale molto alta di  voti favorevoli espressa dai rappresentanti del popolo, qualora in  sede di seconda votazione il progetto venga approvato con una maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera (138 III comma), ed in tal caso si ha l'automatica trasformazione in legge dopo la votazione.

Il referendum costituisce, in questa procedura, elemento formativo per la perfezione della legge (ecco perché “confermativo”); a sostegno di questa tesi, oltre che ragioni di ordine formale e sostanziale, anche la lettera del II comma dell'art 138 “La legge sottoposta a referendum  non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi”. Il corpo elettorale agisce, dunque, in questa fase come terzo organo legislativo partecipante al procedimento di formazione della volontà.

Soffermandoci ora, brevemente sui concetti di «legge di revisione costituzionale» e di «altre leggi costituzionali»[12], non sembra sufficiente, al fine di stabilire ex ante quando occorra adottare la procedura aggravata il ricorso ad un criterio formale. Bisogna, invece, attenersi ad un criterio sostanziale, includendo tra le leggi di «revisione» quelle che abbiano ad oggetto la stessa materia già disciplinata nella Costituzione o in altre leggi costituzionali, e tra «le altre leggi costituzionali» quelle in tal senso qualificate dalla Costituzione le quali mirino ad “integrarne” il testo aggiungendovi alcunché; e quelle per le quali, presentandosi la necessità di integrare la Costituzione anche in altre sue parti, nella difficoltà di determinare un criterio idoneo a stabilire se effettivamente di questo si tratti, il Parlamento scelga di adottare la procedura aggravata, anziché quella ordinaria, prevista per le leggi in materia costituzionale dall'art. 72 comma IV della Costituzione.

E', opportuno, infine, ricordare che con legge costituzionale sono stati adottati gli Statuti speciali delle cinque regioni ad «autonomia differenziata» (Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta) ad essi, perciò in caso di modifica, si applica il procedimento previsto dall'art. 138. Alcuni di questi,  peraltro, similmente all'art. 132 Cost. relativo alla fusione di regioni esistenti e alla creazione di nuove regioni, presentano in ordine alla loro modificabilità un «ulteriore aggravamento della procedura» o, addirittura, la «decostituzionalizzazione» di alcune norme, consentendone così la revisione attraverso il procedimento ordinario.

 

 

 

1.2 I LIMITI ALLA REVISIONE COSTITUZIONALE.

Dallo svolgimento sin qui protrattosi emerge come l'attività di revisione o di produzione di norme costituzionali incontri, giuridicamente, dei vincoli[13] in ordine al rispetto di un determinato procedimento e all'osservanza di alcuni termini: si parla in questi casi di limiti alla revisione costituzionale. Alcuni di questi possono essere superati attraverso la procedura prevista dall'art. 138 Cost. o da altre norme costituzionali richiedenti procedure aggravate rafforzate. Li definiremo pertanto, relativi; altri invece, sono considerati insuperabili e la dottrina parla in questo caso di limiti assoluti,[14] detti altrimenti «essenziali perché riguardano parti costitutive dell'essenza della Costituzione, e come tali sottratti ad ogni mutamento»[15]; oltrepassarli determinerebbe il sovvertimento dell'ordine costituzionale vigente, la sua soppressione e sostituzione con un nuovo ordine antagonista del precedente.[16]

A tale ultima categoria appartiene il limite espresso posto dall'art. 139[17] della Costituzione il quale sancisce l'immodificabilità della forma repubblicana, ciò per l'intima connessione che questa presenta «con la struttura della nostra società» e con il «sistema costituzionale in cui essa ha trovato espressione».[18]

La sua modificazione, perciò, non potrebbe aver luogo tramite il procedimento di revisione, ma solo a seguito di un fatto extragiuridico non contemplato dal nostro ordinamento.

In questo sarebbero, inoltre, presenti altri limiti assoluti non esplicitati nel dettato normativo e perciò detti impliciti in quanto ricavabili dall'ordinamento costituzionale nel suo complesso o da qualche singola sua parte, da «norme-princìpio sulle quali si fonda (e nelle quali dunque si identifica) l'intero sistema costituzionale, che in esse rinviene i valori politici che lo alimentano e lo stabilizzano nel tempo».[19] [20]

Esisterebbe, dunque, nella Costituzione un «nucleo duro» costituito da valori costituzionali «intangibili», pena il cambiamento (pur incruento) della forma di Stato. Questi sarebbero contenuti nei «princìpi fondamentali» (artt. 1 - 11 Cost.), in particolare nell'art. 2 ove si fa riferimento ai «diritti inviolabili dell'uomo».[21] Altri «princìpi intangibili» sarebbero enucleabili sulla base del valore della «forma repubblicana» ex art. 139 Cost. e del senso che a questa si attribuisce.[22]

In questo ordine di idee anche la Corte costituzionale che, in una recente sentenza[23], ha affermato l'esistenza nella Costituzione italiana di «princìpi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da una legge di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i princìpi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i princìpi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana».

Giunti a questo punto e operando una lettura congiunta degli artt. 138 e 139 della Costituzione con uno sguardo sistematico rivolto a tutto l'insieme delle disposizioni costituzionali, alla luce della sent. 1146/1988, a me pare, mutando prospettiva e guardando come all'altra faccia della medaglia, di poter inquadrare il discorso non tanto mettendo l'accento sulla natura di limite di tali princìpi-valori[24], quasi a dare l'impressione che si tratti di fattori “esterni” all'art. 138, ma di considerare il rispetto dei princìpi-valori supremi come immanente al contenuto della norma sul procedimento di revisione. Qualora di essi non si tenesse conto  azionando l'art. 138, da parte del revisore esorbitante dalla sfera dei suoi poteri, il “procedimento di revisione” muterebbe natura per degenerare in fatto extragiuridico non previsto dall'ordinamento, un fatto extra-ordinem consistente in un tentativo di mutamento rivoluzionario o golpista dello stesso ordinamento.

In altre parole (e azzardando una trasposizione da altri campi), se potessimo assimilare la Costituzione al “patrimonio genetico” dello Stato, l'art.138 potrebbe essere visto come una sorta di cellula indifferenziata del sistema immunitario, contenente in essa tutto intero tale patrimonio la quale, nel momento in cui si rapporta (attivazione) ad una specifica norma della Costituzione (“gene” relativo ad una parte/funzione dell'ordinamento), assume una funzione specifica di garanzia per lo sviluppo e la vita dello Stato, connotando così la stessa rigidità costituzionale in rapporto alla importanza della parte/funzione incisa dal mutamento e della direzione in cui esso interviene.

I princìpi-valori supremi sarebbero così caratterizzati per la loro assoluta inflessibilità, in quanto, enucleandosi dai valori fondanti l'ordinamento, esplicherebbero una funzione vitale per lo stesso. Intaccandoli si determinerebbe l'estinzione dell'ordinamento esistente o l'eventuale produzione di un monstrum ad esso non più riconducibile.

In tutto questo contesto l'art. 139 svolgerebbe il non indifferente compito spettante alla legge generale che permette al sistema di relazionarsi e di interagire, di crescere e vivere in altre parole, e che sarebbe, nello stesso tempo, data dalla configurazione e dalle interrelazioni complessive di tutto il “DNA”. I valori, sarebbero, invece, le “basi” che combinandosi tra di loro danno vita alle norme. [25]

Ciò implica che modifiche incidenti su parti/funzioni della Costituzione realizzative dei princìpi-valori supremi siano ammissibili solamente se rivolte in una direzione rafforzativa e potenziatrice delle stesse: revisione in melius (ad es. sulle libertà e i diritti ex artt. 13 ss. Cost.); lo stesso dicasi per le modifiche incidenti sulle norme relative alle garanzie istituzionali procedurali, in tal caso però, consistendo le garanzie nella stessa procedura aggravata, il mutamento in direzione rafforzativa-potenziatrice si ha solamente attraverso un ulteriore aggravamento della procedura: revisione in peius.[26] Del resto non si vede come si possa intervenire sulle “difese immunitarie” di un qualsiasi sistema, indebolendole, senza comprometterne la loro originaria capacità e funzione di garanzia.[27]

Le altre norme (quelle contenute nella II parte della Cost. ad es.) sarebbero, invece, revisionabili attraverso l'utilizzo del solo art. 138, facendo però attenzione agli effetti delle modifiche apportate che possano riverberarsi su altre disposizioni apparentemente non intaccate dalla revisione e sulla “legge generale” che regge il sistema, data dalla «forma repubblicana» ex art.139.[28]

Ecco perché nella malaugurata ipotesi si tentassero delle manipolazioni non consentite, a mio sommesso avviso, non potrebbesi più parlare propriamente di «sindacato di costituzionalità»[29], ma al supremo giudice delle leggi[30] non rimarrebbe altro che una mera pronuncia dichiarativa di radicale nullità-inesistenza di un fatto giuridico, non una “legge di revisione” o una “legge costituzionale” incostituzionale avremmo, ma un fatto sovversivo dell'ordine vigente, essendo impossibile, sullo stesso piano logico, riconoscere la revisione di qualcosa che si vuole distruggere.[31]

Certo è che in una tale evenienza, con buona pace del diritto, si aprirebbero scenari nuovi e non tranquillanti, conducenti o alla resistenza dell'ordinamento cui si è attentato, o all'acquisizione di giuridicità del nuovo[32] o, infine, alla instaurazione di un terzo modello costituzionale avente la forza di affermarsi e tradursi in diritto, fatta salva nel primo caso la incriminazione per attentato alla Costituzione del Presidente della Repubblica che si sia reso responsabile della promulgazione della “pretesa legge” e di altri soggetti protagonisti dell'evento.

 

 

 

1.3 ROTTURA E SOSPENSIONE DELLA COSTITUZIONE.

Ci occuperemo ora, brevemente, di due fenomeni i quali presentano con il procedimento di revisione costituzionale l'elemento comune di andare ad incidere, seppure in modo del tutto differente, sulle norme costituzionali preesistenti: l'uno determinandone un radicale mutamento interno nella sfera di operatività, l'altro dando luogo ad un fenomeno di temporanea paralisi dell'efficacia delle stesse non sempre determinabile aprioristicamente nella sua estensione giuridico-temporale.

Con il termine «rottura»[33] si definiscono quelle antinomìe talora riscontrabili all'interno delle Carte costituzionali, per il fatto che talune norme si pongano in contrasto con altre norme o princìpi contenuti nello stesso dettato normativo.

Parte della dottrina, accedendo ad una concezione ampia di «rottura» della Costituzione, rinviene ipotesi del genere, nella nostra Carta fondamentale, soprattutto nelle disposizioni transitorie e finali. La XII e XIII di queste, infatti, in deroga ad altre norme della Costituzione, limitano il godimento dei diritti civili e politici di alcuni dei responsabili del dissolto regime monarchico-fascista; un altro caso di «rottura» sarebbe inoltre rinvenibile nell'art. 68 Cost., il quale prevede speciali guarentigie per i cittadini eletti deputati e senatori, in deroga al princìpio di uguaglianza formale sancito dall'art. 3, comma I, Cost.

Sembra, a me, preferibile però, accedere ad una concezione più ristretta del fenomeno in esame, anche in base alla considerazione che ogni ordinamento, nel momento in cui è posto in vita, viene dotato di meccanismi normativi atti a garantire la sua conservazione e il suo coerente sviluppo sui quali, naturalmente, non mancano di proiettare la loro luce l'esperienza e le vicende storiche che hanno portato alla dissoluzione degli ordinamenti precedenti e alla instaurazione di quelli vigenti.

Tali norme, perciò, sarebbero teleologicamente orientate nelle direzioni di conservazione/sviluppo dell'ordinamento in cui sono inserite, e si risolverebbero, tra l'altro, in antinomìe solo apparenti, dando vita i precetti “contrastanti”, pur nella reciproca distinzione, ad un'unica proposizione giuridica.[34]

Secondo l'accezione ristretta del fenomeno in esame, le ipotesi di «rottura» reale, presenti nel nostro testo costituzionale, sarebbero limitatissime, se non addirittura se ne riscontrerebbe forse l'unica ipotesi nell'art. 22 Cost. il quale, nell'affermare che «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome» lascia sottendere che, per motivi diversi da quelli politici, tale privazione sarebbe possibile. Ora, anche ammettendo che, limitazioni delle situazioni giuridiche del diritto al nome e alla cittadinanza siano sempre possibili, ove ricorrano gravissimi motivi diversi da quelli politici, non si vede come si possa, invece, anche solamente concepire la possibilità che chicchessìa possa privare, per qualsivoglia motivo, un uomo della capacità giuridica, ossia della sua «inviolabile e irrinunciabile soggettività giuridica...soggettività, che è, in nuce, l'umanità, ovvero - come è forse preferibile dire - appunto la dignità umana».[35] Si tratterebbe, quindi, in questo caso, di  contrasto veramente insanabile tra disposizioni costituzionali, in presenza del quale solamente, si può forse parlare di «rottura»  della Costituzione.

Distinta dalla «rottura», in modo netto, è invece la figura della «sospensione» della Costituzione.[36] Tale ipotesi ricorre, quando, al presentarsi di situazioni di emergenza transitorie, bisogna sospendere l'efficacia di norme costituzionali le quali riacquisteranno piena vigenza al momento della cessazione dell'emergenza.

I tentativi, spesso operati in molte Costituzioni moderne , al fine di poter disporre di una disciplina normativa costituzionale utilizzabile anche per tali evenienze, sembrano però destinati a non avere molto successo. Ciò in dipendenza delle stesse circostanze eccezionali, impreviste ed imprevedibili causative di tali emergenze, per l'assoluta tempestività con la quale a volte occorre intervenire che spesso non consente l'azionabilità delle procedure previste, e per la varietà delle tipologie di intervento che possono rendersi necessarie, impossibili da stabilire apriori.

Un timido accenno ad una ipotesi del genere è contenuto nell'art. 78 della nostra Costituzione, relativo alla deliberazione dello Stato di guerra da parte delle Camere e al conseguente conferimento al Governo, da parte di esse, dei poteri necessari.

Anche in ordine alla ammissibilità della «sospensione», va condivisa l'opinione di chi ne rinviene la ragione giustificativa nel caso in cui, in mancanza dei provvedimenti resi necessari dall'emergenza in atto, l'ordinamento rischiasse la definitiva compromissione.[37] In ipotesi del genere, ci troveremmo infatti, in situazioni patologiche di tale gravità per il sistema, richiedenti una sorta di “terapia immunodepressiva”. Si tratterà comunque, sempre e solo, di una attenuazione delle garanzie immunitarie consentita per il tempo strettamente necessario, in quei casi gravissimi, altrimenti non risolvibili, pena la stessa permanenza in vita del sistema, e consenziente l'ingresso in esso, con efficacia ristabilizzatrice, di atti e interventi di salvataggio altrimenti non permessi[38]. Mai però, consentendo interventi su tali garanzie, dai quali possano scatenarsi effetti in senso contrario a quelli voluti ; cioè a dire, mai sarebbero consentite deroghe depressive alle norme di garanzia, anche se temporanee, ma esplicanti effetti definitivi nel sistema o  temporalmente più dilatati di quanto sia strettamente necessario. Potrebbe aprirsi, in tali casi, il varco al possibile ingresso nel sistema di agenti che, a lungo andare, ne causerebbero l'estinzione, oltre a cadere nella immediata contraddizione logica di indebolire qualcosa che è garanzia di ciò alla cui conservazione/sviluppo si tende.

Le “garanzie-difese immunitarie”, in poche parole, dovranno riacquistare, cessata l'emergenza, la piena ed iniziale vigoria che, in una situazione di normalità, la struttura originaria del sistema richiede per il suo corretto funzionamento, semmai rafforzate, qualora non si fossero rivelate pienamente idonee allo svolgimento del loro importantissimo ruolo.[39]

 

 

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

CAPITOLO 2

LE MODIFICAZIONI “TACITE” E L’ERMENEUTICA COSTITUZIONALE: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA?

 

2.1 IL FENOMENO DELLE MODIFICAZIONI “TACITE” DELLA COSTITUZIONE.

Ci addentreremo ora sull’oggetto specifico di questa ricerca, senza però poter fare a meno di rilevare, come dire, un certo pudore, se non una certa riluttanza della dottrina ad occuparsi specificamente del tema, probabilmente a causa della materia stessa involgente delicate valutazioni sempre passibili di sconfinare in altri campi che non siano strettamente quelli della scienza giuridica. I timori sono fondati, ma certamente ciò non costituisce motivo idoneo ad impedire l’indagine su uno dei fenomeni più importanti per la vita degli ordinamenti costituzionali.[40]

Si incorrerebbe, infatti, in un grave errore di prospettiva nel voler considerare come unici mutamenti possibili dei suddetti ordinamenti quelli apportati attraverso delle vere e proprie revisioni formali dei testi costituzionali. Se si vuole comprendere quale sia il reale svolgimento della vita costituzionale di uno Stato bisogna tener conto invece delle molteplici modificazioni non formali che nel corso del tempo, in misura più o meno diversa, sogliono aver luogo nei varî sistemi giuridico-sociali.[41]

Con l’espressione «modificazione tacita», riferita al diritto costituzionale si vuole, pertanto, individuare il «diverso atteggiarsi, nel tempo, dell’ordine supremo dello Stato per atti o fatti che siano idonei a mutare variamente la funzione degli organi costituzionali, pur restando formalmente immodificate le norme che li configurano» o ancora meglio con una formula più ampia: i mutamenti apportati alle disposizioni della Legge fondamentale senza che essi trovino puntuale riscontro nella contestuale modifica del loro testo scritto. [42]

Si tratta di un fenomeno di non poco conto andando ad incidere, modificandola, sulla legge suprema dello Stato nella quale tradotta in formule giuridiche è racchiusa la tavola dei valori/fini della comunità sociale sottostante, senza che questa possa percepirne l’importanza, nella sua reale entità, anche a causa della  diluizione temporale dello stesso. Spesso, infatti, tali mutamenti si producono insensibilmente nel corso degli anni e in modo graduale, altre volte invece sono causati da atti o comportamenti normativi ben definiti, dei quali però non si coglie la reale influenza sul sistema nel suo complesso.[43] Si tratta insomma, della riproposizione nell’ambito costituzionale di un fenomeno presente anche negli altri settori dell’ordinamento giuridico, per il quale le norme scritte assumono un significato diverso, a causa delle nuove regole, anche consuetudinarie, che continuamente vengono a prodursi o all’uso di criteri diversi nella loro interpretazione e applicazione da parte di quanti sono chiamati ad osservarle.

Il fenomeno manifesta l’inevitabile divario fra Costituzione scritta formalmente vigente e Costituzione effettiva, che si viene a produrre ogni qualvolta si abbia la pretesa di fissare in regole scritte, interessi valori e fini di un vasto gruppo sociale, legati alle dinamiche delle interrelazioni che in esso si instaurano e per loro natura, dunque, mutevoli.[44]

Le regole giuridiche scritte, infatti, possono essere realmente comprese solamente guardando a come si configurano nella realtà concreta. E se è vero che esse vigono solo in quanto siano riconosciute e osservate in fatto e nel senso e nelle direzioni in cui abbiano ad affermarsi, ciò vale a maggior ragione per i precetti costituzionali riguardanti il sistema dello Stato e gli obiettivi che la comunità si prefigge, sui quali proiettano la loro azione le diverse forze presenti nella comunità stessa.[45] A ciò si aggiunga, tra l’altro, che non sempre nei varî ordinamenti sono presenti meccanismi efficaci atti a garantirne l’osservanza o la cui azionabilità sia particolarmente agevole.[46]

Leggendo attentamente il testo costituzionale ci accorgiamo come le norme ivi contenute non abbiano tutte la medesima natura; in esso ne troviamo, infatti, alcune con le quali si dà vita agli organi dello Stato, cosiddette istitutive o organizzative; altre che regolano i rapporti tra lo Stato e i cittadini attribuendo a questi diritti soggettivi e definite precettive; altre ancora, infine, riconoscono come costituzionalmente rilevanti determinate situazioni ponendole come fine da raggiungere e impegnando il legislatore e gli altri organi dello Stato non solo a non frapporre ostacoli alla loro realizzazione, ma ad adoperarsi invece a tale scopo. Converrà poi aggiungere che, data per assodata la giuridicità e la immediata vincolatività di tutte le disposizioni costituzionali, una differenziazione ulteriore tra norme precettive e programmatiche la si può cogliere nel fatto che, mentre le prime si indirizzano a tutti i soggetti dell’ordinamento, le seconde, invece, sono dirette agli organi dello Stato nel suo complesso e dai quali soprattutto si può perciò pretenderne il rispetto.[47]

Le disposizioni convenzionalmente definite organizzative e quelle programmatiche, dunque, possono essere considerate come disposizioni ad «efficacia differita» in quanto, fissando un principio o un istituto nello schema essenziale, rinviano all’ulteriore attività di altri organi per la loro realizzazione; presentando spesso un carattere di «elasticità» in ordine alla pluralità di interpretazioni e di realizzazioni, a seconda delle mutevoli esigenze che nell’incessante svolgersi delle vicende storiche vengono a determinarsi o scaturenti dalla visione delle forze politiche che devono attuarle.[48]

Se tutto ciò è vero, se le norme della Costituzione appaiono come suscettibili di molteplici valutazioni in ordine al loro contenuto e alla loro efficacia positiva, si capisce come, per comprendere quale sia l’effettivo assetto costituzionale di uno Stato, occorra considerare anche la reale organizzazione alla quale hanno dato vita, alla luce del fatto che, per il verificarsi delle «modificazioni tacite», la Costituzione effettiva può presentarsi in notevole contrasto con quella scritta.[49] Tale differenza è riconducibile, in sostanza, al fatto che la seconda, seppure tende a regolare nel modo più completo possibile, in armonia con i valori ai quali si ispira, l’assetto dello Stato, non può tuttavia farlo minutamente, a causa della necessaria schematicità delle disposizioni costituzionali e del conseguente rinvio, già sopra evidenziato, all’attività degli altri organi dello Stato, soprattutto del legislatore ordinario, per l’ulteriore regolamentazione della materia.[50]

Il fenomeno delle modificazioni tacite si presenta, dunque, quando nel trascorrere del tempo, pur nella immutata permanenza delle formule giuridiche, la realtà normativa venga a configurarsi in maniera diversa da quanto in precedenza, nell’ambito di un contesto in parte diverso, si riteneva essere voluto dalle stesse norme; o qualora a queste venga data attuazione in modo differente da quanto il loro significato palese e immediato sembra tuttora volere. Ciò a causa di molteplici fattori per i quali si dà una interpretazione delle norme scritte non corrispondente a quella precedentemente accolta o a quella che sembrerebbe doversi accogliere, oppure, e qui il fenomeno acquista una ben diversa e maggiore gravità, si contravviene ad esse senza emendarne esplicitamente il testo scritto. Il tutto trova la propria spiegazione nel fatto che il testo Costituzionale è destinato a durare nel tempo quanto più a lungo possibile, soddisfacendo alle esigenze che nel flusso degli eventi storici vanno ponendosi, e nel fatto che i suoi precetti possono rivelarsi, a un certo punto, insufficienti a svolgere il loro compito, superati dalle dinamiche dei rapporti sociali in continua evoluzione, non escludendo neppure la possibile presenza di «lacune» a causa dell’affermarsi nella realtà di «situazioni giuridiche» nuove e impreviste.

Le Costituzioni sono legate alle contingenze del momento in cui vengono emanate e nonostante gli sforzi di previsione fatti dai loro formulatori in ordine alle necessità future è ben possibile che nello svolgersi della vita degli ordinamenti non solo si ponga resistenza alla attuazione di taluni dei precetti in esse contenuti, ma ad altri si attribuisca un significato diverso ed altri ancora ne sorgano persino in contrasto con i precedenti. Al di sotto dello schema formale sta infatti l’ordinamento concreto, la realtà sociale che si evolve incessantemente, ed è osservando questi due elementi che possiamo riscontrare il fenomeno delle «modificazioni tacite» nella fase in cui tra di essi si crei un divario non al punto però da richiedere una sostituzione del primo o di alcune sue norme con altre rispondenti alla realtà.

Il modo di essere e di atteggiarsi delle istituzioni pubbliche, il modo in cui intendono le loro funzioni e esercitano i loro poteri possono, infatti, variare nel tempo, anche se formalmente mantengono la loro struttura e configurazione originaria così come descritta nel testo costituzionale. Il prevalere di alcune forze politiche, la ideologia alla quale si ispirano o gli interessi che rappresentano fanno sì che prevalga una certa visione dello Stato e dei suoi compiti, la quale porta a valorizzare determinati organi o determinate funzioni a scapito di altre. Cosicché è ben possibile che si verifichino slittamenti o invasioni di competenze tra i poteri dello Stato o che determinate istituzioni previste dalla Legge fondamentale tardino a trovare attuazione ed altre invece vedano accrescere o diminuire la loro importanza a seconda delle contingenze politiche o economiche, svolgendo in modo continuativo attività che invece dovrebbero esplicarsi solo in caso di necessità in base a quanto stabilito nella Costituzione.

Sono dunque determinanti per il verificarsi del fenomeno le forze politiche le quali, in relazione alle esigenze della collettività, nella migliore delle ipotesi, o ad altre valutazioni meno “nobili” sul piano dell’utilità generale, valorizzano determinate istituzioni a scapito di altre meno funzionali ai propri interessi o non più conformi ai nuovi princìpi affermatisi nella realtà socio-poltica in cui operano.

Lo stesso dicasi per le norme della Costituzione che attribuiscano diritti ai cittadini o alle formazioni sociali, le quali possono essere fatte oggetto, da parte delle istituzioni chiamate a dare loro la maggiore sfera di operatività possibile, di atti o fatti normativi non proprio conformi allo spirito che le anima; e per le norme che stabiliscono garanzie procedurali, come quelle richiedenti quorum elevati o iter aggravati per l’adozione di determinati provvedimenti, modificabili indirettamente per le interrelazioni complessive che si instaurauno  nel sistema e che vanno ad incidere su di esse, qualora si apportino mutamenti in settori normativi diversi dalla Costituzione.

Si può affermare, insomma, che nessuna norma della Costituzione può sfuggire alle maglie del tempo e della storia, ma non occorre dimenticare che le modificazioni tacite possono risolversi, lo si è già osservato, in evidenti violazioni dell’ordine costituzionale

 

 

 

2.2 L’INTERPRETAZIONE EVOLUTIVA COME CRITERIO DI LETTURA DEI MUTAMENTI TACITI NEI SISTEMI A COSTITUZIONE RIGIDA.

Nella parte iniziale di questo capitolo abbiamo evidenziato come una importanza determinante, per il verificarsi delle modificazioni tacite, rivesta l’attività ermeneutica volta ad enucleare e comprendere il significato di quanto viene manifestato attraverso le proposizioni linguistiche contenute nelle disposizioni dei testi costituzionali.[51] Attività espressione della più ampia opera di comprensione di tutto quanto circonda l’uomo, riflesso della sfera emotivo-razionale che lo distingue dagli altri esseri viventi, finalizzata alla ricerca della verità di ogni cosa e prima ancora, sarebbe auspicabile, di se stesso. Ciò a maggior ragione in un campo, come quello del diritto costituzionale, dove comprensibili esigenze di sintesi e di schematicità fanno sì che in poche parole, costitutive delle disposizioni nelle quali sono racchiuse le norme, vengano condensati gli interessi, i valori e gli obiettivi più importanti di un ampia comunità sociale.[52] E se è vero, come è vero, che tali modificazioni tacite possono risolversi, in taluni casi, in vere e proprie violazioni dell’ordine esistente, il fatto che nell’ambito costituzionale, più che altrove, assume una decisiva importanza la capacità concreta delle norme di tradursi in realtà, al fine della loro vigenza, ciò non ci deve spingere ad una concezione meramente effettuale del diritto, la quale trascurando il primo e fondamentale compito che esso svolge, quello di indicare un dover essere, rischia di farlo diventare una “inutile” rilevazione di quanto nella realtà ha la capacità di affermarsi. Una funzione meramente sanzionatoria dell’esistente, svilente l’importante ruolo che la Costituzione svolge al fine di garantire un coerente sviluppo della vita dello Stato, in armonia con i princìpi e i valori per i quali è stata posta in essere. Appare ora più chiaro l’obiettivo verso cui ci indirizziamo: capire se, a dispetto dell’evidenza di quanto nella realtà accade (non sempre i fatti hanno ragione!), siano ammissibili mutamenti taciti della Costituzione, soprattutto in un ordinamento come il nostro, il quale prevede espressamente che ad essi si dia luogo attraverso una procedura aggravata, della quale ci siamo già occupati nel primo capitolo di questo studio; e capire, qualora si addivenga a una conclusione favorevole alla loro ammissibilità, in quali termini siano accettabili sul piano del diritto, ed anzi persino auspicabili, ovvero, nel caso contrario, riconducibili a fatti qualificabili con meno eufemistiche espressioni.

Occorre vedere, dunque, come operi l’indagine ermeneutica nei confronti delle norme costituzionali al fine di ricercare, accertare e precisare il contenuto delle stesse onde determinarne in concreto il significato e la portata. Si vuole qui rifuggire però, dalle suggestioni di quella dottrina sensibile alla influenza della scuola del “diritto libero” e tendente ad assegnare all’attività interpretativa una funzione totalmente creativa. A questa si riconosce, invece, lo scopo eminentemente conoscitivo/concretizzatore che le è proprio, così impedendo una arbitraria sostituzione dell’interprete al legislatore (ciò che inevitabilmente assegnerebbe al primo ampia discrezionalità nel valutare le fattispecie concrete, con conseguente rischio di sopravvalutazione della realtà esistente sottostante lo strato normativo e di definitiva volatilizzazione della certezza del diritto).

Iniziamo, dunque, a chiarire i termini della questione interpretativa con la considerazione che l’interpretazione è necessariamente una attività cronologicamente successiva al momento in cui le norme vengono poste in essere, ed è attività strumentale, in quanto tesa a penetrarne il significato e a chiarirne gli aspetti oscuri, al fine di consentirne l’esatta applicazione, possibile in quanto esiste già un tessuto normativo da interpretare.[53] E in quanto attività successiva, che può svolgersi anche a notevole distanza di tempo dal momento in cui si scrive il dettato normativo, non può certo fare a meno di prendere in considerazione «le concrete esigenze di decisione e di azione» frutto delle contingenze che si presentano nel momento della sua attuazione, ed ha inoltre il compito di enucleare, da quanto espresso e formulato, altre norme, nel quadro di un armonico sistema che il legislatore costituzionale ha progettato solo nelle sue portanti essenziali.[54]

A quanto detto si aggiunga che talvolta la  discrezionalità dell’interprete si fa davvero ampia per la non felice formulazione del testo delle disposizioni dal quale ricavare le norme, per la necessità di adattarle alle esigenze applicative e di operare un coordinamento con le altre norme del sistema ponendosi, dunque, in chiave integrativa. Da tutto ciò però, sarebbe errato trarre conclusioni che attribuiscano all’attività dell’interprete funzioni che non le sono proprie. Egli opera, infatti, nell’ordinamento, ed opera in quanto esistono già atti o fatti normativi oggetto del suo lavoro, ovverossia disposizioni normative per le quali è necessario accertare il contenuto; ed anche in presenza di testi «polisensi e problematici», sospettabili di poter dare vita a più norme, nel momento in cui l’interpretazione è posta in essere, una sola è la norma vigente che viene identificata e applicata al singolo caso.[55] Assegnare all’interprete il compito di scegliere ad libitum una tra le “norme” ipotetiche ricavabili dal testo scritto, significherebbe porlo in una posizione sopraordinata rispetto all’organo legislativo, implicante una attività più o meno libera.[56] Il compito di regolare i rapporti oggetto della disciplina normativa spetta, invece, al legislatore, e nel caso specifico al legislatore costituzionale, o nemmeno a questo, qualora si tratti di andare a incidere su norme nelle quali si esprimono i princìpi supremi dell’ordinamento costitutivi del nucleo duro immodificabile della Costituzione, a meno di determinare un radicale mutamento dell’ordine esistente.

Conseguentemente, nel caso in cui l’interprete operi nei confronti di disposizioni schematiche o contenenti concetti non univoci, tali da esaltare il suo ruolo fino al punto da far sembrare che operi una scelta discrezionale della norma, bisogna riconoscere che così non è, limitandosi egli a individuarne una già esistente o già esistente in parte della quale ne abbia precisato, esplicato o sviluppato il contenuto e la portata e svolgendo perciò un ruolo complementare rispetto agli organi competenti a legiferare.[57] Ciò a maggior ragione in un ordinamento come il nostro, ispirato al principio di separazione dei poteri, ove le competenze degli organi di produzione del diritto sono delineate con sufficiente chiarezza, per cui risulta netta la distinzione tra le attività degli organi investiti di funzioni normative e quelle degli altri organi chiamati ad applicare il diritto positivo.[58] E sebbene bisogna sempre tener presente la necessità che il diritto si adegui alla realtà in continua evoluzione, ciò non può consentire che a tale esigenza si faccia fronte attraverso una non corretta attività interpretativa.

Fintantoché l’attività normativa sarà riservata ad appositi organi che la eserciteranno in presenza di determinati presupposti e con certe modalità, e fin quando la concezione che sta a fondamento della disciplina regolativa della produzione del diritto sarà positivamente accolta non si potrà riconoscere all’interpretazione alcuna natura esclusivamente creativa.[59]

Certo il distinguo è sottile, ma se è vero che l’interprete non può e non deve limitarsi alla mera considerazione del dato testuale e formale, egli non potrà però spingersi oltre, nella sua indagine, un corretto utilizzo del criterio “evolutivo”, al fine di individuare le reali ed intrinseche potenzialità di adattamento e sviluppo della norma.[60]

Da quanto detto emerge con chiara evidenza l’esigenza preliminare e fondamentale, nell’affrontare l’argomento dell’interpretazione costituzionale, di tenere presenti quelle che sono le finalità «connaturate e istituzionalmente proprie dell’attività interpretativa». L’interpretazione delle norme costituzionali, essendo anch’esse dotate del carattere della giuridicità con le peculiarità che ne derivano, non può che avere la stessa natura (di fondo) dell’interpretazione delle altre norme giuridiche; non dimenticando che si tratta delle norme fondamentali dell’ordinamento, tali anche quando sembrano limitarsi a delineare solo criteri e direttive per l’attività degli altri organi dello Stato. Il fatto poi che abbiano una sfera di operatività loro propria nella quale agiscono gli organi politici e che a questi soprattutto spetti di interpretarle, e che si occupino di una materia sulla quale continuamente cercano di influire le forze politiche in campo, non ci deve però indurre a pensare che la loro interpretazione abbia natura politica; vero è che la materia politica costituisce oggetto delle stesse, ma non occorre dimenticare che si tratta anzitutto di norme giuridiche. La loro interpretazione deve essere, dunque, compiuta osservando i fondamentali criteri dell’interpretazione giuridica, anche se integrati con altri criteri e con accorgimenti che tengano conto delle loro peculiarità e tra queste, prima di tutte, il fatto che nelle sue norme sono racchiusi i princìpi/valori alla cui fedeltà si deve ispirare l’attività degli organi che devono attuare la Costituzione. Riveste, perciò, una importanza fondamentale nel diritto costituzionale «la comprensione del linguaggio dei princìpi, nelle sue dinamiche e potenzialità generative», senza però dimenticare la necessità di rimanere ancorati, nella enucleazione degli stessi, alle espressioni linguistiche contenute nel testo costituzionale.[61]

A ciò si aggiunga che la natura rigida della nostra Costituzione (la quale postula la, già ricordata, separazione fra gli organi preposti alla revisione costituzionale e alla emanazione di nuove leggi costituzionali e gli organi chiamati a darne applicazione) non consente di attribuire all’interpretazione costituzionale finalità diverse da quelle già indicate, tali da conferirgli un carattere non giuridico.[62]

In ordinamenti come il nostro la Costituzione cerca di assicurare l’osservanza delle proprie prescrizioni sancendo la supremazia delle sue norme e limitando, vincolandoli, l’attività degli organi che devono applicarle, a tal fine prevedendo, anche, l’istituzione di un organo di garanzia apposito.[63]

Certo, l’interpretazione non è da intendersi come mera attività “dichiarativa”, essa ha una indubbia finalità concretizzatrice e a volte richiede raffinate indagini in presenza di disposizioni elastiche e generiche; ha indubbi riflessi sul piano della evoluzione del diritto costituzionale e talvolta svolge una funzione “integrativa”, ma ciò non significa che sia libera o che persegua finalità creative[64]. Occorre, perciò, che sia svolta con la massima accortezza, nel perseguimento del suo specifico fine, basandosi su valutazioni e argomentazioni frutto di attenta ponderazione. Ciò anche sulla base della notevole importanza della Costituzione e delle altre leggi costituzionali, le quali sono le leggi fondamentali degli ordinamenti, con un valore superiore a quello di ogni altra legge.

Bisogna però, sottolineare che le Costituzioni stesse non prevedono, se non molto raramente, regole che forniscano direttive riguardo l’interpretazione o l’applicazione delle proprie norme, ciò probabilmente sulla base del diffuso convincimento che l’attività interpretativa sia attività svolta alla luce di criteri logici, la cui precisazione spetti alla dottrina e alla giurisprudenza, e per esigenze di schematicità e sintesi che sono proprie dei testi costituzionali. Ad essa si applicano, dunque e anzitutto, alcuni princìpi generali o, ed è il caso del nostro ordinamento, alcune regole legali dell’interpretazione di carattere materialmente  costituzionale contenuti in atti di legislazione ordinaria, quali quelle dell’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile.

L’interprete deve perciò compiere, prima di ogni altra, una indagine letterale basata sul testo della disposizione, e successivamente una indagine fondata su considerazioni logico-giuridiche tese a identificare la «ratio o scopo pratico» delle norme, nel rispetto del «dato positivo» e «dello spirito originario della Costituzione»[65], risalendo alla loro genesi storica e esaminandone le finalità attraverso l’inquadramento nel complesso del sistema nel quale vanno a operare. Perciò è anzitutto al significato proprio delle parole secondo la loro connessione che bisogna guardare al fine di risalire al pensiero e alla volontà che esse manifestano, ciò in base alla presunzione di una necessaria corrispondenza tra quanto voluto e quanto formulato.

Ma se questo è vero in linea generale, è altrettanto necessario che ad essa segua una ulteriore indagine, compiuta con metodo logico, al fine di verificare se alla presunzione di cui abbiamo fatto cenno corrisponda la realtà della regola giuridica.[66] Ed è in questa seconda fase che l’interprete, servendosi dello strumento storico, andrà ad indagare sulla formazione della norma, sull’atteggiamento del costituente o del legislatore costituzionale, cercando di intendere i motivi per cui è stata posta in essere e la portata che le si volle attribuire, alla luce dei fattori politici che hanno dato vita alla Costituzione o alle altre leggi costituzionali; ed è sempre in questa fase che egli si serve dello strumento teleologico al fine di cogliere le esigenze e le finalità che la norma costituzionale è destinata a soddisfare, ovverossia, il suo scopo pratico.

Certo va detto pure che, nell’uso dello strumento storico, l’accertamento dell’intenzione del costituente non significa dover guardare alla sua volontà soggettiva, cosa impossibile da farsi se non altro perché trattandosi di un’assemblea le maggioranze sono animate spesso da motivi diversi, ma è pur vero che i lavori preparatori possono assolvere un ruolo determinante per comprendere la volontà e la ratio delle norme stesse.[67]

Lo strumento teleologico fa si, invece, che possano essere prese nella debita considerazione gli interessi alla cui soddisfazione le norme sono rivolte, ed è perciò strumento indispensabile non solo quando esse siano di incerta o ambigua formulazione e inadeguate a disciplinare determinate fattispecie o attributive di poteri discrezionali, ma tutte le volte che debba farsi luogo ad una attività interpretativa. Facendo però attenzione, nell’uso di esso, a distinguere «lo scopo della norma dall’occasio», cioè da quelli che sono i motivi contingenti che abbiano ispirato la sua emanazione.[68]

Fondamentale poi, è l’importanza che riveste l’indagine logico-sistematica grazie alla quale la norma va inquadrata sulla base delle interrelazioni con le altre regole del sistema, considerata non isolatamente, ma alla luce, anche, dei princìpi informatori dell’ordinamento; questi, espressi da singole norme o identificate attraverso l’esame di un insieme di disposizioni della Costituzione, debbono essere sempre presenti all’attenzione dell’interprete in quanto esprimono i valori essenziali fondanti l’assetto costituzionale. In questa fase dell’indagine le norme vengono esaminate considerando tutta la disciplina relativa alla materia alla quale appartengono, e ciò consente di individuare i princìpi regolatori dei vari settori della normativa costituzionale e di accertare, anche, i caratteri generali a cui tale disciplina si informa. È, dunque evidente l’importanza che l’indagine sistematica riveste per ogni norma della Costituzione; le funzioni degli organi dello Stato o l’ampiezza dei diritti fondamentali non sarebbero, infatti, determinabili sulla base di un esame isolato delle singole disposizioni che se ne occupano o della sola indagine logica, fondata sulla determinazione dei concetti ad essi astrattamente riferibili. Occorre, invece, prenderle in considerazione nella loro reciproca coordinazione e nei loro reciproci rapporti, al fine di avere un quadro completo che consenta di cogliere lati della normativa altrimenti non rilevabili, e facendo così acquisire all’attività  interpretativa una vitalità inaspettata. È l’inquadramento sistematico, infatti, che, considerando l’assetto complessivo dell’ordinamento in continua evoluzione, permette di configurare le norme già esistenti, per l’interazione che si viene a creare con le nuove che vengano emanate, in modo tale da far emergere altre chiavi di lettura consenzienti l’individuazione di aspetti della normativa prima trascurati e di percepire certe implicazioni e conseguenze in ordine alle esigenze che man mano vanno emergendo; e che permette, ancora, di specificare e approfondire il contenuto e la portata di singoli princìpi differenziandoli da altri più generali o più particolari e di coordinare ed armonizzare fra loro princìpi diversi, nonché di formulare particolareggiati princìpi interpretativi.[69]

Bisogna però, tenere presente che, considerato il rilievo e l’importanza del contenuto delle disposizioni costituzionali, l’interprete deve agire con la massima accortezza, ponderando le proprie valutazioni e nel più assoluto rispetto delle norme, senza trascurare «alcun dato o elemento utile».

Un altro elemento che non si può certo tralasciare, per le caratteristiche proprie delle norme costituzionali, e che anzi assume una importanza particolarmente rilevante, emerge dalla considerazione che l’interprete nel suo lavoro deve tener conto di alcuni particolari criteri che impongono una speciale considerazione dei motivi politici ai quali le norme stesse si ispirano. Ci riferiamo però a quei motivi veramente essenziali, radicati nei valori supremi che insieme a questi, tradottesi nei princìpi ispiratori dell’ordinamento nel suo complesso e degli istituti da esso previsti, imprimono allo stesso i suoi propri peculiari e identificativi caratteri.[70] Questi ultimi sono individuabili soprattutto nel “nucleo duro” della Costituzione, il quale racchiude ed esprime i princìpi/valori supremi posti a fondamento del sistema costituzionale, e perciò anche i motivi politici fondamentali, i quali risentono, nel nostro ordinamento, delle vicende storiche che hanno portato alla sua instaurazione, e si rifanno alle concezioni liberal-democratiche occidentali. Ai princìpi/valori supremi ci si deve riferire ogni qualvolta si tratta di identificare lo spirito informatore della Costituzione, che non è qualcosa di indefinito, dal momento che la individuazione e la precisazione della loro portata sono possibili per l’opera dell’interprete. L’esame dei motivi politici fondamentali fa parte, dunque, dell’attività interpretativa, dal momento che li si può cogliere nella fase dell’indagine logica, quando, soprattutto attraverso l’utilizzo del criterio storico e di quello sistematico, è possibile accertare le ragioni che hanno spinto il legislatore alla formulazione di una data norma la quale, inquadrata nell’insieme delle disposizioni costituzionali , viene posta in relazione con i princìpi/valori supremi più direttamente espressivi dei motivi politici fondamentali.[71] [72]

Giunti a questo punto del discorso occorre soffermarci con particolare attenzione su un altro criterio che deve applicare l’interprete nella sua attività ermeneutica. Abbiamo già evidenziato come sia inutile pretendere di cristallizzare la realtà in delle formule scritte, l’ordinamento è infatti in continua evoluzione e di questo fatto è ben conscio anche il legislatore nel momento in cui pone le norme, il quale perciò sa che ad esse, nel corso nel tempo, si darà un’ interpretazione la quale terrà conto delle esigenze poste dall’aumento della complessità sociale. Ci riferiamo al criterio evolutivo che, strettamente combinato e interagente con quello sistematico, può essere considerato come il nodo cruciale del discorso relativo alle modificazioni tacite della Costituzione.

Il processo di trasformazione del sistema giuridico è, infatti, collegato al variare delle esigenze politico-sociali della collettività che sono poi, quelle che stanno a fondamento dell’ordinamento; esse perciò si ripercuotono, più che altrove, nell’ambito costituzionale, dove il variare degli atteggiamenti delle forze politiche che se ne fanno portatrici determina, altresì, il mutamento della valutazione del contenuto delle prescrizioni costituzionali. L’interprete, il quale non si limita , nella sua attività alla mera considerazione del dato  formale, è perciò chiamato a cogliere tutte le potenzialità delle norme oggetto della sua attenzione.

Pertanto, gli organi cui spetta di interpretare ed attuare la Costituzione, non possono racchiudere la portata delle sue norme entro un  ambito rigidamente determinato operando interpretazioni ristrette delle stesse, ma al contrario devono porre ogni attenzione nell’accertamento delle potenzialità espansive delle norme, soprattutto nei confronti di quelle tendenti a favorire il progresso della comunità. Man mano, infatti, che l’ordinamento si completa e si arricchisce, il significato delle norme assume nuove coloriture e da esse è possibile enucleare contenuti idonei, sempreché l’evoluzione sia coerente con la concezione a base dello stesso, a soddisfare le nuove esigenze che via via emergono. La schematicità e l’elasticità di gran parte delle norme costituzionali e la necessità di integrazioni e specificazioni delle stesse, del resto non fa che favorire l’utilizzo di tale criterio, attribuendo ai soggetti che devono interpretare la Costituzione notevoli possibilità. Ma l’uso dello strumento “evolutivo”, va detto ancora, deve essere fatto con la massima prudenza, dovendo essere l’interprete molto cauto, nell’applicarlo a quelle disposizioni di principio nelle quali è racchiuso il nucleo duro, immodificabile, della Costituzione e a quelle norme formulate con precisione, e in ogni caso tenere in debita considerazione la funzione limitativa nei confronti del ricorso indiscriminato ad esso, derivante dal carattere rigido della nostra Costituzione. In particolare, nel primo caso, occorre che egli operi attraverso un’«interpretazione storica di ampio raggio», la quale risalendo alla volontà dei costituenti così come oggettivata nelle norme di principio consenta  primariamente di avvicinare i valori della Costituzione alla realtà e successivamente, attraverso una lettura attualizzata delle medesime norme principio, un’«interpretazione storica di breve raggio o congiunturale», che coincida con la stessa interpretazione evolutiva. [73]

Da quanto detto si capisce, dunque, che pur non essendo il metodo dell’interpretazione delle norme costituzionali del tutto distinguibile da quello delle altre norme giuridiche, esso presenta delle peculiarità proprie, derivanti, dalla materia politica di cui si occupano, dalle specifiche esigenze che l’interprete deve considerare, fra le quali quella di dover tener conto dei valori e dei motivi politici fondamentali consacrati nei princìpi  ispiratori e identificativi della Costituzione, e dalle caratteristiche di schematicità delle norme costituzionali, le quali ultime gli assegnano un ruolo ampio nella specificazione e determinazione del loro contenuto.[74] Si tratta però, sempre, di un’interpretazione giuridica, pur se contraddistinta dalla particolare sensibilità per i suddetti motivi politici, e che consente una discrezionalità più ampia rispetto a quella svolta per le norme di altri settori dell’ordinamento, ma che non per questo è libera. Naturalmente il metodo è valido in ogni ordinamento, pur se di questo bisogna, di volta in volta, considerarne le peculiarità che lo contraddistinguono, la tecnica di formulazione delle norme costituzionali, l’età della Costituzione, il contesto sociale e la tradizione giuridica dei singoli Stati oltre, naturalmente, gli orientamenti e gli indirizzi seguiti dagli interpreti.

È necessario, perciò, che l’attività interpretativa per le conseguenze che proietta sull’ordinamento sia condotta con la massima onestà intellettuale, animata dall’amore per la ricerca della verità e da spirito di tolleranza, tutte qualità indispensabili affinché, per le naturali pressioni delle forze in campo e per le convinzioni soggettive degli stessi interpreti e degli interessi che perseguono, l’utilizzo dei criteri interpretativi sia caratterizzato dalla massima correttezza e trasparenza. L’attività interpretativa diventa, dunque, alla luce di quanto detto, un valore, e un valore certamente non indifferente, al fine di realizzare gli obiettivi scaturenti dal patto fondamentale instauratosi tra le componenti che hanno dato origine allo Stato, per la credibilità delle istituzioni e a tutela della sopravvivenza di quell’ elevatissimo principio dell’affidamento, senza il quale salterebbe ogni possibilità di civile convivenza, instaurandosi, in forme più o meno edulcorate, un sistema ove vige l’arbitrio del più forte.

Nell’interpretazione delle norme costituzionali le comuni difficoltà ermeneutiche si accentuano, perciò, per i molteplici motivi che abbiamo sopra evidenziato. La brevità e la schematicità delle disposizioni; la loro, a volte, incertezza ed elasticità causata dall’impiego di termini generici o dal riferirsi in modo indeterminato ai fenomeni della realtà e ai valori o beni della vita sociale; l’esplicitazione di concetti storicamente variabili o intorno ai quali comunque si discute: tutto questo fa si che le norme, oltre a risultare talvolta di difficile comprensione, si rivelino o insufficienti o incomplete o generiche o improprie, e comunque inadeguate a soddisfare le esigenze presenti nei vari tipi di società. A ciò si aggiunga che la Costituzione si occupa della materia politica, sommamente delicata, e spesso risente della necessità di conciliare esigenze notevolmente contrastanti. L’interprete, perciò, deve tenere in debito conto la realtà nella quale essa opera, traendo da questa i necessari elementi di valutazione, al fine di accertare l’evoluzione delle norme e evitare conclusioni distaccate dalla vita reale.

Nell’impiego dell’ermeneutica, l’operatore deve far uso di tutti gli strumenti o criteri di cui può avvalersi, e solo dopo aver verificato l’impossibilità di ricorrere a qualcuno di essi o l’inutilità o il valore limitato ai fini della propria indagine, può rinunciarvi o valutare l’ordine delle priorità tra i medesimi; comunque procedendo ad un esame quanto più approfondito delle singole disposizioni al fine di trarre ogni possibile indicazione, e inquadrandole nel complesso del sistema in modo da potere stabilire se le norme siano davvero oscure, vaghe o insufficienti o se la loro inadeguatezza sia solo apparente.

È, infatti, soprattutto in base ai princìpi informatori della Costituzione, esaminati attentamente in rapporto alle esigenze di chiarificazione che di volta in volta si presentano, che si può stabilire quali siano il senso e la portata di quelle disposizioni apparentemente imprecise od oscure, o di quelle facenti riferimento a concetti non facilmente determinabili come l’equità, la giustizia, l’ordine pubblico, il buon costume. E sempre ad essi occorre fare riferimento, o per comprendere la portata di quelle altre norme attributive di una sfera discrezionale agli organi di indirizzo politico, allo scopo di consentire una corretta esplicazione delle loro attività, o per risolvere conflitti tra norme costituzionali o tra di loro e i princìpi, individuando a quali tra di esse bisogna dare prevalenza; e ancora ai suddetti princìpi bisogna rifarsi, per individuare eventuali deroghe a prescrizioni generali o per intenderne la portata, accertando entro quale ambito tali deroghe debbano contenersi, o per stabilire quale sia la soluzione più corretta nel caso in cui si riscontrino delle lacune. La delicatezza della materia politica oggetto delle norme costituzionali, impone poi, che ci si riferisca ancora ai princìpi fondamentali, ai quali è impossibile derogare, tenendo fede ai valori in essi consacrati. L’interprete deve, perciò, agire con «equilibrio nell’intendere la concezione e ed i motivi fondamentali che circolano nell’intero corpo della Costituzione»[75], avendo ben presenti la realtà e le esigenze presenti in essa, ed in tal modo attribuendo un significato alle norme che le renda idonee a soddisfare gli scopi che sono destinate a conseguire e a far si che la Costituzione e le leggi costituzionali riescano ad assolvere la loro funzione.

Dopo quanto detto a proposito dell’interpretazione strettamente intesa, è ora il momento di esaminare meglio quelli che sono i limiti posti all’attività interpretativa delle norme costituzionali, cominciando col dire che essi si desumono, innanzitutto, dal carattere rigido della nostra Costituzione. La specifica previsione di una procedura aggravata di revisione costituzionale o per l’emanazione delle altre leggi costituzionali non fa, infatti, che dimostrare la separazione tra l’attività ermeneutica, tesa a comprendere il significato delle norme e la competenza del legislatore costituzionale, alla quale si ricollega, perciò, un primo e principale vincolo consistente nel divieto di ledere tale sfera di competenza, rivedendo, abrogando o apportando sostanziali modifiche alla normativa costituzionale. Gli organi chiamati ad interpretare il dettato costituzionale devono, dunque, agire con ogni cura onde evitare di tradire il senso delle norme in esso contenute, di distaccarsi dal significato delle norme delineate con sufficiente precisione univocità e rigore, e di evitare l’attribuzione di significati arbitrari a quelle il cui contenuto sia incerto o ambiguo o elastico o generico.[76] Certo quanto più ci si ritrova in presenza di norme di tale tipo, maggiore è il rischio che gli interpreti svolgano un ruolo attivo apportando ad esse adattamenti e integrazioni; essi devono però, mantenersi nei limiti degli svolgimenti consentiti dalle norme stesse, dal sistema e dai princìpi informatori della Costituzione, per la determinazione dei quali è indispensabile fare riferimento a quella che fu la “volontà del Costituente”, e arrestarsi davanti alla tentazione di percorrere vie che possano condurli alla creazione di nuove regole contrastanti con i precetti o i princìpi della Costituzione.[77]

L’interprete, qualora rilevi delle incongruenze tra le disposizioni oggetto della sua indagine, può tentare di eliminarle o di ridurne la portata, ma deve mantenersi sempre nell’ambito delle intrinseche possibilità di adattamento delle stesse, non essendogli in alcun modo consentito di travisare o deformare il risultato dell’indagine ermeneutica e di sostituire la propria volontà a quella, risultante dal corretto svolgimento dell’attività interpretativa, consacrata nelle norme o nei princìpi costituzionali; non potendo, inoltre, formulare precetti in contrasto con le norme, i princìpi o il sistema costituzionale nel suo complesso. Egli deve farsi guidare dai criteri dell’interpretazione giuridica senza sconfinare oltre, pressato dalle sue personali vedute o concezioni e da scopi o interessi di parte incompatibili con i princìpi sanciti dalla legge fondamentale; in particolar modo, evitando di valutare le norme costituzionali sul piano del merito o dell’opportunità o facendosi suggestionare da avversioni verso questo o quel principio emergente dal dettato normativo, non essendo suo il compito, ma del legislatore costituzionale, di accertare se una norma è opportuna o meno al fine della sua modifica o abrogazione, a meno di  snaturare una attività che, ribadiamo, è giuridica e non può essere guidata da criteri di opportunità.

Abbiamo accennato pure al fatto che gli organi chiamati a interpretare la Costituzione debbono tenere in debita considerazione gli orientamenti delle forze politiche che in concreto detengono e gestiscono il potere attuando l’indirizzo politico, e debbono avere presenti le esigenze di cui queste si fanno portatrici, ciò al fine di percepire eventuali “mutamenti” che intervengono nella società. Perciò, non si ha difficoltà ad ammettere che possano cercare di adattare le norme della Costituzione alle evoluzioni del regime politico e alle condizioni reali del paese, cogliendo tutti gli elementi da esse offerti per soddisfare alle nuove esigenze; all’utilizzo di simili possibilità le forze politiche spingono in modo pressante e continuo, cercando di influenzare e guidare l’interpretazione di quelle norme che assegnano agli organi dello Stato ambiti di discrezionalità, e questo è perfettamente comprensibile, alla luce degli interessi che rappresentano.

Ma agli organi responsabili dell’interpretazione spetta l’arduo compito di sottrarsi alle pressioni «dei contingenti e spesso contraddittori svolgimenti delle diverse forze sociali», accertando una effettiva compatibilità fra il soddisfacimento delle paventate esigenze e quanto statuito dalle norme. È, dunque, il retto impiego del metodo ermeneutico e degli strumenti ad esso offerti, in particolar modo di quello sistematico e di quello evolutivo, che possono fornire all’interprete nuove chiavi di lettura delle disposizioni, in grado di permettere l’adeguamento alle istanze prospettate dalle diverse forze sociali ma, mai in deroga alle regole e ai criteri giuridici che dirigono l’attività interpretativa.[78]

Ecco perché l’interprete si trova spesso nella difficile situazione di chi deve conciliare opposte esigenze: da un lato il rispetto della Costituzione, resistendo agli impulsi diretti a mutare le sue norme e astenendosi dall’assumere atteggiamenti che operino trasformazioni incostituzionali e, dall’altro, la necessità di una evoluzione del dettato costituzionale idonea ad adeguarlo alle dinamiche sociali. Egli, perciò, è chiamato a prendere atto del contrasto tra le diverse forze, quelle inclini alla conservazione della Costituzione nel fedele rispetto di quanto in essa ha voluto trasfondere il costituente, e quelle che invece spingono verso l’adattamento ad una realtà che pretendono mutata, partecipando spesso, in forza delle sue proprie vedute, al travaglio che è chiamato a dirimere. Ma non dimenticando mai la posizione che riveste nell’ordinamento, e che riveste in quanto prevista dalla Costituzione, la quale nel momento in cui è stata posta in essere non ha potuto, in ragione della naturale esigenza a durare quanto più a lungo possibile nel tempo, non volere che gli organi da essa previsti si attenessero fedelmente al suo dettato e allo spirito che lo informa. L’interprete, perciò, attraverso «una metodologia ermeneutica storico-strutturale, di tipo sistematico, essenzialmente conservatrice, che deve fare da pendant alla interpretazione evolutiva, se si vuole distinguere cambiamento da cambiamento ed evitare quello regressivo o deviante rispetto alla direzione fondamentale da conservare»,[79] deve avere sempre presente l’esigenza che le norme si adeguino alla realtà sociale; ciò lo richiede anche il sistema proteso verso una naturale evoluzione, ma deve agire con ponderazione nel valutare le intrinseche possibilità di sviluppo e evoluzione delle norme, utilizzando l’approccio “sociologico” come strumento di lettura della realtà, ma non come concezione prospettico-creativa del diritto E ciò va detto, naturalmente, in quanto si presupponga che egli agisca nel rispetto delle regole concernenti la revisione della Costituzione e che le consideri valide e ineludibili, altrimenti non essendo concepibile alcuna seria riflessione riguardante l’interpretazione delle norme costituzionali e i suoi limiti, ma forse e più ancora, essendo inutile ogni riflessione sulla Costituzione e il diritto.[80]

Siamo giunti, dunque, al termine del discorso introdotto all’inizio di questa parte del nostro studio, nella consapevolezza che la disamina sull’attività ermeneutica è stata ardua e solo accennata. Vicini al nocciolo della questione dobbiamo appressarci a trarre le conclusioni.

Da quanto detto sembra chiaro e evidente che il divenire della vita di una nazione non può essere fissato e cristallizzato in formule linguistico-normative che abbiano la pretesa dell’immutabilità e dell’eternità, e di ciò ha avuto consapevolezza anche il costituente prevedendo un apposito procedimento per modificarle; che è, perciò, possibile una attività ermeneutica protesa a trarre da esse tutto il succo possibile al fine di renderle utilizzabili in un ottica di evoluzione dello stesso ordinamento costituzionale, ma mai dimenticando che in una costituzione rigida e quella italiana lo è in modo particolare, essendo previsti degli organi con il compito specifico di vigilare sul suo rispetto, il compito di mutare il dettato costituzionale spetta all’organo al quale dalla stessa è attribuito e che nessuno può sostituirvisi.[81] [82]

Possiamo, dunque, anche ammettere che, in sistemi costituzionali rigidi, si dia luogo a delle «modificazioni tacite», ma solo assumendo questa espressione come una semplice convenzione linguistica tesa ad individuare il risultato di una interpretazione “sistematico-evolutiva” delle norme costituzionali secundum Constitutionem.[83] Un’operazione ermeneutica condotta con la massima intransigenza richiesta da un corretto utilizzo delle regole giuridiche, proprie di qualsiasi attività interpretativa riguardante regole di diritto, e soprattutto di diritto costituzionale le quali involgono le ragioni stesse per cui una vasta comunità sociale ha deciso di condividere le proprie sorti. E che così intesa l’espressione «modificazione tacita» si riveli, forse, un inutile raffinatezza della letteratura giuridica per descrivere un fenomeno che più che la trasformazione riguarda l’interpretazione della Costituzione, è anche vero, ma sia ben chiaro che altrimenti non può essere a meno di sconvolgere, non solo assodati ed elementari canoni ermeneutici, ma la stessa funzione di garanzia che la Costituzione, «segno dell’alleanza del patto esistenziale tra tutti i cittadini di una comunità», svolge, a tutela dell’individuo, della collettività e dei valori ragioni della sua esistenza, elementi tutti che nella trama delle sue norme sono consacrati.[84] Quanto poi spetti ai gusti letterari dei giuristi, essi hanno la loro libertà, anche se sarebbe auspicabile, al fine di evitare spiacevoli confusioni e conseguenze, un recupero del senso stesso delle parole, specialmente in settori nei quali queste pesano e svolgono un ruolo decisivo; non a caso la parola è la forma principale attraverso cui l’uomo si esprime e manifesta e, più ancora, la parola che si fa diritto è lo strumento attraverso il quale l’umanità ha potuto percorrere la strada della civiltà e della giustizia.[85]

Certo, è vero che le norme costituzionali possono subire, nella realtà, trasformazioni contra Constitutionem fino al punto da non essere più concretamente vigenti, e non a caso oggi si parla ormai comunemente, di “seconda repubblica” pur essendo formalmente vigente la Costituzione del 47.[86] Ciò dipende dal fatto che sul piano del reale assetto normativo, a livello costituzionale, rileva soprattutto quanto abbia la capacità di tradursi in effettive e vigenti regole normative, ma tutto questo non significa che sia ammissibile sul piano dello stretto diritto, attenendo le valutazioni concernenti tali fenomeni altre discipline che non siano specificamente il diritto costituzionale.[87]

In altre parole di tali fatti si può occupare lo storico, il politologo o il sociologo, non potendosi sostenere, a mio avviso, che essi rientrino nella corretta esplicazione del fenomeno giuridico, e riguardando eventi che attengono alla stessa sopravvivenza degli ordinamenti costituzionali così come delineati nella loro essenza.[88]

Tali mutamenti, infatti, anche se apparentemente possono incidere su norme non costitutive del “nucleo” duro della Costituzione e dunque considerate non rilevanti ai fini della identificabilità e della continuità dell’ordinamento, innanzitutto si pongono fuori del diritto perché non lo rispettano nelle norme che prescrivono una particolare procedura per la revisione della Costituzione e, in secondo luogo, vanno a incidere su quel patrimonio genetico, di cui parlavamo nel primo capitolo, andando a modificare surrettiziamente i singoli geni e non rispettando, dunque, la “natura”, né le tecniche stabilite per compiere simili delicate operazioni e, incidi qua, incidi là, prima o poi la struttura rischia di subire un definitivo e irreversibile debilitamento che porterà il sistema al suo crollo.

Attenzione, dunque, a indulgere nei confronti di quei fatti concretanti mutamenti surrettizi dell’ordine costituzionale vigente, anche nelle sue norme che possano sembrare meno importanti[89]; ciò andrebbe a scapito dell’essenza stessa del diritto, che è regola, ma anzitutto rispetto della regola, e alla fine condurrebbe, inevitabilmente, al crollo di tutto l’edificio con fatica e a caro prezzo costruito. Ma a poco a poco eroso, sin dalle fondamenta, dall’arbitrio ci chi basa le sue ragioni sulla forza degli eventi contingenti e su un consenso sempre più manipolabile, e manipolato, da chi ha  l’interesse a farlo e i mezzi necessari a disposizione.

 

 

2.3 LE MODIFICAZIONI “TACITE” DELLA COSTITUZIONE COME FALSO PROBLEMA: UNA QUESTIONE DI “SINCERITÀ” DEL DIRITTO.

Dopo quanto abbiamo rilevato nel corso di questo studio, sembra necessario puntualizzare la ragione principale per la quale si è voluta intraprendere una ricerca incentrata sul fenomeno delle modificazioni “tacite” della Costituzione. Iniziamo subito dicendo che non si vuole qui accedere ad una concezione formalistica del diritto, ma non si vuole nemmeno dimenticare che la forma è essa stessa una componente essenziale dello stile, insieme alla sostanza e allo spirito di tutto quanto si esprime nella “relazionalità” fra consociati; e che lo stile, dunque, a meno di non essere uno stile insincero, non è che l’espressione tangibile, nei rapporti intersoggettivi, della risultante di forma/sostanza/spirito.[90]

Ecco perché, se non vogliamo ritrovarci un diritto ridotto a mera forma «aristocratica» dietro la quale si mascherano una sostanza (interessi) e uno spirito (intenzioni rafforzate dalla volontà o se più piace scopo) inconfessabili, occorre sempre, al fine di evitare inaspettati e non auspicabili risvolti, che la forma corrisponda quanto più possibile alla sostanza, e questa in quella si sforzi di trovare l’ambito della propria realizzazione e della propria legittimazione, nel rispetto entrambi dello spirito informatore di tutto l’ordinamento costituzionale e in una visione dinamica, la quale tenga conto dell’evoluzione e dell’aumento della complessità delle moderne società.[91]

Tutto questo è possibile attraverso una sapiente opera di innovazione nella continuità, scientificamente finalizzata a garantire, in coerenza con i punti di partenza nei quali sono contenuti gli input e le prospettazioni per gli obiettivi da raggiungere, che l’“entropia” di un sistema generata dalla sempre maggiore complessità sociale non aumenti al punto tale da farlo collassare, aprendo così la strada ad uno stato di disordine, conducente  alla instaurazione di un nuovo assetto ordinamentale con una nuova tavola di valori/interessi/scopi. Salvo addirittura prefigurare un futuro, e i segnali purtroppo vi sono tutti, ove il primo di questi elementi venga svuotato di contenuto e la formula ispiratrice si riduca, con quali conseguenze lo possiamo immaginare, trasformandosi in una fredda prospettazione di soli interessi/scopi materiali. In altre parole, il rischio è quello, avvertitissimo, che si metta da parte il Valore principe del rispetto della persona umana e della sua dignità, considerando come unico “valore” il valore venale e utilitaristico dell’oggetto producibile.[92]

Una nuova tavola di non “valori”, dunque, nell’oggi che si proietta verso un futuro sempre più intriso di “pensiero debole” conducente ad una ipovalutazione di ogni aspetto dell’esistenza, e che determina lo svuotamento di contenuto del valore stesso, per cui questo diventa un involucro che, se in precedenza racchiudeva essenza, ora rischia di involgere il nulla, con decisiva perdita in termini di forza, consistenza e preziosità. Occorre però, ripeto, che tutto questo, se così è, sia palese.[93]

E il fatto stesso che non è bello ammettere - esplicitamente - il verificarsi di una tale ipotesi dimostra implicitamente, soprattutto per i più sinceri e sensibili, una nuda, cruda, violenta esperienza di un inganno perpetrato in nome di un “diritto” che si dice a tutela della persona umana, ma che nei fatti viene utilizzato per soddisfare gli interessi di pochi e non bene individuati, perché spesso occulti, circoli di gestione e di sfruttamento delle risorse spirituali, umane, intellettuali e materiali della nazione: la grande menzogna dello Stato costituzionale liberal-democratico sembra a difesa dei poteri forti e occulti. Il rischio è grande, e non è detto che non si sia già tradotto in realtà, una realtà nella quale continuamente, e in molti ne percepiamo il disagio, si sente parlare e si sperimenta della crisi dei valori, e in cui ogni giorno ci si scontra con piccole e grandi sopraffazioni a dispetto dei diritti che formalmente vengono riconosciuti e tutelati, e nella quale, la Costituzione del 47, ancora formalmente vigente, viene messa insistentemente in discussione da coloro che, più o meno disinteressatamente, paventano l’avvento di una seconda, “auspicata o auspicabile”, repubblica.[94] Non vi è chi, tra i più sensibili, uomo della strada o scienziato del diritto, possa sottrarsi alla sensazione di angoscia provocata dall’impressione che una grande conquista, frutto del sangue e della lotta di intere generazioni, la Costituzione, sia stata surrettiziamente e sistematicamente stravolta nel corso degli anni, spesso da quegli stessi “uomini di stato” che dovevano, a maggior ragione in virtù delle funzioni rivestite, contribuire alla realizzazione degli obiettivi posti in essa, e tramite l’utilizzo distorto delle strutture e degli strumenti previsti dalla stessa al fine di rendere effettivo «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese».[95]

Non vi è chi non veda come, un paventato risanamento in nome del rapporto deficit/prodotto interno lordo, ma non dell’uomo, vada a colpire, e in modo sistematico, i più deboli, e non riesca, invece, a incidere sui patrimoni di chi in questi anni ha dilapidato le risorse dello Stato; e non v’è chi non veda, dando uno sguardo sincero e disinteressato, come giusto ora, finalmente dopo tanto tempo dalla entrata in vigore della Carta costituzionale, nel momento in cui i meccanismi di controllo tra i poteri dello stato cominciavano a funzionare, e ci riferiamo al controllo giudiziario, da tanti troppo a lungo atteso, esercitato sugli altri poteri  dello Stato più direttamente legati alla politica, giusto ora dicevamo, si voglia ridimensionare, tra gli altri istituti di garanzia, il ruolo della magistratura, perché stia di nuovo cheta permettendo ai soliti di continuare a fare, indisturbati, i loro affari.[96]

Ed è questo il nodo cruciale, il punctum dolens, della questione delle «modificazioni tacite» della Costituzione, ma non solo di essa, riguardando ogni settore normativo che trova la sua  espressione in delle regole giuridiche positive fissate nel testo scritto della legge; negli ordinamenti di diritto scritto, e il fatto che siano ordinamenti di diritto scritto  è una prova a sostegno di quanto si va sostenendo, la forma assurge al rango di valore di certezza e di garanzia del diritto stesso.[97] Solo in delle regole scritte, infatti, i più deboli e le minoranze possono trovare un seppur piccolo (i diritti dei deboli, soprattutto quando sono pochi, purtroppo, ma ad onor del vero, sono sempre piccoli) margine di garanzia e non certo sul piano dell’effettività.[98] Si tratterebbe, in quest’ultimo caso, metaforicamente, di una lotta tra Davide e Golia dove, a dispetto dell’episodio biblico che si inscrive in un ordine diverso da quello terreno, vincerebbe sicuramente chi ha più forza ed è ha in mano le leve del potere.[99] Attenti perciò, prima di pronunciare sentenze di condanna nei confronti delle leggi, e di quella suprema soprattutto, a guardare dove veramente sta l’origine dei mali, degli sprechi e delle inefficienze, avremmo modo così di verificare come la causa di ciò che si vuole evitare stia proprio nel modus operandi di chi la Costituzione doveva attuare e, invece, nei fatti non ne ha tenuto conto.

Dobbiamo dunque stare attenti ad invocare radicali riforme e seconde repubbliche, “panacee” di tutti i mali, dimenticando però che qualora non si perda l’inveterata abitudine di fare le leggi e di non osservarle esse servirebbero a ben poco.[100]

Ecco perché, parliamo di falso problema delle modificazioni «tacite» della Costituzione: la Costituzione è la legge suprema e fondamentale dello Stato, deve essere fedelmente osservata come tale e la sua modifica è affidata al legislatore costituzionale secondo la procedura nella medesima prevista. Le modificazioni tacite apportate ad essa, perciò, si rivelerebbero o frutto di una corretta interpretazione sistematico-evolutiva, e perciò legittime e ammissibili, ma si tratterebbe in verità di mera interpretazione (ed è questa la ragione per la quale a questa è stato dedicato ampio spazio) e non di modificazione, o di vere e proprie violazioni della Costituzione e della sua funzione «eminentemente garantista»; inammissibili sempre e comunque, anche se nei fatti, purtroppo, possibili a realizzarsi.[101] E con ciò si spiega, anche, perché si tratti essenzialmente di una questione di sincerità del diritto, il quale nel caso in cui non trovi corrispondenza nella realtà, lungi dall’essere la misura del grado di civiltà di un popolo e dall’assolvere il ruolo di garante  dei cittadini e del progresso della comunità, si trasforma nel più grande inganno laico che le menti raffinate del potere abbiano potuto concepire, a tutela della conservazione e dell’accrescimento dei privilegi dei pochi forti, e a danno di coloro che ingenuamente su di esso fanno affidamento.

E chiedo venia per questa parziale digressione di un uomo che si interroga e vive nella società e che guarda con grande trepidazione al futuro degli altri e di se stesso, dopo aver avuto l’opportunità di percepire la sensazione di straordinaria bellezza di quella luce di un umanesimo nuovo, ritrovato e rifondato, promanante dallo spirito della Costituzione repubblicana del 47. Nella speranza che non si tratti degli ultimi sussulti di un umanesimo che ha radici antiche, quanto “antico” e l’uomo, e che è insieme nuovo, definitivamente ferito a morte dal Leviatano dei tempi moderni, l’unica legge ormai “vigente”: la ferrea legge del capitale finanziario. A questo può essere posto un argine innanzitutto attraverso una intelligente e corretta opera di interpretazione evolutiva della Costituzione, fin dove è possibile però, dovendo utilizzare la procedura di revisione costituzionale, e sia chiaro quella prevista dall’art. 138, nel caso in cui gli adattamenti che necessitano non siano sostenibili per via interpretativa[102]. In secondo luogo, forse è solo attraverso un processo di “integrazione europea” (e quindi attraverso un’aggregazione e un controllo dei capitali a livello continentale) che è possibile al diritto contenere politica ed economia. Ciò aiuterebbe, non solo a far sì che alla Carta fondamentale, per la quale è certo necessaria, in qualche parte invecchiata o insufficiente a svolgere adeguatamente i compiti per cui era stata formulata o definitivamente compromessa perché troppo a lungo non debitamente attuata, sia data una nuova vitalità, in grado di farle recuperare la funzione guida per lo sviluppo del paese, nel rispetto di quei princìpi/valori supremi immodificabili costituenti il suo “nucleo duro”; ma permetterebbe, altresì, di avviare la procedura di garanzia prevista dall’art. 138, al fine di rendere, almeno un poco, consapevoli e partecipi del processo di revisione quell’ampia maggioranza dei componenti della società richiesta dai quorum particolarmente qualificati ivi previsti o dalla attivazione del referendum costituzionale. Non si capirebbe altrimenti cosa ci stia a fare l’art. 138, né i motivi per cui la nostra Costituzione è stata concepita come Costituzione rigida, né infine a che pro sia stata posta, significativamente a chiusura del suo dettato, la norma esplicitata nel IV comma della XVIII disposizione transitoria e finale: «La Costituzione dovrà essere fedelmente osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato». Ma soprattutto ciò contribuirebbe a indirizzarci, finalmente, nella giusta rotta di un diritto sincero, effettivo, certo, sul quale tutti potremmo riprendere a fare affidamento, non dimenticando l’insegnamento di coloro che il diritto l’avevano inventato e che suona come un monito in tempi nei quali tutte le certezze sembrano venire meno: pacta sunt servanda.

E l’uomo, più di tutto, ha bisogno di certezze!

 

 

CAPITOLO 3

TIPOLOGIA SPECIFICA DELLE MODIFICAZIONI TACITE IN SENSO STRETTO:

 

3.1 L’INATTUAZIONE COSTITUZIONALE.

Abbiamo volutamente tralasciato, fino ad ora, di occuparci di quegli «atti degli organi fondamentali dello Stato» o di quei «fatti normativi» ai quali si può ricondurre la produzione di mutamenti taciti incidenti nella sfera costituzionale, in quanto dotati della caratteristica di essere idonei, nel momento in cui si affermano, a porre regole giuridiche.[103] Ce ne occuperemo adesso, avviandoci alla conclusione di questo lavoro, dopo aver posto le premesse affinché il prosieguo dell’esposizione possa risultare di chiara e facile comprensione.

Occorre, perciò, rifarsi alle fonti del diritto, e del diritto costituzionale in particolare, per rinvenire, accanto al testo scritto, i fattori nei quali, essendo idonei a porre regole costituzionali, si può rinvenire la scaturigine delle «modificazioni tacite» della Costituzione. Nel corso dell’esposizione ci limiteremo, anche, ad individuare alcune limitate ipotesi nelle quali si sono concretati tali mutamenti taciti, senza avere, naturalmente, la pretesa della completezza; da un lato, infatti, la delicatezza della materia impone di procedere con prudenza e con adeguate argomentazioni, dall’altro si reputa che gli eventi taciti modificativi dell’ordine costituzionale siano ben più numerosi di quei pochi che qui evidenzieremo.

Il fenomeno delle modificazioni tacite della Costituzione, ne abbiamo già rapidamente accennato in precedenza, dipende dal modo in cui questa viene attuata attraverso le leggi, le consuetudini e le convenzioni costituzionali, la prassi e i precedenti, le sentenze della magistratura - Corte costituzionale in modo particolare -, i regolamenti parlamentari, l’utilizzo di istituti - come il referendum abrogativo ex art. 75 Cost. - in grado di incidere nella sfera costituzionale; ovvero, al contrario, dalla “mancata attuazione” di alcune parti del dettato costituzionale.[104]

In riferimento a quest’ultima ipotesi abbiamo già messo in evidenza, nel corso del secondo capitolo, come la varietà del contenuto delle disposizioni costituzionali impone, soprattutto per quelle “organizzative” e “programmatiche”, un rinvio all’attività degli organi dello Stato per la loro concreta attuazione. In queste norme, dunque, emerge con maggior evidenza il contenuto di “dover essere” positivo di obblighi nei confronti delle istituzioni che devono osservarle, seppure nel rispetto di una discrezionalità “politica” in ordine ai modi e ai tempi della loro attuazione derivante dalle priorità che le forze politiche rappresentate nelle istituzioni stabiliscono, in base agli interessi e alle esigenze di cui sono portatrici o della visione complessiva dello Stato che esse hanno, e compatibilmente con l’ordine delle “materiali” possibilità di realizzazione degli obiettivi fissati in Costituzione.[105]

Il fatto che l’attuazione di alcuni obiettivi costituzionali si presti ad una certa discrezionalità non deve però far pensare che si possa prescindere dalla loro realizzazione. Si può certo discutere in ordine alle modalità o ai tempi nei quali dar vita agli istituti previsti o  predisporre le misure necessarie affinché il riconoscimento di alcuni diritti diventi effettivo, ma certo è che nessuna discrezionalità è concessa agli organi dello Stato in ordine alla decisione di realizzare o meno quanto la Costituzione prevede.[106] Non dimenticando, tra l’altro, che anche la discrezionalità in ordine ai modi e ai tempi di realizzazione non deve prolungare l’attesa oltre i limiti della ragionevolezza, e se consideriamo che sono trascorsi quasi cinquant’anni dalla entrata in vigore della Costituzione repubblicana l’inattuazione totale o parziale di alcune sue parti, alla luce anche di quanto diremo, esprime una situazione ormai non più tollerabile in uno Stato di civile e moderna democrazia.[107]

Diventa chiaro, perciò, in base a quanto premesso, come qualora ci si trovi di fronte a un persistente comportamento omissivo, assoluto o relativo, degli organi dello Stato in ordine alla attuazione del dettato costituzionale e non siano previsti meccanismi efficaci in grado di obbligare le istituzioni al compimento del loro dovere o quando quanto accade (forse sarebbe meglio dire “non accade”) non trovi adeguate reazioni nella società in grado di imporre la realizzazione degli obiettivi costituzionali, si possa creare un divario tale tra Costituzione formalmente vigente e Costituzione effettivamente vigente da dar vita a modificazioni tacite derogatorie o abrogative delle disposizioni della prima.[108] Addirittura, nel caso di inattuazione persistentemente protratta nel tempo di disposizioni o parti del dettato costituzionale particolarmente importanti per la vita dello Stato, la presenza di un contesto socio-economico sensibilmente diverso da quello del tempo in cui le norme costituzionali vennero emanate, può far giungere a un punto di “non ritorno” per il quale diventa necessario un incisivo intervento esplicito sul testo scritto della Carta fondamentale, fonte di molte incognite sulla riuscita del medesimo e sulle direzioni nelle quali si orienterà in futuro la vita stessa dello Stato, nella speranza che alla luce delle lezioni della storia si provvederà, oltre che a riscrivere, a mettere in pratica quanto ci si propone.

Ci si domanda, perciò, insieme alla più attenta dottrina, se a quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione i caratteri dello Stato corrispondano a quanto in essa previsto. A parte la tardiva attuazione di alcune delle disposizioni costituzionali [ricordiamo l’istituzione della Corte costituzionale (1956), del Consiglio superiore della magistratura (1958), del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (1957) o delle regioni, (addirittura nel 1971)] ci si chiede se si può davvero affermare, «data la persistenza di larghe sacche di disoccupazione e di sottoccupazione, di notevoli squilibri economico-sociali fra regione e regione ed, in ispecie, fra Nord e Sud», che il nostro Stato sia fondato sul lavoro giustamente retribuito in rapporto alla sua quantità e qualità e in ogni caso in modo sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa e se lo stesso diritto al lavoro riconosciuto a tutti i cittadini sia un diritto effettivo insieme alla salute e alla istruzione (artt. 1 - 4 - 32 - 33 - 34 - 36 Cost.); ci si interroga se la situazione di disagio morale ed economico nella quale versano le giovani generazioni consente realmente alla famiglia di poter assolvere all’importante ruolo ad essa assegnato nella Costituzione (art. 29 - 30 - 31 Cost.).[109] E ancora se si può sostenere che la sovranità dello Stato stesso sia piena ed effettiva, soprattutto in zone - la realtà di alcune regioni meridionali in questo senso è emblematica -  dove la presenza della criminalità organizzata con i suoi uomini, a volte “dentro” le istituzioni, e una insostenibile e drammatica situazione di povertà materiale impedisce il soddisfacimento dei più essenziali bisogni e il godimento degli elementari diritti soggettivi pubblici e privati. Si è “liberi” di intraprendere in queste regioni una iniziativa economica (art. 41 Cost.) o di esprimere liberamente e con serenità il proprio voto o, addirittura, nei casi più gravi, le proprie idee (artt. 21 - 48 Cost.)?[110] Vi è davvero un diritto al mantenimento e all’assistenza sociale per i cittadini inabili al lavoro, un diritto a che siano assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia, disoccupazione involontaria (art. 38 Cost.)?

Si può insomma affermare che il sistema di democrazia sostanziale facente perno sull’art. 3, II comma, della Costituzione si sia affermato, che tutti i cittadini oggi godano di pari opportunità e che, soprattutto, si sia realizzato un sistema che riconosce, rispetta e valorizza pienamente la dignità dell’uomo?[111]

Altri interrogativi allungherebbero l’elenco della discrepanza tra i propositi e le realizzazioni e non si vuole certo qui cadere nella retorica, ma una scienza che vuole assolvere al suo ruolo di servizio all’uomo e alla comunità non può trascurare di osservare i dati della realtà al fine di una corretta analisi e della ricerca di soluzioni appropriate per i problemi e le difficoltà che impediscono un reale progresso morale ed economico.[112] Ed è osservando che, purtroppo, non si può non concludere con le parole di un insigne maestro del diritto costituzionale: “A voler tentare, insomma, un sommario bilancio dello «stato di attuazione» della Costituzione, questo non potrebbe che essere sconfortante (e va ancora una volta denunciato, così come lo è stato nel 1954 dal Balladore Pallieri, nel 1955 dal Calamandrei, nel 1969 dal Mortati, nel 1978 dal Biscaretti e, in occasione del quarantennale della sua entrata in vigore da Bobbio, Paladin, Manzella, Salvadori, ed altri, su interventi sulla stampa quotidiana). È stata, infatti attuata (anche se non per intero) la parte organizzativa ma non quella programmatica in cui sono contenuti i princìpi direttivi per il graduale rinnovamento della comunità statale. E seri dubbi sorgono, a questo punto, sul valore vincolante delle disposizioni programmatiche giacché esso sembra essersi esaurito nella loro funzione di limite al potere legislativo (e, dunque, è di segno negativo) e non è valso, invece, a far loro svolgere quel ruolo promozionale che le caratterizza e le legittima”.[113]

Il quadro delineato appare perfino ottimistico in merito alla valutazione sulla attuazione, seppure non completa, della parte organizzativa della Costituzione. Occorre infatti vedere “come” la medesima sia stata attuata, ed emerge con chiara evidenza, a questo proposito, che proprio la tardiva attuazione e l’interpretazione restrittiva, data al Titolo V della Parte seconda della Costituzione relativo alle autonomie locali, abbia compromesso definitivamente la vocazione regionalista dello Stato creando una situazione per la quale sembra ormai inevitabile la sua riforma in senso federale.[114] Ma se a quanto scritto nella Costituzione (ricordiamo il lungo elenco delle materie di competenza delle regioni ex art. 117 Cost. e quanto recita l’art. 5), fosse stata data piena attuazione, magari apportando in materia quelle modifiche che, al momento dell’istituzione delle regioni (dopo più di vent’anni dallo scioglimento dell’Assemblea Costituente), e dunque, in un contesto in parte diverso da quello presente al tempo in cui fu scritta la Costituzione, si potevano ritenere necessarie onde conferire agli ordinamenti regionali piena vitalità ed effettiva autonomia; se le prerogative delle Regioni ad autonomia differenziata - e qui è la nostra Sicilia che per prima mi viene in mente - fossero state utilizzate per valorizzare le proprie diversità in un’ottica di vicendevole arricchimento anziché per accrescere i privilegi delle classi al potere; se l’art. 97 Cost. avesse veramente ispirato l’azione della pubblica amministrazione, specialmente nelle regioni meridionali, e non si fosse dissipato in bieco assistenzialismo di stampo borbonico - che ricorda da vicino le tre F di festa farina e forca - i fiumi di denaro pubblico provenienti dalla solidarietà di regioni economicamente più felici, generando lassismo morale e civile; se una scellerata gestione della ricchezza della nazione non avesse esasperato gli animi purtroppo facilmente strumentalizzabili di un popolo che sempre meno crede nel valore della solidarietà, forse oggi non si sarebbe arrivati al punto da mettere in discussione la stessa unità dello Stato.[115] Se quegli uomini che incarnano le istituzioni avessero davvero impersonato il ruolo di guide morali della comunità, oggi non avremmo sotto gli occhi gli effetti di un macroscopico esempio di (latu sensu) inattuazione parziale della Costituzione causa, tra le prime, dell’involuzione del sentimento di unità nazionale per il quale tanti hanno sacrificato la loro vita.[116]

Ma mi sia consentito, a chiarimento anche della posizione retro espressa in ordine alla interpretazione delle norme costituzionali, evidenziare come, a mio sommesso avviso, la più grave forma di inadempimento costituzionale abbia riguardato proprio l’art. 138 relativo alla revisione espressa del dettato costituzionale e alle leggi costituzionali.[117] Un articolo posto in funzione e a garanzia della durata e della effettività della Costituzione consentendone il necessario adattamento, coerentemente con i suoi valori e princìpi irrinunciabili, alle mutate e nuove esigenze che nello scorrere del tempo potessero presentarsi.[118] La Costituzione stessa, infatti, non va vista come un simulacro intoccabile, è ben possibile, e lo abbiamo rilevato che si riveli a volte lacunosa, insufficiente, inadeguata in alcune sue disposizioni a garantire la vita e un efficiente sviluppo dell’ordinamento; la Costituzione è uno strumento, il più alto, il più nobile, il Testo ove sono consacrati i valori supremi ragioni dell’organizzazione della sottostante comunità  come Stato e perciò dell’esistenza stessa del medesimo, ma pur sempre uno strumento che qualora abbia bisogno di necessarie e opportune modifiche e bene che ad esse si dia vita.[119]

Invece si è preferito un atteggiamento ipocrita di assoluto formale rispetto del testo costituzionale e una prassi elusiva, se non, peggio violativa dello stesso, che alla fine ha portato a metterne in discussione il suo valore di Legge fondamentale e vigente dello Stato.[120] Ecco le ragioni della prudenza nella valutazione dell’opera interpretativa delle disposizioni costituzionali, si è ben consci che queste dettando soprattutto dei princìpi non possono fare a meno di essere concretizzate attraverso l’opera dell’interprete, ma ciò che si vuole evitare sono le indebite invasioni delle sfere di competenza altrui, rimanendo la modifica della Costituzione rimessa alla valutazione del legislatore costituzionale e la interpretazione-concretizzatrice della stessa agli altri organi costituzionali, i quali nell’enucleare le norme costituzionali devono stare ben attenti a che queste siano veramente riconducibili nell’ambito di quanto abbia o avrebbe, attualizzandolo al momento dell’interpretazione, dettato il Costituente e non facciano dire alla Costituzione cose che non dice.

E se è forse vero che la forma di governo parlamentare, così come concepito nel testo costituzionale del '47, ha generato una situazione di instabilità governativa, ci si chiede se quest’ultima non sia stata dovuta piuttosto al malcostume istituzionale delle segreterie dei partiti e, dunque, se delle opportune correzioni al costume e al dettato costituzionale non sarebbero state sufficienti a correggere lo squilibrio istituzionale che ha consegnato i vari governi succedutesi nella pur breve storia repubblicana nelle mani non tanto dei partiti, ma addirittura delle ambizioni e degli interessi dei capi delle “correnti” interne degli stessi.

Ci si chiede pure se una prassi completamente elusiva dell’art. 94, II comma, Cost. non abbia contribuito (insieme ad altro) a spostare l’ago delle decisioni politiche sempre più fuori dalla sede parlamentare, ad un punto tale che nessuna delle numerosissime crisi di governo avutesi da cinquant’anni a questa parte abbia trovato la sua naturale sede in parlamento.[121]

 A scorrere, dunque, le pagine del nostro “testo fondamentale” si prova un certo senso di scoramento nel vedere come moltissimi obiettivi in esso presi di mira siano rimasti in larga misura o totalmente lettera morta. Non si vuole qui certo essere disfattisti: alcune cose sono state fatte, ma una più attenta azione delle forze politiche che hanno rappresentato gli interessi collettivi avrebbe potuto far sì che tanti altri obiettivi potessero essere centrati. Si è però spesso assistito al prevalere degli interessi particolaristici e di mera conservazione del potere che hanno impedito un corretto funzionamento degli istituti previsti dalla Costituzione.[122]

Invece, dando uno sguardo a ciò che è avvenuto (e forse sta per avvenire), non si può non rilevare come molti di quei diritti riconosciuti, promossi e garantiti dalla Costituzione non siano diventati realtà, come persistano, e anzi forse a causa del rigore economico degli ultimi anni aumentino, sacche di povertà e di emarginazione nelle quali della Costituzione non si conosce nemmeno l’esistenza e dove l’assenza dello Stato si percepisce a forti e drammatiche tinte. Guardando ai dati della realtà si può affermare che non è stato attuato in larga parte il disegno del Costituente e ci si domanda, perciò, se la paventata esigenza di una riforma esplicita così ampia e radicale della II parte della Costituzione, quale sembra ormai inevitabile, non sia stata preceduta da numerose e incisive “modificazioni tacite” dell’ordine formalmente vigente apportate nei cinquant’anni di vita della Repubblica Italiana sotto forma di inattuazione.[123]

 

 

3.2 IL PARADOSSO DELL’ATTUAZIONE CONTRA CONSTITUTIONEM.

Se, come abbiamo descritto, il “comportamento omissivo” degli organi dello Stato può produrre delle inammissibili trasformazioni (tacite) dell’ordine costituzionale, soprattutto quando, a causa del mutato assetto socio-economico, non è più possibile o non è più sufficiente attuare quelle parti della Costituzione rimaste “inascoltate”, dando così luogo ad un fenomeno di parziale o totale abrogazione delle disposizioni costituzionali, e ben possibile che il mutamento della normativa costituzionale si operi pure per il “fatto commissivo” dei suddetti organi, qualora con il loro comportamento, anziché orientarsi nelle direzione realizzativa degli obiettivi costituzionali, essi se ne discostino dando vita a delle vere e proprie violazioni della Costituzione che tuttavia restano impunite.

Ciò viene, tra l’altro, agevolato dal non perfetto sistema di garanzie dell’osservanza della normativa costituzionale; gli strumenti atti ad impedire gli effetti pratici di tali atti/fatti modificativi dell’ordine costituzionale, infatti, si rivelano carenti o insufficienti dal momento che per accedere al sindacato di costituzionalità, previsto peraltro solo per le leggi e gli atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni, occorre superare dei “filtri” i quali non sempre rendono possibile una pronuncia del supremo giudice delle leggi sugli atti normativi fonti primarie del diritto.

La stessa Corte costituzionale sembra poi orientata a considerare sottratto alla sua competenza il sindacato su quegli atti o quelle attività, cosiddetti “interna corporis”, compiuti all’interno delle Camere, tra i quali rientrano i regolamenti parlamentari, in virtù dell’autonomia propria dei supremi organi legislativi derivante dalla speciale posizione di indipendenza di quest’ultimi.[124]

Rimangono dunque esclusi dal giudizio di costituzionalità oltre i comportamenti omissivi di cui al paragrafo precedente, i regolamenti ex n. 2 dell’art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile, i suddetti regolamenti parlamentari e tutti quei fatti normativi, come le consuetudini, le convenzioni e la prassi costituzionale, suscettibili anch’essi, per il livello nel quale trovano svolgimento, di incidere sul dettato della Costituzione.[125]

Accenneremo, perciò, ad alcune ipotesi ritenute significative di “attuazione contra Constitutionem” del dettato costituzionale, al fine di vedere come, paradossalmente, la Costituzione possa essere violata se non stravolta nel suo contenuto attraverso una apparente attuazione del suo dettato.

La prima ipotesi alla quale facciamo riferimento riguarda la disciplina del computo degli astenuti nelle maggioranze richieste per le deliberazioni alla Camera dei deputati ex art. 48 del suo regolamento, in quanto qui emerge, con immediata evidenza, un palese contrasto con l’art. 64, III comma, Cost. Tale disposizione stabilisce che «le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti, e se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza diversa»; il dettato costituzionale, in questo caso, è chiaro e preciso, e certo sembra davvero singolare che un organo posto al vertice dell’ordinamento dia il “buon esempio” nella inosservanza della Costituzione considerando presenti, a norma dell’art. 48, comma II, R.C.D., ai fini della determinazione della maggioranza, soltanto coloro che esprimano voto favorevole o contrario. Al di là, dunque, delle argomentazioni tese a giustificare o a sminuire il valore negativo dell’adozione di una norma regolamentare in contrasto con quanto stabilisce la Costituzione, si tratta di un episodio che assume particolare significato non solo simbolico, in quanto, a me sembra, che avendo consentito ai vari governi succedutesi nell’esperienza repubblicana di reggersi su maggioranze davvero esigue o, addirittura, su minoranze, sia una di quelle concause che alla fine hanno contribuito a fare del nostro sistema governativo l’emblema della instabilità.[126]

Un altro episodio, strettamente connesso con quello già citato, per il fatto di riguardare anch’esso la disciplina del voto così come regolata dai regolamenti parlamentari, è quello relativo al modo di votazione delle Camere; ci si riferisce alle modifiche regolamentari restrittive l’ambito delle votazioni adottate con voto segreto.[127] Se è vero, infatti, che la Costituzione non prende posizione esplicita in merito alla preferenza del voto segreto o palese e che il voto palese rappresenta «un elemento di chiarezza ed uno strumento di moralizzazione della vita politica», e anche vero, però, che quest’ultimo può diventare una potente arma ricattatoria nelle mani delle segreterie dei partiti, le quali potrebbero minacciare il votante di non ricandidarlo alla successiva competizione elettorale qualora non si attenga alle direttive del gruppo parlamentare di appartenenza, così esercitando una forte pressione, condizionante la libera espressione della sua volontà in sede di votazione e contravvenendo, sostanzialmente, al divieto di mandato imperativo sancito dall’art. 67 Cost.[128] Sarebbe, infatti, meglio ogni qualvolta si interviene predisponendo o modificando la disciplina degli istituti, chiedersi sempre se il contesto nel quale vanno ad operare li rende, una volta posta in essere la nuova normativa, compatibili e con le singole disposizioni contenute nella Carta costituzionale e con l’insieme delle stesse. Non sembra, a mio avviso, dunque, felice e costituzionalmente “ortodossa” la scelta di operare una restrizione dell’ambito delle votazioni adottate con voto segreto. La rigida disciplina interna dei partiti e dei gruppi parlamentari (gli statuti dei primi o i regolamenti dei secondi prevedono, infatti, severe sanzioni sino all’espulsione degli “insubordinati”) insieme al ruolo sempre maggiore da questi assunto, soprattutto dopo le modifiche regolamentari del 1971, a detrimento dell’attività individuale dei singoli parlamentari, e l’organizzazione interna, non proprio democratica, degli stessi partiti politici, sia per quanto riguarda la scelta della linea politica da seguire sia per il metodo di selezione delle candidature nelle varie competizioni elettorali, sembrano proprio, a mio avviso, aver  dato luogo, nei fatti, ad una sorta di “mandato imperativo” di partito in violazione dell’espresso divieto posto in tal senso dall’art. 67 Cost. Sarebbe stato forse più rispettoso della previsione contenuta in tale disposizione e dello spirito del dettato costituzionale, in mancanza delle necessarie condizioni, non mutare una disciplina che conteneva in se l’esigenza che il mandato parlamentare si svolgesse nell’interesse generale della nazione e non per fini particolaristici di accrescimento del potere personale o di gruppo. Valgono le stesse ragioni, a tutela, anche e soprattutto, della libertà di coscienza, per le quali l’art. 48, II comma, Cost. pone i princìpi generalissimi (di personalità, uguaglianza, libertà e segretezza del voto dei cittadini partecipanti alle elezioni degli organi rappresentativi dello Stato e degli altri enti pubblici o alle consultazioni referendarie ex art 75 Cost.) che consiglierebbero di non far venir meno l’ultimo baluardo di resistenza contro lo strapotere degli apparati partitocratici.[129] Mette conto poi ricordare che è davvero singolare che, mentre da un lato l’art. 68 Cost. detta uno status del parlamentare teso ad assicurargli «la più ampia libertà di valutazione e di decisione nell’esercizio del suo mandato» esonerandolo da ogni responsabilità civile, penale, amministrativa e disciplinare che possa sorgere a causa di un’opinione espressa o di un voto dato nel corso della sua attività (I comma) o, addirittura, prevedendo delle speciali guarentigie a tutela della sua libertà personale, domiciliare, di comunicazione e corrispondenza (II comma) per la rilevanza della posizione e funzione politica rivestita, dall’altro lato lo si lasci in balìa e privo di tutela nei confronti dei partiti.[130] Dovremmo, dunque, domandarci se, alla luce di quanto abbiamo evidenziato, le modifiche apportate all’art. 49 R.C.D e all’art. 113 R.S. - rebus sic stantibus - non vadano in una direzione “diversa” da quella indicata nell’art. 67 Cost., e non abbiano dato, per la loro parte, un ulteriore contributo a spostare la sede delle decisioni politiche “fuori” dal Parlamento, restando «così da dimostrare che l’effettivo potere di direzione politica risieda nel raccordo Parlamento-Governo e non, piuttosto, in entità sociali estranee all’apparato governante», intaccando così lo stesso principio enunciato nell’art. 1, comma II, Cost: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».[131]

Un altro evento significativo nella vicenda italiana degli ultimi anni, non proprio in linea con i princìpi stabiliti nella Carta fondamentale, riguarda il delicatissimo, per il ruolo che assume soprattutto nelle società massmedializzate come la nostra, settore dell’informazione. Già l’art. 21 Cost. prescrive che «tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», ed è di immediata evidenza come un proposito sì nobile trovi mille difficoltà al momento della realizzazione, sia per i costi, qualora lo si voglia fare in proprio, sia per le reali possibilità di accesso quando i mezzi di informazione appartengano ad altri o peggio ancora dovendo a volte pagare con la vita il diritto di dire la verità[132], ma - non bastasse questo - nell’agosto del 1990 con la legge n. 223 (c.d. legge Mammì), ora modificata, il Parlamento della Repubblica Italiana, in dispregio dei princìpi della generalità e astrattezza della legge, del pluralismo ad informare e ad essere informati che emerge dallo spirito e dalla lettera della Costituzione, di ogni elementare principio di libera concorrenza di mercato, adotta un provvedimento legislativo che fotografa e legittima la situazione venutasi a creare di fatto, nella persistente inerzia del legislatore più volte stigmatizzata dalla Corte costituzionale, consegnando, per legge, l’intero settore radio-televisivo nelle mani, da un lato, quello pubblico, di una RAI occupata dai partiti e dall’altro, quello privato, di un imprenditore molto amico degli stessi, impedendo, anche per la limitatezza del numero delle frequenze disponibili sull’intero territorio nazionale, che altri potessero realmente concorrere con costoro nel settore dell’informazione. Quanti sono i prìncipi costituzionali, dell’economia e del diritto violati con questa legge?[133]

Sta da se comunque il fatto, e non si vuole qui scadere assolutamente in valutazioni di ordine politico, che l’effettivo proprietario del polo televisivo privato nel giro di pochissimo tempo è stato protagonista di una brillante vicenda politica (anche questo è un caso o i mezzi a disposizione hanno creato qui una particolare situazione di “concorrenza  politica sleale”?) che ha visto coincidere, seppur non formalmente, con la sua nomina a Presidente del Consiglio dei ministri, nella stessa persona la figura del “concedente” e del “concessionario” di un pubblico servizio.[134] Comunque sia, il conflitto di interessi sorto a causa di tali vicende e la delicatezza di un settore così importante per la formazione e l’orientamento dell’opinione pubblica, alla fine speriamo induca le forze politiche a ritoccare la normativa esistente al fine di realizzare un maggiore pluralismo nell’informazione e dunque un corretto svolgimento della vita democratica favorendo la formazione di un consenso effettivo e non manipolato.[135] Rimangono però le perplessità suscitate da una vicenda che in Paesi di più matura democrazia (pensiamo per un attimo alle luminose carriere politiche, soprattutto nel mondo anglosassone, stroncate da eventi che in confronto con quanto avviene nel nostro Paese destano un labile sorriso) non avrebbe avuto cittadinanza.[136]

Ci occupiamo infine di una vicenda che, a nostro avviso, ha segnato, alla luce di tutta la tessitura dell’ordito costituzionale, un definitivo mutamento di regime nel nostro Paese, surrettiziamente trasformando il nostro sistema politico da democrazia parlamentare rappresentativa a democrazia parlamentare maggioritaria: è la ben nota vicenda che ha condotto al passaggio da un sistema elettorale proporzionale ad un sistema elettorale maggioritario.[137]

Non si vuole qui prendere posizione favorevole all’uno o all’altro dei due sistemi elettorali, entrambi, se ispirati dalla buona fede, possono essere suscettibili di valutazioni positive o negative, ma ci si sforzerà di capire se quanto è avvenuto sia conciliabile con il sistema rappresentativo prefigurato dal Costituente sia nel suo complesso sia in qualche sua singola disposizione; se tutto ciò, nell’assenza di una norma esplicita della Costituzione in materia elettorale, pur se formalmente possibile (le leggi elettorali costituiscono oggetto di legislazione ordinaria) era opportuno farlo, e farlo, soprattutto, sottoponendo la materia elettorale al referendum abrogativo ex art. 75 Cost.[138] Non va infatti dimenticato che la materia elettorale involge delicatissime questioni politico-costituzionali che creano enormi problemi anche ai competenti e a “me” pare temerario rimettere decisioni di tal portata nelle mani del profano, facilmente manipolabile, soprattutto per i pericoli di deriva plebiscitaria che ne possano scaturire. E se anche il giurista può trovare difficile capire completamente persino il meccanismo attraverso il quale vengono assegnati i varî seggi, figuriamoci poi l’imbarazzo suscitato nel profano (ma anche nel dotto) dalla partorita legge elettorale conseguente l’esito referendario, di fronte alla quale parlare di misteri come lo “scorporo” proporzionale non può che far aumentare sempre più la confusione e il distacco del cittadino nei confronti della politica; forse proprio evitando le pressioni e la fretta determinate sul legislatore dall’esito del referundum si sarebbe potuto pervenire a una legge elettorale più “presentabile” di quella attuale.[139]

Da alcuni princìpi impliciti nel sistema emerge, infatti, che per quanto riguarda i sistemi elettorali per la formazione delle Camere «è esclusa qualsiasi forma di rappresentanza della sola maggioranza e che, al contrario, deve essere adottato un sistema elettorale che garantisca la rappresentanza delle minoranze».[140] La Costituzione presenta, infatti, un tessuto normativo dal quale è possibile dedurre come la stessa garanzia della forma repubblicana ex art. 139 sia strettamente legata ad un sistema elettorale teso a consentire la rappresentanza di tutte le forze politiche, e dunque anche delle minoranze, in misura corrispondente alla loro consistenza.[141] Ciò trova conferma in tutta una serie di indizi ricavabili dalle norme costituzionali, le quale nello stabilire il metodo per l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83), ma anche, a mio avviso, nel determinare la composizione del CSM (art. 104) e della Corte costituzionale (art. 135), sembrano garantire la rappresentanza a chiunque ne abbia titolo.[142] La stessa previsione di un rapporto fiduciario tra il governo e due Camere con funzioni identiche, mal si concilierebbe con un sistema di rappresentanza diverso da quello proporzionale; la possibilità che la scelta degli elettori si distribuisca in modo da differenziare i voti (più facile a verificarsi in un sistema maggioritario) potrebbe, infatti, portare alla costituzione di maggioranze diverse tra una Camera e l’altra in grado di creare problemi al continuum Governo-Parlamento.[143]

Ma comunque, oltre quanto detto, rimane un fatto incontestabile (ed è in questa circostanza che, più che in altre, emerge con assoluta evidenza come le modifiche apportate in settori diversi da quelli costituzionali possano incidere - e in modo profondo - sulla stessa Legge fondamentale): l’adozione di un sistema maggioritario, senza i dovuti contrappesi finalizzati a garantire sufficientemente le minoranze, intacca modificandolo in maniera radicale, tale addirittura da far venire meno l’irrinunciabile rigidità della Costituzione, l’art. 138 Cost. nella parte in cui prevede che le leggi costituzionali o di revisione della Costituzione siano adottate con delle maggioranze particolarmente qualificate; e questo (ne abbiamo accennato nel primo capitolo del nostro studio parlando dei limiti alla revisione costituzionale) non è possibile a meno di non provocare il venir meno di un ordinamento e la sua sostituzione con un altro[144]. Tale articolo, infatti, a ulteriore dimostrazione di quanto si è sostenuto circa il favore della nostra Costituzione per un sistema di rappresentanza proporzionale, prevedendo un così ampio consenso per la revisione costituzionale, manifesta la volontà del Costituente finalizzata alla più ampia garanzia delle minoranze che con un sistema elettorale maggioritario, ripeto senza i dovuti contrappesi, verrebbe necessariamente meno. Già con l’attuale disciplina elettorale prevalentemente maggioritaria, conseguenza, anche, del referendum svoltosi il 18 aprile 1993, sarebbe però ben possibile, teoricamente, modificare la Costituzione non solo non disponendo di un consenso politico maggioritario sul territorio nazionale ma, addirittura, per il meccanismo di assegnazione dei seggi che si venuto a stabilire, sulla base di una percentuale di voti che non raggiunga il 50% di quelli validamente espressi al fine di eleggere i rappresentanti di Camera e Senato.[145] Il tutto senza i dovuti contrappesi!

Ma, pure in presenza di questi ultimi, rimarrebbe comunque d’ostacolo all’adozione di un sistema elettorale diverso da quello in grado di assicurare il principio di un’adeguata rappresentanza di tutte le forze politiche e dunque anche delle minoranze, perciò proporzionale, la coessenzialità di questo principio con la forma repubblicana, almeno con quella stabilita nella Costituzione del 1947. E invece? Invece ci troviamo in presenza di fatti gravissimi, mascherati sotto la veste del diritto, che hanno sancito definitivamente il passaggio da un ordinamento, quello del '47, ad un altro, eventi che, a mio sommesso avviso e al di là delle vesti con le quali vengono presentati, non possono ricondursi su un piano giuridico interno al modello originario, ma rappresentano fatti involgenti un mutamento radicale, seppur incruento, dell’ordine esistente così come delineato nella Costituzione Repubblicana del 1947.[146]

Ad essi si aggiungono, le forti perplessità derivanti dalle recenti novità introdotte con la legge costituzionale del 24 gennaio 1997, n. 1 (in Gazz. Uff., 28 gennaio, n. 22) istitutiva di una Commissione parlamentare bicamerale per le riforme istituzionali, sospensiva delle regole fissate nell’art. 138 Cost., al fine di consentire così più facilmente la riforma della intera seconda parte, anche tramite un unico voto finale non su ciascun progetto ma sul complesso degli articoli di tutti i progetti presentati, della Costituzione. Una legge costituzionale davvero “strana” sotto il profilo della procedura, la quale da un lato prevede l’approvazione del progetto o dei progetti di legge costituzionale scaturiti dall’iter iniziato nella bicamerale con la sola maggioranza assoluta in sede di seconda deliberazione (e dunque un affievolimento della procedura), dall’altro la sottoposizione, in ogni caso, ad unico referendum popolare del progetto approvato dalle Camere (per questo aspetto irrigidendo, invece, ulteriormente la procedura rispetto al 138). Non ripeteremo in questa sede quanto abbiamo avuto occasione di precisare circa la impossibilità di sospensioni temporanee con effetti permanenti o di deroghe depressive delle norme concernenti le garanzie istituzionali procedurali, ma non si può fare a meno di chiedersi che senso abbia porre delle regole (come quelle dell’art. 138 e per il significato di garanzia che assumono) se poi le si può tranquillamente sospendere modificandole alla bisogna.[147] Forse non è consentito domandarselo in uno scritto di diritto: ma ci prendiamo in giro?

Si vuole infine accennare alle problematiche che sorgono in ordine all’adeguamento del diritto interno al diritto internazionale pattizio, comunitario in particolare, e alle conseguenti limitazioni di sovranità degli organi dello Stato in favore del riconoscimento di poteri ad organizzazioni interstatali che li esercitano tramite propri organi, i quali godono di una serie di riserve anche sotto il profilo dell’apprestamento della tutela giurisdizionale cui simmetricamente si oppone una limitazione della possibilità di sindacato dei giudici nazionali. A tal proposito la normativa costituzionale, forse insufficiente, prevede (art. 10) l’adeguamento dell’ordinamento giuridico italiano alle sole norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (consuetudinarie); sembra perciò, quanto meno, una forzatura del dettato costituzionale consentire (tramite il mero aggancio all’art. 11 Cost: «L’Italia...consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo») l’immissione nell’ordinamento italiano di normative elusive del medesimo dettato, sulla base di trattati internazionali la cui autorizzazione alla ratifica (nel caso in cui il trattato abbia natura politica, o preveda arbitrati o regolamenti giudiziari, o importi variazioni di territori od oneri alle finanze o modificazioni di leggi), ex art. 80 Cost., e il connesso ordine di esecuzione vengono adottati tramite legge ordinaria. Ci si riferisce a quelle norme le quali disciplinano l’attribuzione di poteri incidenti sulla operatività delle garanzie costituzionali nel caso di pericolo interno o internazionale e a quelle altre che non sembrano particolarmente rispettose di una Costituzione avente come principale principio ispiratore la tutela della dignità umana e, dunque, la garanzia di condizioni di vita consenzienti «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.), la effettività in poche parole di quei diritti inviolabili che la Repubblica (ex art. 2 Cost.) riconosce e garantisce ad ogni uomo, «sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità».[148]

Sarebbe stato forse più opportuno adeguare il dettato costituzionale anche in funzione degli impegni internazionali dell’Italia e delle nuove esigenze che su questo fronte si presentano con sempre maggior frequenza, nel rispetto, naturalmente, dei “principi-valori supremi” dell’ordinamento, senza il quale il procedimento di revisione perderebbe la sua connotazione di giuridicità degenerando in fatto extra-ordinem comportante un mutamento rivoluzionario o golpista dello stesso, e non forzare le norme della Costituzione medesima fino al punto da ingenerare il sospetto di una sostanziale elusione dell’art. 138.[149]

Rimarrebbe un altro punto da toccare in ordine alla funzione attuativa “impropria” che la Corte costituzionale sembra aver assunto soprattutto con l’emanazione delle sentenze c.d. additive e di quelle c.d. direttive, ma di questo preferiamo occuparci alla fine del capitolo quando parleremo delle «sentenze della Corte costituzionale che sembrano “addirittura” modificare lo stesso dettato costituzionale».[150]

 

 

3.3 LA CONSUETUDINE/DESUETUDINE COSTITUZIONALE, LA CONVENZIONE, LA PRASSI E I PRECEDENTI.

È adesso il momento di dedicare la nostra attenzione a quei “fatti” normativi commissivi e omissivi che per essere in grado di incidere nella sfera costituzionale possono essere suscettibili di produrre modificazioni tacite delle disposizioni della Legge fondamentale. Essi costituiscono i mezzi ulteriori, rispetto a quelli concretantesi negli atti normativi (alcuni dei quali esaminati nel paragrafo che precede) attraverso cui può darsi vita ai fenomeni della “inattuazione costituzionale” o “della attuazione contra Consitutionemretro oggetto di un primo approfondimento in questo capitolo.

Inizieremo con il prendere in considerazione la consuetudine costituzionale la quale, a differenza della consuetudine di diritto comune che si occupa dei rapporti inter privatorum, «disciplina i rapporti tra gli organi costituzionali ovvero istituti costituzionali», presentando perciò diversità rispetto alla seconda anche in ordine alla sua diffusione e alla sua ripetizione nel tempo a causa del fatto che trova origine nel comportamento degli organi costituzionali e dunque di un numero molto limitato di soggetti o in qualche caso, addirittura, di un unico soggetto.[151] Tuttavia si deve riconoscere che, relativamente allo stretto ambito costituzionale, essa è suscettibile di affermarsi frequentemente, da un verso per la “schematicità e genericità delle norme della Costituzione che determinano le competenze degli organi fondamentali, ma non né disciplinano per lo più i modi di esercizio”, dall’altro verso per  la “circostanza che, nel corso del tempo, possono rilevarsi delle «lacune» nel loro sistema”.[152]

È dunque negli spazi normativi vuoti o nelle materie non regolate o insufficientemente disciplinate che le consuetudini costituzionali intervengono ad esplicare la loro funzione regolativa secondo le necessità che di volta in volta si presentino, riuscendo ad assolvere convenientemente il loro compito anche in virtù del fatto che, presentandosi «come un prodotto spontaneo delle forze politiche e, duttili e pieghevoli come sono, pongono dei precetti perfettamente adeguati alla soddisfazione delle necessità, da cui quelle forze risultino determinate». La duplice circostanza poi, che trattasi di fonti di diritto e che non si manifestano sul piano del diritto scritto, rende evidente come tramite di esse possano prodursi mutamenti non testuali dell’ordine costituzionale.[153]

Stabilito questo occorre però capire se le “consuetudini” trovino illimitato ingresso nell’ordinamento costituzionale o siano in qualche modo limitate dalla presenza delle regole costituzionali “scritte” costitutive della legge suprema dello Stato la quale, riflettendo “i postulati fondamentali del «regime politico»” e fissando “i criteri secondo cui possono svolgersi in modo pacifico le relazioni fra le diverse e spesso contrastanti forze, operanti nell’ambito sociale, garantisce l’unità dell’organizzazione statale, in modo da evitare che venga a prodursi l’anarchia”, e richiede di essere «fedelmente osservata come Legge fondamentale della Repubblica da tutti i cittadini e dagli organi dello Stato».[154]

Anche per esse vale quanto detto a proposito delle «modificazioni tacite» (e a quella sede si rinvia anche per ulteriori argomentazioni), cioè che possano trovare ingresso solo qualora siano ammesse esplicitamente o implicitamente dal dettato costituzionale o si dirigano in direzione realizzativa del medesimo a seguito di una corretta interpretazione “evolutiva” delle sue disposizioni, vale a dire solo qualora si presentino come consuetudini secundum Constitutionem o praeter Constitutionem, ma in quest’ultima ipotesi sempre nel rispetto dell’armonia del sistema e del quadro assiologico costitutivo dei princìpi fondamentali su cui si fonda e si regge l’ordinamento.[155]

Nel caso si tratti, invece, di fatti modificativi «contrastanti con l’ordine dei poteri costituiti», ad essi viene meno la possibilità di attribuire la qualifica della giuridicità, in quanto, straripando dalla sfera loro assegnata (che è quella di integrare in via di fatto il dettato costituzionale in presenza di sue lacune o insufficienze), degenerano in fatti extra-ordinem violativi della Costituzione sempre e comunque inammissibili.

Si tratta perciò di regole relative alla materia costituzionale che, al pari di tutte le altre consuetudini, trovano origine in una serie di comportamenti uniformi e costanti tenuti dagli organi costituzionali (usus , elemento materiale) con la convinzione di dar seguito a norme giuridicamente obbligatorie (opinio iuris ac necessitatis, elemento spirituale) e, in quanto riguardanti comportamenti messi in atto da organi anche diversi dal legislatore ordinario, suscettibili di introdurre modificazioni tacite anche nei sistemi costituzionali flessibili.[156]

Una ipotesi che si avvicina molto a quella della consuetudine contra Constitutionem riguarda il possibile verificarsi di «modificazioni tacite» della Costituzione attraverso una non applicazione-attuazione degli stessi precetti costituzionali, c.d. desuetudine, vale a dire un comportamento di natura omissiva che, alla luce di quanto abbiamo detto riguardo la vincolatività dei precetti costituzionali in ordine alla loro attuazione, si viene a configurare come vera e propria violazione della Costituzione, e come tale inammissibile nell’ordinamento vigente, potendosi riscontrare nel non fare degli organi costituzionali una specie di fraus Constitutionis.[157]

Perciò, nel caso in cui una norma costituzionale sia stata persistentemente ignorata, lungi dal poter pensare a una sua possibile abrogazione in seguito a desuetudine, si potrebbe (o meglio si dovrebbe) sempre, da parte degli organi competenti, far ricorso ad essa e darvi attuazione.

Resta, certo, la impossibilità per il supremo organo di giustizia costituzionale di sindacare direttamente molti dei comportamenti omissivi degli organi costituzionali, ma rimane sempre la possibilità del sindacato di comportamenti consuetudinari violatori della Costituzione qualora si manifestino come attività derogatoria della medesima in ordine al procedimento di formazione delle leggi o degli atti aventi forza di legge.[158]

Ciò trova conforto, per esempio, nella recente sentenza della Corte costituzionale (17 - 24 ottobre 1996 n. 360), la quale nel dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art 6, comma 4, del decreto-legge 6 settembre 1996, n. 492 (recante «Disciplina delle attività di recupero dei rifiuti») ha indirettamente escluso che comportamenti consuetudinari contra Constitutionem, come quelli derivanti dalla prassi della iterazione o reiterazione dei decreti legge in «assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità e urgenza», possano trovare ingresso nel nostro ordinamento, in quanto violativi dell’ art. 77 Cost.[159]

Un’altra ipotesi di consuetudine costituzionale contra Constitutionem strettamente collegata con quella appena citata si riscontra, a mio avviso, nello stesso abuso della decretazione d’urgenza. Anche qui, infatti, ci troviamo in presenza di comportamenti diffusi e ripetuti nel tempo da parte del Governo, riverberantesi nella produzione di atti aventi forza di legge (dalla I legislatura, 1948-1955, con 29 decreti, presentati alla XII, 1994-1996, con ben 734), in violazione degli artt. 70 ss. Cost. i quali riservano la funzione legislativa alle Camere e anche qui ricorrerebbe l’elemento psicologico dell’opinio, dovuto alla convinzione di doverosità e obbligatorietà in presenza dei ritenuti presupposti straordinari di necessità e urgenza legittimanti l’adozione dei decreti legge.[160] E anche qui (ricordiamo che ci riferiamo alla consuetudine dell’ “abuso” e non alla decretazione d’urgenza di per sé perfettamente legittima) trattandosi dell’emanazione di atti non rispettosi dei presupposti di legge, e dunque esorbitando dalla sfera dei poteri attribuiti al Governo, i medesimi atti degradano in fatti extra-ordinem non previsti dall’ordinamento e come tali non qualificabili, sul piano dello stretto diritto, giuridicamente. Fatti, dunque, anche questi, recanti un incisivo contributo al progressivo esautoramento del Parlamento dal ruolo che la Costituzione gli assegna o, meglio ancora, definibili malcostume costituzionale. Fino alla sent. n. 360 del 1996 questi “fatti” potevano essere considerati modificazioni tacite della Costituzione.[161]

Dalle consuetudini costituzionali si distingue, anche se in modo non molto netto, la prassi costituzionale. Ci troviamo qui in presenza di un fenomeno, rilevante anche in campi del diritto diversi da quello costituzionale (pensiamo al diritto amministrativo “dove sta ad indicare la «condotta uniforme di alcuni uffici, osservata in quanto ritenuta la più adatta ed opportuna, senza tuttavia che si ritenga doverosa ed obbligatoria»”), consistente nella serie degli atti o fatti che gli organi costituzionali pongono in essere, indicativi del modo in cui questi intendono l’esercizio delle loro competenze.[162]

Potremmo dunque distinguere la prassi dalla consuetudine costituzionale, sia in ordine alla continuità nel tempo dell’elemento materiale (più limitata che nella consuetudine), sia, conseguentemente, in ordine alla assenza dell’elemento spirituale (opinio), dovendo ritenere che qualora questi elementi divenissero presenti non ci troveremmo più in presenza di una prassi, ma di una vera e propria consuetudine costituzionale, assistendo alla legittimazione di un fatto extra-ordinem il quale acquisterebbe i connotati della giuridicità. Si tratta comunque di un fenomeno di notevole rilevanza nell’ambito del diritto costituzionale, suscettibile anch’esso di produrre mutamenti taciti nella sfera dell’ordine supremo dello Stato, e per il quale a maggior ragione, non trattandosi nemmeno di una fonte di diritto, vale quanto detto a proposito dell’impossibile ingresso nel nostro ordinamento costituzionale di atti o fatti derogatori in senso contrario a quanto prescritto in singole o nell’insieme delle disposizioni costitutive del suo dettato o inattuativi delle medesime.

È però proprio attraverso la prassi costituzionale che si sono verificati alcuni dei fatti più incisivamente modificativi dell’assetto costituzionale prefigurato dal Costituente.[163]

Esempi di prassi non proprio conformi alla Costituzione, a mio avviso, sono rinvenibili, sia nella fase che precede la formazione dei governi, sia nel modo in cui i governi stessi vengono a cessare dalle loro funzioni.[164] Nel primo caso ci riferiamo alle vicende che, nei quasi cinquant’anni di vita repubblicana del nostro Paese, hanno visto la nomina del Presidente del Consiglio dei ministri e su sua proposta dei ministri rimessa sostanzialmente nelle mani delle segreterie dei partiti di maggioranza anziché del Presidente della Repubblica come stabilisce l’art. 92, comma II, Cost.[165]. Lo stesso numero dei ministri e dei vice-Presidenti del Consiglio, per non parlare dei sottosegretari di Stato (queste ultime due figure istituzionali non trovano menzione nella Costituzione), è stato spesso determinato, più che da esigenze emergenti dall’interesse generale del Paese e dalla necessità di assicurare efficienza all’azione governativa, da esigenze di spartizione del potere tra le varie correnti dei partiti; ed è forse questo il motivo per cui ancora non si è pervenuti all’attuazione dell’art. 95, comma III, Cost., il quale prevede la determinazione per legge del numero, delle attribuzioni e dell’organizzazione dei ministeri.[166]

Nel secondo caso ci riferiamo alla prassi totalmente elusiva dell’art. 94, comma II, Cost., riguardo l’apertura e la gestione delle crisi di governo, infatti a fronte di un numero veramente considerevole di crisi governative avutesi nella pur non lunghissima vita della Repubblica nessuna di esse ha trovato origine in sede parlamentare attraverso la discussione e la votazione di una mozione motivata di sfiducia, ma al contrario al Parlamento non è rimasto altro da fare che prendere atto delle decisioni, anche in queste circostanze, prese, nella “migliore” delle ipotesi, nelle sedi di partito. Forse sarebbe stato meglio, oltreché più corretto, attenersi a quanto prescritto in Costituzione, se non altro perché la pubblica discussione alla quale sarebbe stata sottoposta la mozione di sfiducia avrebbe fatto maggiore chiarezza davanti al Paese sui reali motivi della crisi e sulla reale posizione delle forze politiche presenti in Parlamento, costituendo una remora al verificarsi di continue crisi di governo e contribuendo per la sua parte a dare maggiore stabilità alle compagini governative, quella stabilità tanto necessaria quanto carente nell’esperienza governativa italiana.[167]

Occorre evidenziare, inoltre, come proprio le modificazioni introdotte attraverso la prassi siano quelle più insidiose; si tratta, infatti, di comportamenti i quali danno vita ad atti formalmente ineccepibili non sottoponibili ad alcun sindacato da parte del supremo organo di giustizia costituzionale, come ad es. nel caso della nomina del Presidente del consiglio e su sua proposta dei ministri i quali formalmente vengono nominati nel più assoluto rispetto del dettato costituzionale, né certamente alcun Capo dello Stato potrebbe costringere un Presidente del Consiglio dimissionario a presentarsi alle Camere per discutere le sue dimissioni o, in alternativa, a continuare a governare.[168]

E che dire dei criteri che hanno ispirato il legislatore nella gestione e nella distribuzione del danaro pubblico e l’attività complessiva della P.A in rapporto a quanto prescrivono gli art. 81 ,comma IV, per le leggi importanti «nuove o maggiori spese» e. 97, comma I, Cost. riguardo i criteri «del buon andamento e dell’imparzialità» cui si deve ispirare l’attività amministrativa? Un obiettivo riscontro della realtà che si presenta all’occhio attento dell’osservatore, l’esorbitante debito pubblico, le cronache giudiziarie degli ultimi anni e gli artifici verbali adottati al fine soddisfare il disposto che impone la copertura finanziaria per le leggi di spesa, possono fornire risposte più adeguate di ogni argomentazione, circa l’effettiva vigenza delle summenzionate disposizioni costituzionali e circa la loro sistematica violazione.[169]

Venendo ora al precedente, lo possiamo definire come un atto o un fatto singolo, ammissibile in quanto non contrastante con la Costituzione, al quale, nel verificarsi delle medesime circostanze, si uniforma «l’attività dell’organo che lo ha posto in essere o di un diverso organo», pur in assenza di alcun vincolo in tal senso.[170] Gli esempi tradizionalmente citati a tal proposito sono costituiti dalla procedura con la quale nel 1964 fu accertato l’impedimento del Presidente della Repubblica a continuare nell’esercizio delle sue funzioni che furono affidate al Presidente del Senato (art. 86 Cost.) e dalla costituzione di un Consiglio di Gabinetto nel Governo Craxi (ora istituzionalizzato dall’art. 6 della legge n. 400 del 1988) col compito di coadiuvare il Presidente del Consiglio nello svolgimento del lavoro politico; in questo caso però, salvo la citata previsione legislativa in ottemperanza al disposto di cui all’art. 95, comma III, Cost., sembra a chi scrive che aver costituito un tale organo senza una precedente legge autorizzativa sia stata una forzatura del dettato costituzionale, stabilendo una sorta di (pur solo sostanziale) gerarchia tra ministri di I e II grado e una sorta di direttorio (dei quali non v’è traccia nella Costituzione), in assenza di una qualsiasi disposizione in tal senso.[171]

Un altro esempio di “precedente” - foriero, forse, di una modificazione tacita - lo si può rinvenire nella nomina a senatori a vita (luglio del 1984), da parte dell’allora Presidente della Repubblica Pertini, di Carlo Bo e Norberto Bobbio, superando il numero dei cinque senatori vitalizi di nomina presidenziale previsto dall’art. 59, comma II, Cost. La soluzione della questione relativa all’imputazione del potere di nomina rispettivamente al titolare dell’ufficio o, impersonalmente, al Presidente della Repubblica fa propendere la dottrina prevalente, confortata dalla prassi per trentasei anni seguita dai varî Presidenti della Repubblica prima di Pertini, per la preferibilità della seconda soluzione, facendone derivare una «consuetudine interpretativa» da non contraddire senza validi motivi. Secondo questa dottrina, che ci sembra di dover condividere, il «precedente» creato da Pertini non sarebbe proprio in linea con il disposto costituzionale dell’art. 59, potendo verificarsi una alterazione nella proporzione tra senatori elettivi e senatori vitalizi sino alla estrema conseguenza, possibile nel tempo, della formazione “all’interno del Senato, di una sorta di «partito del Presidente»”, e perciò preferendo la interpretazione “restrittiva” dell’art. 59, comma II, Cost. più in linea con il rispetto di quel «rigore costituzionale» che deve ispirare gli atti e l’attività di chi ricopre un così alto ufficio.[172]

Rigore costituzionale che non sembra proprio aver ispirato Francesco Cossiga come Presidente della Repubblica, almeno nella vicenda che lo vide protagonista, in occasione del suo messaggio alle Camere del 26 giugno 1991, di un clamoroso precedente contra Constitutionem. Non può non destare perplessità (e per chi scrive anche inquietudine) che, proprio come garante della Costituzione, il Presidente della Repubblica, il quale primo fra tutti e più di tutti, anche in forza del suo giuramento ex art. 91 Cost., deve osservare fedelmente la Carta costituzionale, si faccia promotore, in un messaggio inviato alle Camere (ex art. 87 comma II), di una modifica di quelle norme sulla revisione costituzionale le quali fanno espressamente parte integrante delle «Garanzie costituzionali», suggerendo, tra le altre, anche la possibile strada di una “Costituente” portatrice di una nuova Costituzione antagonista di quella esistente che lo stesso, non fosse altro per il ruolo istituzionale che ricopre, deve difendere e garantire.[173]

Infine, un breve cenno alle convenzioni costituzionali e alle regole della correttezza costituzionale.[174] Le convenzioni costituzionali sono costituite da regole di condotta circa «l’esercizio delle competenze degli organi costituzionali o un temporaneo assetto dello stesso ordine costituzionale» e scaturiscono dall’accordo anche tacito raggiunto a livello costituzionale tra gli operatori politici in presenza di spazi lasciati liberi dalla normazione scritta, dunque vincolanti fintantoché i medesimi operatori politici che hanno stipulato l’accordo, o non si sono opposti, non li ritengano più valido strumento «per il raggiungimento del fine per il quale il potere è stato conferito».[175] A titolo di esempio citiamo il procedimento di formazione del Governo nella fase precedente la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri regolata dall’art. 92, comma II, Cost., quando il Capo dello Stato procede, al fine di operare una scelta consenziente la formazione di un Governo che goda della fiducia parlamentare, a tutta una serie di consultazioni le cui modalità, almeno inizialmente, sono state disciplinate in via convenzionale. Si tratta perciò di regole che assumono una certa rilevanza essendo manifestazione del modo in cui, le forze e gli operatori politici, intendono e svolgono il loro ruolo. Anche le convenzioni costituzionali, qualora si stabilizzino, assumendo un carattere di uniformità e continuità nel tempo, possono trasformarsi in consuetudini e trasformarsi da «fonti extra-ordinem» (categoria nella quale vengono raggruppate insieme con le norme di correttezza costituzionale, la prassi e i precedenti) in «fonti legali». Le regole della correttezza costituzionale riguardano, invece, il comportamento o degli organi costituzionali nei loro reciproci rapporti, i quali vanno improntati «alla lealtà, alla cortesia, al rispetto, ad un certo cerimoniale» (a tal proposito si fa l’esempio della remissione del mandato governativo nelle mani del Capo dello Stato neo-eletto in segno di correttezza nei suoi confronti il quale, sempre in segno di correttezza, respinge le dimissioni) ovvero il comportamento di singoli soggetti operanti in ambito costituzionale (i parlamentari ad es., i quali sono tenuti ad osservare il c.d. galateo parlamentare evitando dispute di carattere personale, imputazioni di mala intenzione, di riferire colloqui privati etc.). Si tratta in ogni caso di regole la cui violazione, sul piano politico, può dar luogo a un generico biasimo o, nei casi più gravi, ad ipotesi di responsabilità politica nei confronti del trasgressore fatta valere anche mediante l’applicazione di una sanzione.

 

 

3.4 LE SENTENZE DELLA CORTE COSTITUZIONALE CHE SEMBRANO ADDIRITTURA “MODIFICARE” LO STESSO DETTATO COSTITUZIONALE.

Siamo giunti, adesso, a conclusione del discorso relativo alla “tipologia specifica delle modificazioni tacite della Costituzione”, al punto di vedere come, attraverso la stessa attività del supremo giudice delle leggi e “custode” della Costituzione, sia possibile - e a maggior ragione rispetto all’azione degli altri organi dello Stato (avendo la Corte costituzionale la parola “decisiva” in ordine al significato da attribuire alle norme della Costituzione) - produrre modificazioni “tacite” delle norme costituzionali.[176]

La nostra Costituzione, rigida e garantita, ha previsto, al fine di evitare che l’attività normativa primaria si svolgesse in contrasto con il suo dettato e dunque di garantire l’osservanza del medesimo, la sottoposizione delle «leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle regioni» al vaglio del supremo organo di giustizia costituzionale, al quale ha affidato il compito di pronunciarsi sulla legittimità costituzionale o meno degli atti normativi primari. Alla Corte, inoltre, sempre secondo il disposto costituzionale, spetta di pronunciare la parola definitiva sui «conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni», e di giudicare «sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica [ed i ministri (inciso soppresso dall’art. 2 l. cost. 16-1-1989 n. 1)] a norma della Costituzione» (art. 134). Infine va ricordato che con la l. cost. 11 marzo 1953, n. 1, sempre alla Corte è stato assegnato il giudizio sulla ammissibilità del referendum abrogativo ex art. 75 Cost.

Occorre però, ai fini del prosieguo della nostra trattazione, mettere in luce quali siano le reali funzioni che tale organo è venuto ad assumere nel nostro ordinamento, distinguendo quella che è la sua posizione giuridica, delineata dalle norme che se ne occupano, dal ruolo effettivo che esso assume e che può mutare in relazione «ai soggetti che impersonano l’ufficio e interpretano le norme di cui sono destinatari».[177]

Non bisogna dimenticare però che la Corte, nello svolgimento della sua attività - e forse più degli altri organi costituzionali -, deve attenersi al rispetto di quanto prescritto dalla Costituzione in merito alle funzioni attribuitele; ciò soprattutto in virtù del fatto che, per averle attribuito il Costituente la possibilità di dire la parola ultima su che cosa dice la Costituzione, le è stata conferita una sorta di “delega” a che fornisca una «interpretazione quasi autentica» della Legge fondamentale. Occorre, dunque, che la Corte, la quale in materia di interpretazione della Costituzione gode di una posizione “sovraordinata” rispetto a quella di qualsiasi altro organo costituzionale, si ponga in un atteggiamento di prudenza nello svolgimento della sua attività non facendosi trascinare dalle contingenze del momento politico, economico o culturale o spingendosi oltre i limiti entro cui deve contenere il suo operato; in altre parole che si mantenga, nell’interpretare le disposizioni costituzionali , entro gli ambiti consentiti da una corretta interpretazione “evolutiva” delle stesse e non degeneri producendo mutamenti surrettizi dell’ordine vigente nei confronti dei quali vige lo sbarramento posto dalla natura rigida della nostra Costituzione (art. 138 Cost.).

Ci si rende conto della complessità e dell’ampiezza della tematica che andiamo a toccare, e che richiederebbe ben altro spazio da quello che la limitatezza della nostra indagine ci consente, ma ci si rende anche conto che è impossibile non accennarne per la stretta connessione che il modo in cui la Corte intende l’esercizio dei compiti affidategli presenta con la materia delle modificazioni “tacite” della Costituzione. Ad essa, infatti, spetta in ultima istanza stabilire se l’operato degli altri organi costituzionali (almeno di quelli i cui atti sono suscettibili di pervenire al suo sindacato) si sia svolto nel rispetto della Costituzione, potendo in tal caso, addirittura, paradossalmente, “legittimare” definitivamente l’operato contra Constitutionem dei medesimi; e ad essa spetta attuare il dettato costituzionale, in merito alle funzioni attribuitele, non sconfinando in campi che il legislatore costituente ha riservato ad altri organi (in particolare al Parlamento in sede legislativa ordinaria e costituzionale).

Dunque, v’è un duplice profilo attraverso il quale, la Corte stessa, può rendersi co-protagonista dell’introduzione di modificazioni “tacite” della Costituzione: o avallando la produzione di atti normativi primari derogatori dell’ordine costituzionale da parte di altri organi, o direttamente proponendo una giurisprudenza “creativa” sia in materie oggetto di legislazione primaria sia in materia costituzionale. Si tratta di modificazioni “tacite” della Costituzione, abbiamo già detto, sempre e comunque inammissibili nel nostro ordinamento.

Un primo ordine di problemi, dunque, nasce proprio da quelle sentenze, c.d. «interpretative», attraverso le quali la Corte costituzionale incide «in positivo sull’ordinamento giuridico esistente» e nelle quali, perciò, si manifesta con maggiore evidenza quella natura “ontologicamente creativa” dell’interpretazione della quale abbiamo detto sedes materiae.[178]

Iniziamo il nostro esame considerando le sentenze interpretative di rigetto attraverso le quali la Corte reinterpretando il testo legislativo trae dallo stesso una norma in tutto o in parte diversa da quella tratta dal giudice o dalle parti e posta alla sua attenzione attraverso l’ordinanza di rimessione, e dichiara non sussistere vizi di legittimità costituzionale in ordine alla norma da essa ricavata, facendo così salva la disposizione legislativa impugnata. Occorre subito dire che diverse sono le esigenze le quali spingono la Corte ad emettere tale tipo di pronuncia, ma proprio qui cominciano a sorgere i primi dubbi se valutazioni di “«opportunità, convenienza, riflessi politici» come motivi contingenti di tali decisioni, al fine di evitare «un buco nell’ordinamento, un buco che è di per se stesso un male»”[179] (c.d. horror vacui), siano sufficienti a giustificare un tipo di decisione che lascia in vita una disposizione sospettata di incostituzionalità e in un certo senso favorisce l’inerzia del legislatore nel non aggiornare, in conformità alla Costituzione, l’ordinamento in quelle disposizioni con questa incompatibili.[180] Altre perplessità derivano poi dal fatto che, come giustamente ha rilevato in particolare la Corte di Cassazione, un tale tipo di pronuncia viene a ledere il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato al quale (ex art. 27 l. 11 marzo 1953 n. 87) la Corte costituzionale nelle sue pronunce dovrebbe, invece, attenersi; e dall’ulteriore considerazione che attraverso tale tipo di sentenze il giudice costituzionale sembra perseguire lo scopo di innovare (positivamente) l’ordinamento vigente fornendo una interpretazione creativa di una norma nuova, tratta da materiale normativo preesistente ricostruito «alla luce del suo necessario riferimento ai precetti costituzionali» e in difformità dall’interpretazione fornita dal giudice a quo, operando, con «un salto logico e funzionale», un raffronto che da «reale diventa ipotetico» e trasformando un «atto sostanzialmente giurisdizionale» in un «atto sostanzialmente legislativo», andando così ad intaccare il disposto degli art. 70 ss. Cost., i quali riservano la funzione legislativa al Parlamento.[181]

V’è da dire però che, forse, le conseguenze di un tale tipo di pronuncia sono attenuati da un peculiare effetto che questa presenta a causa della sua non vincolatività nei confronti degli altri giudici, riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale, la quale, in omaggio al diritto “vivente”, ha rilevato che, pur nella propria «piena autonomia di giudizio, non può non tenere il debito conto di una costante interpretazione giurisprudenziale che conferisce al precetto legislativo il suo effettivo valore nella vita giuridica se è vero, come è vero, che le norme sono non quali proposte in astratto ma quali sono applicate nella quotidiana opera del giudice, intesa a renderle concrete ed efficaci (sent. n. 88 del 1977)»; dunque arrestando il suo potere di reinterpretare il testo legislativo di fronte ad una costante giurisprudenza che attribuisca ad esso un determinato significato (incostituzionale) e pervenendo per tale via, infine, alla declaratoria di incostituzionalità. Un peculiare effetto, dicevamo, che può in un certo senso paragonarsi ad una sorta “di sindacato diffuso” di costituzionalità (sulla stessa disposizione, ma anche sull’opera della Corte) da parte del giudice ordinario, che non segua l’interpretazione data dalla Corte.[182]

Un altro tipo di sentenze interpretative fonte di perplessità, in ordine ai poteri esercitati dalla Corte, è rappresentato dalle sentenze interpretative di accoglimento. Queste, a differenza delle prime, non dichiarano un qualcosa la cui esistenza si pretende essere già nell’ordinamento e dunque non aggiungendo né eliminando alcunché, ma apparentemente volte alla caducazione di una norma illegittima, in realtà, come d’altronde anche le prime, introducono un quid novi nell’ordinamento.[183]

Con le sentenze interpretative di accoglimento la Corte, «nei sensi e nei limiti indicati nella motivazione», dichiara l’illegittimità costituzionale di un testo legislativo se ed in quanto da esso si ricavi una determinata norma, facendo così salve tutte le altre interpretazioni del medesimo.[184] Anche qui la Corte, infatti, operando un rovesciamento di prospettiva rispetto alle sentenze interpretative di rigetto, ma ottenendo lo stesso risultato, opera una integrazione normativa dell’ordinamento in contrasto con la sua funzione garantista, la quale la condurrebbe semplicemente alla pura e semplice eliminazione dei testi legislativi illegittimi, e «rivendica a sé il potere di individuare la norma legittima», contravvenendo, anche se non formalmente, al carattere negativo del controllo di costituzionalità quale emerge dall’art. 136 Cost.[185]

Allo stesso ordine di problemi conduce la considerazione di un terzo tipo di sentenze interpretative, le c.d. sentenze additive con le quali la Corte dichiara la incostituzionalità di un testo nella parte in cui non prevede alcunché, ponendo essa stessa, in via aggiuntiva, la parte mancante della norma conferente a questa il connotato di legittimità costituzionale. Si tratta insomma di capire se l’attività di “rilegittimazione” delle leggi incostituzionali da parte del giudice costituzionale non abbia prodotto una trasformazione tacita della Costituzione inserendo nel sistema una nuova fonte-atto di pari efficacia delle leggi ordinarie e degli atti aventi forza di legge, e così facendo non abbia invaso il campo ad altri riservato dalla Costituzione, con l’ulteriore anomalia che si tratta di una produzione normativa avente efficacia erga omnes proveniente da un organo politicamente irresponsabile. Un rovesciamento della funzione attuativa “propria” della Corte costituzionale disegnata dal Costituente che, da giudice di legittimità delle leggi, la conduce ad assumere una funzione “impropria” di attuazione della Carta costituzionale attraverso la produzione di norme giuridiche di primo grado supplendo ad un legislatore immobile fermamente intenzionato a non assumersi responsabilità in ordine a scelte politiche che potrebbero scontentare taluno dei gruppi corporativi sul cui consenso si fonda il potere delle forze politiche governanti.[186] In una sorta di circolo vizioso, aggiungerei, nel quale il legislatore (inerte e “inetto”) “costringe e stimola” la Corte ad assumere compiti non propri e questa (fin troppo zelante, in questo caso, nel rendere effettivo il dettato costituzionale) forse “favorisce e stimola” il conveniente (sul piano politico) comportamento omissivo del primo.[187] Un circolo vizioso che contravviene alla legalità costituzionale, “funzionale” alla Corte che vede accrescere il proprio ruolo e la propria importanza istituzionale, “funzionale” alle forze politiche che potranno sempre presentare una nuova scelta politica sconveniente come inevitabile conseguenza di una decisione o direttiva costituzionale.[188]

Problemi analoghi presentano infine le altre pronunce “anomale”: le c.d. sentenze sostitutive e le sentenze paralegislative. In particolare con queste ultime, la Corte, impartendo direttive al legislatore su come disciplinare una data materia in armonia con i princìpi costituzionali non procede alla formulazione della norma e alla sua diretta immissione nell’ordinamento.[189] Il punto è che anche in questo tipo di sentenze la «Corte mostra di avere di se stessa una immagine molto precisa, quella cioè di organo di attuazione della Costituzione» e anche qui però si tratta di una attuazione “impropria” in quanto pur non innovando immediatamente l’ordinamento costringe il legislatore ad agire entro ambiti rigorosamente determinati tracciando in anticipo il cammino da seguire per l’attuazione della Costituzione.[190]

La Corte, infatti, non si limita a dire al legislatore ciò che non deve fare, ma al contrario indica ciò che dovrà fare, spesso integrando e manipolando la norma costituzionale interpretata con delle regole ulteriori da se stessa poste. Il legislatore, perciò, nel dettare la disciplina della materia non si ritroverà più solo davanti alla norma costituzionale così com’è, ma davanti ad una norma costituzionale così com’è intesa e voluta dalla Corte ed a quella dovrà attenersi, limitando il suo compito alla definizione delle norme tecniche di dettaglio, in antitesi con la logica del nostro sistema costituzionale la quale vorrebbe il giudice costituzionale estraneo dal prendere posizione in ordine alle diverse possibilità attuative che possano discendere da una stessa disposizione costituzionale, e attento invece nell’evitare che la scelta del legislatore si ponga in contrasto con il contenuto della norma costituzionale nella sua portata generale. Una funzione sostanzialmente creativa di nuove norme costituzionali paradossalmente più vincolanti delle stesse norme dalle quali si pretende di ricavarle per via di interpretazione e che priva, nel caso di specie, il legislatore di ogni più piccola discrezionalità, nell’attuare l’indirizzo politico, vincolandolo, pena la sanzione della illegittimità dell’atto, alle decisioni della Corte.[191]

Un accenno, infine, meritano quelle tra le sentenze c.d. di costituzionalità provvisoria che per le loro particolari caratteristiche vengono anche definite di incostituzionalità accertata ma non dichiarata e che per certi profili sono assimilabili alle pronunce monitorie essendo accompagnate dall’invito per il legislatore a modificare la norma onde non incorrere in una successiva pronuncia di incostituzionalità.[192]

Tuttavia il dato incontrovertibile è che il giudice costituzionale lascia in vita una norma incostituzionale con una palese incongruenza tra motivazione (di accoglimento) e dispositivo (di rigetto) della sentenza facendo del monito al legislatore anziché un passaggio incidentale della motivazione il motivo legittimante una decisione che sul piano giuridico non si può giustificare anche per l’impossibilità per la Corte di sfuggire alla bipartizione illegittimità-accoglimento non illegittimità-rigetto, parametro con cui le sue decisioni devono necessariamente misurarsi (136 Cost.). A ciò si aggiungano ulteriori perplessità derivanti dalla incompatibilità di questo tipo di decisioni con la natura giurisdizionale delle funzioni della Corte, la quale, in questa occasione sembra del tutto trascurare il «collegamento della questione di legittimità con l’interesse sostanziale dedotto nel giudizio a quo che viene ad esistenza nel processo costituzionale attraverso la rilevanza», e che risulta del tutto mortificato da una sentenza che riconosce la «teorica» ragione di chi ha sollevato la questione, ma alla fine fa sì che nel processo si utilizzi una legge incostituzionale.[193]

Infine non si dimentichi che un tale tipo di decisioni, almeno in qualche caso, alla lunga, ha fatto sì che i danni prodotti da situazioni di fatto createsi e ingigantitesi in assenza di una disciplina conforme a Costituzione siano stati maggiori di quelli che si volevano evitare.[194]

Abbiamo cercato di capire, attraverso una rapida scorsa di alcuni tipi di pronunce della Corte costituzionale, come anche l’attività del “custode” della costituzione desti perplessità in ordine al rigoroso rispetto del dettato costituzionale, perplessità ancora più forti proprio per la funzione di garanzia della Costituzione che alla medesima è attribuita. Non si vuole certo qui negare l’innegabile, che cioè alla Corte spetti, nel decidere se una legge o un atto avente forza di legge siano costituzionalmente legittimi o meno, il compito di dire cosa effettivamente significhino le disposizioni costituzionali, soprattutto quelle non delineate con sufficiente univocità o generiche nella loro formulazione o esplicative di princìpi sui cui valori ispiratori non vi è sufficiente concordia assiologica o ancora positive di finalità e obiettivi il cui raggiungimento può essere ottenuto attraverso percorsi attuativi diversi richiedenti a volte delicate operazioni di bilanciamento e il sacrificio di altri valori costituzionalmente rilevanti. La Corte, dunque svolge una innegabile e ineliminabile attività “creativa”, nel senso che essa estrapola dalle disposizioni costituzionali il significato concreto che ad esse bisogna dare, il che è del tutto naturale in virtù di una sorta di “delega” ricevuta dallo stesso Costituente in tal senso.[195] Non è però ammissibile, a mio avviso, che la Corte, ed essa più di ogni altro, si renda protagonista di fatti/atti non conformi al dettato costituzionale e tali sono da ritenere quelle pronunce, lo abbiamo visto, attraverso le quali essa non adempie al compito affidatole dal Costituente ex artt. 134 ss. Cost., venendo meno in taluni casi alla sua funzione giurisdizionale, o invade il campo riservato al potere legislativo, ma soprattutto quelle in cui, addirittura, contravvenendo al disposto dell’art. 138 Cost., pone in essere una ulteriore attività sostanziale di legislazione o di revisione costituzionale.

La Corte, infatti, non sempre si limita ad estrapolare dal materiale normativo esistente (testo-significante) la norma concreta (norma - significato), ma in alcune occasioni, lo abbiamo visto a proposito delle pronunce “paralegislative” nelle quali il fenomeno trova riscontro, integra il disposto costituzionale con delle norme non giuridiche non ricavabili dal testo della Costituzione nemmeno implicitamente, dando origine ad una “nuova” norma costituzionale vincolante per il legislatore, o addirittura deroga al testo scritto della Legge fondamentale, pervenendo così a delle modificazioni “tacite” della Costituzione attraverso vere e proprie sentenze di «revisione» costituzionale.[196]

Non sembra a chi scrive che un tale modo di intendere la propria funzione da parte dei giudici di Palazzo della Consulta sia compatibile con lo stretto diritto, pur se in questo si riconosce un sintomo dell’insufficienza e della inidoneità della normativa costituzionale nel consentire che la Corte possa svolgere adeguatamente il suo originario ruolo di “custode” della Costituzione in un momento in cui, coerentemente con il processo di trasformazione del diritto e del ruolo dello Stato nelle moderne società, i sistemi di giustizia costituzionale tendono a trasformarsi «da originarie forme di limitazione democratica (contro gli arbitrî popolari-parlamentari)...in strumenti di democrazia (a favore dei diritti delle minoranze)», e pur se a volte si è gioito di fronte a taluni interventi diretti in tal senso; ma fino a quando non si perverrà ad una riforma della normativa che la riguarda, ed è forse venuto il momento di farlo, con la predisposizione di mezzi consenzienti un più penetrante controllo e un più diretto accesso al sindacato della Corte, tali da agevolare l’effettiva realizzazione del nostro modello costituzionale di democrazia pluralista, anche essa farebbe meglio a mantenersi nei limiti di quanto previsto nella Legge fondamentale e nelle altre che la riguardano assolvendo fedelmente al suo compito di garante della Costituzione e di supremo organo della giustizia costituzionale.[197]

 

 

CAPITOLO 4

CONCLUSIONI

È il momento di tirare le fila.

Può una Costituzione “rigida”, garantita e informata al principio di separazione dei poteri, come la nostra, subire delle trasformazioni “tacite” in senso derogatorio o abrogativo delle disposizioni del suo dettato?

Il percorso che si è cercato di tracciare, partendo dall’unico modo giuridicamente possibile di apportare modifiche alle norme costituzionali, il procedimento di revisione espressa ex art. 138 (suonerebbe davvero strana una disposizione del genere se così non fosse), sembrerebbe non lasciare adito a dubbi sulla risposta negativa al quesito ricordato.

Tuttavia la ineliminabile tensione insita nella contrapposizione essere-dover essere, tra “forza” del fatto e (purtroppo) “debolezza” del diritto, rende di estrema attualità la riproposizione di un interrogativo, tra i più difficili, per lo studioso del diritto; specialmente in tempi nei quali a colpire non è tanto la spudoratezza di chi apertamente si pone in violazione delle regole del gioco, ma soprattutto la totale “assenza” di pudore di coloro che del diritto, pur dovendolo osservare, sembrano non curarsene affatto piegandolo, per i loro fini, a proprio piacimento.

Ed è per questo che, addentrandoci nella ricerca, abbiamo posto inizialmente la nostra attenzione soprattutto sul problema dei limiti alla stessa revisione costituzionale espressa, al quale tanta parte e tante energie, da sempre e giustamente, per l’importanza che esso assume in ordine all’identificabilità e alla continuità degli ordinamenti costituzionali, ha dedicato la dottrina. La visione complessiva dell’insieme delle disposizioni costitutive la trama del tessuto costituzionale ci hanno spinto, dunque, a considerare il rispetto dei principi-valori supremi, costitutivi del “nucleo duro” immodificabile, se non in melius, della Costituzione (pena il venir meno dell’ordinamento), più che come limite esterno alla norma sul procedimento di revisione come contenuto immanente della stessa. Ciò, anche solo operando una lettura congiunta degli artt. 138 e 139 Cost. e in quest’ultimo individuando, oltre l’ovvia funzione di limite alla instaurazione di una forma di Stato diversa da quella repubblicana, quella di legge generale informatrice e, insieme, risultante dalla configurazione e dalle interrelazioni presenti nel sistema socio-normativo complessivo. Un fecondo scambio di “informazioni” reciproche tra i valori più alti (costituzionalizzati) e tra questi e gli altri meno importanti, entrambi stimolo per la normazione ordinaria di grado inferiore, conferente all’ordinamento sempre nuova linfa e attualità, consentendone uno sviluppo armonico e coerente con il disegno originario prefigurato dal Costituente.

Sempre in una considerazione funzionale dell’ordinamento nel suo complesso ci siamo poi, brevemente, soffermati sui fenomeni della “rottura” e della “sospensione” della Costituzione, traendo la conclusione che, proprio per una visione che guarda all’armonia del tutto, sembra di dover accedere ad una concezione ristretta del primo dei due fenomeni, rinvenendolo solo in quei casi di insanabile contraddizione tra disposizioni costituzionali e non negli altri in cui ci si trovi di fronte a delle “antinomìe apparenti” tra disposizioni teleologicamente orientante alla conservazione/sviluppo dell’ordinamento e perciò perfettamente coerenti con l’insieme.

La sospensione, invece, produttiva di una temporanea paralisi dell’efficacia delle previsioni costituzionali non sempre determinabile aprioristicamente nella sua estensione giuridico-temporale, trova la sua ragion d’essere solo in quelle situazioni di emergenza, non consenzienti alternative, al fine di garantire la sopravvivenza dello stesso ordinamento. Trattasi comunque di una ipotesi da ammettersi solo in casi effettivi di straordinaria eccezionalità, solamente per il tempo strettamente necessario e mai attraverso deroghe depressive delle norme di garanzia, anche temporanee, ma produttive di effetti definitivi nel sistema o temporalmente più dilatati di quanto sia strettamente necessario (come potrebbe avvenire nel caso di una “sospensione” delle norme sulla revisione). Ciò a causa del pericolo del possibile ingresso, destabilizzatore dell’ordinamento, di agenti che a lungo andare ne causerebbero l’estinzione.

Concentrando successivamente l’attenzione dell’indagine sull’oggetto specifico dello studio, se ne sono individuate le ragioni nella differente interpretazione delle disposizioni costituzionali, rispetto a quella precedentemente accolta o a quella che sembrerebbe doversi accogliere dal significato immediato fatto palese dalle parole del testo, o, addirittura, nel contravvenire ad esse senza procedere ad emendarle esplicitamente. Il tutto a causa di quell’inevitabile divario che si viene a creare tra Costituzione scritta formalmente vigente e Costituzione effettiva o vivente, data l’impossibilità di cristallizzare in regole scritte gli interessi, i valori e le finalità di un vasto gruppo sociale, legati alle dinamiche delle interrelazioni che si instaurano all’interno di esso (dunque in continua evoluzione), del quale il fenomeno delle modificazioni “tacite” della Costituzione è la più rilevante manifestazione. Pervenendo però alla conclusione che una Costituzione rigida, garantita, nella quale vige il principio di separazione dei poteri, non lascia spazio a modificazioni “tacite” contra Constitutionem, dovendosi utilizzare l’apposito procedimento aggravato di revisione qualora si vogliano apportare modifiche al contenuto delle disposizioni costituzionali non contenibili entro l’ambito di una corretta attività ermeneutica.

Modificazioni “tacite” secundum o praeter Constitutionem sarebbero comunque, non solo ammissibili ma, anche auspicabili, in quanto idonee a garantire l’adeguamento della Costituzione alle nuove esigenze o la copertura di eventuali lacune e insufficienze del suo dettato e, perciò, funzionali ad una sua maggiore effettività; nell’ambito, quindi, di una corretta attività interpretativa sistematico-evolutiva delle disposizioni costituzionali da parte di coloro che devono darvi attuazione, i quali nel fare ciò (esplicando un’attività che implica necessariamente un certo grado di creatività), e dunque nel “creare” la norma-significato enucleandola dal testo-significante, devono costantemente riferirsi oltre che alla lettera del testo, allo spirito della Costituzione e a quella che fu la volontà del Costituente. Mai lasciandosi condizionare dalle contingenze del momento, dalla pressione dell’opinione pubblica o facendo dire alla Costituzione ciò che non dice o che non avrebbe in ogni caso detto, anche qualora il Costituente l’avesse posta in essere al momento in cui se ne dà l’interpretazione.

Una costituzione rigida, dunque, che non consente modificazioni surrettizie del suo dettato in direzioni che non siano coerenti con lo stesso, a meno di operarle attraverso il procedimento ex art. 138, ma in questo caso sempre nel rispetto dei princìpi costitutivi del suo “nucleo duro”. A meno di non accedere ad una visione meramente “effettuale” del diritto, il quale perderebbe così la sua principale funzione di prospettazione di un “dover essere” e di argine all’arbitrio del più forte con la conseguente volatilizzazione della certezza del diritto stesso e il venir meno del principio dell’affidamento, quest’ultimo garanzia prima della possibilità stessa di una sana, civile e pacifica convivenza. Un diritto, ridotto a mera registrazione-sanzione della forza del fatto, forma aristocratica dietro la quale sarebbero occultati e resi “presentabili” i più oscuri e inconfessabili interessi, “insincero”, che renderebbe una menzogna lo stesso Stato costituzionale e si concreterebbe in una sovrastruttura servente agli scopi, oscuri e occulti dei reali detentori del potere, mascherati dietro una veste che con l’inganno li renderebbe accettabili ad una massa inconsapevole e manovrabile. Un diritto svilente di se stesso come valore e degli altri che, da esso proclamati ma non serviti, perderebbero forza e credibilità davanti agli occhi dei consociati, favorendo quel processo di relativismo morale e di miope ipersoggettivismo sempre più tendenti a riconoscere come unico “valore” l’oggetto producibile, ma non l’uomo, o a considerare quest’ultimo, anch’esso, oggetto dal quale trarre la soddisfazione di egoistici interessi. Un “falso diritto” fondante una società basata non sul rispetto e la valorizzazione della dignità umana, ma al contrario sulla forza e sullo sfruttamento, peraltro ipocrita, dell’ “uomo” sull’uomo.

Non era questo il progetto dei Padri Costituenti scaturente dal faticoso percorso verso quella pur problematica concordia assiologica sulla quale si fonda la Carta costituzionale e non è certo questa la concezione del diritto che li ispirava e che ispira chiunque assegni ad esso la funzione e il ruolo che gli sono propri, insieme strumento e misura del grado di civiltà di un popolo; civiltà appunto fondata sul diritto e non sulla forza dell’effettività.

Epperó nonostante per il diritto il fenomeno delle modificazioni “tacite” (contra Constitutionem) non possa trovare ingresso nel nostro ordinamento sembra che i fatti, ancora una volta, abbiano avuto la prevalenza e parecchi episodi in tal senso abbiano trovato concreta realizzazione.

Cosicché - se fino a qualche anno addietro l’interrogativo che poteva stimolare uno studio dedicato alle modificazioni “tacite” della Costituzione, da parte dell’entusiasta giovane studente di diritto costituzionale turbato dalla realtà che gli appariva sotto gli occhi, era: cosa sta succedendo? - ora forse la domanda, ma anche inquietante risposta, da parte dello studioso e attento osservatore diventa: cosa è successo?!

Abbiamo perciò individuato in alcuni fatti e atti, omissivi e commissivi degli organi costituzionali, suscettibili per il livello nel quale si svolgono e per la materia di cui si occupano di incidere nella sfera costituzionale e, perciò, in grado di produrre mutamenti taciti dell’ordine costituzionale, alcune fattispecie da noi ritenute particolarmente significative al fine di capire come l’effettivo assetto giuridico costituzionale abbia subito profondi mutamenti surrettizi se non, addirittura, una radicale mutazione rispetto a quanto prefigurato dal Costituente.

 Il metodo seguito è stato peraltro quello di non considerare i singoli episodi solo separatamente (episodi singoli che, ribadiamo, quando si concretino in modificazioni tacite contra Costitutionem rimangono lo stesso sempre e comunque inammissibili) ma, per le ragioni sopra esposte circa la necessaria visione sistematica dell’insieme, abbiamo cercato di capire come [attraverso la inattuazione assoluta o relativa di molte norme della parte programmatica della Costituzione; la non effettività per molti degli stessi diritti contenuti nella parte precettiva della Costituzione; la insufficiente e inadeguata attuazione della parte c.d. organizzativa della stessa e la paradossale “attuazione contra Constitutionem” di altre parti della Costituzione al punto, in qualche caso, da comprometterne definitivamente la funzionalità] si sia operato un lento, continuo, sotterraneo mutamento dell’ordine costituzionale formalmente vigente, tanto da mettere in crisi lo stesso ruolo della Costituzione come “prefigurazione giuridicamente garantita di un assetto razionale dei rapporti sociali ed istituzionali” e dando così vita ad un potere fondato sulla forza e non sulla regola. [198]

E altro ancora si poteva evidenziare a rimarcare la discrepanza tra l’assetto fondamentale della società italiana delineato nella Costituzione e l’assetto reale. Un regime democratico che, per la logica dei due blocchi, nasceva con il vizio di fondo di non consentire l’accesso ai livelli governativi ad alcune forze politiche, anche tramite la predisposizione, addirittura, di organizzazioni paramilitari segrete da parte dei servizi, italiani e non, deputati all’intervento nel caso in cui libere elezioni democratiche avessero determinato la vittoria di tali forze non gradite al blocco occidentale[199]. Si può non pensare che ciò non abbia inciso sull’art. 1, comma II, Cost., determinandone di fatto una sorta di riformulazione ab initio, e di riflesso su tutti gli altri? Si può non avere il sospetto che ciò abbia permesso alle forze politiche di governo e alle altre di “governo dall’opposizione” di concedersi determinate licenze, sicure della impunità giuridica e della irresponsabilità politica e che alla fine hanno determinato la putrefazione del sistema e sono state all’origine stessa della “indifferenza” nei confronti del dettato costituzionale da parte di quelle istituzioni che esse ormai avevano occupato?

E, ancora: la progressiva trasformazione di uno Stato sociale ad economia mista in uno Stato a capitalismo puro (pensiamo alla privatizzazione di aziende di produzione di beni e servizi essenziali per gli individui e la collettività; alla previsione contenuta nell’art. 46 Cost. circa il diritto dei «lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alle gestione delle aziende»; alla sicurezza sociale messa da parte in nome dell’efficienza economica e produttiva; ai parametri di Maastricht); un singolare rischio di impresa che ha visto e ancora vede le aziende incamerare i profitti e lo Stato far fronte agli oneri della Cassa Integrazione Guadagni (il tutto in nome di un superiore interesse alla tutela dell’occupazione); il fenomeno delle raccomandazioni («Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge»: art. 97, comma III, Cost.).

Infine, vogliamo riaccennare alle due vicende (per il significato che esse assumono in merito alla stessa continuità dell’ordinamento costituzionale vigente): quella referendaria del 1993 che ha visto l’inizio, mediante l’utilizzo improprio di uno strumento (il referendum abrogativo ex art. 75 Cost. appunto) concepito in funzione abrogativa, completato con le successive leggi elettorali prevalentemente maggioritarie, della trasformazione del nostro sistema politico da democrazia rappresentativa in democrazia maggioritaria, implicante la modifica surrettizia dell’art. 138 e sostanzialmente, a mio avviso, determinando la trasformazione tacita della nostra Costituzione da rigida in flessibile e l’altra che ha visto, tramite una legge costituzionale (istitutiva della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali) sospensiva dello stesso art. 138, incidere su quelle norme relative alle garanzie istituzionali procedurali delle quali avevamo messo in rilievo la loro riformabilità solo in peius.[200]

Confesso di aver trovato una certa difficoltà nel trarre le conclusioni di questo lavoro, animato dalla tensione verso le leggi e la Costituzione viste non come dettami eteronomi imposti dall’esterno, ma come norme nascenti dall’esigenza di un “voler vivere” ordinato e civile, una sorta di manifestazione scritta di esigenze - come dire, “intime”? - dei singoli consociati e della collettività nel suo insieme; difficoltà dovuta al pudore e al timore di sconfinare in valutazioni politiche troppo personali e poco giuridiche; difficoltà dovute al non saper come trovare, a volte, le parole per contemperare l’esigenza di non offendere da un lato quell’amore per la verità che, spero riuscendoci, cerca di contraddistinguere ogni mia azione e dall’altro di non ledere il “taglio” giuridico che dovrebbe caratterizzare una ricerca di diritto.

Si è visto che modificazioni “tacite” contra Costitutionem non sono possibili secondo il diritto in un ordinamento come il nostro a Costituzione rigida e garantita, nemmeno in quelle disposizioni impropriamente definite meno importanti, anche per le relazioni intrasistemiche che si instaurano tra le stesse e per i possibili effetti erosivi dell’ordinamento che modifiche apportate qua e là possono generare, ma si è visto pure, per tutto ciò che abbiamo detto e cercato di dimostrare, che questo si è verificato.

Leggendo il testo della Costituzione del '47 e guardando la realtà in cui, spesso inermi, viviamo, non possiamo fare a meno di constatare che qualcosa non ha funzionato; per vizio ab origine del sistema delle garanzie (abbiamo evidenziato come molti atti/fatti suscettibili di produrre modificazioni nell’ordine costituzionale non trovino adeguati meccanismi sanzionatori) o per scientifica volontà, finalizzata alla instaurazione di un sistema sociale, politico ed economico non proprio coerente con la Costituzione repubblicana.

Il fatto è che consistenti modificazioni tacite contra Constitutionem si sono prodotte e che queste non sono giuridicamente configurabili, «se non a patto di rassegnarsi alla trasformazione tacita della Costituzione vigente da rigida (e garantita) in flessibile (e priva di garanzie): il che sarebbe senza dubbio alcuno un colpo di stato e non una modificazione tacita» ammissibile.[201]

Se poi, come abbiamo cercato di appurare, dovesse essere vero che i mutamenti taciti, nella loro quantità e nella loro qualità, hanno raggiunto un livello tale da determinare il quasi totale venir meno dell’ordinamento, pluralista e fondato sulla promozione umana, così come delineato nella Costituzione repubblicana del 47, senza peraltro che questa sia stata sostituita con un’altra (alla quale si spera non sia riservata la stessa sorte della precedente), potremmo spingerci fino al punto di potere affermare, senza tema di smentite, di vivere in uno “Stato” e in un “ordinamento” che nella realtà sembra avere smarrito la strada indicata dal Costituente repubblicano e di non esser riusciti ancora a trovarne una nuova che consenta al diritto di essere sincero, vero o più semplicemente di essere: il diritto.

È questa la conseguenza della pericolosa insidia, insita nell’ammettere modificazioni “tacite” della Costituzione contra Constitutionem, che non consente indulgenza alcuna di fronte alla verificazione di tali ipotesi.

 

 

 

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Indice

 

Capitolo 1: Le modificazioni espresse della Costituzione: la  revisione costituzionale ex art. 138

1.1 Il procedimento

1.2 I limiti alla revisione costituzionale

1.3 Rottura e sospensione della Costituzione

 

Capitolo 2: Le modificazioni “tacite” e l’ermeneutica costituzionale: due facce della stessa medaglia?

2.1 Il fenomeno delle modificazioni “tacite” della Costituzione

2.2 L’interpretazione evolutiva come criterio di lettura dei

mutamenti taciti nei sistemi a Costituzione rigida

2.3 Le modificazioni “tacite” della Costituzione come falso problema: una questione di “sincerità” del diritto

 

Capitolo 3: Tipologia specifica delle modificazioni tacite

in senso stretto

3.1 L’inattuazione costituzionale

3.2 Il paradosso dell’attuazione contra Constitutionem

3.3 La consuetudine/desuetudine costituzionale, la convenzione,

la prassi e i precedenti

3.4 Le sentenze  della  Corte costituzionale che  sembrano

addirittura “modificare” lo stesso dettato costituzionale

 

Capitolo 4: Conclusioni

 

Bibliografia

 

Indice

 

 

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[1] Sulla revisione costituzionale cfr. per tutti : T. MARTINES, Diritto Costituzionale (a cura di G. Silvestri), Milano 1997, 367 ss.

Di considerazione unitaria e congiunta degli artt. 138 e 139 Cost., costituenti un'unica clausola di revisione, come unità inscindibile, parla G. SILVESTRI, Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale, in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, II, Milano 1987, p. 1204.

[2]Può essere utile soffermarsi un attimo sul concetto che costituisce “l'oggetto” stesso della modifica, tacita o espressa che sia. Sui diversi significati assumibili dall'espressione «Costituzione», definita quantomai “polisensa” cfr. : P . BISCARETTI DI RUFFÌA, Introduzione al Diritto Costituzionale Comparato, Milano 1988, p. 593 ss. Per una rassegna sulle diverse concezioni della Costituzione cfr. : A. SPADARO, Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Milano 1994, p. 11 ss. Più in avanti (p. 63 ss.)  l'Autore fornisce una interessante definizione di Costituzione, «non semplice, ma speriamo adeguatamente riassuntiva e completa», che sembra opportuno riportare per intero : «la Costituzione reale/vivente è un “sistema” di limiti giuridici fondamentali, ossia l'assetto delle istituzioni della comunità politica (Stato) inteso come “equilibrio” storicamente dato fra istanze diverse (conservazione/aggiornamento, ideale normativo/realtà politica) che attengono in particolare ai rapporti fra gli organi principali dello Stato e fra questi e i cittadini. Essa è costituita da fatti (consuetudini) e atti (disposizioni), incidenti su quell'equilibrio (tendente in prevalenza alla conservazione stabile dell'ideale prescritto), atti e fatti che gli organi o l'organo di garanzia del sistema stesso (per esempio : la Corte costituzionale) - in modo ragionevole, senza arbitrii - non considera difformi alla Legge fondamentale, in primo luogo nel suo nucleo (esplicito o implicito) di valori essenziali procedurali e sostanziali (Costituzione ideale/materiale) e, secondariamente, rispetto alla sua redazione scritta, sotto forma di princìpi e norme (Costituzione formale/vigente)». Oltre (p. 74), si ribadisce l'idea della Costituzione come “un sistema di limiti giuridici fondamentali, sicché essa resta comunque ed essenzialmente una «tecnica di libertà»”.  Ancora (a p. 103), con una formula che meglio coglie lo spirito e il valore della Costituzione : «un sistema di limiti giuridici senza sovrano», in cui, tutt'al più, potrebbe dirsi  «sovrana (ma non libera “assolutamente” di fare quel che vuole) è ogni singola persona».

[3] T. MARTINES, op. ult . cit., p. 233.

[4] Op. et  loc. ult. cit.

[5] Sulla rigidità in generale v. spec. V. ZANGARA, La rigidità delle Costituzioni, in Studi Chiarelli, Milano 1974, p. 1945 ss. Senza voler qui prendere posizione in merito alla querelle relativa alla natura rigida o meno delle costituzioni scritte e essendovi concordia in dottrina sul fatto che dal punto di vista formale, qualora sia prevista una procedura aggravata rispetto a quella delle leggi ordinarie per la modifica del testo costituzionale, si è in presenza di una Costituzione rigida, mi pare  utile segnalare l'interessante dibattito svoltosi sulle pagine di Giur. Cost. tra A. PACE, La «naturale» rigidità delle Costituzioni scritte, in Giur. Cost., 1993, p. 4087 ss., seguito dal lavoro di J. V. SUANZES, Riflessioni sul concetto di rigidità costituzionale, 1994, p. 3313 ss., e la risposta di PACE, In difesa della «naturale» rigidità delle costituzioni scritte, sempre nella stessa rivista, 1995, p. 1209 ss. Sulla distinzione tra costituzioni rigide e costituzioni  flessibili v. anche S. LABRIOLA, Le garanzie istituzionali per la protezione della costituzionalità, in Riv. Trim. Pubb., n. 1, 1990, p. 27 s., con brevi cenni sugli aspetti e i limiti della distinzione. Per una particolare concezione della rigidità, la  Costituzione scritta diverrebbe, paradossalmente, «necessariamente rigida in quanto assolutamente flessibile, ciò perché il soggetto che l'ha posta in essere non può intendersi oggettivamente capace di vincolare in alcun modo il soggetto che quel testo intende mutare, e che, specialmente a quel livello, troverà solo nella successiva valutazione dell'effettività il criterio della propria legittimità (e legittimazione)». Così : F. RIMOLI, Costituzione rigida, potere di revisione e interpretazione per valori, in Giur. Cost., 1992, p. 3768. Cfr. ibidem, p. 3773 ss., sul recupero della rigidità, frutto in verità, secondo l'Autore, di un raffinato artificio concettuale, sul piano di un “nucleo assiologicamente primario, «transustanziato» da un nucleo di norme princìpi in nucleo di princìpi valori” e sui possibili esiti di tale recupero in prospettiva di riforma.

[6] Di funzione di garanzia dell'assetto costituzionale esplicata dal procedimento di revisione, consentendone l'adattamento alle mutate esigenze sociali, seppure nell'ottica di chi considera la Costituzione scritta come naturalmente rigida, parla A. PACE, op. ult. cit., p. 1215.

[7] V. comunque F. MODUGNO, Il problema dei limiti alla revisione costituzionale (in occasione di un commento al messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991), in Giur. Cost. 1992, p. 1675, il quale afferma che «la nostra forma repubblicana di Stato è anzitutto, prima ancora di essere repubblicana, una forma di Stato a Costituzione rigida». Seppure in un discorso relativo alla determinazione e alla misura della competenza (nella specie del legislatore-revisore) attraverso la ragionevolezza, A. RUGGERI (Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, Torino 1994, p. 99 ss., p. 107) definisce intangibile la rigidità ancor più che «mera “tecnica” o ... “qualcosa” che possa misurarsi unicamente sul piano dell'organizzazione o delle regole», come valore, e perciò «predisposta in funzione della salvaguardia di “altri” valori, propriamente sostantivi» e, dunque irrinunciabile, qualora si volessero modificare le regole dell'art. 138 Cost. 

[8] Cfr. : V. LONGI, Le leggi costituzionali e l'attuazione dell'art 138, in Studi XX Costituente, 6, Firenze 1969, p. 372 ss. anche per il dibattito e l'iter che ha portato alla soluzione per l'alternatività, spec. p. 376 ss. ove viene riportata la parte della relazione della Giunta del regolamento della Camera in cui, in tema di procedura, sono sintetizzate le norme del regolamento del 1958 e le loro finalità. Sottolinea l'improprietà della locuzione «due successive deliberazioni» e il duplice esito interpretativo della stessa  T. MARTINES, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Scritti Pugliatti, III, Milano 1978, p. 876. Cfr. pure P. BISCARETTI DI RUFFÌA, op. ult. cit., p. 674 ss., part. p. 675, ove l'Autore si pronuncia per l'esattezza dell'interpretazione favorevole all'alternatività.

[9] Per il problema degli emendamenti in seconda deliberazione : V. LONGI, op. ult. cit., p. 375 ss.

[10] S. LABRIOLA, op. ult. cit., p. 34, parla, invece, di referendum abrogativo popolare.

[11] In tal senso, sembra, G. DE VERGOTTINI, Referendum e revisione costituzionale una analisi comparativa, in Giur. Cost, 1994, p. 1387.

[12] Per l'assoluta eguaglianza, dal punto di vista formale, tra leggi di revisione e altre leggi costituzionali, deducibile dall'unificazione della procedura ex art. 138 : V. LONGI, op. ult. cit., 359 ss., part. 362. Sulla distinzione tra norme costituzionali e norme non costituzionali anche nelle costituzioni flessibili : V. ZANGARA, op. ult. cit., p. 1949 ss.

[13] Sui limiti alla revisione costituzionale : C. MORTATI, Costituzione (Dottrine generali), in Enc. del dir., XI, Milano 1962, p. 204 ss., part. 205 per la loro classificazione. In passato C. ESPOSITO, La validità delle leggi (1934), rist. Milano 1954, 179 ss., si è espresso in senso contrario alla loro configurabilità, salvo che per quelli esplicitati nell'ordinamento positivo. F. PIERANDREI, La Corte costituzionale e le ‘modificazioni tacite’ della Costituzione, 1951, ora in Id., Scritti di diritto costituzionale, vol. I, Torino 1965, p. 95, seppure in un discorso relativo alle modificazioni tacite, sostiene che i princìpi della Costituzione, riflettenti le istanze basilari del gruppo sociale, collegati tra di loro in modo da determinare la trama o il «nucleo essenziale del sistema» caratterizzandolo e facendo assumere allo Stato una forma anziché un'altra, costituirebbero un «limite materiale insuperabile» anche per gli atti posti in essere con lo speciale procedimento di revisione. S. TOSI, Modificazioni tacite della Costituzione attraverso il diritto parlamentare, Milano 1959, ravvisa limiti materiali «ad ogni revisione e modificazione» negli «elementi garantisti , assise di legittimità qualificanti la Costituzione tout-court», cit., p. 24 (v. anche richiamo in nota 33 nella stessa pagina) e più avanti, p. 55, in ordine al «limite alle leggi costituzionali che compete alla Corte di conoscere attraverso il sindacato di legittimità...assunto principalmente rispetto al complesso garantista, che presiede e al regime e alla Costituzione scritta». F. BENVENUTI, La Costituzione fra attuazione e revisione : lo Stato in una società pluralista, in Iustitia, 1983, 14 ss., sostiene che l'art. 139 sia il limite di regime espresso nella nostra Costituzione e ne trae conseguenze in ordine a tale affermazione (p. 24). Notevole, per l'argomento qui trattato, l'interessante lavoro di G. SILVESTRI, Spunti di riflessione, cit., p. 1183 ss. P. BISCARETTI DI RUFFÌA, op. ult. cit., p. 682 ss.; in senso dubitativo riguardo ai limiti impliciti, argomenta adducendo anche la forte perplessità che suscitano i contrasti  tra gli autori favorevoli circa la loro individuazione Id., cit, p. 684; Id. ancora, nello stesso ordine di idee, con riferimento ai limiti assoluti espliciti, sui quali è stata a lungo impegnata la dottrina italiana per quanto riguarda il limite ex art. 139, schierandosi a favore della possibilità di abrogazione tramite una procedura in due tempi, cit., p. 684 ss., e nota 40 a p. 686. S. LABRIOLA, op. ult. cit., p. 28, parla di «una parte dei princìpi e delle norme costituzionali a cui, secondo alcune concezioni, si pretende di attribuire il valore di regime, o supercostituzionali...» definendolo «tema essenzialmente teorico» utile se posto «sul piano dei valori di continuità del regime costituzionale» e in tal caso applicabile sia alle costituzioni rigide che alle costituzioni flessibili. Di disposizioni di rango superprimario contenenti i valori socialmente più alti e perciò ritenute «inabrogabili, anzi irrevisionabili» parla A. SPADARO, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli 1990, p. 28. Concorda con chi individua un limite “sostanziale” alla revisione nel procedimento di revisione P. BARRERA, La forma del cambiamento : una proposta, in Dem e dir., n. 4, 1991, p. 80. Nello stesso senso del Benvenuti (cit., supra in questa nt.), a me pare : F. MODUGNO, op. ult. cit., p. 1670 s. Diffusamente sul limite ex 139 e sui limiti logici e impliciti, ibidem, p. 1649 ss., spec. 1670, ove afferma che «il problema dei limiti alla revisione costituzionale non può in alcun modo aggirarsi» anche a costo di «correre il rischio della soggettività e persino dell'arbitrarietà - che è proprio di ogni operazione ermeneutica - nella enucleazione dei limiti alla revisione che risultino, anche implicitamente, stabiliti in una Costituzione giuridico positiva». F. RIMOLI, op. ult. cit., p. 3784, sostiene, in riferimento ai limiti impliciti enucleati dalla Corte costituzionale, che essi vanno parificati sul piano logico formale a quelli espressi e che, dunque,  anche per il loro rispetto, come per i limiti formali rileva la volontà  o la non capacità di travalicamento da parte delle forze politiche operanti nel contesto ; v. supra Id., nota 5, per il richiamo al ruolo dell'effettività come criterio di legittimazione dei mutamenti della Costituzione. Di limite oggettivo delle «norme sulla produzione di norme (c.d. “secondarie” o “metanorme”) rispetto alle semplici norme di comportamento (da taluno dette anche “primarie”)», parla, fra gli altri, A. SPADARO, Contributo, cit., p. 43 s. Per questo Autore esiste un “nucleo duro” intangibile in ogni ordinamento costituzionale : esso coincide con il concetto di Costituzione ideale/materiale, la quale però, non è costituita solo da metanorme (valori formali), ma anche da norme di merito (valori sostanziali). Cfr. ibidem, p. 33 s.  Ancora sui limiti alla revisione : T. MARTINES, Diritto Costituzionale, p. 373 ss.; F. CUOCOLO, Procedura e limiti revisione costituzionale, in Scritti in onore di Virga, Milano 1994, p. 674 ss. G. DE VERGOTTINI, op. ult. cit., p. 1351, aggiunge agli «sbarramenti alla potenziale opera di revisione delle costituzioni» oltre che i valori inizialmente accolti nell'ordinamento nazionale o sviluppatosi su di essi all'interno dello stesso, anche, integrandosi con esse, quelli «desumibili dai trattati o dalla giurisprudenza dei giudici che i trattati istituiscono» ; così Id., più in là, p. 1354: «Sembra quindi confermato che le costituzioni nazionali, anche sotto il profilo della resistenza a revisioni, non possano essere più lette senza il concorso integrativo del diritto europeo come sviluppatosi in seguito all'azione delle corti di Lussemburgo e Strasburgo»;  Id., p. 1381, parla addirittura di limiti allo stesso potere costituente trascendenti o esterni allo stesso. P. ZANCHETTA, In difesa della Costituzione (la costruzione dello Stato costituzionale), in Quest. giust., n. 1, 1995, p. 66, citando P. Ridola (nt. 20), afferma che i diritti fondamentali visti sotto il profilo delle libertà fondamentali «non sono più configurabili come un limite negativo delle competenze della sfera pubblica, ma come parti di essa, e perciò come contenuti costituzionali del bene comune» e, a p. 67, individua in essi il “nucleo duro intangibile” anche rispetto all'art. 138 includendoli nei princìpi supremi non suscettibili di revisione, a meno di una trasformazione della forma di Stato e di governo, una rivoluzione. Infine : G. DOSSETTI, Costituzione e riforme, in Quad. Cost., 2, 1995, p. 263, riferendosi all'ormai consolidato orientamento dottrinale che ravvisa il divieto espresso ex art. 139, oltre che nella impossibile restaurazione della monarchia, nel divieto di alterazione della forma di Repubblica descritta nella Costituzione e anzitutto nei primi 12 artt. relativi ai princìpi fondamentali ; sempre dello stesso Autore, v. I valori della Costituzione italiana, in Arch. Giur., 1995, p. 10 ss.                                                                                                                                                                                

[14] Cfr. : C. MORTATI, op. ult. cit., p. 206 ss; T. MARTINES, op. ult. cit., p. 374 s.

[15] C. MORTATI, op. ult. cit., p. 206. In senso contrario ai limiti essenziali, si era espresso C. ESPOSITO, op. ult. cit., p. 190 ss., spec. 204 s., ove sostiene che, anche, alla Costituzione vadano applicati i comuni princìpi vigenti per gli atti legislativo formali, pur riconoscendo che «il cambiamento della forma di governo e di regime è sottoposto a ben altre condizioni di validità che il cambiamento di una qualsiasi legge per notevole che sia», nella specie la sua capacità di tradursi in atto, cit. p. 211.

[16] Di sostanziale connessione  tra problema della continuità dell'ordinamento e quello dei mutamenti costituzionali e dei relativi limiti, prendendo atto della inidoneità di questi ultimi ad assicurare tale continuità «pertanto affidata unicamente alla persistenza nel tempo di quei princìpî e valori essenziali intorno ai quali una comunità si è costituita in Stato», parla T. MARTINES, Prime osservazioni, cit., p. 794. In tal senso, anche: C. MORTATI, op. ult. cit., p. 204 ss., spec. p. 208.

[17] R. GUASTINI, Sulla validità della Costituzione dal punto di vista del positivismo giuridico, in Annali Genova, 1988/89, p. 49 ss., sostiene che, in sistemi a Costituzione rigida, nei quali una parte della Costituzione non è suscettibile di revisione (come il nostro), la meta-meta-norma che la sottrae a essa (nella specie l'art. 139), assurge, dal punto di vista logico, a norma suprema di tutto il sistema, cit., p. 58 ; contra, sulla possibilità di istituire una gerarchia tra gli artt. 138 e 139 della Cost., F. MODUGNO, op. ult. cit., p. 1674.

[18] T. MARTINES, Diritto Costituzionale, cit., p. 375.

[19] Sulle disposizioni di «princìpio» della Costituzione racchiudenti princìpi formulati «in modo esplicito o da cui gli interpreti possono risalire all'enunciazione di un princìpio inespresso, ma desumibile comunque dal testo» e sulla «necessità di disporre di criteri affidabili per discernere la prima dalla seconda ipotesi»: G. SILVESTRI, Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico : un rapporto complesso, in Quad. Cost., n. 2, 1989, p. 238.

[20] T. MARTINES, op. ult. cit., p. 374 s., ove, a chiarificazione, riporta, come esempi, una parziale elencazione di princìpi, enucleati da norme costituzionali, costituenti limiti impliciti alla revisione. A. SPADARO op. ult. cit., p. 71 s., individua «una sorta di vera e propria norma fondamentale o Grundnorm dei moderni ordinamenti costituzionali» nel «princìpio omnicomprensivo e fondante (si badi, non solo “cristiano” della tutela della dignità e del pieno sviluppo della persona umana», reputando che  tale «formula esprima ancora a sufficienza la natura del vero “presupposto”, insieme logico e ideologico, dei moderni ordinamenti “costituzionali”». Alcuni utili cenni sul punto erano anticipati, però, in A. RUGGERI e A. SPADARO, Dignità dell'uomo e giurisprudenza costituzionale (prime osservazioni), in Pol. dir., n. 3, 1991, spec. p. 347 e 367.

[21] A tal proposito, considerato che l'ipersoggettivismo e il relavitismo etico accompagnati ad una buona dose di pensiero debole, ormai pervadente ogni settore della riflessione individuale e collettiva, non consentono nemmeno un livello minimo di concordia su cosa debba intendersi per «diritti inviolabili dell'uomo» (si pensi alle problematiche concernenti l'aborto, l'obiezione di coscienza e agli ultimi inquietanti sviluppi della ingegneria biogenetica in materia di manipolazione del DNA e di clonazione), piace ricordare gli accorati interventi degli Onorevoli Benvenuti e Moro in sede di discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana (si veda: La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, a cura del Segretariato generale della Camera dei deputati, Roma 1970, vol. I, p. 455 ss. e 593). Il primo a sostegno della necessità di una “esplicitazione positiva” della irrevisionabilità dei diritti naturali e inalienabili; il secondo, invece, svolto nella “ingenua” e fiduciosa convinzione (al limite da suscitare tenerezza) della finalizzazione «implicita in una retta interpretazione dell'articolo» (138), nella sua formulazione finale, alla realizzazione di quei diritti. Ibidem (p. 459) anche per l'adesione di Benvenuti alla proposta dell'On. Calamamandrei circa l'espressa sottrazione dei diritti fondamentali alla revisione costituzionale (come revisione solo in melius). A tal proposito v. anche : A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori, Torino 1996, p. 47 s., il quale paventa l'esigenza, in uno stato laico, di far elaborare alla Corte costituzionale dei tests o degli standards di giudizio che «siano applicati ai singoli casi in modo dunque uniforme e coerente, si da offrire ai protagonisti di queste vicende (e a tutti) certezze, certezze di diritto costituzionale appunto, se non pure ad appagare il senso individuale di giustizia», nel caso di conflitti involgenti valori al “tetto” dell'ordinamento.

[22] Cfr., per tutti : A. SPADARO, Una corte per la Costituzione (Nota sulla originaria e prioritaria funzione della Corte costituzionale), in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, II, Milano 1987, p. 1249 ss., e nt. 20 p. 1251.

[23] Corte Costituzionale, sentenza 29-12-1988, n. 1146.

[24] Dei princìpi supremi parla F. MODUGNO, op. ult. cit., p. 1673, ove ne afferma l'inderogabilità o immodificabilità del loro «contenuto essenziale», in quanto assolutamente condizionanti, per ragioni logiche  o per «volontà» del potere costituente, l'intiero ordinamento, sottolineandone la natura di entità diverse rispetto alle altre norme (con le quali dunque non si pongono in rapporto di superiorità inferiorità), irriducibili al mondo di queste e aventi un contenuto essenziale puramente assiologico, dunque dei valori allo stato puro, non derogabili, sostiubili o modificabili neppure da leggi di revisione costituzionali. V. supra, nt. 5, RIMOLI, cit., p. 3773.

[25] Si intende qui il “sistema” in senso complessivo, includente anche l'assetto sociale, e dunque quei valori che, seppur presenti in esso, non sono esplicitamente positivizzati nelle norme costituzionali (e d'altronde solo una piccolissima percentuale delle basi azotate del DNA va a costituire i geni, rimanendo ancora un mistero la funzione della stragrande maggioranza di esse), ma ai quali potremmo assegnare il compito di essere riferimento, naturalmente insieme ai valori più alti e costituzionalizzati, per la normazione ordinaria e per gli altri comportamenti normativi (consuetudine, prassi, precedente). Sul concetto, non dissimile, di “morale costituzionale” - anche per risalenti indicazioni bibliografiche - v. A. SPADARO, Contributo, p. 449 ss., spec. p. 459 ss.

[26] In tal senso, se ho ben compreso, A. RUGGERI, Fatti e norme, cit., p. 143 ss., seppure in una prospettiva più ampia di relativizzazione storico-assiologica dell'ordinamento e successivamente, sempre dello stesso Autore, Fonti, norme, cit., p. 42 s.

[27]Sul punto v. anche infra p. 23 s.

[28]G. SILVESTRI, Spunti di riflessione, cit. p. 1186, evidenzia come un problema di contenimento entro certi limiti riguardi ogni mutamento costituzionale, ciò per il possibile espandersi degli effetti modificativi della revisione di una singola disposizione della Costituzione al di là dell'intervento esplicito: infatti, «le diverse parti di un ordinamento si integrano e si coordinano in modo da garantirsi reciprocamente, mediante quel tipo di connessione ipotizzabile e realizzabile sulla base di certe strutture e non di altre».

[29] Si pronuncia per l'insindacabilità di tali atti, anche se prodotti con il procedimento di revisione, la cui valutazione sulla non emanazione, viene rimessa alla sensibilità politica della istituzione che agisce : F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 101 ss., ove, anche, si richiama l'attenzione sull'inidoneità dell'organo di garanzia della Costituzione a un tale giudizio e sulle «gravi conseguenze di ordine politico istituzionale che ne deriverebbero» ; v., però, Id. nt. 30, p. 103, ove è riportata  l'opinione del VIRGA il quale, al sindacato della Corte, aggiunge quello del Presidente della Repubblica in sede di promulgazione ; in tale ultimo senso, anche TOSI, op. ult. cit., p. 55.

[30] Sottolinea l'importanza, oltreché della sussistenza, anche del prestigio della Corte costituzionale ai fini del concreto rispetto  dei limiti alla revisione : P. BISCARETTI DI RUFFÌA, op. ult. cit., p. 689.

[31]F. CUOCOLO, op. ult. cit., p. 675 s., parla, citando il Ruini, di «mura maestre essenziali alla struttura dello Stato repubblicano ... si da doversene escludere la sottoponibilità a revisione», dopo aver rimarcato l'insufficienza del dato formale a delimitare la possibile ampiezza di questa, e la non modificabilità della forma repubblicana se non  «mediante un fatto extraistituzionale, di carattere rivoluzionario, che dovrebbe trovare in se stesso, o nella situazione conseguente, la sua legittimazione» 

[32] «Se sopravverrà il riconoscimento e l'accettazione  di tali fatti, questi si saranno già trasformati in nuovi valori, ma su di essi si sarà edificato un nuovo e diverso ordinamento che soltanto per comoda finzione potrà ritenersi la continuazione del vecchio»: F. MODUGNO, op. ult. cit., p. 1675; in tal senso anche : S. LABRIOLA, op. ult. cit., p. 32 e, v. supra nt. 14. C. ESPOSITO, op. ult. cit., p. 211.

[33] Sulla «rottura» della Costituzione cfr.: C. MORTATI, op. ult. cit., p. 191 s.; T. MARTINES, op. ult. cit., p. 372, nt. 68.

[34]In tal senso A. RUGGERI, op. ult. cit., 32 s., il quale, però sembra alla fine aderire a quella dottrina che accoglie una accezione più ampia di rottura, a p. 43 s. infatti - se abbiamo inteso bene - riferendosi alle “rotture”, le identifica con le antinomìe apparenti, e parla , invece di “conflitto” nel caso di vero contrasto tra norma e norma della Costituzione (antinomìe reali). Ma se le antinomìe, nel primo caso, sono solo apparenti, a che pro, definirle «rotture»?

[35] Cfr.: A. RUGGERI e A. SPADARO, op. ult. cit., p. 348 ss.

[36] Cfr.: C. MORTATI, op. ult. cit., p. 192 ss., l'illustre Autore (p. 194) include nella figura della sospensione l'ipotesi prevista dall'art. 77 Cost. Sembra però, che questa si avvicini più alla figura della rottura (secondo l'accezione più ampia di questa) o dell'autorottura (secondo l'impostazione datane dallo stesso: ibidem p. 192), consistendo in una antinomìa apparente con le norme della Costituzione che riservano la funzione legislativa alle Camere ; in tale ipotesi, perciò, saremmo in presenza di un comportamento attuativo del dettato costituzionale, seppure antinòmico con altre parti dello stesso il quale, peraltro, fornisce una regolamentazione dei decreti legge alquanto dettagliata. Non sarebbe ad ogni modo pensabile, considerando l'uso sicuramente eccessivo di tale strumento, che la Repubblica, sin dal suo sorgere ad oggi, sia vissuta sempre in presenza di situazioni di emergenza, legittimanti il ricorso continuo alla sospensione della normativa costituzionale. A sostegno di tale tesi, anche le argomentazioni fornite dallo stesso autore (p. 193), sull'opportunità della distinzione tra rottura e sospensione, quando afferma che «le sospensioni difficilmente possono venire disposte in via di legislazione costituzionale, né per esse dovrebbe presentarsi l'obbligo della modifica del testo. Ciò si desume facilmente dalla stessa finalità delle sospensioni medesime che è, come si è detto, di provvedere ad eventi pregiudizievoli per lo Stato che si producono d'improvviso con carattere di straordinarietà e rivestono tale gravità da non potere essere fronteggiate con l'esercizio dei poteri ordinari richiedendo invece misure eccezionali extra-ordinem». In tal senso v. anche : G. DE VERGOTTINI, Necessità, Costituzione materiale e disciplina dell'emergenza, in Dir. Soc. 1994, p. 217 ss., spec. 218, qui l'Autore parla di «radicale differenza fra i regimi derogatori previsti in anticipo dalle costituzioni (a prescindere da una eventuale futura instaurazione) e quelli che vengono instaurati al di fuori di una preventiva abilitazione del costituente» e più avanti, p. 235, «È comunque a prima vista evidente che la necessità e l'urgenza caratterizzanti i decreti ex art. 77 sono ben lontane dalla necessità istituzionale su cui si basano o a cui si richiamano i regimi di crisi. Basti pensare alla non marginale circostanza che l'art. 77, di per se stesso, non abilita a sospensioni della Costituzione».

[37]Cfr. : C. MORTATI, op. ult. cit., p. 196. Sull'argomento - per tutti - v. anche, V. ANGIOLINI (Necessità ed emergenza nel diritto pubblico, Padova 1986, spec. 183 ss.) circa i recenti orientamenti di giurisprudenza e dottrina in materia di emergenza e, p. 191 ss. per riferimenti circa il favore della prassi più recente nel ricorrere alla legge per affrontare le situazioni di emergenza. A. PACE (Problematica delle libertà costituzionali, I, Padova 1990, 2ª ed., p. 164) si pone criticamente circa l'uso della legge ordinaria per far fronte alle emergenze, ritenendo più idoneo a tal fine lo strumento del decreto legge previsto dall'art 77 Cost. per i casi di necessità ed urgenza. Ciò anche ad evitare il rischio che la normativa di “emergenza” perda la connotazione di provvisorietà ed eccezionalità, confondendosi con quella ordinaria. Sulla sospensione, v. pure il saggio di G. DE VERGOTTINI, op.  ult. cit., p. 217 ss., spec. p. 234, qui l'Autore sostiene «in linea di principio» la possibilità di affrontare le emergenze con leggi parlamentari, qualora però, i presupposti di fatto e temporali lo consentano. Sulla normazione d'emergenza, sull'importanza qualificatoria per norme e valori del fattore tempo e sull'idoneità del fatto, oltre che a rilevare sul piano della validità delle norme, anche su quello della loro forza v. infine : A. RUGGERI, Fatti e norme, cit., p. 135 ss., spec. 139, ove non si esclude un limitato sindacato della Corte costituzionale sulla normazione d'emergenza in costanza di stati di crisi i quali permettano il funzionamento degli ordinari strumenti di garanzia.

Nel senso di consentire deroghe «provvisorie» alla Costituzione, in situazioni di emergenza, la stessa Corte costituzionale: cfr., per es., sent. n.  29/1979 e sent. n. 15/1982 in materia di carcerazione preventiva a fronte dell'emergenza terrorismo. In particolare nella sentenza 1 febbraio 1982 n. 15 la Corte lascia intendere che il prolungamento dei termini di carcerazione preventiva, disposto dalle leggi sul terrorismo, non avrebbe trovato giustificazione in un giudizio di ragionevolezza ex art. 13 Cost., qualora non vi fosse una «condizione anomala e grave» di emergenza, reputando anzi, in presenza di tali situazioni, «doverose» le misure legislative atte a farvi fronte anche se, però, limitate temporalmente.

[38] Cfr. in questo ordine di idee, mi sembra : A. RUGGERI, op. ult. cit., p. 140: «La volontà, ferma, irriducibile, di salvare l'ordinamento minacciato nelle sue strutture assiologiche costitutive deve, pertanto, costantemente camminare di pari passo con la ragione. L'ethos per la cosa pubblica non può manifestarsi nella pura passione, sregolata, perciò, ingovernabile, ma deve convertirsi in ragione e volontà insieme. Per questo, sono consentite (o, se si preferisce, “tollerate”) solo quelle alterazioni del quadro costituzionale originario che trovino effettiva giustificazione nell'emergenza e - naturalmente - fintantoché questa perdura».

[39] V. supra p. 16 s.

[40] Si ricordano le importanti opere dedicate all’argomento e ormai risalenti a parecchi anni addietro di F. PIERANDREI, La Corte costituzionale e le ‘modificazioni tacite’ della Costituzione (1951), ora in Id., Scritti di  Diritto Costituzionale, vol. I, Torino 1965, p. 83 ss., e di S. TOSI, Modificazioni tacite della Costituzione attraverso il diritto parlamentare, Milano 1959. Per il resto, salvo sviste sempre possibili nel corso di una ricerca, anche se condotta con dovizia di particolari, del fenomeno si preferisce occuparsi incidentalmente nel corso di lavori più vasti dedicati ad altri argomenti con il nostro strettamente connessi. V. anche: C. MORTATI, Costituzione (Dottrine generali), in Enc. del dir., XI, Milano 1962, p. 189 ss. T. MARTINES, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Scritti Pugliatti, III, Milano 1978, p. 801 ss. P. BISCARETTI DI RUFFÌA, Introduzione al Diritto Costituzionale Comparato, Milano 1988, p. 602 ss.

[41]V. A. RUGGERI, cit., supra, nt. 37, sull’opera qualificatoria del tempo dalla quale nulla resta immune perché nulla vive fuori di esso: «i fatti, i valori, le norme, le loro sistemazioni sono tali per il tempo e attraverso il tempo».

[42]Cfr. F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 83. S. TOSI, op. ult. cit., p. 3. T. MARTINES, Diritto. Costituzionale (a cura di G. Silvestri), Milano 1997, p. 373 s., riconduce il fenomeno al «modo in cui alla costituzione viene data attuazione ad opera delle leggi ordinarie, delle consuetudini e delle convenzioni costituzionali, delle sentenze della magistratura, dei regolamenti parlamentari, della prassi costituzionale; od al contrario, dalla mancata attuazione di alcune sue parti». Si seguirà, per grandi linee, questa impostazione nel terzo capitolo del presente lavoro dedicato alla “tipologia specifica delle modificazioni tacite della Costituzione”.

[43] V. A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Brevi note su l’interpretazione e l’adeguamento delle Costituzioni, in Arch. Dir. Cost., I, 1990, p. 27 ss., spec. 31 s., in riferimento all’attività interpretativa passibile di apportare modificazioni alle norme costituzionali: «Non di rado, poi, l’opera modificatrice è tale da far dubitare che date modifiche siano conformi con la volontà popolare sulla quale negli ordinamenti democratici si fondano le carte e le leggi costituzionali».

[44] M. DOGLIANI, Interpretazioni della Costituzione, Milano 1982, p. 11, parla di «tensione ineliminabile tra spinte sociali e fissità della costituzione formale, che è all’origine di tutte le sue cadute di effettività e di legittimazione».

[45] A. PIZZORUSSO, L’interpretazione della Costituzione e l’attuazione di essa attraverso la prassi, in Riv. trim. pubb., 1989, p. 7, osserva come il fenomeno di modificazioni extra ordinem ricorra più frequentemente nell’area delle norme costituzionali e come in relazione a queste esso sia più facilmente accettato dagli operatori del diritto e della politica.

[46] Fra gli altri, sul punto cfr. A. SPADARO, Una Corte per la Costituzione (Nota sulla originaria e prioritaria funzione della Corte costituzionale), in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, II, Milano 1987, p. 1237 ss., spec. p. 1286 ss., che sottolinea le difficoltà che la Corte costituzionale incontra  in merito all’esercizio delle sue originali funzioni e le ragioni che ne sono la causa, tra le quali le procedure di accesso che non consentono ai cittadini di potere esercitare un’azione costituzionale diretta e la impossibilità per la Corte stessa di attivarsi autonomamente. Nel senso dell’opportunità di una estensione delle competenze della giustizia costituzionale italiana e dell’adozione di strumenti che consentano un reale pluralismo istituzionale, «orizzontale e verticale», sempre dello stesso Autore, La giustizia costituzionale italiana: da originario «limite» a moderno «strumento» della democrazia (pluralista). Cinque proposte, in Giur. It., IV, 1995, p. 225 ss.

[47] Cfr: G. ZAGREBELSKY, Appunti in tema di interpretazione e di interpreti della Costituzione, in Giur. Cost., 1970,  p. 905. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 266.

[48] Naturalmente anche alle norme programmatiche va riconosciuta la piena e perfetta giuridicità. Sui rischi di un atteggiamento tendente a conferire loro una efficacia giuridica indiretta subordinata all’attuazione da parte del legislatore, che è invece attività, insieme quella degli altri poteri dello stato, vincolata alla loro realizzazione v: S. LABRIOLA, Le garanzie istituzionali per la protezione della costituzionalità, in Riv. trim. pubb., n. 1, 1990, p. 32 s.

[49] Cfr. F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 87.

[50] Cfr. A. RUGGERI, Fatti e norme nei giudizi sulle leggi e le “metamorfosi” dei criteri ordinatori delle fonti, Torino 1994, p. 27, ove l’Autore parla di «strutturale carenza o insufficienza del quadro costituzionale, tanto in merito alle definizioni di ordine propriamente sostantivo, quanto...alle regole preposte alle relazioni tra le fonti». Ibidem , p. 29: «...i princìpi e le regole fissati nella legge fondamentale, al fondo, questo danno: un primo, fermo e irrinunziabile e, tuttavia in sé limitato orientamento al legislatore e ai pratici (Corte costituzionale inclusa); e il “quadro” delineato dai padri fondatori, sia sul terreno dell’esperienza sostanziale che su quello della normazione sulla normazione, è, dove più dove meno, appunto solo un “progetto”, che attende di essere convenientemente specificato ed attuato lungo molteplici, non in tutto predeterminate linee di sviluppo».

[51] Sulla interpretazione della Costituzione v: C. CARBONE, L’interpretazione delle norme costituzionali, Padova 1951. F. PIERANDREI, L’interpretazione della Costituzione (1952), ora in Id. Scritti di Diritto Costituzionale, Torino 1965, vol. I, p. 141 ss. Ibidem, L’interpretazione delle norme costituzionali in Italia (1962), vol. II, p. 645 ss. G. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 904 ss. A: PENSOVECCHIO LI  BASSI, L’interpretazione delle norme costituzionali, Milano 1972. M. DOGLIANI, Interpretazioni della Costituzione, Milano 1982. L. GIANFORMAGGIO, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione di regole ed argomentazione basata su princìpi, in Riv. internaz. fil. Dir., 1985, p. 65 ss. A. PIZZORUSSO, op. ult. cit., p. 3 ss. A. PENSOVECCHIO LI BASSI,  Brevi note, cit., p. 11 ss. H. SHÄFFER, Interpretazione della Costituzione: Metodi speciali o generali?, in Nomos, n. 3, 1993, p. 59 ss. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 127 ss.

[52] Nell’impostazione del discorso si mette l’accento soprattutto sull’interpretazione degli organi dello Stato, ma non si vuole certo revocare in dubbio che anche al quisque de populo, nel momento in cui si trovi davanti a una norma giuridica, spetti di esplicare un’attività interpretativa al fine di pervenire alla corretta applicazione della regola, e ciò vale anche per le norme costituzionali. Ma ci pare che riguardo il fenomeno oggetto del presente studio, rilevi soprattutto l’attività di quegli organi, per la forza e la capacità di incidere sulla Costituzione che essi hanno. Non si esclude, peraltro, che il diverso “sentire” dei cittadini in merito al contenuto di una norma costituzionale, possa aprire la strada ad una sua sostanziale «modificazione tacita».

[53] V. comunque T. ASCARELLI, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, in Riv. dir proc., 1957, p. 352, il quale afferma che: “oggetto dell’interpretazione non è una «norma», ma un testo (o un comportamento); è in forza dell’interpretazione del testo (o del comportamento) e perciò di un dato  che a rigore può dirsi «passato», «storico», che si formula la «norma» (come «presente» ed anzi proiettata nel «futuro»)”. Ma sembra che sia meglio distinguere tra interpretazione del testo, enucleazione della regola e applicazione della stessa, come fasi distinte della più ampia attività di attuazione del dettato normativo, potendosi così stabilire se quest’ultima sia veramente tale o contravvenga ad esso. Un ragionamento come quello dell’Autore, per il quale la norma vive, a rigore “solo nel momento nel quale viene applicata e perciò appunto ogni applicazione di una norma richiede l’interpretazione di un testo (o di un comportamento) e cioè in realtà la formulazione (ai fini dell’applicazione) della norma” sarebbero, oltreché pericolose per i motivi che diremo, conducenti, paradossalmente, ad affermare che la Costituzione e le altre leggi contengano solo “parole”. Ibidem a p. 356: “La norma non è «racchiusa» nel testo sì da poter essere ivi discoperta e l’interpretazione non è «lo specchio» di quanto racchiuso nel testo; il testo è se mai un seme per quella  sempre e rinnovata e transitoria formulazione della norma che per ogni applicazione compie l’interprete”. G. SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Giur. Cost., I, 1981, p. 1704, dopo aver definito politica la scelta della Corte tra interpretazioni diverse e l’attività interpretativa di tutti giudici qualora siano posti in condizione di optare per una di più soluzioni possibili, afferma doversi mantenere, «questa politicità», nel processo di specificazione-attuazione del diritto, non potendosi esprimere nella creazione di un sistema giuridico parallelo, spesso alternativo, e in ogni caso creato in modo surrettizio.

[54] Cfr. A. PENSOVECCHIO LI BASSI, L’interpretazione, p. 9 s.

[55]Sulla distinzione tra disposizione e norma cfr., G. SILVESTRI, op. ult. cit., 1696 ss., spec., sul punto, con particolare riferimento all’attività dei giudici, p. 1702 ss. V. anche, A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori, Torino 1996, p. 6, per la definizione di disposizione normativa come: enunciato linguistico significante in merito a comportamenti umani... giuridicamente qualificato; e della norma, regola di comportamento, «significato che gli interpreti assegnano alla disposizione, specialmente (ma non solo) ai fini della sua applicazione».

[56] V. A. RUGGERI, op. ult. cit., p. 8, ove l’Autore dopo aver sottolineato che la pur sempre possibile, sotto il profilo teorico/culturale, dissociazione tra disposizione e norma debba ricomporsi nella pratica giuridica, afferma che uno solo è il significato dato alla disposizione nella singola esperienza concreta di vita o nella singola circostanza, dunque una sola norma, «pur se a seguito di una scelta che, alle volte, può esser non poco impegnativa e, perfino, dolorosa». Il fatto che possa essere dolorosa, mi fa pensare che - a ben vedere - non sia libera.

[57] In un ordine di idee diverse, T. ASCARELLI, op. ult. cit., p. 352 s., nt. 2, ove afferma che “l’univocità non è della norma, ma della norma formulata dall’interprete e in funzione di una singola applicazione e fuori di questo momento abbiamo sempre e inequivocabilmente un testo equivoco e in funzione del quale l’interprete deve formulare la norma da applicare e l’equivocità è insita al testo e a qualunque testo normativo proprio perché esso mette capo a una formulazione astratta, proprio perché è un «dato» passato in funzione del quale l’interprete deve formulare una norma da applicare attualmente”. Ibidem, p. 358, dove l’Autore assegna all’interpretazione l’inevitabilità di una scelta che non può mai prescindere dalle valutazioni dell’interprete. V. però, a proposito, le interessanti considerazioni di A. RUGGERI, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Milano 1977, p. 253 ss., spec. 254: «L’interprete è condizionato. È l’ideologia oggettivatasi nella normativa costituzionale di valore che, improntando di sé la forma tutta dello Stato (e del diritto), traccia, anche se non nettamente - giacchè un margine di elasticità è comunque ineliminabile in ogni esperienza umana e, a fortiori, per l’attività di interpretazione in cui risultano naturalmente evidenziate la sensibilità politica come la padronanza delle tecniche giuridiche, in una parola la cultura tutta dell’operatore - ma comunque, e certamente, traccia, dicevamo, i confini del «sistema», oltre il quale ogni attività, ogni fenomeno, ogni comportamento si pone appunto in rottura di valore con le attività, i fenomeni, i comportamenti ritenuti invece ispirati ai valori positivi e pertanto giuridicamente rilevanti».

[58] Sulla proiezione temporale dell’attività degli organi appartenenti ai vari poteri dello Stato, T. MARTINES, Prime osservazioni, cit., p. 808 ss.

[59] Natura creativa che però si riconosce come dato ontologico dell’attività interpretativa, in quanto si è ben consci che l’interprete, al momento di tradurre l’astratto dettato normativo in concreta e vissuta regola, fa vivere la norma. Egli potrebbe, in un certo senso, paragonarsi all’artista che dalla materia e nella materia trae l’opera, ma sia ben chiaro che come lo scultore dal marmo non può trarre una statua di bronzo o di legno, lo stesso per l’interprete che non può trarre dalla disposizione una norma che non sia ad essa riconducibile, a meno di far venire meno il principio della separazione dei poteri e la rigidità della Costituzione. In questo senso si può, dunque, accettare che all’interpretazione si assegni una finalità, anche, creativa; ma si preferisce non utilizzare il termine finalità che ci pare possa dar adito, nei malevoli, ad abusi ed equivoci. L’interprete, infatti, lo ribadiamo, non “crea” dal nulla, ma nell’ambito del disposto costituzionale. Il fine suo è quello di rendere concreta norma l’astratta disposizione, e in questo senso crea e non può fare a meno di creare; non un fine, ma una necessità ineliminabile e connaturata all’interpretazione di un diritto che già è, ma che tuttavia, nello stesso tempo, si può dire esiste o se più piace vive solo nel suo momento realizzativo. In questo senso, a me pare, L. ELIA, Il potere creativo delle Corti costituzionali, in AA.VV., La sentenza in Europa. Metodo, tecnica e stile, Padova 1988, p. 217 ss., con riferimento alla attività delle Corti costituzionali, il quale distingue tra attività “creatrice” di norme e attività “concretizzatrice” negando, appunto, che le Corti possano creare ex nihilo.

Sul ruolo creativo del giurista v. l’opera storica e analitica di L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano 1967. Sulla stretta relazione tra interpretazione e creazione del diritto, con particolare attenzione all’opera dei giudici, v. M. CAPPELLETTI, Giudici legislatori?, Milano 1984, p 10 ss. Ibidem, p. 14 s., ove l’Autore definisce «ovvia banalità» parlare dei giudici come “creatori di diritto...è naturale che ogni interpretazione sia creativa, che ogni interpretazione giudiziaria sia «law-making»” e continua sottolineando come la discussione non verta «sull’alternativa creatività non-creatività, ma...sul grado di creatività, sui modi, limiti e legittimità della creatività giudiziale...Per quanto sia vero che né precedenti né norme legislative possono totalmente vincolare l’interprete - che non possono cioè, annullare del tutto quella che chiamerei la sua imprescindibile necessità di essere libero, e quindi la sua creatività e responsabilità -, è anche vero però che un giudice, che sia vincolato a precedenti o a leggi (o ad entrambi), ha come minimo il dovere di appoggiare le proprie argomentazioni su tale diritto giudiziario o legislativo, e non (meramente) sull’«equità» o su analoghi vaghi criteri di valutazione”.

[60] V. comunque, in riferimento all’attività della Corte, per la delicatezza e l’importanza delle questioni che involge: A. SPADARO, Le motivazioni delle sentenze della Corte come «tecniche» di creazione di norme costituzionali, in Nomos, n. 3, 1993, p. 83 ss., spec. p. 87 s., ove l’Autore, dopo aver ricordato come ad essa spetti di interpretare la Carta costituzionale al fine di consentirne «l’attuazione (o comunque la non violazione)», dice essere la Corte “l’organo maieutico della Costituzione, visto  che spetta ad essa - in forma pressoché esclusiva (c.d. interpretazione quasi autentica) - il compito di estrapolare, id est: «creare», le norme-significato dal testo-significante superprimario... La Corte... «crea», piaccia o no, le stesse norme costituzionali (se si preferisce, come già detto, ma non cambia: estrapola queste ultime dalle disposizioni costituzionali vigenti)”. Non si può certo negare che l’Autore abbia ragione sul piano del diritto vivente, ma fino a quale punto può spingersi la Corte nello svolgere il suo compito? Infatti, l’Autore prosegue sottolineando come «i dubbi e le perplessità sul fatto che, attraverso l’argomentazione, si eserciti una facoltà «creativa» - o comunque manipolativa del parametro costituzionale - legittimano la richiesta alla Corte» dell’adozione di alcune precauzioni nella giustificazione dei suoi atti.

[61]Cfr. G. SILVESTRI, Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico: un rapporto complesso, in Quad. Cost., n. 2, 1989, p. 238 s. V. in precedenza, in un discorso più ampio sul riflesso che la concezione della Costituzione  proietta sull’interpretazione-applicazione dei principi giuridici costituzionali: L. GIANFORMAGGIO, op. ult. cit., p. 84 ss., spec. 88, dove, dopo aver specificato le ragioni a sostegno della giuridicità della Costituzione disciplinante obbligatoriamente tutti i comportamenti, pubblici e privati, le definisce addirittura banali; svolgenti, però, la funzione essenziale dell’ovvio, cioè: fungere da limite negativo nei confronti di qualunque concezione neghi l’ovvio, la quale di per ciò stesso diventa inaccettabile (su questo v. comunque, D. FARIAS, L’ermeneutica dell’ovvio, Milano 1990). Ibidem, L. GIANFORMAGGIO, p. 78, ove pone l’accento sulla centralità dell’argomentazione giustificativa le singole scelte interpretative. V. anche: H. SCHÄFFER, op. ult. cit., p. 59 ss.

[62] Sulla rigidità v. supra p. 4 ss., spec., nt. 5.

[63] F. PIERANDREI, L’interpretazione della Costituzione, cit., p. 201, fa notare come la presenza di un organo di garanzia non elimina il rischio che si verifichino modificazioni tacite della Costituzione, ma viene evitato il rischio che esse «abbiano a superare determinati limiti, violando la Costituzione vigente e persino trasformandola in un’altra».

[64] F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 150 ss., parla di «interpretazione in funzione o destinazione normativa», a proposito dell’interpretazione giuridica, la quale a differenza dell’interpretazione storica non avrebbe finalità meramente ricostruttive, ma «lo scopo ulteriore, di ritrovare, attraverso la regola, i criterî di disciplina valevoli nei confronti delle esigenze concrete».

[65] Sul punto: A. SPADARO, Una Corte, cit., p. 1273, in riferimento ai limiti giuridici invalicabili, da parte dell’organo di giustizia costituzionale, al fine di «contenere giuridicamente gli arbitrî della Corte»; ma ci pare che questo ragionamento possa estendersi anche agli altri interpreti della Costituzione.

[66] F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 159 ss.

[67] Da essi è, infatti possibile trarre luce sulla “autentica, benché tormentata concordia assiologica raggiunta dai Costituenti sulla nozione dialettica «diritti inviolabili/doveri inderogabili» della persona”, di cui parla A. SPADARO, op. ult. cit., p. 1260,  nt. 24. V. anche, A. PIZZORUSSO, op. ult. cit., p. 8, il quale, però, si esprime nel senso della minore utilizzabilità dei lavori preparatori, rispetto a quanto normalmente avvenga con riferimento alle fonti subordinate, a causa del carattere elastico proprio delle norme costituzionali.

[68] Cfr. F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 173.

[69] G. PITRUZZELLA, Considerazioni sull’idea di Costituzione e il mutamento costituzionale, in Arch. dir. cost., II, 1993, p. 77, fa notare come “i princìpi, a differenza delle regole, non si applicano nella forma del «tutto o niente», ma richiedono complesse (e variabili) operazioni di bilanciamento”.

[70] G.  ZAGREBELSKY, op. ult. cit., p. 922 s., postula un uso delle norme generalissime, contenenti i princìpi politico-ideologici, in modo tale da «restringere (se non eliminare) il campo del possibile nell’ambito dell’interpretazione, rendendo controllabile con strumenti giuridici le scelte che l’operatore del diritto» compie. Tale aspetto «politico» dell’interpretazione deve valere anche  nei confronti della Costituzione, che dev’essere interpretata alla luce delle sue norme fondamentali.

[71] Al fine di una maggiore comprensione si intende qui dire che i valori starebbero alla base dei motivi politici fondamentali e che insieme a questi sarebbero poi formulati nelle norme-principio racchiudenti i princìpi/valori supremi dell’ordinamento.

[72]C. CARBONE, op. ult. cit., p.34 s., dopo aver messo in evidenza come i princìpi contenuti nelle Costituzioni siano il risultato di princìpi politici affermatisi in precedenza, asserisce che la loro individuazione va però fatta con riferimento al momento dell’applicazione. Il principio politico legalizzato ha, infatti, continuato a evolversi adattandosi alle nuove esigenze e tutto questo non si può considerare estraneo alla norma, salvo che lo sviluppo non si mostri estraneo alla struttura giuridica dello Stato, nel qual caso occorre, affinché la norma resti viva, ricondurlo nell’ambito della stessa sostituendovene il contenuto, con uno confacente alla nuova realtà. V. però, A. RUGGERI, op. ult. cit., p. 240 ss., spec. 260 s., il quale, in un discorso più ampio riferito alla essenzialità della forma/valore nel sistema delle fonti, dopo avere sottolineato la necessità «che l’ermeneutica sia ricondotta entro l’alveo della normazione» svolgendosi «negli spazi liberi lasciati da questa» non esclude la possibilità di interne evoluzioni dei valori fondamentali, originari e oggettivi, secondo la linea di sviluppo da essi tracciata, purché non si arrivi alla loro sostituzione con altri valori «che può storicamente avvenire solo col cangiamento totale dell’ordinamento costituzionale». V. pure dello stesso Autore, supra, cit., nt. 50.

[73]Cfr. A. SPADARO, op. ult. cit., p. 1268. Anche qui le parole dell’Autore (che in questo segue D. FARIAS, Idealità e indeterminatezza dei princìpi costituzionali, Milano 1981, spec., p. 212 ss.), seppure rivolte all’attività interpretativa della Corte costituzionale, sembrano estensibili agli altri interpreti della Costituzione.

[74] V. comunque C. CARBONE, op. ult. cit., p. 34 s., il quale evidenzia che la ricerca della logica della lingua delle norme costituzionali diverge da quella delle altre, poiché in essa avrebbe scarsa rilevanza il mezzo grammaticale e sintattico. Esse, infatti si limiterebbero a statuire schematicamente dei princìpi ed è, dunque al contenuto di questi princìpi, più che al significato sintattico delle espressioni, che occorrerebbe ricorrere ogni qualvolta si tratti di intendere il significato dei medesimi. Occorrerebbe, quindi, operare «un’indagine a ritroso prima, a mezzo della storia del diritto e del diritto comparato, per accertare la genesi del principio; a mezzo della politica, dopo, per individuarne il contenuto; successivamente è un’indagine in avanti con riferimento alla storia politica ed all’orientamento politico del paese per cogliere l’evoluzione e la portata attuale di quel principio».

[75] Cfr. A. PENSOVECCHIO LI BASSI, op. ult. cit., p. 89 ss. Idem, Brevi note, cit., p. 23, e A. SPADARO, Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Milano 1994, p. 43, il quale però sottolinea (riportando sul punto anche un’utile bibliografia) la difficoltà, per il giurista che si occupa della Costituzione, « “di separare”, nella conduzione del suo studio, in modo netto, rigido e certo, la sfera politica da quella giuridica».

[76] A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Brevi note, cit., p. 23.

[77] A. SPADARO, Una Corte, p. 1250, nt. 19, e Id., Le motivazioni, cit., p. 90 s., dopo aver sottolineato come l’interpretazione dei princìpi fondamentali, seppur indeterminati, spetti alla Corte costituzionale per ragioni storiche e di teoria generale le quali, hanno fatto sì che si istituissero, per la loro garanzia, organi di giustizia costituzionale, sostiene che i rischi di una interpretazione «arbitraria» della Corte “sono  attutiti dal dovere di questo organo di ispirarsi dichiaratamente alla visione del mondo dei costituenti (che l’interprete non può e non deve «modificare» pur storicizzandola nel presente, trattandosi del cemento entro il quale sono «incastonati» i princìpi «fondanti» lo stesso ordine costituzionale)”.

[78] L. D’ANDREA, La commissione affari costituzionali, in Arch. giur. Filippo Serafini, 1992, p. 164, definisce «autentica interpretazione costituzionale» soltanto quella che riesce a tenere presenti insieme e a porli in intima e feconda relazione, così che l’uno sia vivificato e irrobustito dall’altro e viceversa, il rigore dell’analisi tecnico-giuridica e la piena consapevolezza della valenza politica dell’ordinamento costituzionale.

[79] D. FARIAS, op. ult. cit., p. 196.

[80] Cfr. A. PENSOVECCHIO LI BASSI, L’interpretazione, p. 111 ss.

[81] G. DE VERGOTTINI, Referendum e revisione costituzionale: un analisi comparativa, in Giur. Cost., 1994, p. 1371, osserva come sia pericoloso «affidare all’interprete delle norme costituzionali la inevitabile (e discrezionale) valutazione della necessità di adeguamento alle mutate esigenze sociali quando l’ordinamento predisponga la revisione formale come modalità precostituita per operare l’aggiornamento».

[82] Si vuole aggiungere per esigenze di chiarezza e completezza nell’esposizione del proprio pensiero, che a parere di chi scrive, anche le Costituzioni «flessibili» debbano essere modificate con il procedimento all’uopo previsto, ovverossia quello ordinario di formazione delle leggi, in quanto solo così si farebbero salve le ragioni delle minoranze che, anche se in misura minore, trovano nella procedura la necessaria garanzia di partecipazione e di tutela e si avrebbe maggiore consapevolezza dei valori sui quali i mutamenti stessi vanno a incidere. V. comunque,  riguardo le Costituzioni «flessibili» non scritte le interessanti considerazioni di V. ZANGARA,  La rigidità delle Costituzioni, in Studi Chiarelli, Milano 1974, cit., p. 1964 s., ove trae la conclusione di una  maggiore stabilità delle Costituzioni «non scritte» e «flessibili» fondate su documenti storici nei quali sono codificate convenzioni costituzionali e su consuetudini ben radicate e ultrasecolari, perciò più resistenti a mutamenti.

[83] A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Brevi note, cit. p. 28, ove l’Autore sembra ricondurre il fenomeno nell’ambito dell’elasticità o duttilità che caratterizzano anche le Costituzioni rigide, valutandolo positivamente, al fine di evitare il ricorso a gravose procedure previste per la revisione della Costituzione senza che ve ne sia la reale necessità.

[84] F. BENVENUTI, La Costituzione fra attuazione e revisione: lo Stato in una società pluralista, in Iustitia, 1983, p. 29.

[85] V. G. SILVESTRI, Linguaggio, cit., p. 229 ss., sull’importante ruolo svolto dal linguaggio nel diritto e nel diritto costituzionale soprattutto, spec., p. 242:  «Il diritto...è rivolto a risolvere questioni pratiche mediante la ricerca del senso delle parole più adatto alla concreta situazione che si pone».

[86] Cfr. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 793 s., sulla possibilità che uno Stato, “pur rimanendo formalmente identico, subisca interruzioni nella sua continuità sostanziale dovute a mutamenti radicali dei fini politici fondamentali che lo caratterizzano e delle forze politico-sociali che li perseguono, sia che siffatti mutamenti risultino «assorbiti» nella Costituzione formale vigente sia che, invece, diano vita a una nuova Costituzione”. L’Autore è però contrario alla distinzione fra I e II Repubblica (v. Diritto Costituzionale, cit., p. 952), ove giustamente osserva «che parlare oggi di seconda repubblica è, sotto il profilo giuridico, errato, perché, sino a quando non si procederà ad incisive modifiche della Costituzione vigente o, ancor più, ad approvare una nuova Costituzione, non si può (come l’esperienza francese ampiamente dimostra) assegnare un numero ordinale al termine Repubblica. Non siamo insomma, sino adesso, né nella prima né nella seconda repubblica: siamo nella Repubblica voluta dal popolo con il referendum istituzionale del 1946, il cui ordinamento è disciplinato dalla Costituzione del 1947. Prima e seconda Repubblica sono, dunque, locuzioni spendibili nel linguaggio politico o nel gergo giornalistico (e non si può negare che abbiano anche una loro suggestione) ma non nel linguaggio e nelle analisi del giurista, che richiedono ben altro rigore terminologico».

[87]C. MORTATI, op. ult. cit., p. 201, fa notare come siano decisivi per l’affermarsi di comportamenti derogatori della Costituzione gli atteggiamenti assunti dalle forze politiche.

[88]Sul punto v. A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Brevi note, p. 35 ss. V. anche, infra, nt. 93.

[89] G. SILVESTRI, Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale, in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, II, Milano 1987, p. 1201, sottolinea come “la distinzione tra norme «forti» e «deboli» nel testo costituzionale porterebbe gli interpreti ad apportare «tagli» alla Costituzione, in obbedienza a soggettive valutazioni di ciò che appare essenziale per la sopravvivenza di un regime politico”. Ibidem, p. 1205, a proposito della clausola di revisione risultante dalla considerazione congiunta degli artt. 138 e 139: «...appare chiaro come una simile clausola di revisione si ponga in funzione protettiva di tutto il sistema costituzionale, nei suoi princìpi e nelle sue articolazioni organizzative, che vanno considerate in stretta correlazione con i primi. Non sembra infatti ammissibile scegliere tra l’una o l’altra norma costituzionale, con criteri che possono rivelarsi di dubbia obiettività». V., anche, A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Brevi note, p. 28 ss.

[90] Cfr. A. RUGGERI, Gerarchia, cit. 242 ss.: «La forma così, prima ancora che criterio di identificazione dell’atto fonte, di collocamento nella gerarchia, di qualificazione di determinati caratteri di esso, è, in nuce, valore fondamentale degli stati europei occidentali e dunque delle società che li sottendono. Che poi la forma sia ( = divenga ) valore proprio in quanto criterio ovverossia sia criterio perché valore è questione che spetta al filosofo chiarire e non al giurista positivo. Quest’ultimo però può prendersi la briga di ricordare al primo che lo Stato di diritto si è maturato alimentandosi dei valori politici liberali e della forma valore-criterio giuridico». E ancora riconducendo la forma al valore fondamentale garantito dal diritto, la certezza per il tramite della legalità: «l'individuazione su un piano assiologico della forma appare un fatto ormai culturalmente acquisito. E pur nelle rilevabili (e criticabili) incrostazioni che avvolgono talune dottrine chiuse nel più rigido formalismo e pertanto insensibili verso  necessari connotati sostanziali della fenomenologia giuridica, il fondo di vero dell’affermazione, il nodo cruciale, il Begriffskern di essa, cioè l’individuazione dell’essenza del diritto nella forma, non appare comunque contestabile». Sulla necessità della corrispondenza, nel nostro ordinamento (in un discorso relativo alla questione concernente le fonti idonee a disciplinare la materia costituzionale), tra forma e materia costituzionale, Id., Fonti, norme, cit., p. 66 ove afferma: «La Carta  repubblicana, invero, col fatto stesso di prevedere una procedura particolare per la confezione delle leggi costituzionali e, dunque, di prevedere il “tipo” -legge costituzionale (accanto al “tipo” -legge di revisione costituzionale)..., richiede che sia scrupolosamente osservato il principio della corrispondenza tra forma e materia costituzionale: la prima deve, infatti, seguire la seconda, una volta che - ovviamente - ne sia stata accertata la natura».

[91] Di una accezione «di formalismo, o di scienza del diritto in quanto scienza formale... logicamente del tutto fedele al contenuto della norma e dell’ordinamento, fedeltà in senso aristotelico perché tendente a pervenire alla forma che da l’essere all’ordinamento, in virtù del contenuto e del dettato che ispirano, determinano e qualificano le norme» parla: S. DE SIMONE, Istituzioni, governabilità, scuola, in Rivista giuridica della scuola, 1981, p. 745 s. Formalismo scienza squisitamente interpretativa...che si riduce a tecnica consapevole, per pervenire alla verità dell’ordinamento.

[92]Oltre al già citato lavoro di A. RUGGERI e A. SPADARO, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime osservazioni), in Pol. dir., n. 3, 1991, p. 343 ss. (cfr. ora pure, G. SILVESTRI, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Riv. dir. cost., n. 1, 1996, p. 3 ss.), v. sul punto: M. DOGLIANI, op. ult. cit., p. 107 ss., sulle conseguenze, sul piano del diritto e del diritto costituzionale in specie, di una logica di legittimazione basata sugli appagamenti sostanziali, «al fine di stabilire se oggi abbia ancora valore o no la pretesa/finzione del costituzionalismo classico di rimettere alla ragione degli individui le decisioni inerenti al loro status di membri di una società, decisioni da raggiungere con il consenso formato liberamente e attraverso procedure giuridicamente garantite».

[93] Piace riportare le parole di F. MODUGNO, Il problema dei limiti alla revisione costituzionale (in occasione di un commento al messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991), in Giur. Cost., 1992, I, p. 1679 s.: «Ma nessun diritto può nascere dal mero fatto, allo stesso modo in cui nessuna prescrizione, nessuna valutazione, nessun consenso, possono nascere dalla mera descrizione o dalla semplice constatazione di un fatto compiuto... La sola mediazione possibile tra fatto e diritto è rappresentata dal consenso, dal riconoscimento a posteriori ossia al valore che si attribuisce al fatto. Ma il valore, o meglio i valori, sui quali è costituito un ordinamento giuridico e che lo rendono tale, ossia non un mero fatto, ma un fatto di organizzazione sociale consapevolmente accettato, non sono rovesciabili o sostituibili con altri ad essi irriducibili soltanto perché si presumano indotti da nuovi fatti compiuti. Se sopravverrà il riconoscimento e l’accettazione di tali fatti, questi si saranno già trasformati in nuovi valori, ma su di essi sarà edificato un nuovo e diverso ordinamento che soltanto per comoda finzione potrà ritenersi la continuazione del vecchio».

[94] Interessanti spunti di riflessione offriva circa venti anni addietro, in una visione quasi “profetica, G. ALPA, Ruolo attuale della Costituzione e modelli interpretativi. Una nota bibliografica, in Riv. trim. civ., 1979, p. 781 ss., spec. 784, «... non sembra corretto il passaggio logico secondo il quale l’inattuazione della Costituzione è indice della sua inattualità e quindi della sua inutilità...pervenire alla conclusione che la Costituzione deve esser cancellata significa rinnegare i valori fondamentali del nostro ordinamento e la funzione storica assolta dalla Carta...e ancor più gravemente, significa precostituire le premesse per un ordinamento diverso (magari destinato ad assumere le forme della repubblica presidenziale) informato a valori meno vividi e incisivi».

[95] Sembrava trarre conclusioni simili nel lontano 1981, S. DE SIMONE, op. ult. cit., p. 721 s. P. ZANCHETTA , In difesa della Costituzione (la costruzione dello Stato costituzionale), in Quest. gius., n. 1, 1995, p. 60: «Riaffermiamo una verità solare: i guasti della vita repubblicana registrati in questi anni, non sono il portato di quanto scritto nel patto fondamentale del dopoguerra; sono al contrario l’espressione di un suo tradimento».

[96] A. SPADARO, Limiti del giudizio costituzionale in via  incidentale e ruolo dei giudici, Napoli 1990, p. 38, parla di « Costituzione, i cui “princìpi fondamentali” nessuno dichiara espressamente di voler rimettere in discussione», che «sembra fortemente “indebolita”, comunque duramente “attaccata”»... non  più, se non in qualche caso,  meta da raggiungere, ma, piuttosto, «uno strumento sufficientemente elastico per conseguire sempre nuovi obiettivi giuridico-politici». Cfr.  P. ZANCHETTA, op. ult. cit., p 59 ss., sui possibili risvolti dell’attuale dibattito sulle riforme istituzionali, spec. p. 60, dopo aver sottolineato come i mali della nostra Repubblica non erano scritti nella Costituzione «... la sconfitta della corruzione (e di tutte le degenerazioni della vita politica), la (ri)affermazione del senso pieno della democrazia si realizzano esaltando i valori, i princìpi, gli istituti della Costituzione».

[97] Sulla funzione di garanzia sul piano formale e sostanziale delle Costituzioni rigide e scritte: v. T. MARTINES, Prime osservazioni, cit., p. 792.

[98]S. FOIS, La crisi delle istituzioni, in Dir. soc., 1992, p 17 s., mette in guardia nei confronti di una «cultura dell’effettività» - sempre più presente e radicata nella coscienza collettiva e nell’atteggiamento dell’uomo comune, alimento delle cause della crisi - al punto da riportare i rilievi di quanti, sul piano politologico, parlano della già avvenuta instaurazione di una «forma di società pretoriana», caratterizzata dal fatto per cui «l’illegalità domina i comportamenti di tutti» e i comportamenti quotidiani... non hanno più alcun rapporto con il sistema delle regole ufficialmente in vigore. Dei diritti fondamentali come «leggi dei più deboli», citando il Ferraioli, parla P. ZANCHETTA, op. ult. cit., p. 74.

[99] A sostegno di quanto qui si va sostenendo, ma in un ordine di idee parzialmente diverso, cfr: T. MARTINES, op. ult. cit., p. 802 s., nt. 54, ove il compianto studioso dopo aver sottolineato la possibilità che attraverso le modificazioni tacite della Costituzione si finisca col dare vita «ad una Costituzione effettivamente vigente in netta antitesi con quella scritta», afferma che il divario tra queste non possa “risolversi a favore della prima in considerazione della sua «effettività», nella misura in cui esso sia determinato dal prevalere, nell’apparato autoritario dello Stato di forze politiche non pienamente o soltanto formalmente rappresentative ed, inoltre influenzabili da interessi presenti in settori particolari della società”. In questo caso le modificazioni tacite non potrebbero costituire un titolo di legittimazione, se non sorrette dal consenso e dall’adesione dei governati e in antitesi con i princìpi fondamentali cui si ispira l’intera Costituzione. Si tratterebbe di una battuta d’arresto nell’attuazione dei fini della Costituzione dovuta alle forze conservatrici. Nello stesso senso, Idem, Diritto Costituzionale, cit., p. 269 ss. Dunque l’illustre Autore sembra lasciare aperte le porte all’ammissibilità delle modificazioni tacite in presenza delle necessarie condizioni, e forse non si potrebbe con Lui non concordare se, in nome della Costituzione, non si fossero compiute tante violazioni della medesima. V. anche, L. GIANFORMAGGIO, Il filosofo del diritto e il diritto positivo, in AA. VV., Diritto positivo e positività del diritto, a cura di G. Zaccaria, Torino 1991, p. 17, «...In diritto, come in ogni sfera dell’umana vita di relazione, è falso che “chi vince ha ragione”. Può avere ragione o torto, avendo vinto; cioè può avere dalla sua  o non avere la giustizia. Che abbia vinto, che la sua proposta sia divenuta norma positiva e non un’altra, è un dato, un fatto, un evento, e in quanto tale ha a che fare con il potere, non con la ragione e la giustizia, che non sono fatti, ma misure, criteri, regole».

[100] Sulla stretta correlazione tra attualità della Costituzione e «uso» della medesima, v. M. DOGLIANI, op. ult. cit., p. 10, ove stigmatizza  come proprio per non tenere nel debito conto questa correlazione si arrivi a tramutare il giudizio di insufficienza in giudizio di inutilizzabilità. P. ZANCHETTA, op. ult. cit., p. 73, incisivamente afferma: «Non di una nuova Costituzione abbiamo necessità, ma di inverare quella attuale, ampliando e praticando i princìpi in essa contenuti». Ma sul punto, v. pure A. RUGGERI, Appunti e note sparse di metodo per una discussione in tema di riforme istituzionali, in Pol. dir., n. 3, 1988, p. 407.

[101] A. RUGGERI, Gerarchia, cit., p. 254 ss., ove in riferimento alla possibile diversa interpretazione dei valori e delle ideologie dell’ordinamento nel corso della storia, positivo sintomo della vitalità dello stesso, afferma la necessità di mantenersi nei limiti dell’unità dell’ordinamento. “Giacché, allorché l’interprete-applicatore farà spazio a valori diversi, qualitativamente nuovi rispetto ai precedenti, e ciò avrà riscosso indici oggettivi di accertamento, allora delle due l’una: o ¾ si dirà ¾ si è imposto un ordinamento del tutto nuovo rispetto a quello precedente (a valori nuovi ordinamento nuovo) ovverossia, qualora si accerti la vigenza effettività dei valori vecchi e, con essa, pertanto l’unità-sistematicità dell’ordinamento nel suo insieme, si dirà che l’interprete ha, arbitrariamente, «prodotto diritto», e prodotto un diritto costituzionalmente illegittimo”.

[102] Cfr. A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Brevi note, cit., p. 17 e, ivi, nt. 19, ove l’Autore afferma potersi dedurre, con immediatezza, dall’esame delle carte costituzionali rigide la volontà del Costituente a far sì che le trasformazioni della Costituzione si debbano determinare attraverso i procedimenti stabiliti per l’attività di revisione e che l’azione degli organi chiamati ad applicare la Costituzione debba esplicarsi nel rispetto di questo principio. Ibidem, p. 31, dove con riferimento all’attività interpretativa afferma che essa non possa spingersi, in ogni caso, in ambiti riservati alla legislazione costituzionale.

[103] Cfr. F. PIERANDREI, La Corte costituzionale e le ‘modificazioni tacite’ della Costituzione, (1951), ora in Id., Scritti di diritto costituzionale, vol. I, Torino 1965, p. 93 s.

[104] Cfr. T. MARTINES, Diritto Costituzionale (a cura di G. Silvestri), Milano 1997, p. 373 s.

[105] Ma, sul punto, mi sembra opportuno aggiungere le pertinenti osservazioni di L. D’ANDREA, La Commissione affari costituzionali, in Arch. giur. Filippo Serafini, 1992, p. 165 s., che, con riferimento alla prospettiva assiologica che caratterizza il costituzionalismo dello Stato sociale, evidenzia come le norme costituzionali non siano (secondo l’ideologia liberale) un limite esterno alla legislazione ordinaria, ma individuando i valori-fini per il conseguimento dei quali si è costituito l’ordinamento, pongono “un limite interno (strutturale e teleologico) della normazione subcostituzionale, che ne viene subordinata sostanzialmente, così che la Costituzione si riveli come «il valore assiologico cui tutto l’ordinamento storicamente si adegua». In particolare ai princìpi fondamentali va riconosciuta una funzione dinamico-programmatica, nel senso che essi si dirigono al legislatore perché articoli e sviluppi quel disegno normativo di cui essi pongono le linee direttrici”. Osservazioni che ritengo valide anche per l’attività degli organi amministrativi e giudiziari.

[106] Cfr. T. MARTINES, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, vol. III, Milano 1978, p. 805 s., ove l’Autore afferma, riguardo le norme costituzionali “ad applicazione differita”, che questa non è da intendersi “nel senso che di esse non si debba fare puntuale e tempestiva applicazione (perché a ciò restano vincolati i loro destinatari) ma in quello che il conseguimento del fine resta affidato alle forze politico-sociali dominanti, al modo in cui vengono ad atteggiarsi i rapporti tra governanti e governati ed, in ultima istanza, all’attività degli organi cui spetta di determinare e di portare ad attuazione l’indirizzo politico”. E ancora, oltre (p. 851), “Certo, un termine (in senso lato) all’attuazione deve pur esserci, perché una Costituzione non attuata è il segno inequivocabile che strutture e rapporti di forza preesistenti hanno prevalso, dando luogo ad una Costituzione materiale che non coincide in parte, o del tutto, con quella formale. Ed è, se mai sui tempi e sui modi dell’attuazione che occorrerebbe intendersi, tenuto conto che la normatività della Costituzione deriva non dall’essere definita legge, e legge fondamentale, ma dalla sua aderenza all’evolversi della società ed al mutare della coscienza sociale, pur nel permanere nel tempo di quel nucleo essenziale di valori e di fini che ne rappresentano lo «spirito» e ne fondano la giuridicità”.

[107] A sostegno di quanto qui si afferma le considerazioni di P. BISCARETTI DI RUFFÌA, Introduzione al Diritto Costituzionale Comparato, Milano 1988, p. 655, circa la convenienza a formulare, per quanto è possibile, testi costituzionali autosufficienti, i quali «non rimettano al legislatore futuro la normazione relativa a settori davvero fondamentali della nuova struttura statale delineata. Il ritardo, più o meno prolungato, nel provvedere in merito può, infatti, determinare degli scompensi, talvolta anche assai gravi, nella stessa vita costituzionale dello Stato: obbligandolo a funzionare in assenza di taluni meccanismi, pur previsti nel quadro generale all’uopo predisposto (con accomodamenti di fatto sempre pregiudizievoli per la certezza del diritto e per la scrupolosa osservanza del medesimo)». V. pure quanto S. P. PANUNZIO, Incostituzionalità «sopravvenuta», incostituzionalità «progressiva» ed effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale, in Giur, Cost., II, 1989, p. 596, dice a proposito del significato della incostituzionalità «progressiva» della legge: «c’è una lunga marcia nell’attuazione dei valori costituzionali nell’ordinamento: a volte fatta di piccoli passi e lunghe pause. C’è dunque una gradualità nel dispiegarsi e nell’imporsi dei valori costituzionali. Quello che trenta, o venti, o dieci, o soltanto un anno fa era uno scarto ancora tollerabile fra la prescrizione legislativa e il valore costituzionale non ancora tutto spiegato, ad un certo punto non lo è più. L’inerzia del legislatore nell’adeguare il sistema non è più tollerabile perché il valore costituzionale viene assunto ormai nella sua assolutezza: e quindi la Corte annulla la legge con esso non più compatibile. Quella stessa legge che fino a poco prima era tollerata dal sistema, oggi viene espulsa».

[108] Sulla «modificazione tacita di natura omissiva...idonea a configurare vere e proprie violazioni della Costituzione, e come tale improponibile nell’ordinamento vigente» v: S. TOSI, Modificazioni tacite della Costituzione attraverso il diritto parlamentare, Milano 1959, p. 64 ss., ove l’Autore riferisce del diffondersi del “convincimento che il non fare altro non sia che una specie di «frode alla Costituzione». L’inerzia legislativa, quando riferibile a precetti costituzionali disattesi, si pone sullo stesso piano della legislazione contrastante con le norme costituzionali e si concreta perciò in una inadempienza costituzionale...il comportamento omissivo può dar luogo ad un eccesso di potere legislativo, e precisamente nel senso che l’inattuazione di quei precetti costituzionali, disapplicando norme di grado superiore, pone in essere una illecita attività sostanziale di revisione costituzionale, attraverso l’usurpazione delle potestà dell’organo a ciò sopraordinato: appunto il potere legislativo-revisore, vincolato alle note modalità d’esercizio”.

[109] Sull’esperienza attuativa del C.N.E.L., frutto anche della intraducibilità in legge ordinaria di alcuni articoli costituzionali, v. S. DE SIMONE, Istituzioni, governabilità, scuola, in Rivista giuridica della scuola, 1981, p. 741 s., il quale lo definisce «organo di rappresentatività, talmente modesto sotto il profilo della concreta sua rilevanza sociale e talmente inadeguato in senso operativo come organo di collaborazione legislativa»... che «non altro poteva finire di essere - come ha finito di essere - che area di parcheggio dei potenti che dovessero e potessero desiderare, ad un certo momento, un lauto meritato riposo».

[110] Sul punto, tra la vastissima produzione giornalistica e letteraria, mi sia consentito rinviare, soprattutto con riferimento alla realtà siciliana ma non solo, alle seguenti opere: N. DALLA CHIESA, Delitto imperfetto - Il generale, la mafia, la società italiana, Milano 1984; F. CALVI, La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi (1986), trad. it., Milano 1986; L. ORLANDO, Palermo, Milano 1990; G. FALCONE e M. PADOVANI, Cose di Cosa Nostra, Milano 1991; C. FAVA, La mafia comanda a Catania 1960/1991, Roma-Bari 1991; P. ARLACCHI, Gli uomini del disonore - La mafia siciliana nella vita del grande pentito Antonino Calderone, Milano 1992. Infine D. GAMBETTA, La mafia siciliana - “Un’industria della protezione privata”, Torino 1992, particolarmente interessante per l’approccio, non convenzionale ma scientifico e critico rispetto ai luoghi comuni sul fenomeno mafia. Conducendo una analisi in termini scientifici, razionali ed economici l’Autore individua nell’organizzazione mafiosa una vera e propria “industria della protezione privata” riscontrando perciò il suo elemento caratterizzante, più che nell’organizzazione, nel tipo di merce oggetto della sua attività. Il testo si chiude con delle valutazioni e dei suggerimenti (veramente interessanti e intelligenti) al fine di agevolare il declino dell’organizzazione e trasformarlo in disfatta: ruolo dello Stato nella repressione e nel saper essere dispensatore di “vera e imparziale” protezione pubblica; intelligente riduzione della sfera dell’illegalità (merci vietate); motivazione nelle istituzioni e nella società derivante dal rinnovamento politico (sia pratico che teorico); rifiuto di quella ideologia di compromesso, che tanta parte ha avuto nel pensiero giuridico e che ha permesso ad alcuni studiosi e magistrati di dare dignità di ordinamento giuridico alla mafia stessa, facendo sì che nello Stato italiano l’interesse generale fosse pretermesso al soddisfacimento degli interessi particolari di istituzioni parallele (legittime o meno).

[111] Sulle implicazioni del principio sancito nell’art. 3, comma II, Cost. riguardo al modello di società in esso prefigurata: “quello della democrazia reale, ovvero dell’autogoverno del popolo a cui «appartiene» la sovranità” cfr. U. ROMAGNOLI, Il principio d’uguaglianza sostanziale, in Riv. trim. di dir. e proc. civ., 1973, p. 1289 ss. V. anche, F. LUCARELLI, Il principio di eguaglianza e i procedimenti equitativi tra profitto e rendita, in Pol. del dir., 1974, p. 629 ss., spec., p. 636: “Vi è una dimensione operativa in cui l’organizzazione pubblica deve direttamente rispondere nei confronti dei cittadini, garantendo «equamente» strutture di assistenza, di giustizia, di cultura, garanzie di dignità individuale; vi è una dimensione logica, ed è ancora operativa, in cui la mano pubblica assume veste di protagonista, comunque, di antagonista del potere privato, a garanzia dei livelli individuali e collettivi di dignità”. Il corsivo è nostro, ma risponde fedelmente a quanto l’Autore sostiene nel prosieguo del discorso. Sul punto v., ancora, A. RUGGERI e A. SPADARO, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime osservazioni), in Pol. dir., n. 3, 1991, p. 343 ss., spec., 359 s.

[112] Altre materie, infatti, attendono, tuttora, la prevista regolamentazione legislativa: ad es. la registrazione dei sindacati, al fine di consentire loro la stipulazione di contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutta la categoria ex art. 39 Cost. (ma sull’attuazione di questo articolo molti dubbi si nutrono sulla volontà di pervenirvi degli stessi sindacati); la disciplina del diritto di sciopero (art. 40 Cost.), almeno secondo regole aventi caratteri generali (ricordiamo infatti che la l. n. 146 del 1990 si occupa di regolamentare l’esercizio di tale diritto solo per quanto riguarda i servizi pubblici essenziali a salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente garantiti e lascia perciò privi di regolamentazione legislativa gli altri settori); la determinazione del numero, delle attribuzioni e dell’organizzazione dei ministeri (art. 95 comma III); la completa revisione delle giurisdizioni speciali (VI disp. trans. e finale) etc. Per non dire delle numerose leggi anteriori alla Costituzione e non conformi ad essa che attendono di essere riformate; a tal proposito, sul mancato adeguamento del codice penale alla Costituzione v: P. PISA, Costituzione e codice penale - La moderata «supplenza» riformatrice della Corte costituzionale, in Annali Genova, 1988/89, p. 442 ss.

[113] T. MARTINES, Diritto Costituzionale, cit., p. 266 ss. Ma su questo vedi quanto l’Autore già scriveva nel 1978 in, Prime osservazioni, p. 807 ss., nt. 72. Ibidem, p. 852, ove è contenuto un elenco degli adempimenti costituzionali dovuti, e dei relativi termini entro cui si sarebbe dovuto dar luogo ad attuazione. L. GIANFORMAGGIO, L’interpretazione della Costituzione tra applicazione di regole ed argomentazione basata su princìpi, in Riv. int. fil. dir., 1985, p. 67, riscontra, come fatto a tutti noto, nella “costruzione della categoria delle «norme (non precettive ma solo) programmatiche» in cui si facevano rientrare tutti i princìpi costituzionali «scomodi»” un avallo della pratica dell’inadempimento costituzionale il quale, a sua volta, troverebbe il suo fondamento culturale “nella teoria kelseniana che distingue tra disposizioni solo formalmente costituzionali (tutte quelle che sono contenute nelle Costituzioni scritte) e disposizioni anche materialmente costituzionali (quelle relative alle strutture organizzative supreme, in primis quelle che stabiliscono le condizioni e i requisiti di validità delle leggi)”.

[114] In questo senso, a me sembra, possa intendersi quanto afferma T. MARTINES, Prime osservazioni, cit., p. 852 s., a proposito delle conseguenze della inosservanza dei termini fissati nel dettato costituzionale: «la loro inosservanza ha inciso sia sulla pare organizzativa sia sulla parte sostantiva della Carta fondamentale, ha provocato, cioè, conseguenze in ordine alla tutela di particolari situazioni giuridiche soggettive dei singoli e degli enti pubblici territoriali. Ne consegue che, in una visione complessiva, ai termini in esame va assegnato, oltre che un valore politico nella misura in cui sono ritenuti vincolanti per gli organi di indirizzo politico, anche un valore giuridico, ove si osservi che i mancati o i tardivi adempimenti costituzionali hanno reso inoperante tutta una serie di istituti e di garanzie; per cui può ben affermarsi che la sanzione c’è stata ma ha colpito non già (come avrebbe dovuto) gli organi di direzione politica per la loro inadempienza bensì quei soggetti che dal rispetto dei termini avrebbero tratto ulteriori garanzie per le loro situazioni giuridiche o la loro giuridica esistenza» (p. 853). Sembra che questo, oggi, sia particolarmente vero e per l’istituto regionale e per lo Stato stesso così come delineato dal Costituente. A conclusioni simili, in ordine alla tardiva attuazione dell’istituto regionale, giunge P. CIARLO, La Costituente: nascita di una Costituzione, in Dem. dir., n. 1, 1994/95, p. 249, il quale afferma che «se ad esso fosse stata data attuazione generale subito dopo l’entrata in vigore della Costituzione, come allora si immaginava, il suo impatto sarebbe stato sicuramente diverso».

[115] Così, C. MORTATI, Considerazioni sui mancati adempimenti costituzionali, in Studi XX Costituente, vol. 4, Firenze 1969, p.482, in riferimento alla negativa esperienza delle Regioni istituite al momento in cui scriveva: «Se risultati del tutto negativi sono ricavabili dall’esperienza fornita dalle Regioni finora istituite, essi sono, per una parte, addebitabili ai criteri seguiti nel disporne l’ordinamento, e nelle prassi che si sono ad essi innestate: criteri in tutto contrastanti con le direttive costituzionali e con lo spirito che le informava: da quelle relative all’ordinamento finanziario, fatte apposta per incitare allo sperpero ed alla irresponsabilità, alle altre riguardanti l’obbligo del decentramento interno delle regioni, o l’utilizzazione degli uffici locali già esistenti allo scopo di ridurre al minimo l’apparato burocratico regionale, o ancora il passaggio dei funzionari dello Stato negli uffici locali che ne hanno assorbito le competenze. Negativamente ha inciso, per un’altra parte, sull’esperienza regionale l’influenza della classe dirigente nazionale che (specie nelle Regioni meridionali nelle quali la deficienza di maturità politica si presentava quale necessario riflesso della depressione economica) ha intessuto una rete di nefaste clientele, fonte di corruzione e di ulteriore decadimento del costume, compromettendo così il conseguimento della finalità di educazione alla democrazia, cioè di una fra le più essenziali della vitalità della riforma regionale». Non si possono non condividere, attualizzandole con riferimento anche alle regioni a statuto ordinario, le riflessioni del Mortati, nel qual caso ci troveremmo davanti, oltre che a un’ipotesi di inattuazione parziale della Costituzione, a una fattispecie inquadrabile come attuazione contra Constitutionem. Ibidem, p. 473, sulle perplessità destate dai criteri adottati dall’Assemblea Costituente per la determinazione delle circoscrizioni regionali e sulle preoccupazioni nascenti dalla immutata ignoranza, alla vigilia della costituzione delle regioni, «delle condizioni suscettibili di renderle vitali nel loro interno e utili per la determinazione della politica generale». Riguardo ai criteri che hanno ispirato Stato e regioni nella distribuzione dei finanziamenti pubblici, seppure con riferimento alla inattuazione dell’art. 9 Cost. (La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico della Nazione), vale la pena riportare le parole di S. DE SIMONE, op. ult. cit., p. 748, «Del resto, la prova più eloquente dell’inattuazione del fondamentale principio di cui all’art. 9 Cost... è fornita dallo stato di abbandono e di deperimento in cui versa gran parte del patrimonio storico e artistico della Nazione; e, quanto ai finanziamenti pubblici ad istituzioni e fondazioni culturali, Stato e Regioni appaiono singolarmente accomunati dalla tendenza a distribuire i predetti finanziamenti secondo criteri di rigida lottizzazione in termini politici, con conseguente “ghettizzazione” delle istituzioni culturali non “allineate”». Di «lenta, faticosa e ancora incompleta attuazione da parte del nostro legislatore» della parte della Costituzione relativa al «riconoscimento e ancor più» al «promuovimento» delle autonomie locali (art. 5 e 114 Cost.) parla G. DOSSETTI, I valori della Costituzione italiana, in Arch. giur., 1995, p. 11. Id., Costituzione e riforme, in Quad. Cost., n. 2, 1995, p. 266 s., dove afferma essere alla base di tutte le proposte riguardanti la riforma delle autonomie degli enti territoriali, insieme a non sempre giustificati impulsi di protesta localistica contro l’eccessivo centralismo statale, soprattutto la tardiva e insufficiente attuazione delle autonomie regionali previste dall’attuale Costituzione.

Desta impressione, per l’attualità delle riflessioni sulla amministrazione del tempo, la commossa denunzia sullo stato di abbandono e di miseria in cui versava gran parte dell’Italia meridionale del patriota e letterato napoletano L. SETTEMBRINI, nell’opuscolo Protesta del popolo delle Due Sicilie, stampato alla macchia nel 1847, parte della quale, p. 37-44, è riportata da D. MACK SMITH, Storia d’Italia, vol. 1, edizione Euroclub Italia, su licenza Gius. Laterza & figli, (1984) terza ristampa 1990, p. 55 ss.

[116] F. BENVENUTI, La Costituzione fra attuazione e revisione: lo Stato in una società pluralista, in Iustitia, 1983, p. 15 s., seppure con riferimento al più ampio tema del pluralismo, parla di «riforma regionale, ancora oggi non completamente attuata, sia perché poco si è potuto fare nel campo dell’amministrazione centrale, poco in tema di rinvigorimento delle autonomie minori, incerto, comunque, l’indirizzo tra accentramento e decentramento; tra amministrazione autonomistica e amministrazione funzionale», e ancora, cercando di comprendere come si sia creata una profonda spaccatura tra paese legale e paese reale, trae la considerazione «che il riordino dello Stato-organizzazione non essendo ancora del tutto compiuto ed anzi manifestando ancora varie lacune di attuazione e spesso contraddizioni, costituisce un elemento di debolezza dell’intero sistema. Non è tanto il fatto che una organizzazione regionale sia più debole di una organizzazione centralizzata: è il fatto che la nostra struttura regionale non ha ancora raggiunto il livello di autosufficienza sia che la si consideri in sé, sia che la si consideri in rapporto con la perdurante forza dello Stato centralizzato e con la perdurante debolezza delle autonomie locali, privi, lo Stato e gli enti minori, di una legislazione che ne riconosca i valori nell’ambito di uno stato regionale, valori e compiti di direzione politica per il primo e di attuazione amministrativa, in stretto collegamento con gli amministrati, per gli altri». Nel senso dell’inattuazione, tra gli altri, anche degli artt. 114 e ss. Cost., si esprime anche G. GROTTANELLI DE’ SANTI, Il significato attuale della Costituzione italiana, in Studi Senesi, suppl. I, 1988, p. 173: «E sappiamo benissimo che vi sono parti della Costituzione che ancora attendono attuazione...come per l’art. 28 sulla responsabilità dei funzionari o per l’art. 97 sull’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione (comprensiva beninteso di quella regionale in tutti i suoi profili, a partire da quello contabile), o come per l’art. 114 e ss. sul decentramento regionale la cui realtà sembra spesso molto lontana dal modello costituzionale, buono o cattivo che fosse».

[117] Sulla mancata o insufficiente attività modificatrice e integratrice del legislatore costituzionale v. le osservazioni di A. PENSOVECCHIO LI BASSI, Brevi note su l’interpretazione e l’adeguamento delle Costituzioni, in Arch. Dir. Cost., I, 1990, p. 30 ss., ove l’Autore si esprime in senso molto critico anche per le conseguenze di tale inerzia in ordine all’interpretazione e spec., p. 35, dove, riguardo l’opera di revisione e di adeguamento delle disposizioni costituzionali da parte dei legislatori, dice doversi ritenere «periodicamente richiesta nel corso del tempo» e, nei casi in cui risulti necessaria, «doverosa per gli stessi legislatori costituzionali, dati gli scopi assegnati alle loro potestà». Sul punto v. anche, G. DE VERGOTTINI, Referendum e revisione costituzionale: una analisi comparativa, in Giur. Cost., I, 1991, p. 1398, il quale, in considerazione della natura di numerose norme costituzionali, risultato di un consenso conseguente a una mediazione fra le forze politiche che concorrono alla loro elaborazione tale da fargli assumere un carattere di ampiezza ed elasticità in grado di consentire «la realizzazione di politiche che, senza violarne il contenuto, si conformino ad ideologie diverse o finanche antitetiche», assegna all’opera di revisione un carattere di indefettibilità, ineludibilità e improrogabilità, qualora le esigenze politiche contingenti inducano ad interpretare il contenuto delle norme in modo diverso dal significato originariamente accolto. In questo caso non porre mano alla, giuridicamente necessaria e politicamente conveniente opera di revisione, “potrebbe significare approfondire la frattura fra realtà politica e cornice costituzionale e legittimare la pratica di procedimenti surrettizi tendenti a produrre le variazioni, ad esempio tramite convenzioni non condivise da tutti i soggetti interessati e comunque generando pericolose incertezze sulle «regole del gioco», surrogando il filtro garantistico rappresentato dal procedimento di revisione costituzionalmente disciplinato”. Ma v. pure, A. RUGGERI, Fonti e norme nell’ordinamento e nell’esperienza costituzionale, I, L’ordinazione in sistema, Torino 1993, p. 107 ove l’Autore sottolinea come, in un ordinamento a Costituzione rigida al quale è «coessenziale» la distinzione «fra la materia costituzionale e le materie restanti e la definizione di una forma tipica per la disciplina della stessa», non ci si possa esimere dal rispetto della «regola della corrispondenza di materia e forma» e, perciò, dalla necessità che la “materia costituzionale” trovi la sua valida regolamentazione, appunto, innanzi tutto nelle leggi costituzionali (p. 103). Ibidem, p. 226 ss., spec., p. 231, ove il Ruggeri molto opportunamente osserva: «E, piuttosto, può lamentarsi che non sempre le vicende di normazione si sono svolte all’insegna della coerenza (o della “ragionevolezza”) ed anche - perché no? - del coraggio al momento della scelta: come a riguardo dei diritti fondamentali (componenti nella loro sintesi concettuale e positiva “materia” sicuramente costituzionale, anzi la materia costituzionale per antonomasia, in seno a ordinamenti a tradizione liberal-democratica), laddove è purtroppo dato di riscontrare una certa, marcata tendenza alla “decostituzionalizzazione” di tipo formale (e, a mia opinione, anche una insufficiente tutela sostanziale), non essendo la relativa disciplina fatta sempre oggetto, come si sarebbe dovuto (e si dovrebbe), di un iniziale impianto con legge costituzionale».

[118] T: MARTINES, op. ult. cit., p. 791, afferma dipendere la durata di una Costituzione «da fattori esterni ed, in special modo, dalla permanenza nel tempo dei valori fondamentali in essa normativizzati e dalla capacità delle forze politico-sociali che l’hanno posta in essere di salvaguardare questo nucleo essenziale di fini e interessi ed il servente apparato organizzativo pur adeguandoli alle mutate esigenze della comunità statale». Sul ruolo di garanzia dell’effettività della Costituzione rigida svolto dal procedimento di revisione v. M. DOGLIANI, Interpretazioni della Costituzione, Milano 1982, p. 12 s. Ma v., anche, ibidem, p. 18 ss., per gli interrogativi che l’Autore pone circa la possibile apertura di «una crisi del ruolo stesso della Costituzione, o almeno di quel ruolo di prefigurazione giuridicamente garantita di un assetto razionale dei rapporti sociali e istituzionali, che ad essa è stato assegnato nella lunga polemica per rivendicarne l’attuazione», possibile origine di posizioni svalutative della stessa, non riconducibili, dunque, alla richiesta di una sua «riforma», ma tendenti «piuttosto ad affermare linee di razionalità istituzionale diverse ed ulteriori rispetto a quelle espresse dalla disciplina costituzionale» e aventi come interlocutori direttamente il potere politico e l’opinione pubblica scientifica a prescindere dal richiamo alla necessità della ridefinizione formale delle norme (e qui l’Autore cita proprio il caso della realizzazione dell’ordinamento regionale). Sulla tesi tendente a revocare in dubbio il ruolo della Costituzione, “come «vincolo pregiudiziale di legittimità», e dunque la sua capacità, in quanto dotata di una propria autosufficiente razionalità, di porsi come fonte della razionalità che ispira e pervade l’ordinamento” v. pure: L. D’ANDREA, op. ult. cit., p. 154 ss., ove l’Autore risponde affermando che: “a simile tesi si può riconoscere solo un valore descrittivo, riflettendo precisamente la patologia del sistema; sotto il profilo deontologico (cioè giuridico), bisogna invece individuare nella Costituzione il «principio d’ordine immanente» dell’ordinamento, la cui funzione propria (e ragione della sua preminenza) consiste nel «condizionare la validità delle varie attività dello Stato», riunendo in unità la complessa trama dei rapporti che nell’ordinamento si svolgono: essa determina l’unità delle norme di un ordinamento giuridico, in quanto «condizionamento delle manifestazioni ordinarie e primarie dell’ordinamento giuridico» e proprio in quanto principio della produzione normativa, è caratterizzata essenzialmente da un intimo dinamismo, tendendo a svilupparsi e realizzarsi nel sistema giuridico che da essa origina...E ancora da considerare come la Costituzione italiana vigente, in quanto espressione, nella sua genesi e nell’ideologia che la pervade, del costituzionalismo dello Stato sociale...si pone l’obiettivo di instaurare un ordine sociale diverso da quello che risulterebbe dallo spontaneo dinamismo della società civile, delineando un programma, sia pur spesso in modo generico, di cui la successiva legislazione non può che essere attuazione e svolgimento”.

[119] Si concorda pienamente, perciò, con G. SILVESTRI, Spunti di riflessione sulla tipologia e sui limiti della revisione costituzionale, in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, II, Milano 1987, p. 1205, quando afferma: “Non si intende certo presentare il quadro di una Costituzione «bloccata», immodificabile. La dimensione temporale è essenziale per lo stesso concetto di Costituzione, che non può esprimere un impossibile e antistorico immobilismo istituzionale, né può d’altra parte divenire teatro di continui esperimenti di «ingegneria» astrattamente concepiti. La Costituzione deve essere il punto di equilibrio tra l’esigenza di conservare le conquiste già acquisite della civiltà giuridica e le prospettive di rinnovamento che si manifestano nel fluire del tempo: in tal senso essa è sintesi di passato e presente e si proietta nel futuro”.

[120] V. sul punto, Crisi e riforma delle istituzioni: intervista a Giuseppe Ferrari (a cura di P. G. GRASSO), in Il Politico, n. 3, 1990, p. 413 ss.: «Io intendo dire che il mio scetticismo ha trovato alimento nella constatazione e convinzione che i mali dell’Italia sono negli italiani, nella nostra faciloneria, nella nostra magniloquenza, nel nostro cinismo, che sono vizi nazionali innati e coltivati. Tanto per cominciare, un fenomeno tutto italico è questo: da noi, quando e là dove le cose non vanno bene, ne rigettiamo la colpa sulle leggi, rimuovendo, così da noi ogni responsabilità. Adesso è il turno della Costituzione; è essa colpevole dei nostri mali, e basta cambiarla perché l’Italia diventi il migliore dei mondi. Io paragono la nostra classe politica al giocatore d’azzardo, che più perde e più insiste, confidando sempre nella puntata vincente. L’Italia di oggi è una fucina di leggi e di riforme. Nella nona legislatura sono state sfornate circa 800 leggi ed in quella in corso, che è appena al terzo anno, già più di 600. E le Riforme? Il momento applicativo non interessa....Deve pur esserci una ragione di questo divario di comportamenti, ed io credo che la ragione possa essere questa: noi abbiamo scarsa fede, per cui nella vita pubblica facciamo sceneggiate, ma non raggiungiamo mai quell’alta tensione senza la quale non si verificano profondi cambiamenti» (p. 415). A. PACE, In difesa della naturale rigidità della Costituzione, in Giur. Cost., 1995, p. 1218, osserva: “La storia ci ha insegnato che la Costituzione di Weimar morì perché fu «tradita» dalle istituzioni - tra cui lo stesso Tribunale costituzionale di Lipsia - che invece avrebbero dovuto «difenderla e attuarla». Ma una Costituzione può essere tradita anche più subdolamente e, cioè, da un lato, delegittimandola con le critiche e, dall’altro, lasciandola morire nei fatti: cioè non procedendo tempestivamente, nelle dovute forme, di volta in volta, alle puntuali modifiche che i tempi e la prassi avessero reso necessarie. Ed è questo il rischio che corre l’attuale nostra Costituzione”. Infine afferma G. DOSSETTI, op. ult. cit., p. 265: «Ma le degenerazioni assistenzialistiche del nostro recente passato - che hanno portato al gonfiamento della spesa pubblica, alla mortificazione dell’iniziativa economica privata, alla deviazione clientelare e alla connivenza tra politica e affari privati o addirittura malavita organizzata - non solo non potevano trovare nessun germe e nessun incentivo, anche remoto, nella lettera e nello spirito della Costituzione repubblicana, ma anzi contraddicevano norme testuali e tutto l’impianto generale, a garanzia della libertà e dell’uguaglianza dei cittadini».

[121] Sul punto v. comunque, in un ottica opposta dalla nostra, F. COCOZZA, Crisi extraparlamentari e crisi extrapartitiche nella recente esperienza governativa italiana, in Dem. e dir., 1974, p. 123 ss., spec., p. 156, ove l’Autore sostiene emergere chiaramente dalla prassi, nel vigente regime parlamentare, come le dimissioni volontarie del Gabinetto, non siano più una libera scelta né si pongano mai in alternativa ad una mozione di sfiducia ex art. 94 Cost., ma costituiscano per lo più la conseguenza della sfiducia dei partiti di maggioranza nelle loro delegazioni al Governo. Ibidem, p. 166, «Ciò che conta è che una tesi che miri a riportare la fattispecie delle dimissioni del governo alla lettera dell’art. 94 è anacronistica e, perciò, improponibile». V. anche, L. VENTURA, Il Governo a multipolarità diseguale, Milano 1988, p. 16 ss., il quale, affermando «la necessità di leggere il modello costituzionale formale attraverso i dati della sua osservazione empirica» (p. 18), sostiene non essere «dunque scandaloso se le crisi di governo mai sono il seguito di un voto di sfiducia in parlamento» (p. 16). V. però, per un intelligente inquadramento del problema relativo alla prassi elusiva dell’art. 94, comma II, Cost., G. D’ORAZIO, In tema di rapporti tra Presidenza della Repubblica e Governo nella più recente esperienza costituzionale italiana (1978-1982), in Riv. trim. pubb., 1983, 1184 ss. Inoltre, A. RUGGERI, Le crisi di governo. Tra ridefinizione delle regole e rifondazione della politica, Milano 1988, p. 90, il quale sottolinea come, per l’obbedienza dovuta «verso una regola direttamente desumibile dal sistema costituzionale», anche l’atto di apertura delle crisi nate fuori dal Parlamento deve «possedere una congrua giustificazione». Ibidem, p. 91, dove, dopo aver  messo in rilievo che «la relativa motivazione assume, ad un tempo, la qualità di elemento formale di validità dell’atto cui afferisce (costituendone, per questo verso, limite strutturale interno) e condizione di legittimità (limite funzionale) dell’attività compiuta», dà conto delle ragioni che possono dare correttamente luogo alla apertura di una crisi per impulso del Governo.

[122] C. MORTATI, op. ult. cit., p. 489 s., addebitava l’inazione e la stasi caratterizzanti la politica dello Stato al circolo creatosi «fra, da una parte, le pressioni di interessi frazionari che agiscono sui partiti pregiudicandone la specifica funzione di mediazione e di equilibrazione al livello che meglio si approssimi al massimo vantaggio del maggior numero e, dall’altra, la tendenza dei partiti a favorire la soddisfazione dei medesimi interessi che si rivelano necessari al mantenimento del potere, e cioè a sacrificare...alle esigenze del potere quella della autorità dello Stato». Sulle possibili ragioni alle origini delle vicende attuative della Costituzione v., inoltre, le osservazioni svolte da S. GALEOTTI, Strutture garantistiche e strutture governanti nel modello e nella realtà costituzionale, in Il Politico, 1976, p. 618 s.

[123] Già C. MORTATI, op. ult. cit., p. 465, parlava nel 1969 di sostanziale divergenza fra il sistema che il Costituente volle porre in essere e l’attuazione che di esso è stata data. «Allo scadere del primo decennio il bilancio delle realizzazioni, da varie parti effettuato, era risultato veramente fallimentare, non solo e non tanto sotto l’aspetto della mancata messa in opera di uno o più degli istituti che erano stati previsti, quanto e soprattutto pel contrasto della complessiva attività dell’organizzazione e dell’azione politica con le supreme finalità additate dal Costituente. La ricorrenza del secondo decennio trova una situazione sostanzialmente immutata, ed anzi, ad onta di quanto potrebbe a prima vista apparire, in qualche modo peggiorata». Oggi potremmo aggiungere che dopo mezzo secolo appare così attuale la riflessione dell’insigne studioso che la Costituzione sta per essere consistentemente modificata anche nel suo testo scritto ed in modo da intaccare il quadro valoriale che la ispira. Di inattuazione quasi completa della Costituzione, dal momento che basta scorrerne le norme per rendersi conto del fatto che solo talune di esse hanno ricevuto piena applicazione, scriveva, G. D’ALPA, Ruolo attuale della Costituzione e modelli interpretativi. Una nota bibliografica, in Riv. trim. civ., 1979, p. 781, dopo aver sottolineato che «Il testo della Costituzione, nella sua sobria solennità, pone a ciascuno di noi (uomo politico, operatore economico e sociale, giurista o cittadino comune) un grave, inquietante problema, che, in termini molto semplici - forse semplicistici - si può esprimere nella co-responsabilità nella inattuazione della carta costituzionale. E non solo nella inattuazione dei princìpi fondamentali, con cui si apre la legge fondamentale dello Stato, ma anche delle norme (se non di dettaglio, certamente) meno impegnative e meno generali, che sono via via contenute nei rapporti etici, economici e sociali». L’affermazione circa le modificazioni tacite subite dalla Costituzione italiana del '47 trova riscontro in quanto scritto da A. PIZZORUSSO, Riformare la Costituzione, in Dem. e dir., n. 1, 1979, p. 100. Qui l’Autore, dopo avere sottolineato la normalità del fenomeno (per qualunque Costituzione), sostiene le stesse aver importato l’alterazione delle disposizioni costituzionali, «talvolta in piena consonanza allo spirito in cui esse furono adottate, talvolta in parziale deviazione da esso».

[124] Salvo che si tratti di osservare le norme costituzionali concernenti il procedimento di formazione delle leggi. V. sul punto, in particolare, la sent. n. 9 del 1959 nella quale la Corte ha stabilito essere di sua competenza l’accertamento della conformità al testo effettivamente approvato di quello che il Presidente di una Camera attesta essere stato approvato nel suo messaggio di trasmissione all’altra Camera (ex art. 70 Cost.) e del mantenimento nei limiti dell’autorizzazione dell’esercizio del potere di coordinamento di cui sia stata investita la Presidenza della Camera. Ma v. pure sent. n. 214 del 1987 e 379 del 1996. La questione relativa alla sindacabilità degli interna corporis è infatti ben più complessa del profilo (per esigenze di sintesi in un lavoro non ad essi specificamente dedicato) accennato nel testo; ci sembra comunque necessario aggiungere, al fine di una maggiore chiarezza, che non si esclude (anche alla luce della stessa giurisprudenza in materia) la possibile caducazione, in sede di giudizio per conflitto di attribuzioni, di atti o attività compiuti all’interno delle Camere qualora la loro efficacia non si esaurisca all’interno delle aule parlamentari, ma siano invece idonei a produrre effetti esterni lesivi di competenze di altri organi costituzionali. Su questo, con riferimento ai regolamenti parlamentari, v. A. RUGGERI, Fonti e norme, cit., p. 194. Sulla collocazione nel sistema delle fonti dei regolamenti parlamentari e sulla loro sindacabilità da parte della Corte costituzionale, v: T. MARTINES, in T. MARTINES, C. DE CARO, V. LIPPOLIS, R. MORETTI, Diritto parlamentare, Rimini 1992, rist. 1996, p. 54 ss. Sugli “interna corporis” cfr: T. MARTINES, Diritto Costituzionale, cit., p. 341 e 592 ss.

[125] V. comunque, S. TOSI, op. ult. cit., p. 66, il quale afferma non potersi rettamente parlare per l’inerzia legislativa circa l’attuazione costituzionale di inesistenza di sanzioni. L’Autore cita alcuni rimedi individuando “nella sfera delle attività degli organi costituzionali la mozione di sfiducia posta dai gruppi parlamentari con l’espressa motivazione delle inadempienze cui si faccia addebito al governo, «dominus» della legislazione. Mentre ai cittadini sono rimessi gli istituti della petizione e dell’iniziativa popolare delle leggi assieme alla possibilità, in quanto titolari di diritti soggettivi costituzionalmente garantiti di sollevare eccezioni di legittimità, impugnando dinanzi alla Corte per incostituzionalità sopravvenuta le leggi anteriori e indebitamente vigenti”. A parte quest’ultima ipotesi, e le possibili difficoltà costituite dal filtro giudiziale, l’Autore non poteva immaginare certo la sorte che avrebbero avuto gli altri istituti da lui citati. Ma acutamente proseguiva “Sotto questo profilo, il ricorso alla «fictio litis» cui ebbe ad accennare il Mortati, si rivela valido strumento di garanzia per richiamare al lealismo costituzionale forze politiche istituzionalizzate apertamente decise a pretermettere ai loro fini politici, in parlamento come nel governo, la compiuta configurazione dell’ordinamento voluto dalla Carta, col trasparente pretesto di un gradualismo attuativo che si risolve, nel fatto, in un comportamento indefinitamente sospensivo della Costituzione. In tal guisa, il comportamento omissivo troverebbe una collocazione nella tipologia positiva nel diritto costituzionale vigente, anche se - per la sua stessa natura - sfuggirebbe, almeno direttamente, al sindacato della Corte costituzionale. Non però al controllo (in senso lato) del Presidente della Repubblica, garante della Costituzione anche e soprattutto per le fattispecie anticostituzionali non altrimenti perseguibili, il quale potrebbe esercitare il potere di dissoluzione quando, esperite inutilmente attraverso atti inerenti al potere presidenziale di esternazione e di messaggio le facoltà connaturate al right to warn, ravvisasse insindacabilmente, convintone il governo, l’opportunità dell’appello al corpo elettorale”. A. SPADARO, Limiti del giudizio costituzionale in via incidentale e ruolo dei giudici, Napoli 1990, p. 33, giunge a conclusioni definite «sorprendenti e paradossali sul nostro sistema di giustizia costituzionale. È per lo meno singolare, infatti, che - salvo alcune comprensibili eccezioni [vizi formali e competenze residuali della Corte (conflitti fra enti e fra poteri)] - il tribunale costituzionale italiano può esser chiamato a dover giudicare di tutto il materiale normativo di rango “legislativo”, indipendentemente dal fatto che esso attenga o meno alla materia costituzionale (pur positivamente intesa), per il solo fatto che è contenuto in atti-fonte aventi “forza di legge”, e sia invece ad esso sottratto tutto il notevole materiale normativo “sublegislativo” (ma talvolta sostanzialmente primario) che certamente attiene alla materia costituzionale (in quanto più o meno attuativo della Costituzione). Non è un caso, almeno a parer nostro, che - soprattutto negli ultimi tempi - si siano formulati ampi progetti di “delegificazione” [cui non è estranea, forse, la tentazione di sottrarre al giudizio più penetrante (e accessibile) della Corte una parte del materiale normativo attualmente “legislativo”]». Sul problema delle omissioni legislative e sul processo attuativo della Costituzione in ordine alla sentenze “normative-attuative” della Corte costituzionale relative a quelle norme costituzionali per l’attuazione delle quali non è necessaria «l’interpositio legislatoris» v. comunque l’importante saggio di G. SILVESTRI, Le sentenze normative della Corte costituzionale, in Giur. cost., I, 1981, spec., p. 1704 ss. Ma sul punto v. pure, A. RUGGERI, op. ult. cit., p. 49 s., il quale, sulla sanzione “possibile” contro consuetudini contra legem (nel caso specifico l’Autore si riferisce alla sopravvenienza di una legge incompatibile con una consuetudine anteriore), afferma: «Non è, infatti, luogo, nel nostro come pure in altri ordinamenti, per annullamenti (o dichiarazioni di nullità) di consuetudini contrarie alla legge, bensì per il riconoscimento puro e semplice della illiceità di comportamenti di fronte al nuovo diritto. Il comportamento precede e determina, con la sua stessa esistenza, la formazione del fatto consuetudinario e, dunque, della fonte, la quale, a sua volta, circolarmente, è costitutiva della norma qualificatoria del fatto medesimo. La diversa, contraria qualificazione del comportamento offerta dalla legge incide, pertanto, direttamente ed esclusivamente su quest’ultimo, vale a dire sulla fonte-consuetudine e, per ciò pure, naturalmente, sulla norma da essa prodotta. In relazione al fatto consuetudinario, l’illiceità del comportamento fa tutt’uno con l’invalidità della fonte e l’unico modo per ripristinare l’autorità della legge (e, con essa, l’armonia del sistema) è la sanzione a carico del comportamento, che si converte immediatamente e si esaurisce per intero nella disapplicazione della fonte. Se si vuole, può anche riconoscersi che, così, la fonte (o la norma) resta - come dire? - sullo sfondo, mentre in primo piano si pone il comportamento, dal momento che non si dà alcun modo per sanzionare, con effetti erga omnes, l’invalidità, diversamente di quanto può aversi con riguardo ad ogni altra fonte (-atto): E, tuttavia, questa “stranezza”, che è - deve ammettersi - un limite per l’ordinamento, va ricondotta alla natura stessa del fatto consuetudinario, che è, e resta, appunto un... fatto. Ciò che non consente - come s’è venuti dicendo - di estendere ad esso pianamente le categorie usuali (abrogazione, annullamento, ecc.) cui si fa invece ordinariamente ricorso allo scopo di superare antinomie (apparenti o reali) insorgenti tra le fonti».

Sulla classificazione tra omissioni legislative c.d. relative e omissioni c.d. assolute, in ordine al sindacato della Corte costituzionale, v. comunque: F. DELFINO, Omissioni legislative e Corte costituzionale, in Studi Chiarelli, Milano 1974, p. 913 ss., spec., p. 919, dove l’Autore, dopo aver sostenuto l’inutilità pratica della distinzione, trae la conclusione che  “un problema circa la sindacabilità o meno delle omissioni legislative può, in ipotesi, insorgere con riferimento a tutte...le manifestazioni del fenomeno”. In virtù del fatto “che tra l’oggetto di disciplina delle norme omesse in violazione di precetti costituzionali e quello delle norme già vigenti in un dato settore si riscontra quasi sempre un qualche rapporto più o meno stretto, più o meno condizionante”, quasi tutte le omissioni legislative presenterebbero “un carattere, per dir così, «relativo»” e per quel rapporto, dunque, attraverso l’impugnativa delle disposizioni esistenti, sarebbe possibile far pervenire anche i comportamenti omissivi del legislatore all’esame della Corte.

[126] Sul punto v., fra i molti, T. MARTINES, op. ult. cit., p. 335 s., il quale afferma testualmente (p. 336): «In ogni caso, le conseguenze di questa disciplina possono essere aberranti. Si pensi, ad esempio, alla vicenda del terzo governo Andreotti che, nell’agosto del 1976, ottenne la fiducia alla Camera con soltanto 152 voti favorevoli su 605 presenti, non essendo stati computati, nel determinare la maggioranza, ben 303 astenuti; mentre al Senato, perché il Governo ottenesse la fiducia, fu necessario che un certo numero di senatori si allontanasse dall’aula...». Ma v. pure le considerazioni già svolte in precedenza da S. TOSI, op. ult. cit., p. 85 ss., il quale parla di manifesta lesione dell’art. 64 Cost., con un’alterazione che ha effetti anche in ordine agli artt. 70 e 72 Cost., determinando, e questo è il punto fondamentale, una modificazione tacita contra Constitutionem nel rapporto fiduciario, con gravi conseguenze politiche costituzionalmente rilevanti. «La esclusione degli astenuti dal computo della maggioranza, non solo per l’approvazione delle leggi ma anche per la mozione di fiducia e la questione di fiducia, predispone alla Camera una presunzione a favore della maggioranza ministeriale (intesa in senso politico e non aritmetico) di cui il governo ormai tradizionalmente si avvale. La circostanza è compiutamente apprezzabile se si pone mente che, mentre la legislazione elettorale determina al Senato maggioranze più stabili che alla Camera, il governo aggiungerà al vantaggio che il diritto elettorale gli reca al Senato quello che il diritto parlamentare gli dispone alla Camera, dove il sistema di cui si è discorso comporta, naturalmente, la fissazione di un quorum di maggioranza assai più agevole a raggiungersi di quello che si avrebbe adottando il procedimento del Senato». Ma, si potrebbe aggiungere, fittizio e assai più fragile di quest’ultimo. Sulla maggioranza nelle deliberazioni v. le interessanti considerazioni di, R. MORETTI, in T. MARTINES, C. DE CARO, V. LIPPOLIS, R. MORETTI, op. ult. cit., p. 260 ss., il quale si esprime in senso critico nei confronti della disciplina dettata dall’art. 48 R.C.D.

[127] Sulla disciplina dei modi di votazione successiva alle modifiche dei regolamenti parlamentari, v.: S. SCARROCCHIA, Le recenti modifiche alla disciplina del voto segreto nei regolamenti parlamentari: I) Cronaca del dibattito e procedimento di revisione, in Nomos, n. 4, 1988, p. 81 ss., ove viene descritto, in modo da far  emergere l’incidenza che nell’occasione hanno avuto le norme procedurali (e quindi le modalità organizzative del lavoro parlamentare) sul merito delle decisioni, il procedimento di revisione seguito nelle due Camere, e Id., Le recenti modifiche alla disciplina del voto segreto nei regolamenti parlamentari: II) Le «eccezioni» alla regola del voto palese, sempre nella stessa rivista, n. 2, 1989, p. 83 ss., dove, dopo una breve rassegna delle ragioni rispettivamente favorevoli o contrarie all’uno o all’altro dei modi di votazione, si sottolineano gli aspetti sostanziali della riforma sulle modalità di votazione, con particolare riguardo alle eccezioni alla regola del voto palese.

[128] Sul punto cfr: T. MARTINES, Diritto Costituzionale, cit., p. 337 ss. V., anche, la dottrina citata infra, nt. 130, per la stretta connessione tra la disciplina del modo di votazione e il divieto di mandato imperativo di partito.

[129] Significativamente, in un’ottica di diffidenza nei confronti del partito come organizzazione, fa riferimento all’art. 67 della Costituzione, P. GIOCOLI NACCI, L’anti-Montesquieu (tramonto del principio della distinzione delle funzioni), Bari 1989, p. 20.

Sulla rappresentanza politica v. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 284 ss., anche per l’utile bibliografia ivi riportata.

[130] Sul concetto di mandato imperativo, anche per profili storici in rapporto all’evoluzione dei partiti politici, v: A. SPADARO, Riflessioni sul mandato imperativo di partito, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, n. 67, 1985, p. 21 ss., spec. 48 ss., ove l’Autore, anche sulla base di un esame delle regole statutarie dei partiti, dei regolamenti dei gruppi parlamentari e dell’accresciuto ruolo di questi ultimi (dopo l’adozione dei regolamenti parlamentari del 1971) a scapito delle funzioni esercitabili dai singoli parlamentari, evidenzia “l’esistenza «reale» di un m. i. di partito, «formalmente» vietato dall’art. 67 della Costituzione”, il quale “per un verso legittima ancora l’uso del voto segreto in parlamento, per un altro induce ad amare riflessioni circa l’effettiva libertà di coscienza dei parlamentari” (p. 53). Ibidem, p. 42 ss., spec., p. 45, dove, nel contesto di un argomentazione volta a dimostrare, alla luce di «un’attenta analisi della prassi costituzionale italiana», la necessità del voto segreto come argine al mandato imperativo di partito, afferma: “L’abolizione del voto segreto equivarrebbe alla «definitiva ascarizzazione dei parlamentari» e alla legittimazione - in forma obliqua e strisciante - del mandato imperativo di partito”. Sul divieto di mandato imperativo, v pure, T. MARTINES, in T. MARTINES, C. DE CARO, V. LIPPOLIS, R. MORETTI, op. ult. cit., p. 77 s., spec., p. 78 s., ove l’Autore (MARTINES), dopo aver rilevato come la disciplina di partito «viene ad imporsi ed eventuali casi di ribellione vengono - di regola - puntualmente puniti, se identificati, con l’applicazione al parlamentare ribelle o riottoso di sanzioni disciplinari che possono giungere sino alla espulsione dal partito o alla non inclusione nelle liste elettorali alla scadenza del mandato», aggiunge che «le rilevanti modifiche alla disciplina del voto segreto, introdotte di recente nei regolamenti delle due Camere, hanno di gran lunga ridotto i margini entro i quali il parlamentare può sottrarsi alla disciplina di partito senza subire le eventuali conseguenze di questo suo comportamento; anche se occorre pur dire che la disciplina di partito appare, a determinate condizioni, essenziale in un sistema in cui la rappresentanza politica viene mediata dai partiti». Sul punto v. pure N. ZANON, Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art 67 della Costituzione, Milano 1991. Sullo status di membro del parlamento e sulle guarentigie concesse a deputati e senatori - anche per le perplessità sorte dal cattivo uso fatto di queste ultime nella vigenza della precedente normativa o dalla attuale formulazione dell’art. 68 Cost. -, cfr: T. MARTINES, Diritto Costituzionale, cit., p. 307 ss., spec., p. 309 s.

[131] Sul continuo e non lento tramonto dei tradizionali centri d’autorità, in primo luogo Parlamento e Governo, v. G. CORREALE, Anomalie nei rapporti fra poteri statali e loro composizione, in Scritti in onore di M. S. Giannini, vol. I, Milano 1988, p. 208 ss., spec., p. 214, dove l’Autore asserisce che il Parlamento, esautorato del potere autorevole di scelta, viene utilizzato quale strumento di formale sanzione di scelte già da altri effettuate. L’interrogativo postoci è tratto da, T. MARTINES, op. ult. cit., p. 269, il quale però, sedes materiae (p. 337) - se abbiamo bene inteso -, sembra propendere favorevolmente per il modo di votazione palese a condizione, però, di un effettivo processo di democratizzazione interna dei partiti consenziente la partecipazione degli iscritti alla determinazione della linea politica che dovrebbe poi diramarsi nelle varie istanze decisionali dei partiti, sino ai gruppi parlamentari, proiezione degli stessi nelle Camere. Ma sul punto v., ibidem p. 338, nt. 49, ove sono riportate le osservazioni di L. ELIA (A proposito di ridimensionamento del voto segreto, in Scritti in onore di E. Tosato, III, Milano 1984, p. 264 s.), con le quali si conviene pienamente. Di «fuga di potere» dall’area parlamentare verso i partiti causata nelle moderne democrazie dal quasi monopolio della rappresentanza politica e dalla disciplina degli eletti alle direttive di partito parla S. BONFIGLIO, Separazione dei poteri, sistema di governo e sistema partitico. Note su alcune recenti elaborazioni della dottrina italiana, in Il Politico, n. 1, 1992, p. 64.

[132] Ricordiamo, tra i tanti, l’omicidio dei giornalisti G. Fava fondatore dei Siciliani (periodico che successivamente ha incontrato enormi difficoltà, non solo economiche, nel continuare le pubblicazioni) e Beppe Alfano cronista della Gazzetta del Sud, e l’uccisione di don Pino Puglisi sensibile educatore nel formare le coscienze dei giovani palermitani.

[133] Se pure si può certamente convenire con quanto A. RUGGERI, Gerarchia, competenza e qualità nel sistema costituzionale delle fonti normative, Milano 1977, 324 s., afferma in merito ai tradizionali caratteri della «novità», «generalità», «astrattezza» e «impersonalità», “vere e proprie forzature dogmatiche del prodotto-fonte, rappresentazioni semplicistiche e statiche della «norma giuridica»”, la normativa dettata dalla legge Mammì si pone in contrasto proprio con quanto, acutamente, lo stesso Autore afferma essere la essenza della norma: “attività, come strumento privilegiato (e dinamico) di determinazione valutazione realizzazione degli interessi comunitari costituzionalmente rilevanti”. V. sul punto, A. SPADARO, La giustizia costituzionale italiana: da originario «limite» a moderno «strumento» della democrazia (pluralista). Cinque proposte, in Giur. it., parte IV, 1995, p. 233, il quale, dopo aver sottolineato la necessità in «una moderna democrazia costituzionale...di reali garanzie di pluralismo nell’informazione, quale ineludibile premessa logico-politica di una sana convivenza fra i gruppi che compongono le attuali società ...pluraliste (e quindi disomogenee perché interclassiste e multietniche)», ribadisce «quanto ormai emerge diffusamente, non solo fra gli addetti ai lavori: la necessità, per una parte, di una piena attuazione e, per l’altra, di una profonda revisione della legge n. 223/1990 (c.d. Mammì)». Sulla realtà dei mezzi di informazione in Italia e di un libero mercato che, «lasciato a se stesso, inesorabilmente distrugge i soggetti più piccoli e tendenzialmente conduce a restringere il piano dell’offerta, in una dimensione di segno monopolistico», v. G. DOSSETTI, op. ult. cit., p. 265, il quale scrive: “Già un autentico liberale, come Einaudi, avvertiva: «Il primo canone è che il male sociale ha le sue origini nel monopolio; e che la lotta contro le ingiustizie e le diseguaglianze sociali ha il nome di lotta contro il monopolio. Il monopolio sta alla radice delle sopraffazioni dei forti contro i deboli». Queste parole di quarant’anni fa sono oggi più che mai attuali, in un momento in cui un grande monopolista aspira alla suprema funzione di governo, detenendo nelle proprie mani una smisurata concentrazione di mezzi di informazione di massa”. Sulla necessità, in materie così delicate, di norme generali e astratte, v. A. BARBERA, cit., infra, nt. 134.

[134] A tal proposito v. AA.VV., La forma di governo in transizione, in Quad. Cost., n. 2, 1995, p. 219, dove A. BARBERA sottolinea la necessità di un ripensamento, anche sulla base delle esperienze fatte in altri paesi, della materia delle incompatibilità ed ineleggibilità, regolata da poche e arcaiche norme: «Non dobbiamo dimenticare che in base all’art. 10.1 del Dpr 30.3.1957 n. 361 è previsto che sia ineleggibile il rappresentante legale della Fininvest o il titolare in proprio di una concessione ma non lo sia, perché protetto dallo schermo della personalità giuridica, il proprietario quasi esclusivo delle azioni. Mi chiedo tuttavia se norme in materie così delicate che attengono all’art. 51 della Costituzione in ordine all’elettorato passivo possano non essere generali ed astratte». Ibidem (p. 234 s.), sempre sul c.d. conflitto di interessi, l’opinione di A. MANZELLA e di S. BARTOLE (p. 247 s.), anche per la vicenda relativa alla nomina a ministro di una esponente di una delle più grandi famiglie dell’economia italiana.

[135] Cfr., comunque, su radio e televisione: T. MARTINES, op. ult. cit., p. 721 ss., anche per utili riferimenti bibliografici. V. pure, precedentemente, G. COTTURRI, Processo costituente, in Dem. e dir., n. 4, 1991, 67 s. il quale metteva in evidenza l’importanza assunta dai media nel dibattito politico e il problema enorme che questo suscita anche in rapporto all’art. 21 della Costituzione, che non prevede «la libertà di uno» ad informare, né più in generale alcuna autorità informatrice, ma invece il duplice diritto di tutti a concorrere all’informazione e a essere informati implicante perciò uno statuto di pluralismo dell’informazione. In AA. VV. op., ult. cit., p. 220, A. BARBERA, evidenzia come “«nell’agorà elettronica», che si espande progressivamente” in cui «i messaggi diventano verticali ed essenzialmente unidirezionali» e nella quale «la stessa immagine è già un messaggio al di là della parola...chi controlla i mezzi televisivi può avere un potere di influenza fino ad oggi sconosciuto», e auspica «una presa di coscienza della complessità di questi problemi, che trascende di gran lunga» lo stesso conflitto di interessi.

[136] Piace ricordare quanto N. DALLA CHIESA scrive, nella prefazione al libro di C. FAVA, La mafia comanda a Catania 1960/1991, Roma-Bari 1991, p. XI ss., sul “vizio profondo e mortale della democrazia italiana”: “il primato assoluto della «democrazia delle leggi» sulla «democrazia dei costumi». È necessario, per capire il senso dell’osservazione, riandare per una attimo alla classica analisi condotta da Alexis de Tocqueville della democrazia americana del secolo scorso. Qual era la forza di quella democrazia? La sua forza sta nei costumi, rispondeva Tocqueville dopo averla conosciuta e averla letta con gli occhi dell’aristocratico francese. Sta nei costumi che sorreggono le leggi, che vengono prima delle leggi, che danno loro un senso, le rendono vita quotidiana e moralità pubblica operante. Sta dunque nel sentire popolare, che nelle leggi si trasferisce e dalle leggi trae ulteriore forza di significati. E in effetti la democrazia dei costumi non esclude le leggi. Anzi le vivifica. Di più: le vivifica al punto da renderle in parte superflue...Le democrazie moderne, quelle di solida tradizione inclinano perciò vistosamente verso il primato dei costumi, verso il primato di un’etica diffusa. Al contrario le democrazie deboli, fatte di forma più che di sostanza, di prescrizioni più che di comportamenti, hanno bisogno di fissare sempre più regole. Esse ricorrono alla legge come a un surrogato della cultura civile. E a volte sono talmente deboli da illudersi che il primato del cavillo sia sinonimo di elevata cultura giuridica di un popolo o di una civiltà...In questo divario di concezioni sta in fondo gran parte delle ragioni della polemica cosiddetta del garantismo o della «cultura del sospetto»; che è in realtà, come si può capire, una polemica che ha ben altro oggetto e spessore. Una polemica vinta finora nel nostro paese dalla democrazia delle leggi, che ha finito così per assestare colpi durissimi allo Stato di diritto. Brandendo la legge, una legge costantemente piegata alle ragioni del più forte, il potere corrotto ha trasformato la democrazia in un immenso tribunale, fatto di cavilli più che di ragione, di procedure più che di verità, di conflitti tra commi più che di libertà. Insomma, ha trasformato la democrazia in un regime”. A questa logica non sfugge anche la lettura della Costituzione se in virtù dell’art. 27, II comma, Cost: «L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» si è consentito e si consente che un pluricondannato o pluriinquisito per associazione mafiosa possa tranquillamente essere candidato alle elezioni o diventare interlocutore privilegiato in affari della pubblica amministrazione (ibidem, p. XIII). Ma è davvero questo che Benvenuti, Calamandrei, Dossetti, La Pira, Moro, Mortati, Nenni, Togliatti e gli altri Costituenti volevano dire approvando il suddetto articolo?

[137] S. TOSI, op. ult. cit., p.74, afferma trovare (negli Stati c.d. di democrazia classica) la Costituzione in senso materiale, il regime, «la sua connotazione più saliente - e che consenta i più proficui accertamenti in ordine alla Costituzione scritta - rispetto alle attività e ai comportamenti delle forze politiche istituzionalizzate, nel diritto elettorale e nel diritto parlamentare positivi. È infatti nel diritto elettorale che si misura concretamente il grado di rappresentatività, e quindi di democraticità di un regime, per quanto attiene alle modalità di selezione della classe politica». Ibidem, p. 75, «Sì che è a tutti nota la tendenza della maggioranza nell’abuso e nell’elaborazione della legislazione elettorale (con la quale essa ha da garantirsi per la futura selezione al potere) e nella procedura e prassi parlamentare, con cui essa mira per intanto al più proficuo esercizio del potere medesimo». Sui sistemi elettorali v., fra i moltissimi, gli interessanti scritti di G. AMATO, Il dilemma del principio maggioritario, in Quad. Cost., n. 2, 1994, p. 171 ss., e di G. U. RESCIGNO, Democrazia e principio maggioritario, sempre nella stessa rivista, p. 187 ss., il primo anche in relazione a una lucida analisi sulle origini storiche delle diverse accezioni del principio maggioritario nell’Europa continentale e nel  mondo anglosassone e per le conseguenze che il principio stesso proietta nei sistemi ispirati ad una concezione monistica della separazione dei poteri (quelli dell’Europa continentale) e in quelli ispirati ad una concezione pluralistica (nel mondo anglosassone); il secondo soprattutto per il rapporto tra sistemi elettorali ispirati ora al principio maggioritario ora a quello proporzionale, democrazia e partecipazione democratica (spec. p. 209 ss.. e p. 215 ss.). Concorda con la tesi circa l’inconciliabilità con l’attuale assetto costituzionale di una democrazia maggioritaria A. BARBERA, Transizione alla democrazia maggioritaria? Riflessioni in due puntate, in Quad. Cost., n. 3, 1994, p. 373, l’Autore infatti si interroga domandosi se le attuali “leggi maggioritarie, con tutti i limiti che ne hanno contraddistinto l’approvazione, porteranno anche ad una democrazia maggioritaria” e afferma che una risposta positiva al quesito “confermerebbe l’opinione che si è di fronte non ad un semplice cambiamento delle leggi elettorali ma addirittura ad uno scenario che può preludere ad una modifica «tacita» dello stesso assetto costituzionale”. A. PIZZORUSSO, Il principio maggioritario: vecchi e nuovi problemi, in Questione giustizia, n. 1, 1995, p. 14, contesta, in base alla considerazione che il sistema elettorale adottato con le leggi del 1993 non assicura né il bipartitismo né la stabilità governativa, definendola indebita, la deduzione che tramite di esso si sia realizzata la democrazia maggioritaria, e definendo particolarmente indebite le deduzioni circa le conseguenze ulteriori tratte da questo supposto accadimento, come «quando si è affermata la doverosità che, in base alle innovazioni introdotte, la maggioranza dovesse occupare con propri esponenti anche cariche che sono state tradizionalmente considerate titolari di funzioni neutrali, come ad esempio le presidenze delle Camere o le autorità di controllo dei mezzi pubblici d’informazione». Si comprende e si condivide la visione e la tensione verso la democrazia e la tutela delle minoranze del Pizzorusso, e con esse anche le preoccupazioni destate da alcuni atteggiamenti delle forze politiche uscite vittoriose dalla competizione elettorale del 94, il problema però rimane quello di uno Stato di diritto fondato su una Costituzione tutta ispirata dal principio proporzionalistico e di fatti, presentati sotto la veste del diritto, i quali teoricamente potrebbero permettere che si dia vita a un governo o, peggio ancora, che si proceda, come diremo in seguito, alla riforma della Costituzione sulla base di un consenso elettorale di gran lunga inferiore al 50% dei voti validamente espressi. Le riflessioni del Pizzorusso, unite ai risultati delle elezioni politiche del 94 e del 96, potrebbero essere invece indicative della “consapevolezza” del voto espresso nel referendum del 18 aprile 1993. In Italia (ancora), al di là delle affermazioni di chi avendo a disposizione i mezzi necessari, vuole fare, a tutti i costi, diventare maggioranza le proprie convinzioni o, nell’ipotesi peggiore, i propri interessi, non solo la Costituzione, ma anche il consenso elettorale sembra ispirarsi al principio proporzionalistico.

[138] Colpisce, per la lucidità delle riflessioni, quanto M. RAVERAIRA, Il referendum abrogativo: un istituto da «abrogare», in Dir. Soc., 1990, p. 77 ss., dice a pag. 79, dopo aver sottolineato come l’analisi sul ruolo delle formazioni sociali e politiche, come soggetti di azione e di comportamento, abbia già dimostrato, alla luce dell’esperienza storica, quanto illusorio sarebbe pretendere di assumere la democrazia diretta a risolutivo rimedio dei disagi e dei mali di quella rappresentativa: «Anche a prescindere, cioè, da altri ordini di considerazioni, è comunque innegabile che, nella realtà, sia per il suo dover essere sollecitata su una domanda predisposta, sia per la struttura necessariamente semplificatoria del processo decisionale popolare, che mal consente la conoscibilità e la piena valutazione degli effettivi e contrapposti interessi in gioco, la volontà degli elettori risulta variamente, ma fittiziamente condizionabile. Talché la sembianza di democrazia è suscettibile di mascherare la reale formazione organizzata che dietro ad esso si sviluppa, il cui potere ed i cui scopi, proprio perché occultati, diventano molto più incontrollabili di quanto, bene o male, non siano, invece, nei procedimenti di decisione e di azione delle forze rappresentative di governo. Di là dalle petizioni e dagli assunti di principio, è dunque nella realtà socio-politica che lo strumento referendario, checché se ne voglia dire, si appalesa poi, per sua natura, tendenzialmente ben poco idoneo a consentire l’adozione di scelte di merito meditate ed autonome, non conseguenti a moti emozionali, indotti da quei gruppi che detengono i mezzi per influenzare ed aggregare il consenso». G. U. RESCIGNO, op. ult. cit., p. 230, definisce il referendum sulla legge elettorale svoltosi il 18 aprile 1993: «tanto confuso e ambiguo da accomunare posizioni profondamente diverse».

[139] Sul procedimento elettorale e il meccanismo di assegnazione dei seggi v. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 292 ss., il quale a p. 296 testualmente afferma: «Il meccanismo dello scorporo è molto macchinoso e, in questa sede, non è possibile descriverlo nei particolari». Si tratta di una valutazione di un illustre costituzionalista in un testo indirizzato a degli studenti di giurisprudenza, e sembra davvero strano che una materia così delicata come quella elettorale sia stata messa (con il referendum) nelle mani di chi, non appartenendo al mondo dei “competenti” necessariamente non ha i mezzi per effettuare valutazioni appropriate. Mi chiedo, a volte, di fronte alla ormai esorbitante, continua e forse strumentale richiesta di consultazioni referendarie su leggi relative alle più disparate e delicate materie, cosa ci stiano a fare la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, supremi organi legislativi dello Stato. E mi chiedo, anche, se molte questioni che arrovellano i giuristi ai massimi livelli e involgono conoscenze scientifiche di notevole portata, sia opportuno rimetterle nelle mani del quisque de populo il cui consenso tutti sappiamo essere facilmente manipolabile. È questo ciò che richiede un’autentica democrazia per la sua crescita e il suo sviluppo? Non si vuole qui sostenere una concezione elitaria della politica, mi domando solamente se è opportuno. V. a tal proposito, S. BONFIGLIO, op. ult. cit., p. 67, il quale, in considerazione del carattere prevalentemente abrogativo del referendum nel nostro ordinamento, dubitava dell’idoneità di tale strumento «a modificare complessivamente il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi», preferendo, sotto l’aspetto giuridico che a tale compito adempisse, sotto la spinta del «Comitato per i referendum elettorali» e in tempi brevi, il Parlamento. Ibidem, p. 66, nt. 48, ove cita la tesi di F. LANCHESTER, I referendum elettorali, Roma 1992, p. 36, per il quale «in relazione alla forma di Stato vigente e alle finalità dello stesso referendum nel nostro ordinamento, la materia relativa al sistema elettorale in senso stretto (quella attinente al meccanismo di trasformazione dei voti in seggi) non possa che essere decisa dal legislatore parlamentare». A sostegno di quanto si va dicendo, anche, la vicenda davvero singolare, che vide come protagonista la stessa Assemblea Costituente, riportata da T. E. FROSINI, Sovranità popolare e democrazia diretta alla Costituente, in Queste Istituzioni, 1994, p. 299, concernente l’emendamento, votato e approvato, presentato dall’on. Rossi, che includeva tra le materie non sottoponibili a referendum abrogativo (ex art. 75) le leggi elettorali, delle quali però non si troverà traccia nel testo definitivo della Costituzione sottoposto alla votazione finale; vicenda definita dal Ruini (cit. ivi nt. 52): «disavvertenza incresciosa», ma, aggiungeremmo, gravida di conseguenze. Infine, A. PIZZORUSSO, Il principio maggioritario, cit., p. 6, il quale, tra le difficoltà del ricorso al referendum, evidenzia la inopportunità di farvi luogo per decisioni che implichino scelte numerose o complesse e la possibilità di una sua strumentalizzazione da parte di “coloro che detengono il potere per far apparire l’esistenza nei loro confronti di un consenso maggiore di quello realmente esistente (dando luogo così a forme di «plebescito»), oppure da gruppi minoritari i quali ricorrano ad esso per ragioni di carattere tattico che vanno al di là della deliberazione cui il referendum esplicitamente si riferisce (come nei casi di «referendum di stimolo» nei confronti degli organi costituzionali, ed ancor più nei casi di «referendum di rottura», tendenti a realizzare l’aggregazione di forze che intendono così mettere in difficoltà e in discussione il sistema politico attualmente in funzione)”. Sulle «delusioni del maggioritario» e sulle «asimmetrie elettorali» createsi tra i vari sistemi elettorali [nazionale, regionale, provinciale, comunale (a parte il sistema elettorale per il Parlamento europeo)] v. l’intervento di A. MANZELLA, in AA. VV., op. ult. cit., p. 230 ss., spec. 233 ove l’Autore, con riferimento all’impegno del legislatore sul nuovo sistema elettorale regionale, in merito al punto fondamentale della distinzione tra mandato a governare e mandato a rappresentare, dice essere: punto perseguito “con audacia di fronte agli impedimenti costituzionali” e riporta alcuni esempi di «aggiramento» della normativa costituzionale, come per l’art. 122 Cost. sulla elezione consiliare dei presidenti delle regioni “«aggirato» con il sistema della «indicazione» elettorale diretta dei candidati a presidente” e per “l’art. 126 Cost. sullo scioglimento dei consigli regionali «aggirato» con la previsione di una riduzione della durata consiliare (non fissata in Costituzione) per la ipotesi di rottura del rapporto «fiduciario» tra consiglio e presidente”. Aggiunge, infine, che non aver accolto però il principio del doppio turno ha implicato il verificarsi della “gravissima conseguenza...di presidenti di regione «eletti» da una minoranza del corpo elettorale (sebbene «formalizzati» dalla maggioranza consiliare per effetto della dote di seggi in più che il candidato presidente prescelto porta con sé)”. E ancora: “la candidatura a premier di Romano Prodi sembra preludere ad un altro e più radicale «aggiornamento» elettorale della Costituzione con la formula, già sperimentata alle regionali, della «indicazione» elettorale diretta del capo del governo”. Esprime giudizio negativo sui nuovi meccanismi elettorali, anche, F. LANCHESTER, in AA. VV., op. ult. cit., p. 250. V., infine, P. ZANCHETTA, In difesa della Costituzione (la costruzione dello Stato costituzionale), in Questione giustizia, n. 1, 1995, p. 85, sull’allontanamento di interi settori di popolazione dall’interesse per la politica con la conseguente incapacità di pensare collettivamente che può provocare un sistema elettorale a vocazione dirigista.

[140] Cfr. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 283 s. In precedenza G. BERTI, Profili dinamici della sovranità statale, in Studi in onore di Lorenzo Spinelli, vol. IV, Modena 1989, p. 1290 s., si era espresso nel senso della rappresentanza proporzionale, dato acquisito, come omaggio alla tutela delle minoranze e al formarsi dell’opinione pubblica, che deve valersi appunto di una pluralità di interpreti politici, rimanendo così impedito il formarsi di volontà maggioritarie potenzialmente in grado di soffocare vitali dissensi. Anche A. BARBERA, op. ult. cit., p. 373 ss., parla di legislazione italiana che ha incorporato le forme proprie di una democrazia proporzionalistica e di impronta proporzionalistica della Costituzione italiana dovuta alla consolidata storia italiana (p. 374 s.). G. DOSSETTI, op. ult. cit., p. 272.

[141] Sul punto, con convincenti argomentazioni si esprime: A. REPOSO, La forma repubblicana secondo l’art. 139 della Costituzione, Padova 1972, p. 112 ss., il quale trae le sue conclusioni, oltre che da un’attenta analisi del dettato costituzionale, anche sulla base dei criteri e del metodo adottati in ordine al diritto elettorale attivo per l’Assemblea Costituente conformi ai princìpi democratici ai quali si ispirava il nascente ordinamento e dagli orientamenti che prevalsero, poi, nell’Assemblea Costituente: la quale «preferì per la prima elezione della Camera dei deputati e per la stessa elezione del Senato due metodi sostanzialmente proporzionali. Inoltre, in sede di lavori preparatori fu approvato - il 23 settembre 1947 - un esplicito ordine del giorno nel quale si faceva presente l’opportunità di adottare per il futuro un sistema di tipo proporzionale. Infine, tale sistema fu consacrato in modo esplicito nelle leggi costituzionali di approvazione degli Statuti siciliani, sardo e altoatesino» (p. 114). Sulla coessenzialità alla forma storica di repubblica adottata in Italia, e perciò immodificabilità, tra gli altri princìpi, di un sistema elettorale proporzionale a liste concorrenti di candidati, anche, G. VOLPE, Sub art. 139, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca (artt. 134-139), Bologna-Roma 1981, p. 744 s.

[142]Cfr. G. SILVESTRI, Spunti di riflessione, cit., p. 1187, ove l’Autore si esprime nel senso che l’introduzione di un sistema elettorale ispirato al principio maggioritario, addirittura attraverso una nuova norma costituzionale, ponga una questione di limiti alla revisione, per l’incidenza che tale innovazione avrebbe “sul «senso» complessivo delle norme costituzionali che delineano i rapporti tra popolo (corpo elettorale) ed organi costituzionali rappresentativi” creando “il problema - quanto meno interpretativo - di disposizioni, quali, tra le altre, l’art. 72, 3° comma, e 82, 2° comma, Cost., che sembrano legate ad una logica proporzionalistica”. Sempre lo stesso Autore si esprime successivamente (Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico: un rapporto complesso, in Quad. Cost.., n. 2, 1989, p. 241), in termini stavolta che sembrano meno decisi, sull’incerta esistenza «di un principio proporzionale, rilevabile da una serie di disposizioni costituzionali, che dovrebbe ispirare la legislazione elettorale», ma comunque ragione sufficiente, a mio avviso, al fine di sconsigliare l’assoggettamento di quest’ultima a referendum popolare.

[143] Cfr. sul punto, argomentando però, a contrario, A. BARBERA, op. ult. cit., p. 381 ss. F. LANCHESTER, in AA.VV., op. ult. cit., p. 250 s., parla di confliggenza palese tra la nuova normativa elettorale e il bicameralismo perfetto vigente nel nostro ordinamento, tale da rendere il risultato elettorale un vero terno al lotto. Ibidem, cit., p. 255: “Il meccanismo maggioritario, come è noto tende a fabbricare le maggioranze con forti elementi di aleatorietà: richiedere allo stesso una coerenza di prodotto tale da obtemperare al dettato del primo comma dell’art. 94 Costituzione costituisce una sfida alla fortuna. In questa prospettiva, ripeto, il bicameralismo perfetto e il meccanismo elettorale maggioritario costituiscono un nonsenso e, d’altro canto, la stessa modificazione strutturale del tipo «di Stato» non potrà che coinvolgere la struttura del legislativo nazionale”.

[144] Sulla impossibilità, nel caso in cui l’Italia dovesse presentare i presupposti per divenire una democrazia maggioritaria, di eludere riforme costituzionali proprie «del modello Wenstminster» cfr. A. BARBERA, op et loc. ult. cit., tra le quali “un rafforzamento delle «garanzie» attraverso uno «Statuto dell’opposizione» più incisivo delle garanzie per le minoranze offerte in precedenza dalla proporzionale” (p. 382). Sulla necessità di interventi di riforma costituzionale al fine di consentire la conversione del nostro regime in democrazia maggioritaria, S. BARTOLE, in AA.VV., La forma di governo in transizione, cit., p. 239 ss. Ibidem, F. LANCHESTER, (p. 251 s.), sostiene invece la necessità di riforme, ai fini del funzionamento della nuova normativa in materia elettorale, e di una legislazione elettorale di contorno idonea ad evitare «i pericoli per la complessiva forma di Stato e per la qualità del regime». Sulla necessità del rafforzamento delle garanzie costituzionali, soprattutto a favore delle minoranze, G. DOSSETTI, op. ult. cit., p. 272 ss.

[145]Sulla base di un ragionamento da noi effettuato ciò sarebbe reso possibile per il fatto che il 75% dei seggi vengono assegnati attribuendoli ai candidati che abbiano ottenuto nei collegi la maggioranza, anche relativa, dei voti. Si potrebbe infatti verificare che, in presenza di una uniforme distribuzione dei consensi sul territorio nazionale, qualora partecipassero alle elezioni ad es. cinque forze politiche (ma il discorso vale anche in presenza di un numero diverso tranne che non siano solo due): A -B - C - D - E, e avendo ottenuto in ciascun collegio uninominale il candidato facente riferimento alla forza A solo il 30% dei suffragi e i candidati facenti riferimento alle altre forze politiche tutti una percentuale inferiore a questa, la maggioranza dei seggi, necessaria per riformare la Costituzione, sia ottenuta sulla base di un consenso corrispondente, nel caso specifico, al solo 30% - largamente inferiore alle maggioranze richieste dal 138 -, o anche meno, della popolazione! È il restante 70% ? Non credo sia questa la democrazia alla quale aspirano, oltre che la Costituzione del 47, anche i più convinti (in buona fede) sostenitori di un sistema elettorale maggioritario. Forse la gravità della vicenda referendaria del 93 e delle successive leggi elettorali si può paragonare (con una approssimazione per difetto) a quanto avvenne in Francia nel 1962, quando il gen. De Gaulle in dispregio all’art. 89 della Cost. del 1958 il quale prescrive una duplice procedura di revisione costituzionale, in ogni caso in modo da consentire sempre un previo intervento delle assemblee parlamentari nel procedimento di revisione e solo in via eventuale, e secondaria, il corpo elettorale interpellato col referendum, trasformò, mediante appello diretto al corpo elettorale, in elezione popolare diretta l’elezione a doppio grado che era prevista dagli art. 6 e 7 della Cost. per la designazione del Presidente della Repubblica (l’episodio, definito preoccupante, è riportato da P. BISCARETTI DI RUFFÌA, op. ult. cit., p. 676). Sembra concordare con le argomentazioni svolte a sostegno della tesi di una modifica surrettizia “tacita” dell’art. 138, G. LUCATELLO, Considerazioni attuali riguardanti una proposta di procedimento emendativo della nostra Costituzione, in  Dir. Soc., 1995, p. 245 s., ove l’Autore afferma che “in un futuro, forse vicino, qualcuno potrebbe in Parlamento, disponendo di un’ampia maggioranza ottenuta grazie anche al voto uninominale maggioritario, proporsi di far approvare col normale dispositivo revisorio (ex art. 138) modifiche della Costituzione di ispirazione illiberale e plebiscitaria («bonapartista»)”...e, in riferimento all’art. 138: “È indubbio che nel formularlo i Costituenti del 1946-’47 avevano in mente un Parlamento da eleggere con il voto proporzionale” (p.246).

[146] S. GALEOTTI, op. ult. cit., osserva: «Qual era, qual è il disegno del sistema istituzionale dei poteri che l’Assemblea Costituente, al termine del suo fecondo travaglio, era riuscita ad iscrivere nella Carta costituzionale, entrata in vigore il 1° gennaio 1948? Per dirla in breve, il modello di organizzazione istituzionale che si disegnava era quello di una Repubblica parlamentare di tipo razionalizzato che veniva tuttavia inserita in una vasta costellazione di princìpi e strutture garantistiche e di controforze frenanti, volte complessivamente a fornire la garanzia dell’ordinamento costituzionale, come sicurezza di libertà e di vita per tutte le forze politiche, gli individui e i gruppi, in essa operanti».

Vorremmo riportare a conclusione di quanto detto riguardo “Il paradosso dell’attuazione contra Constitutionem”, il pensiero di F. BENVENUTI, op. ult. cit., p. 21 s.: «Ritengo che i comportamenti conformi alla Costituzione (e l’argomento vale a maggior ragione per i comportamenti conformi alla legge), non esauriscano la quantità del diritto esistente in un ordinamento. Certamente fa diritto anche l’illecito e fa diritto anche l’illegittimo, ma quello che più preoccupa è la quantità di atti giuridici che, pur non essendo conformi alla Costituzione e alle leggi, ciononostante esplicano effetti giuridici con piena validità nell’ambito dell’ordinamento. La legge (in)costituzionale fino a quando non è dichiarata tale, e potrebbe non esserlo mai, è certamente un modo legittimo di produrre effetti incostituzionali e altrettanto dicasi dell’atto amministrativo dichiarato illegittimo. So bene che mi si obietterà che fino a quando non avvenga la dichiarazione di anti-giuridicità, l’atto è giuridicamente valido, ma questa è la risposta di chi ignora l’esistenza di ciò che non è conforme e ammette persino che il difforme sia, per definizione, conforme. Ma dal punto di vista del reale, non vi può essere dubbio che siamo governati da leggi incostituzionali così come da atti amministrativi illegittimi e che tutti questi, se hanno l’effetto stesso degli atti costituzionali o legali, non ne hanno tuttavia la qualità».

Riguardo alle attività derogatorie della Costituzione cfr. C. MORTATI, Costituzione (dottrine generali), in Enc. del dir., XI, Milano 1962, p.198, il quale sostiene essere impropria l’applicazione della categoria degli atti giuridici a tali attività; «ciò perché un atto rimane privo dei contrassegni che consentono tale qualifica e viene retrocesso a fatto quando straripa dalla sfera che gli è assegnata e si consideri produttivo di effetti diversi da quelli che le predisposizioni normative ne fanno derivare».

[147] Per quanto accennato nel testo in ordine alla immodificabilità se non in peius e alla impossibilità di sospendere (con effetti permanenti) le regole relative alle garanzie istituzionali procedurali v., supra, p. 16 e 23 s. Sulla inammissibilità di una deroga-sospensione dell’art. 138, cfr., F. MODUGNO, Il problema dei limiti alla revisione costituzionale (in occasione di un commento al messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica del 26 giugno 1991), in Giur. Cost., 1992, p. 1653. Sul «problema della rivedibilità delle norme sul mutamento (e dei suoi limiti)» v., anche, A. RUGGERI, Fonti e norme, cit., p. 65, ove l’Autore afferma non potersi dare ad esso «alcuna risposta in astratto ma solo risposte in concreto, secondo prospettive storico-positive», e prosegue: «E l’effetto delle ipotizzate revisioni può essere favorevolmente apprezzato solo ove esso si disponga entro margini di oscillazione comunque contenuti, equilibrati: si potrebbe dire , tra continuità ed innovazione, rifuggendo da entrambi i corni estremi di un’alternativa dogmaticamente inconcepibile, da quello del regresso nelle garanzie, che suonerebbe quale inammissibile “restaurazione” - per riprendere una felice formula di G. SILVESTRI - di modelli flessibili ormai superati, come pure, però, da quello di un illiberale iperrafforzamento». Ibidem,  p. 237, criticamente, in merito alla legge, peraltro simile all’attuale, relativa ai poteri attribuiti alla Bicamerale nel '93.

[148] Ci riferiamo, in particolare, alle clausole dettate “in materia finanziaria” dal Trattato di Maastricht, le quali sembrano ispirate ad una concezione solo “economica” dell’Europa, che non tiene molto in considerazione l’aspetto della solidarietà sociale particolarmente qualificante la nostra Carta costituzionale e che ispirò la stessa visione del Continente e gli uomini che diedero inizio al processo di integrazione europea. A tal proposito si riporta l’autorevole opinione di G. GUARINO (Pubblico e privato nell’economia. La sovranità tra Costituzione ed istituzioni comunitarie, in Quad. Cost., 1992, p. 52) citata da G. PITRUZZELLA, Considerazioni su l’idea di Costituzione e il mutamento costituzionale, in Arch. dir. cost., 2, 1993, p. 97, nt. 88: «dovendo piegarsi alle necessità derivanti dal mercato unificato, l’Italia sarà costretta a tralasciare l’ulteriore perseguimento degli obiettivi sociali, caratterizzanti del sistema ed additati da norme costituzionali. Vedrà smantellate istituzioni, nelle quali si esprimeva l’economia mista. Dovrà prepararsi a vedere attenuate sinanche misure di protezione sociale, che erano state faticosamente conseguite». Sul punto, v. comunque, anche per gli altri profili accennati nel testo: T. MARTINES, op. ult. cit., p. 104 ss., 166 ss., 399 s. G. DE VERGOTTINI, op. ult. cit., p. 1349 ss. Id., Necessità, Costituzione materiale e disciplina dell’emergenza, in Dir. Soc., 1994, p. 246 ss.

[149]A tal proposito si ricorda la posizione della Corte costituzionale che da sempre, anche con la sent. n. 170 del 1984, si preoccupa di difendere dagli atti comunitari la “cittadella” dei princìpi fondamentali e dei diritti inviolabili. Il problema rimarrebbe però in ogni caso per gli altri atti non lesivi di tali princìpi e diritti, ma ugualmente incidenti su disposizioni costituzionali.

[150] Si parla di funzione attuativa “impropria” della Costituzione per distinguerla dalle attività che la Corte costituzionale esercita in piena armonia con il dettato costituzionale e che sono anch’esse, naturalmente, di attuazione della Costituzione, nella parte in cui prevede l’istituzione del supremo organo giudice delle leggi assegnandogli specifiche e “proprie” funzioni.

[151] Sul punto cfr: T. MARTINES, op. ult. cit., p. 93 ss.

[152] Sulla consuetudine costituzionale e gli altri fatti normativi, in relazione all’oggetto del nostro studio, cfr: F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 109 ss.

[153] F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 110 s.

[154] Cfr. F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 114 s. V. pure, non solo per questo, A. RUGGERI, op. ult. cit., spec., p. 26, ove l’Autore, dopo aver messo in rilievo il «rapporto inscindibile, circolare...tra l’ordinamento e le fonti», per cui «Individuando le fonti, l’ordinamento definisce, ad un tempo, tutti i possibili modi di divenire e di essere “norma” e, a conti fatti, definisce se stesso» in modo tale che «Auto- ed eteroqualificazione finiscono, pertanto col coincidere nella loro stessa composizione dialettica», afferma: «Restano fuori - così almeno parrebbe - da questo quadro ricostruttivo le c.d. fonti extra ordinem e la consuetudine. Per quest’ultima, tuttavia, può egualmente applicarsi lo schema della qualificazione “formale”: ciò che è possibile convertendo, ancora una vola, il problema dal piano teorico a quello dogmatico, dal momento che in molti sistemi positivi, fra cui il nostro, tale fonte è ammessa nei limiti appunto (pre)stabiliti dallo stesso ordinamento, e segnatamente dalla legge. Alla stessa consuetudine costituzionale, che pure presenta peculiari problemi, può adattarsi questo ordine di idee: ritenendola, perciò, ammissibile, quale fonte attuativa o integrativa degli enunciati della Carta, nei soli limiti segnati da quest’ultima o, anche, da qualificazioni (pur implicite) risultanti da altre leggi costituzionali».

[155] Per la non ammissibilità, in linea di principio, di «fatti normativi» contrastanti con i precetti della Costituzione scritta, si pronuncia, F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 116. S. TOSI, op. ult. cit., p. 60 s., si esprime nel senso che in un regime di Costituzione rigida come il nostro «nessuna modificazione tacita potrà validamente porsi in via consuetudinaria se non in senso attuativo della Costituzione e delle norme costituzionali, e più esattamente come comportamento attuativo di esse. Non si esclude tuttavia, che innovazioni sostanziali possano in tal guisa venire arrecate e che queste non alterino, quando del caso, talune regole procedurali (mai quelle espresse però con legge formale, costituzionale o ordinaria)». Ibidem (p 63): «...le modificazioni tacite, condotte attraverso comportamenti consuetudinari o comunque normativi, in tanto possono valutarsi legittime, in quanto si manifestino integrative della Costituzione, ma sempre in senso rafforzativo e mai attenuativo dei suoi precetti». T. MARTINES, op. ult. cit., p. 95, definisce le consuetudini contra legem fonti “extra ordinem, contrapposte, come tali...alle «fonti legali»”, implicitamente operando, perciò, una distinzione dalle consuetudini secundum Constitutionem, le quali dovrebbero farsi rientrare, perciò, a contrario tra le fonti legali.

[156] F. PIERANDREI, op. ult. cit., p. 111. Sulle problematiche scaturenti dal concetto di ‘opinio iuris ac necessitatis’, v. G. ZAGREBELSKY, Sulla consuetudine costituzionale nella teoria delle fonti del diritto (L’«opinio iuris» e il problema della distinzione tra norme giuridiche e norme extragiuridiche della Costituzione), in Giur. Cost., 1968, p. 2686 ss., spec. 2690, sul ruolo creativo o costitutivo, «per così dire (ma si tratta di un linguaggio impreciso)», della giuridicità svolto dall’opinio iuris, «in quanto giuridicità (come coscienza di giuridicità) e opinio iuris sono la stessa cosa», in grado di far superare il circolo vizioso in cui altrimenti si cadrebbe ritenendo fondata la consuetudine sull’opinio e «che richiederebbe di poter immaginare la giuridicità come un prius e poi come un posterius rispetto all’opinio, mentre tra giuridicità e opinio c’è perfetta coincidenza».

[157] Cfr., in questo senso, S. TOSI, op. ult. cit., p. 64.

[158] V. comunque, G. SILVESTRI, Le sentenze normative, cit., supra, nt. 125.

[159] La Corte, infatti, cosi motiva: «Su di un piano generale, la prassi della reiterazione , tanto più se diffusa e prolungata nel tempo - come è accaduto nella esperienza più recente - viene, di conseguenza, a incidere negli equilibri istituzionali..., alterando i caratteri della stessa forma di governo e l’attribuzione della funzione legislativa ordinaria al Parlamento (art. 70 della Costituzione)... I princìpi richiamati conducono, dunque, ad affermare l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 77 della Costituzione, dei decreti-legge iterati o reiterati, quando tali decreti, considerati nel loro complesso o in singole disposizioni, abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità e urgenza, il contenuto normativo di un decreto-legge che abbia perso efficacia a seguito della mancata conversione». La Corte parla, dunque, di prassi, ma considerando che: nel caso della reiterazione, si tratta di prassi che dura dalla IV legislatura (1963-1968) con 1 decreto reiterato, per arrivare ai 515 della XII (1994-1996); che proprio il carattere della continuità nel tempo è uno degli elementi che distingue le due figure, oltre l’opinio iuris ac necessitatis, e anche per quest’ultima è soprattutto in relazione alla reiterazione dei d.l. che si venivano a creare situazioni incidenti sulla sfera dei diritti soggettivi (dando luogo ad aspettative e a situazioni di diritto quesito) spesso addotte a sostegno della impossibilità della non-reiterazione; e, infine, che trattasi di attività esorbitante dalla sfera dei poteri attributi (i quali in tanto sono tali in quanto rispettino le condizioni stabilite per il loro esercizio) al governo e dunque non più atto giuridico ma fatto extra-ordinem, non si può non vedere come in questa ipotesi la distinzione tra prassi e consuetudine costituzionale diventi così sottile, al punto da poter, a mio avviso, fare rientrare la fattispecie in oggetto nella ipotesi della consuetudine contra Constitutionem. A meno di voler identificare la consuetudine costituzionale solamente con la consuetudine secundum o praeter Constitutionem e considerare perciò come prassi violative della Costituzione i comportamenti consuetudinari contra Constitutionem. Sui decreti-legge, il cui potere di adozione da parte del governo viene definito avente «carattere di eccezionalità», v. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 474 ss. V., inoltre, i lavori, entrambi di poco precedenti alla sent. n. 360 del 96 e in, un certo senso, anticipatori della stessa, di A. RUGGERI, La Corte e le mutazioni genetiche dei decreti-legge, in Riv. dir. cost., n. 1, 1996, p. 251 ss, e di G. SILVESTRI, Alcuni profili problematici dell’attuale dibattito sui decreti-legge, in Pol. dir., n. 3, 1996, p 421 ss., spec., p. 439 ss., sulla illegittimità della prassi della reiterazione e sui rimedi adottabili alla luce della Costituzione vigente. Si ricorda, infine, che il Governo ai sensi dell’art. 15, comma II, lett. c, della legge n. 400 del 1988, non può, mediante decreto-legge, rinnovare le disposizioni di decreti-legge dei quali sia stata negata la conversione in legge con il voto di una delle due Camere. La sentenza (pubblicata sulla G:U:, 1ª serie speciale, del 30 ottobre 1996 n. 44) e i dati riportati sono tratti da: Guida al diritto - Il Sole 24 Ore, n. 46, 23 novembre 1996, p. 32 ss.

[160]Credo infatti non si possa negare che il governo pervenga a decisioni di sì grave momento, in quanto incidenti seppur provvisoriamente sulla stessa funzione legislativa assegnata dalla Costituzione alle Camere, implicanti attività per le quali è responsabile davanti al Parlamento, quando ritenga, anche, “giuridicamente improrogabile” procedere attraverso l’adozione di d.l. Se così non fosse si snaturerebbe ancora di più l’istituto e l’ipotesi di responsabilità nella quale incorrerebbe il governo, a mio avviso, non sarebbe più solo di natura politica; ci troveremmo, infatti, davanti alla singolare ipotesi di un Parlamento espropriato dalla sua principale funzione sulla base di valutazioni non giuridiche e dunque discrezionali. A maggior ragione queste considerazioni sono valide a proposito della iterazione e reiterazione dei decreti non convertiti o nel caso di d.l. produttivi di effetti irreversibili (ad es. decreti che aumentino i prezzi di benzina e tabacchi o incidenti sulla libertà personale) per i quali ultimi l’atto perde il carattere della provvisorietà e sarebbe forse opportuno, onde non intaccare gli art. 70 ss. Cost., che il governo si astenesse dall’adottarli. Salvo naturalmente il caso in cui si presentino situazioni legittimanti la sospensione delle garanzie costituzionali. Sul punto v. comunque: V. ANGIOLINI, Necessità ed emergenza nel diritto pubblico, Padova 1986, spec., p. 168 ss., il quale, evidenziando l’esigenza di fugare i pericoli connessi all’imperare della necessità politica e sociale, più in là (p.179) afferma: «Su questo versante, ci si accorge che la garanzia primaria ed autentica dell’unità dell’ordinamento, in relazione ai poteri necessitati...è nella loro eccezionalità, nel loro agire come poteri provvisori di sospensione, e non come poteri permanenti di deroga». Ibidem, (p. 180 ), dopo aver precisato che «La costituzione formale o la legge, nel nominare gli atti necessitati ed eccezionali, ne hanno deferito l’emanazione ad autorità da parte delle quali ci si potesse attendere un utilizzo moderato e corretto di tale capacità», sottolinea come «l’azione del Governo e della pubblica amministrazione è sottoposta al sindacato giuridico della giurisdizione o dello stesso Parlamento. Il che ha consentito di congegnare, sull’esercizio dei poteri necessitati ed eccezionali dell’amministrazione e del Governo, quei peculiari meccanismi di riesame i quali...debbono garantire che i poteri formali di sospensione non si trasformino in poteri derogatori» (p. 181). Sulla «mutazione genetica» dei d. l. non convertiti, produttivi di mutamenti irreversibili della realtà, da atti in fatti (comportamenti) idonei a costituire oggetto di conflitti tra poteri, specialmente con riferimento alle sent. n. 406 del 1989 e 161 del 1995, cfr. A. RUGGERI, op. ult. cit., p. 275 ss., part., p. 281: “I «fatti» resistono, insomma, alla loro dissoluzione giuridica, hanno una capacità di durata che supera quella del diritto (e delle sue fonti), cui pure sono geneticamente legati; o, meglio, si prestano a forme diverse, più ampie, di razionalizzazione: di una razionalizzazione che è, pur sempre, ... giuridica (l’attitudine a porsi ad oggetto di conflitti di attribuzione)”.

[161] Importante a tal proposito anche la sent. n. 29 del 1995, sulla quale le interessanti notazioni di G. SILVESTRI, op. ult. cit., p. 432 ss, il quale assegna alla stessa una portata «rivoluzionaria», non tanto per l’affermazione in essa contenuta circa la sindacabilità, in sede di controllo di legittimità, della fattuale sussistenza dei presupposti di necessità e urgenza, quanto per il rovesciamento di prospettiva, rispetto al passato, operato attraverso l’individuazione di un limite costituzionale al potere di conversione. Lo stesso però (ibidem, p. 435 ss.) non si nasconde le difficoltà e i problemi in ordine a un tale tipo di controllo, giungendo ad affermare che: «la collocazione della valutazione sulla sussistenza dei presupposti in una zona di confine tra riscontro di legittimità e apprezzamento politico di merito non può portare alla conclusione della inammissibilità dell’intervento della Corte, ma solo alla necessaria prudenza nell’integrazione del parametro costituzionale di riferimento» (p. 436).

[162] Cfr. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 97 s.

[163] Cfr. A. PIZZORUSSO, L’interpretazione della costituzione e l’attuazione di essa attraverso la prassi, in Riv. trim. pubb., 1989, p. 8, il quale sostiene essere tutt’altro che raro, nei paesi dotati di Costituzione scritta, il verificarsi di modificazioni tacite della stessa «mediante l’accoglimento di interpretazioni dei testi costituzionali, talora totalmente difformi rispetto alle intenzioni dei Costituenti, ma pur tuttavia capaci di affermarsi nella prassi».

[164] Sulla formazione e sulle cause di cessazione del Governo, T. MARTINES, op. ult. cit., p. 445 ss. e p. 494 ss. Sulla crisi del governo v. pure: A. RUGGERI, Le crisi di governo. Tra ridefinizione delle regole e rifondazione della politica, Milano 1990.

[165] Sul fenomeno v. comunque, M. CARDUCCI, L’«accordo di coalizione», Padova 1979, e A. D’ANDREA, Accordi di governo e regole di coalizione. Profili costituzionali, Torino 1991.

[166] Cfr. S. BONFIGLIO, op. ult. cit., p. 55 s., ove l’Autore sottolinea come la scelta dei ministri dipenda «dalla influenza politica degli stessi e, in ultima analisi, dalla influenza dei partiti di governo di cui fanno parte. E tutto ciò nonostante spetti al Presidente del Consiglio la loro designazione». Sul ruolo dei partiti, nella formazione dei governi, anche per utili riferimenti bibliografici, v. L. VENTURA, op. ult. cit., p. 1, ss. Ibidem, p. 10, ove l’Autore parla di una lettura dell’art. 92 cost. che ne da «un’immagine molto riduttiva» e “che, anche se «fotografa» la realtà esistente, stravolge il disegno costituzionale, riducendo tra l’altro la fiducia parlamentare al rango di rito formale”, e così prosegue: “Lo stesso art. 92, che conferisce al Presidente del Consiglio il potere di proporre la nomina dei ministri, che dovrebbe configurarsi come potere sostanziale di scelta, vista la posizione che ha il Capo dello Stato nel nostro sistema, riguarderebbe in definitiva soltanto la necessaria imputazione giuridica al Presidente del Consiglio «in quanto questi abbia fatto sue le determinazioni dei partiti riversandole nella proposta». Ciò è quanto accade nella realtà; sono descritti così il concreto meccanismo della formazione del Governo e quindi i veri connotati della forma di governo italiana. Altra cosa è, però, far rientrare necessariamente tale prassi, forzando il significato delle norme costituzionali, nel figurino, pur scarno, previsto dalla Costituzione formale”. Ibidem, p. 11, aggiunge: “...appare...forzata l’interpretazione dell’articolo 92 poiché allo scopo di farvi rientrare la prassi reale, se ne modifica il significato originario. Ad un primo approccio, emerge la non corrispondenza del modello reale alla Costituzione formale, in quanto tale modello risulta dall’applicazione rigida di alcune regole di costituzione materiale. Una di esse è la convenzione che attribuisce ai partiti la distribuzione dei ministeri tra i partners della coalizione, con un attento dosaggio per soddisfare le pretese delle correnti, nonché la dislocazione delle persone fisiche a copertura delle cariche di ministro”.

[167] Potendosi leggere, tra l’altro, nella previsione costituzionale una sorta di embrionale sfiducia costruttiva. Sulla parlamentarizzazione della crisi, v. comunque, A. RUGGERI, op. ult. cit., p. 93 ss, spec. 100 ss., per le ipotesi di “parlamentarizzazione”. “vietata”, “lecita”, “necessaria” o “opportuna”.

[168] Ciò non esclude però, che anche nell’attuale ordinamento, possano ricercarsi delle ipotesi di responsabilità, non solo politica, qualora ci si orientasse nel senso di ritenere obbligatoria la conduzione della crisi in ambito parlamentare (interpretando in modo vincolante il disposto dell’art. 94, comma II, Cost.). Sulla possibilità per il Presidente della Repubblica di subordinare l’accettazione delle dimissioni allo svolgimento di un dibattito innanzi alle Camere v., T. MARTINES, op. ult. cit., p. 499.

[169] Sulla violazione del disposto di cui all’art. 81, comma IV, Cost. v. G. SOBBRIO, Economia del settore pubblico, Milano 1996 cit., p. 168 s., spec., p. 171.

[170] Cfr. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 98 s.

[171] Op. et loc. ult. cit. Sull’istituzione del nuovo organismo v. P. DEL VESCOVO, Il Consiglio di Gabinetto, un tentativo di rafforzamento del Governo, in Riv. trim. pubb., 1988, p. 900 ss. S. BARTOLE, Una prospettiva di rivalutazione dei poteri normativi del governo a proposito della legge n. 400 del 1988, in Giur. Cost., II, 1988, p. 1469 ss. Sul punto, S. BONFIGLIO, op. ult. cit., p. 56 s., il quale, con riferimento all’introduzione del Consiglio di gabinetto, parla (citando G. PITRUZZELLA, Il Consiglio di gabinetto nel governo italiano, in Riv. trim. dir. pubb., n. 3, 1985, p. 653) di formalizzazione di “una regola convenzionale la quale richiede che le scelte politicamente più importanti risultino dall’accordo tra i capi delle delegazioni dei partiti al governo e tra i «superministri» (ma le due cariche tendono a coincidere)” e di individuazione di una “figura organizzativa in cui dovrebbero formarsi, seguendo i moduli negoziali, le fondamentali scelte di indirizzo”. E ancora continua sottolineando come i partiti siano diventati “un vero e proprio elemento costitutivo della forma di governo” ed esercitino “in modo continuativo sulla forma di governo un potere d’influenza che dà vita a regole convenzionali operanti negli spazi vuoti di una Costituzione e in grado anche di determinare alcune sue modificazioni tacite, nell’ambito del «regime». Si capisce allora perché la considerazione del sistema partitico e delle manifestazioni giuridiche che sono un’espressione del suo potere d’influenza siano molto utili al fine di interpretare i mutamenti della forma di governo. Muovendo da questa impostazione dello studio della forma di governo, l’introduzione dell’elemento partitico nella forma di governo non dà a quest’ultima una connotazione meramente sociologica, anzi fa assumere un significato più forte a quel suo valore normativo che è legato al problema dei limiti da non oltrepassare al fine di non uscire da una determinata forma di governo”.

[172] Sul punto cfr. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 282 s.

[173]Sulla singolare iniziativa dell’ex Presidente Cossiga v. AA. VV., Dibattito sul messaggio presidenziale del 26 giugno 1991 concernente le riforme istituzionali e le procedure idonee a realizzarle, in Giur. Cost., 1991, p. 3209 ss. Sul punto, tra i molti, cfr: F. MODUGNO, op. ult. cit., p. 1649 ss., spec. 1680 ss. V. anche A. RUGGERI, Fonti e norme, cit., p. 64, il quale, con riferimento ad un’altra delle possibili strade per Cossiga percorribili al fine di facilitare le riforme, esprime «seri dubbi...in merito all’ipotesi pure ventilata dallo stesso Presidente.. nel suo famoso (e discusso) “megamessaggio” sulle riforme, di una sorta di “affievolimento” della rigidità, attraverso una (sia pur temporanea o eccezionale) riduzione delle garanzie connesse all’aggravamento della procedura di revisione». Per una incisiva critica alla teoria del potere costituente, cfr. M. DOGLIANI, Potere costituente e revisione costituzionale, in Quad.Cost., n. 1, 1995, p. 7 ss., spec., p. 24 ss: “Temo infatti che continuando ad utilizzare il concetto di potere costituente, carico di suggestioni «liberali» ma in realtà conformato dalla lettura che ha ricevuto negli anni della guerra civile europea, si finisca col perdere il senso più profondo del costituzionalismo, e soprattutto il senso del costituzionalismo di questo secondo dopoguerra” (p. 24). Ibidem, p. 26 s.: “Questo potere costituente che oggi non avrebbe altro significato che quello di negare in radice ciò che il costituzionalismo contemporaneo ha affermato, ci appare totalmente estraneo; e di fronte ad esso ci vengono in mente domande simili a quelle che si è poste Mary Douglas, quando, in riferimento al modello dell’homo economicus, che costituisce il cardine delle scienze economiche, si e chiesta: «come uno straniero all’ennesima potenza è arrivato a dominare la concettualizzazione di noi stessi? Come si è intrufolato tra noi questo homo economicus?... noi non lo possiamo soffrire e non riusciamo a credere che ci sia davvero qualcuno così avido ed egoista... La sua ombra si proietta sui nostri pensieri, oscurando ciò che vogliamo vedere... È mercenario, freddo e calcolatore, e noi non lo riconosciamo come uno di noi, né ci comportiamo come si ritiene che lui si comporti. Se qualcuno lo fa, ce ne scandalizziamo». Se è vera l’equazione: costituzione = diritti fondamentali, e potere costituente = riduzione/negazione di quei diritti, allora dovremmo dire anche noi che quel tipo di potere, per come oggi non può che essere utilizzato, ci scandalizza; quel soggetto che lo esercita ci è estraneo. Eppure continuiamo a considerarlo un dato fondativo della nostra scienza. Perché? Ritengo in forza di un equivoco, di una indebita confusione tra il concetto originario di potere costituente e quello che si è invece venuto formulando a partire dalla crisi dello stato liberale di fine secolo, e soprattutto nella crisi del primo dopoguerra”.

[174] Cfr. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 95 ss. Sulle convenzioni costituzionali (in relazione all’idea di Costituzione materiale di C. Mortati), anche alla luce di una analisi comparatistica tra la struttura dell’ordinamento costituzionale britannico e quello italiano, v. S. BONFIGLIO, op. ult. cit., p. 58 ss., e il saggio di R. BIFULCO, Le riflessioni della cultura giuspubblicistica sulle convenzioni costituzionali, in Dir. soc., 1992, p. 31 ss.

[175] In tal senso, sembra, R. BIFULCO, op. ult. cit., p. 50, ove l’Autore afferma «che, per quanto la dottrina stia iniziando a riconoscere una sfera di efficacia delle regole convenzionali che va al di là di quella classica degli organi supremi dello Stato-persona per estendersi anche a quella dello Stato-comunità, risulta ancora difficile svincolare definitivamente l’origine dell’accordo convenzionale da situazioni eminentemente politiche». Ibidem, p. 51, ove in considerazione del momento costitutivo delle convenzioni costituzionali, al quale afferiscono criteri di valutazione anche extragiuridici, si pone l’attenzione sulla possibilità che in alcune ipotesi esse possano porsi oltre il limite della legalità costituzionale, e rimanere, per la particolare posizione degli organi supremi dello Stato, «teoricamente e praticamente», prive di sanzione giuridica.

[176] Sulla Corte costituzionale cfr. per tutti, T. MARTINES, op. ult. cit., p. 583 ss.

[177] Cfr. A. SPADARO, Una Corte per la Costituzione (Nota sulla originaria e prioritaria funzione della Corte costituzionale), in Studi in onore di P. Biscaretti di Ruffìa, p. 1240 s.

[178] Sulle sentenze interpretative cfr. G. SILVESTRI, Le sentenze normative, cit., p. 1684 ss. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 633 ss., il quale reputa giusto riconoscere alla Corte un potere di reinterpretazione del testo, soprattutto riguardo norme di recente emanazione sulle quali non si siano ancora formati consolidati orientamenti giurisprudenziali, ciò anche al fine di evitare che una disposizione legislativa venga posta nel nulla sol perché il giudice o i privati hanno tratto da essa, in via di interpretazione, una norma rispetto alla quale hanno ritenuta non infondata la questione di legittimità costituzionale (p. 636).

[179] Tale tipo di giustificazione, del Branca (già presidente della Corte), è riportata da T. MARTINES, op. ult. cit., p. 635. G. SILVESTRI, op. ult. cit., p. 1687, definisce ideologica la spiegazione delle sentenze interpretative di rigetto, “come sentenze «anomale» dettate dalla preoccupazione del vuoto che si sarebbe venuto a formare in seguito ad una sentenza di accoglimento”.

[180] G. SILVESTRI, op. et loc. ult. cit.

[181] G. SILVESTRI, op. ult. cit., 1688.

[182] Sul problema dell’individuazione del diritto vivente, v. comunque, S. MANGIAMELI, Sentenza interpretativa, interpretazione giudiziale e «diritto vivente» (in margine ad una decisione sul procedimento di determinazione dell’indennizzo espropriativo nel sistema Alto-Atesino), in Giur. cost., II, 1989, p. 22 ss., spec., p. 29, ove l’Autore, in riferimento al significato del “«diritto vivente», nell’elaborazione sinora fattane dalla giurisprudenza costituzionale” e alle sentenze che a tale concezione fanno riferimento, afferma: “In questi termini, al di là del rigore della individuazione compiuta nelle singole decisioni, la questione del «diritto vivente» in Italia potrebbe considerarsi sostanzialmente una mera questione linguistica, riguardante il modo in cui si designa una tematica che propriamente è riconducibile ai problemi dell’interpretazione giudiziale. Essa, perciò, prescindendo dal nome ad effetto adoperato, avrebbe nella realtà dei fatti un modesto significato”.

[183] Sulla differenza tra i due tipi di sentenze, G. SILVESTRI, op. ult. cit., 1690 ss., spec., p. 1691, ove l’Autore afferma potersi «dire che tutte le sentenze interpretative sono additive».

[184] Cfr. T. MARTINES, op. ult. cit., p. 637.

[185] Ciò perché mentre nelle sentenze interpretative di rigetto il giudice costituzionale afferma la legittimità di una disposizione rapportandola ad un data norma costituzionale di raffronto ed enucleando una nuova regola legittima, nelle interpretative di accoglimento la Corte perviene allo stesso risultato di legittimità aggiungendo un qualcosa che manca alla disposizione e che nel raffronto con la norma costituzionale la rende ad essa conforme: una nuova norma, sostanzialmente, risultante dalla somma del testo legislativo con quel qualcosa aggiunto dalla Corte. G. SILVESTRI, op. et loc. ult. cit.

[186] Sul punto cfr. G. SILVESTRI, op. ult. cit., spec., p. 1704 e 1715 s. V. anche, G. PERSICO, Sentenza additiva o funzione legislativa della Corte costituzionale?, in Quad. reg., 1991, p. 19 ss., in occasione del commento alla sentenza n. 156 del 12 aprile 1991, dichiarativa dell’«illegittimità dell’art. 442 c.p.c. nella parte in cui non prevede che il giudice, quando pronunzia sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti relativi a prestazioni di previdenza sociale, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal titolare per la diminuzione del suo credito, applicando l’indice dei prezzi calcolato dall’ISTAT per la scala mobile nel settore dell’industria e condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno in cui si sono verificate le condizioni legali di responsabilità dell’istituto o ente debitore per il ritardo dell’adempimento». Ibidem, p. 23, illustrando la nuova normativa scaturente dalla decisione afferma: «così operando la Corte costituzionale non ha posto in essere una declaratoria di incostituzionalità con una sentenza additiva, ma si è sostituita al legislatore, formulando una norma del tutto nuova, in palese difformità all’ordinanza di rimessione». Occorre però dire che ad un ordine di considerazioni diverse conducono le c.d. sentenze additive di principio, con le quali la Corte dichiara la illegittimità della disciplina e si limita ad introdurre non una norma ma un principio che deve ispirare la futura produzione legislativa e dal quale il giudice a quo può trarre luce al fine dell’estrapolazione di una norma-regola per il caso concreto. In questo tipo di pronunce la Corte, infatti, oltre a non sottrarsi al giudizio (come nel caso di una decisione di inammissibilità o di incostituzionalità accertata ma non dichiarata), non invade né il campo del legislatore al quale soltanto spetta il compito di «creare» la norma-regola nel caso di lacuna reale, né quello del giudice cui spetta di «trovare» la norma-regola nel caso di lacuna apparente. Lo stesso dicasi, naturalmente, per quelle sentenze additive semplici nelle quali la norma non è «creata» ex nihilo dalla Corte ma discende dalla naturale proiezione-espansione dei princìpi costituzionali nell’ordinamento, ponendosi come norma univoca e costituzionalmente necessitata: c.d. «rime obbligate» (V. Crisafulli) o «rime obbligatissime» (L. Elia).

[187] Sulle problematiche suscitate dalla tipologia delle sentenze c.d. additive in ordine alle sfere di competenza riservate dalla Costituzione alla Corte e al legislatore, T. ANCORA, La Corte costituzionale e il potere legislativo, in Giur. Cost. I,, 1987, p. 3825 ss., spec., p. 3843, ove l’Autore afferma: «La logica del sistema non consente proprio che ad operare nel campo di un determinato potere sia proprio quell’organo che deve garantire il rispetto delle attribuzioni di ciascun potere». Ibidem, v. infra, cit., nt. 187.

[188] Cfr. G. SILVESTRI, op. ult. cit., p. 1716, il quale parla di «ideologia dell’immobilismo», come «precostituita volontà di evitare il più possibile scelte politiche che tutelino chiaramente certi interessi a discapito di altri».

[189] Per la non accettabilità delle sentenze con cui la Corte pone norme di legge o demanda al legislatore di porle si pronuncia T. ANCORA, op .ult. cit, 3840 ss., spec., p. 3844. Ibidem, cit., p. 3841: «Se la Corte ravvisa l’illegittimità costituzionale di una norma di legge la deve annullare e non può fare altro: il controllo si esercita in negativo e non in positivo, è quello c.d. sostitutivo e limitato a casi tassativi».

[190] G. SILVESTRI, op. ult. cit., 1716 ss. Sui rapporti tra la Corte e il legislatore v. lo studio monografico di A. RUGGERI, Le attività «conseguenziali» nei rapporti fra la Corte costituzionale e il legislatore (premesse metodico-dogmatiche ad una teoria giuridica), Milano 1988.

[191] G. SILVESTRI, op. ult. cit., spec., p. 1720, ove l’autore scrive: «In definitiva, la norma nuova inserita dalla Corte è una norma costituzionale creata da un atto-fonte diverso da quello previsto dall’art. 138 Cost. Ci si può chiedere se con il procedimento di revisione il Parlamento potrebbe abrogare o modificare norme di questo tipo. La risposta dovrebbe essere affermativa, posto che la direttiva della Corte va considerata come una norma costituzionale. In caso contrario tali direttive risulterebbero munite di una forza superiore a quella delle stesse norme costituzionali tipiche».

[192] Cfr. sent. n. 212 del 1986 in materia di pubblicità delle udienze nelle commissioni tributarie, sent. n. 431 1987 relativa alla tassa della salute e per certi aspetti sent. n. 826 del 1988 in materia di radiotelevisione (da altri inclusa tra le sentenze paralegislative, ma i due tipi di pronunce presentano profili comuni).

Sul punto v., per tutti, R. PINARDI, La Corte, i giudici ed il legislatore. Il problema degli effetti temporali delle sentenze d’incostituzionalità, Milano 1993.

[193] Sul punto v. A. PISANESCHI, Le sentenze di «costituzionalità provvisoria» e di «incostituzionalità non dichiarata»: la transitorietà nel giudizio costituzionale, in Giur. Cost., II, 1989, p. 601 ss., spec., p. 627 ss. In un ordine di idee parzialmente diverso da quello del Pisaneschi, S. MANGIAMELI, op. ult. cit., p. 30, che, a proposito del criterio della “«legittimità costituzionale provvisoria», fondata sulla presunta temporaneità del disporre in contrasto con norme costituzionali, da parte di norme legislative, oppure sulla grave emergenza manifestatasi in un determinato settore (ordine pubblico, economia), od ancora sul criterio di gradualità nella realizzazione da parte del legislatore delle pretese costituzionalmente garantite ai cittadini, od infine sulla sempre crescente denegatio competentiae, nonostante l’accertamento della violazione costituzionale, in quanto si tratterebbe di «scelte discrezionali individuabili solo dal legislatore»”, parla di «tipologia di motivazioni non ispirata al rispetto della legalità costituzionale». “E nello stesso ordine si collocherebbe anche il recente tentativo, estrapolato dall’esperienza dell’ordinamento tedesco, di addivenire ad una statuizione, per il futuro, degli effetti della pronuncia di accoglimento”. Ibidem (p. 31), riferendosi a tali pronunce, scrive di adozione di sentenze di dubbia legalità. Sulla necessità del rispetto delle «virtù passive» o «limiti processuali» caratteristiche essenziali, limiti fondamentali e grande e unica forza del processo giurisdizionale già, M. CAPPELLETTI, Giudici legislatori?, Milano 1984, p. 61 ss.

[194] Si pensi a quanto è avvenuto per la R.A.I. e il settore radiotelevisivo in genere. Un intervento più deciso e più pronto della Corte forse avrebbe evitato una inerzia legislativa che ha nei fatti permesso il consolidarsi di un sistema informativo contrastante con i princìpi costituzionali del pluralismo e del diritto ad informare e ad essere informati. V. comunque A. RUGGERI, Vacatio sententiae, «retroattività parziale» e nuovi tipi di pronunzie della Corte costituzionale, in Giur. Cost., II, 1988, p. 924 ss., spec., p. 926, ove l’Autore si pronuncia per la necessità e l’urgenza circa l’adozione di un sistema «di protrazione transitoria degli effetti di leggi dichiarate incostituzionali, almeno con riguardo alle leggi c.d. costituzionalmente obbligatorie (o, meglio, alle norme legislative costituzionalmente imposte), al fine di dar modo al legislatore di riparare tempestivamente ai vuoti provocati dalla pronunzia della Corte, senza che l’ordinamento debba pagare il costo - talora veramente insopportabile - di una più o meno lunga carenza di norme che ridonderebbe non nella semplice disapplicazione o disattivazione di un valore costituzionalmente protetto e precedentemente bene o male applicato e attuato, bensì nella violazione dello stesso».

[195] Cfr. A. SPADARO, Le motivazioni delle sentenze della Corte come «tecniche» di creazione di norme costituzionali, in Nomos, n. 3, 1993, p. 83 ss., spec. p. 87 s., ove l’Autore dice spettare alla Corte, organo maieutico della Costituzione, non tanto l’interpretazione della legge al fine di una sua applicazione-esecuzione quanto, piuttosto, l’interpretazione della Carta costituzionale onde consentirne l’attuazione o comunque la non violazione. Alla Corte e rimesso, dunque, “- in forma pressoché esclusiva (c.d. interpretazione quasi autentica) - il compito di estrapolare, id est: «creare» le norme-significato dal testo significante (superprimario). Ad ogni modo, solo la Corte può dirci con certezza giuridica «che cosa» significhino le disposizioni costituzionali, sia pure alla luce delle singole fattispecie concrete e del complessivo, attuale ordinamento subcostituzionale. Va riconosciuto senza mezzi termini che è un compito immane, enormemente discrezionale, inevitabilmente oggetto di contestazioni e controversie”. Conforme Id., La giustizia costituzionale italiana, cit., p. 227, dove si afferma potersi reputare la Corte costituzionale, seppure con qualche comprensibile riserva, come longa manus nel tempo del potere Costituente.

[196] Sul punto v. A. SPADARO, Le motivazioni, cit., p. 88 e p. 89, nt. 13, ove si riportano come esempi di decisioni «modificative» (sia in senso integrativo che derogatorio) della Costituzione, fra le altre, le sent: “n. 226/1976 (Corte dei Conti giudice a quo nei controlli preventivi); n. 16/1978 («nuovi» casi di inammissibilità del referendum); forse la stessa n. 69/1978 (i sottoscrittori della richiesta di referendum riconosciuti «potere» dello Stato); n. 29/1979 e 15/1982 (introduzione del concetto, costituzionalmente «nuovo» nell’ordinamento italiano, di sospensione delle garanzie costituzionali); n. 170/1984 (deroga al principio di unicità della giurisdizione costituzionale); n. 399/1987 (riconoscimento di «nuovi» poteri comunitari volti a ridefinire il riparto delle competenze fra Stato e Regioni)”.

[197] Sulle ragioni del mutato ruolo della giustizia, costituzionale in particolare, v. M. CAPPELLETTI, op. ult. cit., p. 17 ss., spec., p. 34 ss, ove si evidenzia come ad essa «terza branca» (la meno pericolosa) dello Stato moderno farebbe capo la responsabilità di un necessario controllo, a meno di gravissimi pericoli, sull’operato del «legislatore-gigante». Ibidem, p. 88 ss., nel senso che le corti superiori di giustizia costituzionale possano «offrire accesso al judicial process - e dare quindi una protezione - a gruppi che non sono invece in grado di ottenere accesso al political process». Sul punto cfr. sempre A. SPADARO, La giustizia costituzionale, p. 225 ss., spec., p. 229 s.

[198] V., M. DOGLIANI, cit., supra, nt. 118. L’affermazione, pienamente condivisa, che «delegittimare l’idea di Costituzione, vuol dire propendere per un potere fondato sulla forza e non sulla regola» è di P. CIARLO, La Costituente: nascita di una Costituzione, in Dem. e dir., n. 1, 1994/95, p. 272, nt. 121.

[199]  Ci si riferisce alla nota vicenda della struttura paramilitare segreta denominata “Gladio”. A proposito di quanto asserito nel testo, circa la preclusione per alcune forze politiche dell’accesso ai livelli governativi, la dottrina parlava (il problema dopo il crollo del blocco comunista è da considerarsi superato) della formazione di una conventio ad excludendum del partito comunista disciplinante la formazione dei Governi della Repubblica (per tutti v. L. VENTURA, Il Governo a multipolarità diseguale, Milano 1988, spec., p. 11, ove l’Autore dice della stessa costituire “una sorta di «norma fondamentale» di quella costituzione materiale che già, estesa anche ai socialisti, si sovrapponeva alle norme della Costituzione formale nel momento stesso in cui questa entrava in vigore”). Da parte nostra si pensa però che più che di una regola convenzionale si sia trattato di una ineludibile condizione storico-politica, per gli “sconfitti”, la quale ha dato vita a uno Stato a sovranità “democratica” “limitata”. Con quali e tali conseguenze, sul piano della stessa essenza (e esistenza?) del diritto che, si ritiene preferibile, in questa sede, non occuparsene. La stessa predisposizione delle strutture di intervento alle quali si accenna nel testo e le vicende storico-politiche della Repubblica forse danno ragione dell’opinione di chi pensa che tutto ciò abbia, appunto, una attinenza ben più che minima con il diritto e si dispieghi solo sul piano della forza, anche e soprattutto, militare. Sul punto, comunque, v. quanto afferma G. COTTURRI, Processo costituente, in Dem. e dir., n. 4, 1991, p. 70: “Apprendiamo ora che in quegli stessi anni (1951, per la precisione) prendeva avvio, per iniziativa autonoma sul nostro territorio di servizi americani e poi per iniziativa concorrente dei nostri (e nel '56 poi ci fu l’intesa, e ancora dopo l’attrazione di essa sotto la copertura NATO), quell’operazione di stay-behind destinata negli anni a controllare che il libero sviluppo del gioco democratico non riportasse al governo quelle sinistre che la rottura del '47 aveva cacciato. La autonomia nazionale, oltre che la democrazia, veniva così colpita: e non sappiamo se l’altra «mossa» del disegno De Gasperi - promuovere con Francia e Germania una autonoma comunità europea di difesa - non fosse dettata in quegli anni dal bisogno di ricercare soluzione e fuoriuscita dalla condizione di sovranità limitata, in cui si era ritrovato”.

[200] V., supra, quanto detto a proposito, p. 16, e, spec., p. 23 s., sull’impossibilità di interventi sospensivi di tali garanzie, consenzienti deroghe depressive delle medesime, anche temporanee, ma esplicanti effetti definitivi del sistema.

[201] S. TOSI, Modificazioni tacite della Costituzione attraverso il diritto parlamentare, Milano 1959, p. 68, in un discorso finalizzato a dimostrare la competenza della Corte nell’assoggettare al suo «sindacato comportamenti consuetudinari violatori della Costituzione, quando si manifestino come attività derogativa della medesima in ordine alla formazione delle leggi e all’emanazione degli atti aventi forza di legge».