ECOLOGIA E UTOPIA
di Giuseppe Prestipino



Il mondo delle donne e degli uomini interessati a quel che chiamerei un processo di restaurazione rivoluzionaria del rapporto tra umanità e natura è un mondo, come è stato constatato a Seattle, diversificato e composito o complesso.

Ma appunto perché è un mondo complesso dobbiamo rivolgergli parole semplici, a cominciare da quelle che debbono caratterizzarci come ambientalisti radicali, alternativi o antagonisti.

Chi siamo? Nel nostro biglietto da visita sta scritto che siamo coloro che si propongono di agire "a monte", non soltanto "a valle", di aggredire le cause, non soltanto gli effetti.

Del resto, la bozza di manifesto a firma Giovenale-Musacchio-Nebbia-Russo è felicemente animata da un tal proposito pregiudiziale.

Le nostre proposte più incisive possono essere, sempre per tener fede alla semplicità, compendiate in un decalogo laico, il cui primo comandamento esorta a potenziare la produzione pubblica di beni e di servizi sociali realmente vantaggiosi per le collettività e per le persone, anziché favorire la crescita della produzione di merci.

Secondo. Nell'ambito della produzione di merci, anteporre la produzione e lo scambio di quelle merci che, a loro volta, pur nei mutevoli condizionamenti del mercato, si offrano realmente come beni sociali vantaggiosi per le collettività e per le persone.

Terzo. Nella promozione pubblica di beni sociali e di servizi, nella produzione privata di merci, nella disciplina dei tessuti urbani, nei movimenti delle persone e delle cose dare priorità ai mezzi che comportino un minore dispendio energetico e assumere il minore dispendio energetico come uno dei nuovi indicatori della «ricchezza delle nazioni», da contrapporre agli odierni parametri del Pil.

Quarto. Con una disciplina dei mercati, dei movimenti di capitali e delle colture agricole, favorire la dislocazione territoriale decentrata, pur se comporti costi di esercizio aggiuntivi, di lavorazioni tra loro assimilabili per le caratteristiche merceologiche dei rispettivi prodotti e quindi porre un freno, invece, alle concentrazioni geografiche e alle fusioni societarie che, avendo reso più fortemente competitivo il loro prodotto a svantaggio delle varietà locali, possano smerciarlo mediante il grande trasporto da un capo all'altro del globo e che perciò, in ragione dell'amplificato spostamento di merci sulle grandi distanze,  richiedano un maggior consumo energetico e aggravino l'inquinamento atmosferico e ambientale.

Quinto. Salvaguardare la salute delle persone nel lavoro e nella vita quotidiana, intervenendo con il bandire i lavori nocivi e con il risanare gli ambienti malsani.

Sesto. Vigilare, e provvedere adeguatamente, contro le manipolazioni genetiche e contro le sofisticazioni alimentari, anche in apparenza innocue, ove esse siano non soltanto arbitrarie, ma soprattutto imponderabili nei loro effetti a  breve o a lungo termine.

Settimo. Tutelare la biodiversità in quanto inseparabile dagli equilibri, dalla diffusione e dalla conservazione della vita (delle vite) in questo nostro mondo che, pur nella sua finitezza, necessita della complessità ecosistemica sedimentata nel corso dell'evoluzione storico-naturale.

Ottavo. Salvare i valori estetici delle forme, dei colori, degli odori, dei suoni e dei silenzi che, nella memoria della nostra specie, sono stati associati ad ambienti naturali felicemente diversi, gli uni dagli altri, e anche alle terre differentemente coltivate dalle secolari fatiche dei nostri progenitori.

Nono. Contrastare, anche mediante "contro-informazione", le tendenze a produrre oggetti edonisticamente o esteticamente attraenti, ma di breve durata e organizzare una sorta di "contro-rottamazione", ossia imporre ai fornitori di prodotti finiti la simultanea immissione sul mercato di ricambi semplificati, a prezzi modici e in quantità adeguate per la riparazione o per il riadattamento degli artefatti venduti e, a tal fine, promuovere la diffusione di centri specializzati nelle diverse tecniche di rifunzionalizzazione o riconversione.

Decimo. Preordinare emissioni e raccolte differenziate dei rifiuti industriali, urbani e domestici, al fine di facilitarne il riciclaggio, mirando (come a un'idea-limite) alla quasi totale assenza di ogni
accumulo di rifiuti inservibili e di scorie nocive.

Ad alcuni tra gli anzidetti impegni programmatici potremmo far seguire qualche commento a titolo di esemplificazione.

Sul secondo conviene precisare che anteporre la produzione e lo scambio di merci che si offrano come beni sociali, anche se sul terreno dell'iniziativa privata, non equivale a sovvenzionare o gratificare con sacrificio di denaro pubblico o esonerare da obbligazioni, imposizioni e contribuzioni di natura pubblica talune imprese, ma potrebbe tradursi, viceversa, nel rendere più onerose la produzione e il consumo delle altre merci (se fosse accertato un loro consumo precipuamente voluttuario o superfluo e, per qualche aspetto, dannoso).

Una precisazione analoga riguarda il quarto compito.

Sul nono, vorrei osservare che alcune grandi imprese private multinazionali si prodigano, con apprezzabile vocazione al mecenatismo, per il restauro di opere d'arte vulnerate dal tempo e dagli agenti atmosferici. Non sempre quei restauri, suggeriti anche da strategie pubblicitarie, sono rispettosi della genesi e del destino storico delle opere sulle quali intervengono, né pertanto sfuggono alla critica dei critici (dei critici d'arte e degli storici), ma l'intenzione parrebbe apprezzabile. Non lo è, invece, la programmatica ostilità di quelle stesse imprese e di altre all'idea di un fattibile "restauro" dei propri prodotti già immessi nel mercato. Uno dei modi con i quali si  rende palese la loro calcolata ostilità è la consuetudine di far pagare il recupero parziale del prodotto (o i "pezzi di ricambio" per il recupero funzionale, per la riconversione ecc.) a prezzi spesso più elevati di quelli richiesti per il prodotto intero. Potenza del profitto: riuscire a sfidare e a sovvertire le regole della logica aristotelica e della geometria euclidea, mostrandoci che la parte può essere maggiore del tutto.

Se consideriamo le politiche economiche presupposte dal nostro decalogo, ci rendiamo conto che per poter conseguire le sue finalità sono irrinunciabili l'intervento pubblico nell'economia e la programmazione economica pubblica, ossia strumenti familiari alla tradizione di pensiero e alla progettualità socialista o comunista.

Ma allora il decalogo verde ci si prospetta, verosimilmente, come un coerente decalogo rosso-verde.

E' una constatazione, questa, che può indurci a ripensare, per grandi linee, i caratteri storici passati e presenti (o futuri) dell'utopia sociale.

I pochi cultori o lettori dei classici progetti utopici si mostrarono generalmente consapevoli che l'utopia non apparteneva allora all'ordine delle cose necessarie e neppure di quelle possibili: era «il sogno di una cosa»  impossibile.

Ma, dal XIX al XX secolo, i molti seguaci del materialismo storico-dialettico cosiddetto ortodosso si convinsero, a torto, che la futura meta di una comunità libera tra uguali e riconciliata con la natura dovesse essere il portato necessario delle contraddizioni presenti e anzi l'esito certo già iscritto nelle leggi della storia, deterministicamente concepite dallo scientismo di quell'epoca.

Sul finire del novecento, i pochi sopravvissuti alla fine delle grandi narrazioni e, poi, alla caduta dei brutti muri e delle «belle bandiere» ripiegarono, ragionevolmente, sulla supposizione che l'utopia sociale si configurasse soltanto come un futuro possibile tra i molti altri (egualmente o forse con un grado di probabilità maggiore) possibili.

A partire dalla "mondializzazione" odierna e più ancora in un domani incerto, saranno forse, di nuovo, in molti coloro che si dichiareranno persuasi, nuovamente, del carattere di necessità intrinseco nell'utopia sociale. Ma la necessità non sarà più quella del paradigma otto-novecentesco.

Non sarà né una necessità destinale o provvidenziale né la legge derivata da un determinismo ormai desueto.

La nuova necessità corrisponderà non alla greca «ananché», non al tedesco «müssen», ma al «sollen» o a un «imperativo categorico» di forma kantiana che, se sottratto alle atmosfere rarefatte della speculazione filosofica, è secolarizzabile nel concetto di una condizione eticamente necessaria, pur se non sufficiente: condizione necessaria per la salvezza.

E anche sulla  nuova idea di salvezza dovremo intenderci.

Rimuovendo ogni alone escatologico o soteriologico, ogni pensiero di attesa salvifica per anime elette e trasumanate, ci adopreremo soltanto per la, terrestre, salvezza della nostra umana specie minacciata forse di estinzione, per una protratta (benché certamente non in eterno) sua sopravvivenza.

Giuseppe Prestipino

e-mail inviata il 9 marzo 2000
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