MORIRANNO DI CARNE
di Marinella Correggia



L’aumento del consumo di carne e di pesce nei paesi del cosiddetto Terzo mondo non contribuisce a risolvere la tragedia della fame e, insieme al permanere di livelli di consumo ben più elevati nel Nord del mondo, è una grande minaccia per la disponibilità alimentare mondiale e per lo stato del pianeta. Suoli e foreste, acqua, aria sono e saranno le vittime, insieme agli animali allevati.

Se tu affermi di essere nato per questo tipo di alimentazione, quando vuoi mangiare un animale, prima uccidilo tu stesso, ma fallo servendoti solo delle tue forze, non di coltelli o scuri. Ammazza un bue a morsi o sbrana con la bocca un maiale, un agnello o una lepre e gettandoti su di loro divorali mentre sono ancora vivi. Ma se aspetti che la tua preda diventi cadavere e la presenza dell’anima vitale ti fa esitare a gustarti la carne, perché contro natura ti nutri di ciò che è animato? (1)

Se urla uscissero dalle bocche dei pesci agonizzanti per ore, nessuno avrebbe forse il coraggio di avvicinarsi alle pescherie che considererebbe diaboliche. Ma gli animali d’acqua tacciono quando asfissiano al sole e quando vengono bolliti vivi.

  1. Uno spettro si aggira per il mondo
    "Una rivoluzione del bestiame è in corso nei paesi in via di sviluppo, con profonde implicazioni per l’agricoltura globale, per la salute, i livelli di vita e l’ambiente" leggiamo sull’ultimo rapporto annuale dell’Ifpri, Istituto internazionale di ricerche sulle politiche alimentari (2). No, non è affatto una rivolta degli animali da carne, studi dell’ergastolo e delle condanne a morte! E’, al contrario, la diffusione nei paesi del Sud del mondo del modello alimentare a forte componente carnea finora caratteristico dei paesi Ocse, ovvero dei ricchi. Da tempo, è vero, il confronto obbligato è stato fra l’enorme quantità di carne ingoiata nei paesi ricchi a confronto con il quasi-vegetarianesimo (forzato) dei paesi poveri.

    Ma potremmo avere l’impressione che dopo la mucca pazza e grazie al verbo vegetariano, la componente di "salme" nella dieta si sia ridotta. Ma questo vale solo per l’Europa (dell’Ovest per ragioni sanitarie e anche un po’ animaliste, dell’Est per il collasso economico post-muro). Invece, la dieta è diventata ancora più carnivora negli Usa - che sono al primo posto mondiale nel consumo pro capite di tutti i tipi di carne e che hanno assistito a un aumento del detto consumo anche negli anni ‘90 – e soprattutto, fattore dirompente, si sta facendo avanti la domanda di carne nel Terzo mondo, soprattutto da parte degli abitanti delle città e a causa di fattori quali l’imitazione dello stile alimentare del Nord e la convinzione che carne e prodotti animali (latte e derivati, uova) siano indispensabili. Così, anziché allinearsi verso il basso, la domanda di carne si sta allineando verso l’alto e lo scenario si presenta pieno di pericoli, dal punto di vista della sicurezza alimentare, dell’ambiente, della salute umana e del benessere animale.

    Molta carne è passata sotto le fauci umane da quando, negli anni 70, Pierre Parodi, medico del movimento gandhiano Arca nel saggio Giusta alimentazione e lotta contro la fame mostrava come un’equa distribuzione delle risorse vegetali potesse risolvere la tragedia della denutrizione e assicurare anche agli abitanti dei paesi poveri uno stato di salute soddisfacente. Molta carne anche da quando Moore-Lappé e Collins in Dieta per un piccolo pianeta spiegavano che le stalle sono "fabbriche di proteine alla rovescia", e che le risorse del pianeta (suolo, acqua) e le sue capacità di assorbimento degli inquinanti non consentivano la generalizzazione di un’alimentazione con una forte componente di carne, che avrebbe richiesto...molti pianeti; mentre ne abbiamo solo uno, e piccolo.

    Parlino dunque le cifre. E le stime per il futuro.

    Allo stato attuale, il consumo medio di carne nei paesi industrializzati è nettamente più elevato di quello dei paesi poveri del Sud del mondo: 81,6 kg pro capite all’anno contro 17,7.

    Il 23% della popolazione della parte "ricca" del mondo consuma anche pro capite il quadruplo del pesce e il quintuplo del latte.

    Ciò significa, fra l’altro, che in Europa il 57% dei cereali, soia e semi oleosi prodotti sono usati per nutrire il bestiame allevato; e la percentuale sale al 70% negli Usa (3). Si tratta per la gran parte di alimenti vegetali che potrebbero essere destinati direttamente al consumo umano; e che talvolta sono prodotti ed esportati dal Sud del mondo, là dove c’è la fame. E dell’insostenibilità di quest’eccessivo consumo di carne e prodotti animali molto si è detto. A livello mondiale, intorno al 50% dei semi prodotti vengono impiegati per alimentare il bestiame di cui circa l’85% destinati agli allevamenti del Nord. La soia è un’altra delle colture destinate principalmente all’alimentazione animale. Poiché la gran parte delle terre agricole sono già ipersfruttate e le risorse cerealicole mondiali sono ultimamente in crisi, si comprende che per un puro fatto aritmetico le derrate cerealicole e in genere vegetali prodotte nel mondo non basterebbero a nutrire una popolazione umana a tendenze "carnivore" maggiore dell’attuale.

    Che succederà allora fra un po’, con l’ingresso fra i grandi carnivori di una frazione significativa di abitanti del Terzo mondo, che totalizza l’80% della popolazione mondiale? E senza che parallelamente diminuisca la domanda di carne a Nord – dove pure la popolazione non crescerà quasi più?

    L’Ifpri prevede infatti che fra il 1995 e il 2020 la domanda di carne raddoppierà nel mondo in via di sviluppo per arrivare a 190 milioni di tonnellate, e aumenterà del 25% nei paesi industrializzati per arrivare a 122 milioni di tonnellate. In termini pro capite, la domanda di carne nei paesi in via di sviluppo (soprattutto carne suina) aumenterà del 40% mentre quella di cereali per il diretto consumo umano solo del 10%.

    Saranno soprattutto i ceti urbani e industriali e le classi medie e medio-basse ad accedere a questo nuovo menu (le élites, hanno già da tempo acquistato abitudini del tutto occidentali).

    Anche con ciò, se si considera il parallelo aumento della popolazione, l’abitante medio di un paese in via di sviluppo consumerà nel 2020 meno della metà della quantità di cereali dell’abitante medio di un paese "ricco" e un terzo della carne.

    Entro il 2020, la domanda pro capite di carne sarà sempre molto diseguale: l’Asia del Sud a quota 8,5 kg; l’Africa Sub-Sahariana 11,2; il Medio Oriente e il Nordafrica a quota 26,4; il Sud-Est asiatico a quota 26,9; l’Asia orientale, con un quasi raddoppio, sarà a 63,7; l’America Latina a 64,3; i paesi sviluppati a 85,3, anch’essi con un certo aumento.

    Nel Sud geografico e sociale del mondo, la Cina farà la parte del leone; anche in senso letterale. Coprirà un quarto dell’aumento globale della domanda di cereali e due quinti dell’aumento della domanda di carne; mentre per l’altro grande colosso demografico, l’India, si prevede un aumento della quantità di cereali pari a solo un decimo di quello della Cina. L’India è forse il paese al mondo che ha il più basso consumo di carne pro capite, per ragioni culturali (la filosofia indù e quella buddhista) e per il basso reddito.

    In Cina si sta assistendo a un fenomeno interessante: da ex enorme paese agricolo in cui la autosufficienza alimentare era il principio base, si sta trasformando in paese urbanizzato e industrializzato (seppure nel tipo di industrie che producono merci a buon mercato, la cui vendita all’estero non frutta poi molto in termini unitari: ma questo è il segreto dei paesi del Nord: esportare tecnologia per importare merci a basso prezzo. Questa è però un’altra storia). Ebbene, le città e le industrie sottraggono suolo e acqua all’agricoltura; i nuovi modelli di consumo dei cinesi urbanizzati puntano sulla carne (suina e pollame, oltre alle uova; si prevede un raddoppio della domanda entro il 2020) e sulla...birra. Altro terreno quindi è sottratto per la produzione di cereali da birra o foraggio. E siccome non basta, risorse vegetali vengono importate in quantità. E la Cina ha rinunciato alla sua autosufficienza alimentare.

    Nel complesso dei paesi in via di sviluppo, sempre fra il 1995 e il 2020, la domanda di cereali per nutrire il bestiame raddoppierà, per arrivare a 445 milioni di tonnellate.

    Bene. Ma come verrà soddisfatta questa domanda di carne e quindi di semi e foraggio, vera o presunta tale?

    Non si sa! Il rapporto invita i paesi del mondo a "organizzarsi" per evitare che questo crescere della domanda di prodotti animali si traduca in problemi (eufemismo) ambientali e di risorse disponibili.

    Intanto, sul lato della produzione, attualmente sono ancora gli Usa i primi produttori di carne bovina e pollame, trovandosi al secondo posto per la carne suina, dopo la Cina.

    Negli ultimi 20 anni, riporta la Fao, la produzione di carne (soprattutto maiali e polli) nei paesi in via di sviluppo è cresciuta del 127%, quella di uova del 331%, quella di pesce del 117%, mentre quella di cereali solo del 78%.

    Nel 1995 i paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati producevano la stessa quantità di carne, 99 milioni di tonnellate (ma il Nord ne mangiava pro capite una quota ben maggiore). Entro il 2020, i paesi del Sud dovrebbero produrre 191 milioni di tonnellate di carne, mentre il mondo sviluppato dovrebbe arrivare "solo" a 123.


    (Vogliamo, fra l’altro, tradurre in termini di esseri viventi – e poi ammazzati - questa resa in carne? Bene: attualmente il numero di animali allevati sulla Terra è di gran lunga superiore a quello degli esseri umani: un miliardo e mezzo di bovini, un miliardo - ma in rapida crescita - di maiali, 13 miliardi di polli, un miliardo di pecore e capre. Per non contare i "minori". Non è poi contabile il numero di pesci coinvolti nella piscicoltura: sono calcolati a tonnellaggio; non è stato calcolato di quanto aumenteranno questi individui da qui al 2020, secondo i trend individuati).

    Per nutrire più bestiame, da qui al 2020 gli agricoltori di tutto il mondo dovranno produrre il 40% almeno di cereali e foraggio in più. A proposito: chi dice che anche le piante soffrono e che quindi è ‘inutile’ essere vegetariani, dovrebbe essere messo di fronte a più di un fatto già compiuto: più carne uguale più alberi tagliati; più carne uguale più piante di cereali coltivate, colte e mangiate.

    La popolosissima e per ora piuttosto vegetariana India avrà presto bisogno, secondo i calcoli, di 700 milioni di tonnellate di foraggio; ma le disponibilità ammonteranno, sempre secondo le stime, a soli 500 milioni. E allora?

    Ma il ragionamento vale anche a livello planetario: non si sa davvero come l’aumento nella produzione di cibo per gli animali potrà essere raggiunto: visto che le rese per ettaro non stanno aumentando ultimamente, e d’altra parte de terre coltivabili ancora non sfruttate sono poche. Nel 2020 il mondo in via di sviluppo dovrebbe produrre il 59% dei cereali mondiali e il 61% della carne. Ma la produzione interna di cereali non basterà e l’importazione – il 60% del totale dagli Usa – dovrebbe quindi quasi raddoppiare fra il 1995 e il 2020, per arrivare a 192 milioni di tonnellate.

    A livello di tutti i paesi in via di sviluppo, entro il 2020 le importazioni di carne per soddisfare la domanda dovrebbero crescere otto volte.

    L’America Latina dovrebbe rimanere un esportatore netto di carne, mentre l’Asia del Sud dovrebbe passare da esportatore netto a importatore netto. L’Asia orientale dovrebbe aumentare l’import di carne di 28 volte, soprattutto per il ruolo della Cina.

    In tutto ciò, ammette il rapporto dell’Ifpri, pur ottimistico rispetto alla "rivoluzione del bestiame", la malnutrizione e l’insicurezza alimentare persisteranno nel 2020 e oltre. Perché? Ecco perché (ma loro non lo dicono).
  2. Un affamato pianeta-stalla
    La diffusione del consumo di carne, in questo mondo ora pieno di più di 800 milioni di affamati non significa un aumento della sicurezza alimentare – che va definita come "l’accesso a una quantità di cibo adeguata in quantità e qualità a una vita sana".

    C’è infatti un problema di "resa energetica" e "resa proteica": un chilo di proteine vegetali, passando attraverso gli animali allevati, diventa molto meno, ovvero 60 grammi nel caso di carne di manzo, 310 nel caso delle uova, 380 nel caso del latte. (Naturalmente, come si è visto, nella realtà gli animali vengono nutriti anche con sostanze come grassi combustibili, scarti di animali morti, farina di pesce...ma non si dica che quest’alimentazione alternativa è accettabile).

    Quanto all’energia assimilabile, questa scende a un decimo. Ecco perché è stato calcolato che soltanto per sostenere l’attuale popolazione mondiale con un regime alimentare di stile americano si richiederebbe una quantità di cereali pari a due volte e mezzo la produzione mondiale.

    Circa il 50% per semi – non solo cereali ma anche protoleaginose – prodotti al mondo sono impiegati per alimentare gli animali da macello, destinati all’85% all’alimentazione degli umani del Nord del mondo.

    Nei paesi occidentali si stima che una persona consumi in media quasi una tonnellata di cereali all’anno: di questa tonnellata, circa 90 chili vengono consumati direttamente sotto forma di pane, pasta o cereali per la prima colazione, una quota marginale sotto forma di bevande alcoliche ed il resto come prodotti zootecnici. Nei PVS, invece, il consumo diretto umano assorbiva nel 1990 ancora il 70% (ma con significative variazioni regionali - il 90% nell'Asia del Sud ed il 55% nel Medio Oriente e Nord Africa), mentre agli animali ne veniva destinato circa il 20%, con la restante quota usata come semente o per usi industriali non alimentari.

    Si pone sempre più il problema della cosiddetta food-feed competition: competizione fra cibo per gli umani e cibo per gli animali.

    Ecco perché A.M. Mannion nel suo testo Agriculture and Environmental Change dice che "grandi quantità di energia vengono perdute laddove la carne è desiderata e prodotta; si avrebbero sistemi molto più efficienti se gli umani fossero tutti vegetariani".

    Non è affatto chiaro come il mondo potrà far fronte a un aumento rilevante nel numero di consumatori di carne. Supponiamo che nel 2030 il raccolto di cereali a livello mondiale sia pari a 2,2 miliardi di tonnellate, corrispondenti a una crescita annua di 12 milioni di tonnellate. Quella quantità di cereali potrebbe essere sufficiente a nutrire popolazioni di varie dimensioni, a seconda dei livelli di consumi. Se questi fossero pari a quello degli Stati Uniti – 800 chilogrammi pro capite l’anno, in massima parte assorbiti dagli animali in allevamento stabulare – un tale raccolto fornirebbe il sostentamento a 2,75 miliardi di persone, cioè a metà della popolazione mondiale attuale. Al livello di consumo italiano – 400 chilogrammi pro capite – sarebbe sufficiente e 5,5 miliardi di abitanti. Ma al livello di consumo indiano – 200 chilogrammi, in gran parte per l’alimentazione umana – basterebbero per 11 miliardi. Il problema è che il tasso di crescita dei raccolti sembra rallentare, e la pressione sui magazzini in cui sono stoccate le riserve di cereali è sempre maggiore. Lo stile di vita occidentale esteso a tutto il pianeta non sarebbe quindi in alcun modo sostenibile a causa dei limiti fisici della produzione: occorre quindi un riaggiustamento dei livelli di consumo dei "ricchi" che risponda a criteri di equità e sostenibilità ambientale.

    Se dagli squilibri globali passiamo al livello nazionale, va detto con la diffusione del consumo di carne un paese rischia anche di perdere la sovranità alimentare e di diventare dipendente dall’estero per il cibo, situazione molto pericolosa (si pensi al caso dell’embargo all’Iraq, così devastante perché il paese dipendeva dall’estero per le produzioni essenziali).

    La fame, inoltre, è legata alla mancanza di soldi, cioè di potere di acquisto. La carne costa troppo per la maggioranza dei poveri, che sono i più insicuri dal punto di vista alimentare. E se la maggiore richiesta di cereali per nutrire gli animali indurrà un aumento dei prezzi, anche il cibo vegetale sarà meno accessibile, per ragioni economiche.

    L’insicurezza alimentare è legata anche a un altro fenomeno: i paesi ricchi di gente povera e "alimentarmente insicura" esportano sia carne sia derrate vegetali per nutrire gli animali, come la manioca e la soia.

    Anche le ripercussioni sociali sui produttori non sono indifferenti. I contadini poveri non usciranno dal loro stato grazie alla produzione di carne. Occorrerebbe ben altro! E’ vero che l’allevamento, nomade o stanziale, degli animali può contribuire alla sicurezza alimentare di molte popolazioni e alla generazione di reddito; ma non sono queste le caratteristiche dell’allevamento in espansione oggi: esso è concentrato in poche mani (molte aziende anche transnazionali controllano alcuni comparti quale quello porcino e avicolo), in grandi stabilimenti a carattere industriale, in territori prossimi a zone portuali che garantiscano un rapido rifornimento di mangimi. Niente a che vedere con la sopravvivenza di contadini...

    "L’esportazione della carne viene promossa anche in India, paese della mucca sacra. Ma il bestiame gioca un ruolo nella vita dei piccoli contadini: serve a dare energia animale per i lavori agricoli e fertilizzante alternativo a quello chimico. Ammazzandoli per l’export si distrugge più valore economico locale di quanto non ne venga creato nell’economia globale" dice l’ambientalista indiana Vandana Shiva; "Si chiede al Terzo mondo di omettere di coltivare cibo, e di coltivare invece generi di lusso per il Nord. In questo modo, i contadini sono costretti a lasciare le proprie terre mentre le grandi imprese ne assumono il possesso, producendo per l’export carne, fiori, verdure e gamberetti. Intanto, la produzione di alimenti di base è concentrata negli Stati Uniti e controllata da poche multinazionali". Già, gli Usa.

    Ecco un’eventuale obiezione: gli animali possono anche essere allevati con "mangimi" alternativi che non competono con il cibo per gli umani, ad esempio sottoprodotti immangiabili: melassa, paglia trattata, ecc. Ma di fatto nella maggior parte dei casi non è così, come dimostra il destino di una parte rilevante di cereali; né la soluzione saranno i mangimi che hanno provocato il morbo della mucca pazza. Si potrebbe poi dire che molti animali hanno l’abilità di convertire le proteine delle piante, di qualità modesta in termini di composizione aminoacidica, in proteine che in sé si presentano complete. C’è però da rilevare che questa completezza proteica viene pagata cara: l’insalubrità dei contenuti collaterali della carne la rendono un cibo tutt’altro che sano...

  3. La carne o la vita del pianeta
    Perché l’impronta ecologica non è un’opinione. E’ stato calcolato che l’impronta ecologica – cioè il consumo di risorse, in questo caso il suolo - di un individuo che segue una dieta ad alto consumo di carne è di 4.000 metri quadrati di terreno, necessari a produrre i foraggi e i cereali che alimenteranno gli animali da carne. A un vegetariano invece bastano 1.000 metri quadri. Un dato non indifferente. Infatti, allo stato attuale "la disponibilità di terra coltivabile per ogni abitante della terra è pari a 0,27 ettari, cioè 2.700 metri quadri. Per la sola produzione di carne sono occupati almeno 0,12 ettari per persona. La riduzione del consumo di carne potrebbe abbassare sensibilmente il fabbisogno di terreno", sostiene il tedesco Wupperthal Institute. E questo mentre ancora i quattro quindi del mondo sono piuttosto "vegetariani", obtorto collo, e mentre la popolazione mondiale è a quota sei miliardi. Ma è stato calcolato che nel 2050 il terreno arabile pro capite varierà fra i 1.200 metri quadri a testa (nel caso di previsione demografica elevata) e i 2.000 metri quadri a testa (nel caso di crescita demografica bassa) (4).

    Il movimento statunitense Farm (Farm Animal Reform Movement) ha così riassunto: "Occorrerebbe fare il possibile per ridurre la produzione e il consumo di carne nel Nord del mondo, anziché promuovere gli allevamenti intensivi su ampia scala e del consumo di carne nel Sud del mondo. Questo fenomeno infatti porterà là quello che è già successo qui da noi: deforestazione e inquinamento delle falde acquifere e dei fiumi; e nient’affatto maggiore sicurezza alimentare".

    Nel caso di allevamenti estensivi, all’aperto, c’è una proporzionalità diretta fra crescita dei pascoli e riduzione della superficie forestale, in America Latina e Asia. In Amazzonia, 15.000.000 di ettari a pascolo hanno sostituito gli alberi. In altri luoghi al mondo, la maggior parte della vegetazione prelevata va a nutrire gli animali. In zone semi-aride, invece, le produzioni animali estensive contribuiscono al degrado ecologico che prende la forma della desertificazione.

    Nel caso di allevamenti senzaterra, occorrerà occupare terreno da destinare alla produzione di cereali e foraggio per nutrire gli "ergastolani" a quattro e due zampe.

    Il dover nutrire esseri destinati a essere divorati da umani carnivori significa destinare all’agricoltura superfici ben maggiori di quelle che occorrerebbero in un mondo di vegetariani. Visto che le terre emerse e coltivabili non sono infinite, questo spreco impone di spremere dai suoli tutto il possibile: impiegando enormi quantità di pesticidi e fertilizzanti chimici.

    Il ciclo dell’allevamento – produzione dei cereali, protoleaginose o foraggi, gestione delle stalle – richiede enormi quantità di sostanze chimiche (i soli campi di mais da mangimi consumano circa il 40% dei fertilizzanti azotati e quantità di diserbanti e insetticidi maggiori di qualsiasi altra coltura), acqua da irrigazione e nelle stalle (produrre un chilo di carne di manzo "costa" 3.200 litri di questa delicatissima risorsa) ed energia fossile con quel che ciò comporta in termini di effetto serra (per ottenere una caloria di carne bovina si consumano 78 calorie di combustibile, mentre per una caloria di fagioli di soia solo 2). (5) "Il mangime per animali allevati? Un sottoprodotto del petrolio, tanto è energivo. Se al mondo tutti mangiassero tanta carne quanta nei paesi ricchi, si richiederebbe per questo tanta energia quanta il mondo ne usa ora per tutti gli scopi" (David Pimentel, ecologo agrario).

    Inutile poi attrarre l’attenzione sull’inquinamento prodotto dalle deiezioni degli animali allevati nelle stalle intensive. O su quello legato alle concerie, capaci di acidificare vasti territori agricoli e di rendere imbevibili le acque dei poli conciari, soprattutto laddove le tecnologie di parziale disinquinamento sono troppo costose...

    Insomma, la carne è come l’auto. Un prodotto indissolubilmente legato all’ingiustizia distributiva. Non ci potrà essere carne per tutti (pane e legumi sì, invece), così come non ci potrebbero essere auto per tutti. Se i cinesi decidessero (o possiamo dire: quando i cinesi decideranno...) di avere anche solo la metà di auto pro capite che hanno Usa ed Europa, il pianeta salterebbe per i gas di scarico prodotti e per il consumo di fonti non rinnovabili di energia. Meno male che finora vanno soprattutto in bici! Insomma, carne e auto sono sostenibili solo se sono per pochi. "Nel mondo c’è abbastanza per i bisogni di tutti ma non per l’ingordigia di alcuni" disse Gandhi molti anni fa e le conquiste tecnologiche non l’hanno ancora smentito.

    Lo stesso rapporto dell’Ifpri sottolinea inoltre che i governi dovranno introdurre misure di controllo dell’inquinamento degli allevamenti di grande scala che domineranno i sistemi produttivi zootecnici nei PVS per una prospettiva caratterizzata da "una industria zootecnica dominata da pochi grandi produttori, da poche opportunità per gli agricoltori poveri e da un basso controllo dei rischi ambientali e sanitari".

  4. Ammalati prossimi venturi
    Quando la Banca Mondiale ha firmato, un prestito di 93,5 milioni di dollari per finanziare la nascente industria cinese della carne di manzo, il dottor Neil D. Barnard, presidente del Comitato dei medici americani per la medicina responsabile ha così commentato: "L’Organizzazione mondiale della Sanità avrebbe agito in modo differente. I suoi dati mostrano infatti che la dieta cinese tradizionale, ricca di riso e vegetali, con poca carne e quasi priva di latticini, ha tenuto lontani i disturbi cardiaci e una gran quantità di altri problemi di salute che caratterizzano gli occidentali. Oggi, sfortunatamente, carne, fast food e formaggi hanno cominciato a sostituire il riso tradizionale e i piatti vegetariani in molte regioni. E in queste si è registrata la più elevata incidenza di problemi di salute simili a quelli occidentali. Mentre gli americani stanno riconoscendo la necessità di "orientalizzare" la loro dieta con riso, prodotti di soia e varietà vegetali, i burocrati della Banca Mondiale decidono di promuovere l’occidentalizzazione della dieta cinese. Anziché sostenere la diffusione del grano in quanto alimento privo di colesterolo per la dieta delle persone, si userà il grano per nutrire gli animali che serviranno a produrre carne. Questa pratica mostra non soltanto un disinteresse per la salute, ma anche un inefficace utilizzo delle risorse alimentari. Certamente gli sforzi della Banca Mondiale per promuovere la produzione di carne in Cina hanno più a che fare con gli investimenti economici che con le considerazioni sulla salute" (6).

    Così, nel Sud del mondo alla fame si sta aggiungendo la carne agli antibiotici, agli ormoni, ai morbi pazzi, alle adrenaline e ad altri veleni.

    Le ragioni per cui la carne fa male sono inerenti alla sua natura ma anche alle modalità di allevamento: non dice nulla il fatto che ogni anno in Europa gli animali di allevamento consumano 5 mila tonnellate di antibiotici, di cui 1500 per favorire, artificialmente, la crescita di polli, tacchini e vitelli? Ed è ancora peggio negli Usa, dove il ricorso agli ormoni è permesso e ovvio.

    Non insegnano niente a nessuno gli Hunza, longevo popolo tibetano che non conosce malattie e vive pacifico sulle pendici dell’Himalaya, nutrendosi di frutta e cereali crudi ancora non maturi, germogli di grano, latte cagliato e formaggi solo freschi? Non sono lì a dimostrare che la continua ripulitura delle giacenze tossiche, attuata da una dieta alimentare disintossicante, aiuta a star bene e a lungo?

    Anche i cosiddetti derivati animali sono a rischio. "Solo con l’esercizio fisico la gallina è in gradi di ben digerire il suo cibo; ma attualmente, in India, anche se vi sono norme precise per i pollai, come lo spazio pro capite, la ventilazione e il cibo sano, queste non vengono rispettate...Quindi le uova prodotte in tal modo non solo mancano di potere nutritivo ma anche possono causare malattie. Soprattutto ai bambini e alle persone non forti, non bisogna dare queste uova" (7) Il medico indiano che scrive, essendo vegetariano, nemmeno pensa a nominare la carne di gallina.

    E le patologie psicologiche, collegate al consumo di carne? Insomma, le guerre da aggressività?

    Se passiamo in rassegna la DAS (dieta americana standard) questa prevede in testa a tutto hamburger, hot dog, altre carni, cereali raffinati, dolci, caffè (8). La dieta dei marines è ancora più carnivora. Ne vediamo bene i risultati, in termini di guerre, violenza e volontà di potenza. Studi sull’alimentazione che anche nel passato veniva somministrata ai guerrieri (ad esempio nell’antica Grecia e nell’antica India) dimostrano che da millenni la carne è ritenuta indispensabile all’aggressività. "Esaminando noti studiosi di psicanalisi, abbiamo motivo di credere che l’abbattimento di animali sia l’esercizio di base per lo scatenamento delle pulsioni individuali e dell’inconscio collettivo che portano a provocare la guerra" (9). Insomma, se pure non basta mangiar carne per essere dei guerrafondai, ci risulta difficile immaginare un vegetariano che parte a bombardare una città...

    Un altro problema è legato al trattamento delle carni. Ascoltiamo cosa avviene nei migis, i mattatoi rurali della Somalia – un paese che non è più un paese, come del resto molti altri in dissoluzione, senza leggi né regole – che sono lontanissimi da qualunque norma igienica: "le carni si sporcano per i movimenti scoordinati degli animali scannati che vi cadono sopra; il mescolamento del sangue, con il contenuto ruminale e la terra dovuto allo scuoiamento e all’eviscerazione. Alle intossicazioni dovute all’alta carica batterica delle carni per la mancanza di igiene nella macellazione si aggiungono i problemi si conservazione dovuti alle carenze refrigerative" (10).

  5. Tropical lager
    Gli allevamenti-lager stanno conoscendo una diffusione di massa, resa necessaria dall’aumento della richiesta di carne e dalla scarsa disponibilità di territorio per l’allevamento estensivo.

    Stalle, gabbie e catene sono il contraltare dell’inconfondibile odore di fritto dolciastro che circonda i fast-food aleggia ormai in quasi cento paesi del mondo. A seconda delle realtà religiose e filosofiche, l’hamburger è privo di carne suina, oppure bovina. Come in India, dove la mucca è sacra – ormai solo pro forma per la verità. Là si sta espandendo la Kentucky Fried Chicken (Kfc) è una catena di fast-food di proprietà della multinazionale americana Pepsico. Leggiamo su "Resurgence", rivista del Third World Network, organizzazione di esperti del Terzo mondo: "Gli allevamenti intensivi che forniscono polli alla Kfc vanno contro l’ecologia, la salute e un modello di allevamento sostenibile e compassionevole. Gli animali vivono in una situazione di stress, tanto che è necessario amputare loro il becco per evitare ferite mortali. Talvolta succede che i mutilati muoiano di fame. Vengono ingozzati, il corpo quindi cresce troppo per le loro zampe. I pollai intensivi sono monocolture dove gli animali sono imbottiti di antibiotici (...); mentre nell’Ovest aumenta il numero di vegetariani e di chi ricorre alle uova free-range, deposte cioè da galline allevate a terra anziché in batteria, il Kfc spinge avanti pericolosi allevamenti in India inducendo i consumatori a mangiare carni patogene o imbottite di antibiotici".

    Se in Europa si è lontani dall’arrivare ad allevamenti umani, perché troppa e mal orientata è la pressione della domanda, figurarsi nel Sud del mondo, dove le regole di stabulazione e trasporto si scontrano, nella loro applicazione, con emergenze umane ed economiche cogenti. Sono anzi da ammirare i casi in cui provvedimenti di legge o modalità pratiche mostrano una certa compassione anche per i non umani.

    Per povertà e incuria, i macelli "poveri" mancano delle regole minime. Ecco una "scenetta" da un libro indiano che parla di lavoro infantile: "Ha circa 10 anni, cammina nel macello pubblico con una capra spelata sulle braccia. La sua pelle scura è macchiata di sangue. Porta la capra al triciclo che la condurrà alla macelleria. (...) Nel pomeriggio i bambini assistono a un altro lavoro: l’uccisione della mucca. Il collo degli animali è reciso, ma mentre sono ancora vivi il piccolo garzone comincia a spellarli con un coltello. Stanno peggio gli animali o i bambini? Secondo gli attivisti per i diritti animali, la situazione è per entrambi angosciante".

    Ed ecco una piccola descrizione del macello di Bujumbura, un ricordo che risale a pochi anni fa. Una stanza divisa in due serve per la prima lavorazione di quarti di bovino, mentre sul davanti il pavimento cosparso di sangue e grumi scivola sotto gli zoccoli delle mucche, che silenziose – un silenzio assurdo - corrono in circolo cercando inutilmente di sfuggire alla cattura. Cadono, ed ecco un colpo di martello sulla testa e di coltellaccio sulla gola. Si dibattono per un po’, sfuggono ancora. Poi, stramazzate al suolo, una mannaia stacca loro la testa. In un’altra stanza, su una pedana sopraelevata vengono spinti i maiali urlanti. E via l’uno, subito l’altro: un coltello apre loro il collo e subito, purtroppo ancora vivi, sono gettati in una vasca di acqua calda ("per staccare la pelle"). Lì sotto, una fila di caprette aspetta gridando l’esecuzione mediante taglio del collo. Non vi sono polli: possono ben essere ammazzati a domicilio. Avranno nel frattempo introdotto le pistole e i fili elettrici in quel mattatoio? Difficile sperarlo: il Burundi è diventato un macello per gli stessi esseri umani.

  6. L’urlo del pesce
    Dal mare la salvezza proteica del mondo? Non si direbbe...

    Il contributo delle proteine del pesce alla componente proteica totale (proteine animali e vegetali) della dieta umana è inferiore al 5% nei paesi più poveri. Il contributo calorico del pesce all’alimentazione umana, poi, è ancora inferiore: circa l’1%.

    Inoltre, le risorse ittiche del pianeta sono in pericolo, per il fenomeno detto overfishing, eccesso di prelievo. Per cui, è presumibile che tutta la futura crescita della disponibilità di proteine animali potrà derivare soltanto da fonti terrestri, originando un ulteriore impiego di cereali.

    Quasi il 70% delle più importanti specie di pesce fra cui tonni e merluzzi, sono in declino a causa dello sfruttamento indiscriminato delle acque marine. Secondo la stessa Fao, ben il 44% delle principali riserve di pesce, dal 1990, è stato interamente esaurito, e il 16% ha raggiunto il limite massimo. Nel 1997 la raccolta di pesce, inclusa l’acquacoltura, ha raggiunto nel mondo la cifra record di 122 milioni di tonnellate di cui più di 90 milioni proviene dalla pesca libera (erano 19 milioni nel 1950). (11)

    Di questo totale, una buona parte, circa il 35%, sono state destinate alla produzione di farina e olio di pesce (12). Le proiezioni indicano che nel 2010 la richiesta di pesce per il diretto consumo umano arriverà a 110-120 milioni di tonnellate annue. Sembra ben difficile raggiungere l’obiettivo di una "pesca sostenibile". E infatti la Fao non se la sente di spiegare come si potrà rispondere a una tale enorme domanda...

    Oltretutto, tante sofferenze per nulla: la stessa Fao ha calcolato che 27 milioni di tonnellate di pesce ogni anno siano ributtate a mare (ma nel frattempo molti animali saranno morti asfissiati) perché non hanno valore commerciale o perché si tratta di cuccioli troppo piccoli.

    Che molte famiglie povere nel mondo traggano il proprio sostentamento dal pesce è vero. Si calcola che decine di milioni di persone dipendano dal pesce per una parte almeno dei loro redditi.

    Ma non si dica che le priorità della politica ittica internazionale sono la tutela dei piccoli pescatori poveri. Anzi, le enormi navi pescherecce e i metodi indiscriminati come le reti a strascico (adesso vietate in Europa) che raccolgono pesce soprattutto per i consumatori abbienti fanno una concorrenza spietata ai piccoli pescatori "artigianali" del Sud del mondo. E secondo certi studi, la pesca industriale e destinata all’export ha finito per aumentare i prezzi del prodotto rendendolo meno accessibile ai poveri.

    Disastrosa per l’ambiente e i poveri – oltre che per gli animali acquatici prigionieri di piccoli spazi sovraffollati – è anche certa forma di acquacoltura, un’attività che conosce un boom: è passata, infatti, dai 10 milioni di tonnellate di pesce del 1984 ai quasi 35 milioni di tonnellate del 96. Fra non molto, quasi il 30% della produzione mondiale di pesce proverrà quindi da "fattorie" acquatiche.

    Ma un bilancio effettuato qualche anno fa ha evidenziato le aberrazioni dell’acquacoltura nei paesi in via di sviluppo, dove "enormi aree di territorio utilizzabile per l’agricoltura o, addirittura, già sfruttate in maniera produttiva sono state confiscate e devastate, per progetti destinati al fallimento per motivi tecnici o economici" (13)

    Disastroso si è rivelato l’impatto dell’allevamento dei gamberetti da esportazione soprattutto sulle coste del Sud-Est asiatico, dove continuano a susseguirsi le lotte delle popolazioni locali. Per produrre un chilo di gamberi occorre dar loro pesce come mangime per l’equivalente di 15 volte il peso dei gamberi stessi. L’agricoltura nei pressi delle coste è distrutta dalle installazioni che pompano l’acqua marina nei laghetti costieri adibiti alla produzione di gamberi, creando salinizzazione nel terreno, inquinando i pozzi d’acqua potabile, facendo seccare alberi. Le donne dei dintorni sono costrette a percorrere ogni giorno molti chilometri a piedi nella ricerca di acqua potabile.

  7. Che fare

Verrà il giorno in cui il Nord e il Sud consumeranno entrambi poca carne, o niente del tutto!, riducendo di molto le sofferenze dei viventi ed evitando di aumentare fame, malattie e distruzione dell’ambiente? Visto lo stretto legame fra carne e altri prodotti animali (latte e uova) che ne sono in genere il sottoprodotto – almeno finché nasceranno anche polli e vitelli maschi e quindi improduttivi – sarà in generale la componente animale della dieta a doversi restringere; fino al vegan? Per il pesce il ragionamento è più semplice perché non ci sono presunti prodotti nonviolenti che ne derivino.

Ovviamente, la condicio sine qua non è che gli abitanti dell’Occidente riformino la propria dieta, così da a) liberare risorse e spazio ambientale per una produzione agricola che risolva il dramma dell’insicurezza alimentare; b) proporre agli occhi degli abitanti dei paesi poveri l’evidenza di un fatto: che se ex consumatori voraci di carne sono passati al vegetale, ci sarà ben una ragione, e converrà imitarli...Per il resto, ovviamente il regime alimentare dei paesi del Sud non potrà che cambiare per decisione interna autoctona. Semmai, le agenzie del Nord dovrebbe pensaci due volte prima di finanziare progetti zootecnici come fa la Banca Mondiale (che pure li aveva sospesi tempo fa).

Ecco la proposta del Third World Network, di fronte alla vicenda della mucca pazza e all’eccessivo consumo di carne nel Nord e ormai anche nel Sud del mondo: "Naturalmente non basta che cambi l’alimentazione animale. Occorre riformare tutta l’industria dell’allevamento intensivo, ritornando a sistemi più tradizionali con le seguenti caratteristiche: gli animali (dai bovini alle galline passando per tutti gli altri) non siano prigionieri ma godano di uno spazio libero; gli animali ricevano cibo naturale, come parti dei prodotti agricoli, paglie e sottoprodotti, niente ormoni o farmaci; sia mantenuta una varietà delle specie; l’allevamento si accompagni all’agricoltura in un sistema misto, dove il letame crea ricchezza". Con il compost verde e opportuni riciclaggi si potrebbe peraltro supplire alla carenza di letame (fino a sostituirlo del tutto) dovuta alla grande riduzione dei capi allevati. E senza continuare a ricorre ai fertilizzanti chimici.

Il mondo ha bisogno di proteine? Certo (a parte l’Occidente che ne assume troppe). Ma visto il peso - in tutti i sensi - di quelle animali, perché non rivolgersi alle vegetali, ben combinate? La soia – ve n’è di non transgenica! – è lì a splendere.

E le alghe, vegetali acquatici sovrabbondanti o comunque coltivabili facilmente. E, come provocazione, riportiamo questo piccolo calcolo: "Un fermentatore produce ogni giorno dieci tonnellate di lievito, pari al contenuto proteico di 100 buoi. Ma per fare 100 buoi in modo che diano ciascuno 50 kg di proteine, occorrono tre anni; per 100 kg di lievito, bastano 2-4 ore" (14). Diversi integratori alimentari, inoltre, possono fornire un apporto di oligominerali e vitamine, senza timore di carenze e a un costo inferiore a quello dei prodotti animali. Esistono interessanti esperimenti proprio nei paesi poveri (India, Vietnam, Cuba ecc.) e andrebbero in tutti i modi sostenuti, anche dalla cooperazione internazionale; ma chi li conosce? (15)

Abbiamo lasciato da parte gli animali da agricoltura e da tiro, tuttora diffusissimi nel Terzo mondo, tanto che il 50% delle aree coltivate nei paesi sottosviluppati vengono tuttora lavorate grazie agli animali, il cui contributo energetico è pari a 250 milioni di barili di petrolio l’anno. Molti barili di petrolio sono poi risparmiati dagli animali da tiro e perfino ancora da macina, asinelli, muli e buoi. C’è chi sostiene che un’agricoltura sostenibile non possa prescindere dall’energia animale; e che un uso integrato del "bestiame" – lavoro, latte, e poi carne – è più che auspicabile.

Noi, invece, vorremmo lavorare per un mondo con meno animali ammazzati e con meno esseri umani e animali costretti a far fatica invece di accedere a un piccolo trattorino o a un mulino; mentre altrove c’è chi a mano non spreme più nemmeno un’arancia.

(Marinella Correggia si occupa di economia egualitaria-ecologica-non violenta)

Note

(1) Plutarco, I dispiaceri della carne, Millelire Stampa alternativa (non rist.)
(2) Ifpri, Food Policy Report 1999, Washington
(3) Scheda Insicurezza alimentare, a cura di M. Correggia, Globalizzazione dei popoli, Roma 1996
(4) Wupperthal Institute, "Per una civiltà capace di futuro", EMI 1996
(5) Scheda Allevamenti (a cura di L. Colombo e M. Correggia), Globalizzazione dei popoli, Roma, 1997
(6) Bistecca cinese – mentre l’Occidente sceglie la soia, La Stampa, mercoledì 29 dicembre 1999
(7)
Il dottor R.M.Nanal di Bombay, sulla rivista ayurvedica indiana Jeevaniya Sharad, Lucknow 1989.
(8) Anne-Marie Colbin, Cibo e guarigione, Macro edizioni, Cesena 1995.
(9) In occasione della guerra contro la Yugoslavia (1999), la sede Lav di Bassano del Grappa (Vi) ha prodotto un libretto dal titolo "Il sacro, la guerra, gli animali"
(10) Scheda Allevamenti, cit.
(11) Dal Rapporto annuale della LAV-Lega anti-vivisezione, 1999
(12) Schede Fao per il World Food Summit, Roma 1996
(13) The Ecologist, La Fao e la fame, Macro edizioni 1993
(14) Nico Valerio, L’alimentazione naturale, Oscar Mondadori
(15) Chi vuole saperne di più, si faccia vivo!

e-mail inviata l'8 maggio 2000

 

  1. Uno spettro si aggira per il mondo
  2. Un affamato pianeta-stalla
  3. La carne o la vita del pianeta
  4. Ammalati prossimi venturi
  5. Tropical lager
  6. L’urlo del pesce
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