LA GLOBALIZZAZIONE DOPO SEATTLE
di Giovanna Ricoveri



Il movimento dei paesi del Sud e della società civile di tutto il mondo che a Seattle, nello scorso dicembre, ha fatto fallire il Millennium Round - il terzo incontro interministeriale del WTO - segna un punto di svolta, forse un inizio per il nuovo secolo. Non si può certo affermare che l’era neoliberista, iniziata nel 1980 con la presidenza Usa di Reagan, sia finita. Per la prima volta, tuttavia, essa è stata messa visibilmente in discussione nel "cuore" stesso dell’impero, dal Nord e dal Sud. Il successo di Seattle permette forse di ragionare meglio su molte questioni - anche già note - e di riconnetterle in un quadro unitario, che favorisca l’unità del nuovo movimento internazionale di opposizione alla globalizzazione uber alles.

Il punto di partenza è la constatazione del fatto che la globalizzazione in atto non è frutto del libero mercato, e deriva invece da precise scelte compiute dagli Usa, non contrastate dall’Europa e favorite - in modo diverso nel corso degli ultimi 50 anni - sia dalla debolezza della maggior parte dei governi del Sud formatisi dopo la fine del colonialismo, sia dai piani di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale a quei paesi, in base al cosiddetto "Consenso di Washington". La dissoluzione del blocco sovietico, auspicata sotto molti punti di vista, è un altro fattore che ha inciso negativamente favorendo la globalizzazione attuale, al servizio dell’imperialismo Usa.

La scelta principale compiuta dagli Usa, dal punto di vista che qui interessa, precede l’era neoliberista di circa 7 anni, ed è la decisione presa dal presidente repubblicano Nixon nel giorno di Ferragosto del 1973, di sganciare il valore del dollaro dall’oro, abbandonando il regime dei cambi fissi definito dagli accordi di Bretton Woods alla fine della seconda guerra mondiale. La fluttuazione del dollaro - importante perché il dollaro è la sola moneta di riferimento internazionale - ha ovviamente portato alla fine delle regole monetarie, che avevano fino ad allora governato l’economia mondiale, ed è stata la premessa della liberalizzazione dei mercati delle merci e soprattutto della finanza. Questo era del resto l’obiettivo della decisione, presa unilateralmente dagli Usa per compensare la perdita di competitività della loro economia e il crescente indebitamento estero. In regime di cambi fissi, gli Usa sarebbero stati costretti ad adottare misure impopolari di aggiustamento strutturale e di austerità interna, con indebolimento della loro sovranità nazionale. Non solo, in questo modo hanno costretto Europa e Giappone - nel bel mezzo della guerra fredda - a finanziare il loro debito per decenni.

Ma l’era neoliberista vera e propria, sempre dal punto di vista della globalizzazione uber alles, inizia negli anni ’80, con la deregolamentazione del settore finanziario statunitense, che ha aperto la strada alla sua globalizzazione tramite le banche, le società di intermediazione, i fondi pensione e gli hedge funds, i fondi speculativi con meno di 99 investitori (che sfuggono così alla normativa federale). In questo modo, gli Usa - primo debitore mondiale verso l’estero (oggi 1,5 trilioni di dollari, 20% del Pil USA) - non solo non ne hanno pagato le conseguenze ma sono invece riusciti - grazie anche all’ondata di liberalizzazioni succedutesi negli anni 80 e 90 - a raccogliere in loco il risparmio dei paesi di nuova industrializzazione e di quelli emergenti (i cui tassi di rendimento erano allora molto elevati).

La deregulation finanziaria ha poi trovato un’importante applicazione all’estero nel 1985, con gli Accordi del Plaza, quando gli Usa - puntando insieme su misure coercitive e di cooperazione - imposero al Giappone la rivalutazione dello yen e la liberalizzazione del loro sistema finanziario che - alla fine del decennio - portò alla liberalizzazione dei paesi di nuova industrializzazione (le vecchie tigri asiatiche) e dei paesi emergenti (le nuove tigri asiatiche). Questo risultato è una delle pagine meno edificanti della politica economica degli Usa, coordinata dal Dipartimento del commercio estero, incaricato di "aprire" al mercato delle multinazionali e della finanza Usa le "dieci economie in ascesa dal Pacifico all’Atlantico", con il sostegno di tutti i Dipartimenti del Governo federale, della Cia e degli ambasciatori Usa nei vari paesi (Nicholas D.Kristof e David Sanger sul New York Times, 16 febbraio 1999). Manovre simili, forse più note, sono state ripetute nel 1987, per fronteggiare il crack della Borsa di New York, nel 1994-95 per superare la crisi finanziaria messicana e nel 1997-98 in occasione della crisi finanziaria asiatica.

Un altro passaggio determinante della globalizzazione targata Usa, è la legittimazione e il sostegno dato a questa strategia dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale a partire dagli anni 1980, con i piani di aggiustamento strutturale imposti ai paesi indebitati del Sud. Si tratta, com’è noto, di una serie di misure economiche e sociali neoliberiste, quali: riduzione della spesa pubblica in sanità, istruzione e welfare, liberalizzazione delle importazioni e degli investimenti esteri, privatizzazione delle imprese pubbliche e deregulation, svalutazione delle monete per rendere più competitive le esportazioni, riduzione del salario diretto e indiretto.

E’ assai indicativo notare che una strategia "sgangherata" come questa, definita nel 1989 da un economista americano "Consenso di Washington", sia stata largamente accreditata e abbia circolato per circa 10 anni nei paesi di lingua inglese, mentre da noi l’espressione è rimasta pressoché sconosciuta fino ad un anno fa circa, quando quella strategia venne messa in discussione "dall’interno", e cioè dal Premio Nobel dell’economia Joseph Stiglitz, vicepresidente della Banca mondiale, che proprio in relazione a questa critica ha poi lasciato la Banca.

La critica dall’interno si articola in quattro punti: primo, le prescrizioni erano tutte di natura macroeconomica (i cosiddetti fondamentali) senza alcuna considerazione delle più duttili e articolate misure della "economia dello sviluppo", cui avevano lavorato per decenni studiosi del calibro di Samir Amin, Andre Gunder Frank, Albert Hirschman. Stante la crisi del debito e la fine della guerra fredda, i paesi del Sud non avevano altra scelta che passare sotto le forche caudine del Consenso di Washington, e cioè aprirsi agli investimenti esteri, smantellare ogni struttura protezionistica, privatizzare. Poche le voci discordanti, tra cui quella importante del Chiapas zapatista, che venne allo scoperto il 1 gennaio 1994, giorno di entrata in vigore del NAFTA, diventando così il simbolo del rifiuto del neoliberismo. Secondo punto della critica: per realizzare prescrizioni macro, servono istituzioni democratiche inesistenti nei paesi poveri, sia a livello economico (infrastrutture) che sociale (scuole, ospedali). Terzo, le prescrizioni macro non hanno tenuto conto del processo di globalizzazione che esse stesse inducevano, e delle conseguenze da esso derivanti. Quarto, è tempo di riscoprire l’economia dello sviluppo, e di rendersi conto che le misure macroeconomiche hanno aspetti sociali ed umani irrinunciabili, che - se trascurati - retroagiscono negativamente sulle misure macroeconomiche medesime.

Gli effetti fortemente regressivi delle politiche di aggiustamento strutturale sono oggi sotto gli occhi di tutti, ma il fatto resta che le misure imposte al Sud con i piani di aggiustamento strutturale sono state di una violenza inaudita e producono ancora effetti fortemente perversi. Samir Amin ha fatto recentemente notare che negli anni ’20 in Germania si rivelò insopportabile un servizio del debito pari al 5% dell’export, mentre per i paesi africani è stato considerato sopportabile il 70% dei proventi dell’export. Il discorso si aprirebbe qui a considerazioni più ampie, sull’interruzione dei percorsi di "sviluppo" avviati dai movimenti di liberazione nazionale nei paesi del Terzo mondo dopo la fine del colonialismo. Anche e forse soprattutto per loro, l’era neoliberista ha chiuso - almeno per ora - una fase di speranze e di possibilità in quasi tutti i paesi del Sud, con poche eccezioni come il SudAfrica.

In uno studio recente, l’economista filippino Walden Bello ricorda come, sotto la presidenza Reagan, gli Usa abbiano sistematicamente depotenziato tutte le organizzazioni internazionali presso le quali i paesi del Sud avevano trovato voce - dal Comitato economico e sociale delle Nazioni unite al Programma delle Nazioni unite per lo Sviluppo (Undp), fino alla chiusura del Centro multinazionali - reo di analisi coraggiose - e all’eliminazione del posto di Direttore generale per la cooperazione economica e lo sviluppo presso le Nazioni unite. Ma il cuore di questo attacco è la smobilitazione dell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni unite per lo sviluppo e il commercio, nata nel 1964, primo presidente l’economista argentino Paul Prebish, e la sua sostituzione con il WTO - World Trade Organization.

I torti dell’Unctad, avere praticato programmi a sostegno dello sviluppo del Sud come un livello "minimo" garantito dei prezzi delle materie prime, tariffe più basse per le esportazioni manifatturiere del Sud e assistenza al Sud intesa come compensazione della perdita del potere d’acquisto delle produzioni del Sud. I meriti del WTO, di essere l’ultimo e il più estremo strumento di liberalizzazione degli investimenti e del commercio estero, grazie alla brevettazione dei diritti di proprietà intellettuale sia nel campo delle innovazioni tecnologiche sia in quello dei semi e della biodiversità. Nel primo caso, la brevettazione trasforma in pirateria tecnologica, punibile per legge, il processo di diffusione e imitazione, grazie al quale tutti i paesi oggi sviluppati sono cresciuti - gli Usa hanno copiato dalla Gran Bretagna, il Giappone dagli Usa, e via di seguito. Nel secondo caso, la brevettazione dei semi e della biodiversità permette alle multinazionali del Nord di privatizzare le risorse agricole e genetiche del Sud, rendendo legale la biopirateria.

Con il WTO gli USA sperano - oggi come negli anni 70 - di sottrarsi al doppio cappio del debito estero e dell’ndebitamento interno di famiglie e imprese, aumentando esportazioni ed investimenti esteri, e mantenendo il loro potere egemonico nei confronti del mondo, soprattutto del Sud. A Seattle gli USA non sono passati, ma la scommessa resta aperta, e la sua conclusione dipende dalla capacità del movimento di darsi una piattaforma unitaria fortemente innovativa di crescita, occupazione e miglioramento della qualità della vita, al Nord e al Sud.

Ma una piattaforma di questo tipo non può essere che rosso-verde, non nel senso di mettere insieme le tradizioni e gli errori dei primi e dei secondi, ma nel senso di saper coniugare l’eguaglianza e la solidarietà (redistribuzione della ricchezza) con la sostenibilità (ridefinizione della ricchezza). E’ su questo che finora, invece, il movimento resta diviso, come spiega James O’Connor in un recente articolo pubblicato anche in Italia. Molte sono le ragioni, tra cui la difficoltà a superare particolarismi e posizioni consolidate di vantaggio relativo dei vari soggetti, come ad esempio quelle dei lavoratori nordamericani nei confronti dei lavoratori del Sud. Oppure, le contraddizioni aperte da posizioni come le clausole sociali a difesa dei salari e dei diritti lavoratori del Sud. Oppure ancora la questione del mancato rispetto dei diritti civili in molti di questi paesi, ad esempio in Cina.

Le contraddizioni sono moltissime, e bisognerà farci i conti una alla volta, con pazienza e perseveranza. Ma anche perché la strada è ancora tutta in salita, bisogna partire dalla costruzione di una piattaforma comune indipendente e condivisa, per minima che essa possa essere.

Roma, 5 maggio 2000

e-mail inviata 11 maggio 2000
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