| o – se tonica ha due suoni, uguali a quelli italiani: i – sia atona che tonica ha suono uguale a quello italiano di <minimo>: ridə, ridere; accidə, uccidere; cilə, cielo; abbulì, abolire;u – sia atona che tonica ha suono uguale a quello italiano di <ùpupa>: purə, pure; vulà, volare; ciula, nascondino.Una variante di <u> che si sente oggi piuttosto raramente nei parlanti locali, ma che è pur sempre presente, è una più o meno marcata alterazione palatale della /u/, simile al suono della <u francese> di musée, sucre, ecc. La si può percepire, a volte, specialmente tra gli anziani e le donne, e, soprattutto in caso di enfatizzazione del discorso: "E cómə, nə la vidə la lü:na??", ma come, non la vedi la luna? - "mamma chə paghùra sò avùta, mə paréva nu lü:pə!", mamma, che paura ho avuto, mi pareva un lupo! Questa particolare coloritura non sarà, tuttavia, indicata né nella scrittura né nella trascrizione fonetica, proprio per la sua incostanza, volubilità e soggettività. 2.1.2. I dittonghi Secondo la grammatica, si parla di "dittongo" quando in una sillaba si incontrano una /i/ o una /u/, non accentate, con un’altra vocale con o senza accento. Il fossaltese, a differenza di altri dialetti vicini, elimina il più possibile i dittonghi etimologici sia contraendo i suoni: fierrə > firrə; cundiendə > cundində; miedəchə > midəchə; tiembə > timbə; miezə > mizə; cuorpə > curpə; puorchə > purchə, sia frapponendo tra le due vocali, un suono epentetico. Non sono dittonghi, invece, gli incontri di /i/ (o di /j/) con altre vocali come in ciavarrə; ggiarra, glianna, sciurarìllə ecc. perché in quei casi la /i/ e la /j/ hanno solo il compito di rendere palatale il suono di /c, g, gl, gn, sc/. 2.1.2.1.1. Metafonia di alcune /a/ Alcune <a> etimologiche toniche, per l'influsso di una <u> protonica, si dittongano in <uó>: il lat. (il)lu(m) pātre(m) (padre) > lu patrə, > ru puótrə; il lat. (il)lu(m) nāsu(m) > lu nasə > ru nuósə; (il)lu(m) căne(m) > lu canə > ru cuónə; questo suono è scritto e trascritto /uó/; Altre <a> etimologiche toniche, per l'influsso di una <i> protonica o di nessi palatali, (i, j, chi, ghi, gli, gni), si dittongano in <iè>: (il)li căne(s) > li cani > rə chiènə; plāna(m) > chiana > chièna, pianura; questo suono è scritto e trascritto /iè/ (o, a volte. /jè/ quando è più sensibile la palatalizzazione della <i>). Giulio Bertoni così si esprime a proposito di questi nostri due suoni così caratteristici: Tutte queste colorazioni di <a> sono fenomeni di una squisita bellezza»7 . 2.1.3. Le Consonanti Le consonanti presenti nel nostro dialetto di norma si identificano con quelle italiane: /p, b, t, d, c, q, g, f, v, s, z, h, l, r, m, n/, e sono quindi scritte senza alcuno specifico accorgimento. Pur tuttavia alcune di esse hanno più di un suono, hanno particolari qualità, che è bene evidenziare in modo che la lettura risulti più agevole e la pronuncia sia la più vicina possibile a quella locale. Partiamo, intanto, dai grafemi <p, t, d, q, f, v, l, r, m, n> che, siano scempie o rafforzate, si comportano onestamente, cioè si leggono come si scrivono, così come avviene nella lingua nazionale. I grafemi <c, g, s, z, h>, invece, hanno altre caratteristiche che vanno attentamente considerate. Facciamo qualche esempio. La <c> di <casa> e la <c> di <citərə> si scrivono con lo stesso segno grafico ma il loro suono, come può capire chiunque sappia leggere, è profondamente diverso: la prima, quella di <casa> ha suono velare (duro, come si diceva una volta), la seconda, quella di <citərə> ha suono palatale (dolce); lo stesso discordo vale per la <g>, simile per la <s> e la <z> (simile perché in questi casi i suoni si distinguono in sordo e sonoro). Ma esaminiamo questi grafemi ambigui uno per uno. 2.1.3.1. Le lettere /c/ e /g/ 2.1.3.1.1. La lettera < c > La <c> quando precede <a, ò, ó, u, h, r>, ha suono duro (velare), quindi non si avranno difficoltà a leggere correttamente casa, còppa, curtillə, chélla, (<cc> se rafforzato: accasà ecc.) La <c> quando precede <ǽ, è, é, ə, i>, ha suono dolce (palatale), e non si avranno esitazioni a leggere céna, cena; cərasa, ciliegia; cǽssə, cesso; cicə, ceci. Può presentarsi anche rafforzato: cciàppra, grappolo;, pəcciónə, piccione, ecc. 2.1.3.1.2. La lettera <g> Come la <c>, anche la <g> ha due suoni: velare (duro) quando precede <a, ò, ó, u, h, r>: gabbìna, cabina; ngòppa, sopra; sgubbàtə, gobbo; ghiènghə, bianco; grattà, grattare. Ha, invece, suono palatale quando precede <ǽ, è, é, ə, i>, ed in questo caso è sempre raddoppiata: ggéssə, gesso; ggəndilə, gentile; ggǽndə, gente; ggiallə, giallo. N.B. Il suono velare della consonante <g> davanti ad /a, ò, ó, u, h, r/, aveva, ed ancora ha negli anziani e nella gente del contado, una colorazione gutturale piuttosto accentuata; come già detto a proposito della <ǽ>, nella pronunzia dei più giovani e degli abitanti del centro si è da tempo ingenerato un processo di graduale attenuazione fino al completo dissolvimento della consonante: "gallina" va dal gutturale faringale <ghallìna> all’attenuato <hallìna> fino a <allìna>; "gatta" sarà via via <ghatta>, <hatta>, <atta>. Questo suono viene trascritto col simbolo <gh>. 2.1.3.2. Le lettere /s/ e /z/ 2.1.3.2.1. La lettera <s> La lettera <s>, che in italiano ha due suoni, "sordo" (sale, sole, scala, falso ecc.) e "sonoro" (disdetta, bisbiglio, genesi, crisi ecc.) nel fossaltese, davanti a vocale, sia in posizione iniziale che in posizione intervocalica, ha sempre suono sordo o aspro come nell'italiano sesso: casa, casa; mésa, madia; sunnà, sognare; esso sarà scritto e trascritto con il simbolo <s>; 1) se precede la consonante <t> come in stalla, stalla; stécca, stecca; stipə, credenza; sturtə, storto; strətiè, spiaccicare ecc., ha suono palatale sibilante come nell’ital. scemo; si scriverà e trascriverà con <š>: štalla, štécca, štipə, šturtə, štrətiè; 2) se precede la consonante sonora <d> ha suono palatale sonoro (simile al suono di <j> nel francese <jour>), si scriverà e si trascriverà con <ž>: ždrǽuzə, ždərrupə; 3) se precede le consonanti sonore <b, g, l, m, v/: sbattə, sbattere; sgarbə, sgarbo; sluggià, sloggiare; smatrà, abortire; svərnà svernare; come avviene in italiano, sonorizza. 2.1.3.2.1.1. Il digramma /sc/ La lettera /s/ quando precede la <c> palatale (o dolce), formando il digramma <sc> come in vascə, bacio; scinə, sì; lìscia, pietra; fasciùlə, fagioli; ecc., ha suono fricativo palatale sibilante sordo, e si scriverà <sc> seguito da <ǽ, è, é, ə, i, j>; quando, invece, è pronunciato rafforzato come in scǽmə, scemo; péscə, pesce; cascia, cassa; scialà, scialare ecc., si scriverà <šc>: šcǽmə, péšcə, cašcia, šcialà; 2.1.3.2.2. La lettera <z> L La lettera <z> ha, come del resto in italiano, due suoni:2.1.3.3. Le lettere /m/ e /n/ 2.1.3.3.1. La lettera /m/ La lettera /m/ si scrive e si legge come in italiano (mamma, muccélla, mənǽštra, cummàra, miscə, mésa ecc.; ma ha anche, (come in altre parlate meridionali) due notevoli caratteristiche: 2.1.3.3.2. La lettera /n/ La lettera <n> nel nostro dialetto si scrive e si legge come in italiano (nuštrə, nuósə, panàrə ecc.), ma ha, anch’essa, come la lettera /m/ appena vista, due caratteristiche: 2.4.1.5. La lettera /h/ La lettera /h/, in alcuni casi, è, come in italiano, senza suono proprio, ma è necessaria per consentire la formazione dei digrammi <ch> e <gh> ossia i suoni velari di <c> e <g> davanti alle vocali /é, è, ǽ, ə, i, j/. La lettera /h/, però, nel fossaltese ha anche suono di /h/ aspirata o, come dicono meglio i linguisti, è fonema fricativo glottale sordo ed è presente, sia in posizione iniziale che intervocalica, in esito del nesso latino /fl/ <flūme(n)>, <flŭnda(m)>, <flămma(m)>; sarà trascritta con il segno <h>. Esempi: hiumə, hiónna, hièmma, e, inoltre, in alcuni vocaboli che, direttamente o indirettamente, derivano dal verbo latino flāre, spirare: hiatà, hiètə, hiuhhiè, hiuhhjə, hiuhhiatùrə ecc. È lo stesso gruppo di vocaboli che altrove, in altri dialetti molisani, ha avuto, invece, esito in /sci/: sciumə (o sciumàrə), sciónna, sciatà, sciatə, sciuccà, sciošciafóchə (o sciušciatùrə), ecc. 2.1.3.5. La semiconsonante /j/ La lettera /j/ può avere funzioni di consonante e di glide (semiconsonante): majə, vièjə, jəlà ecc. Si usa, poi, per allungare la vocale /i/ in tutte le posizioni, la più frequente delle quali è quella iniziale: jìnnərə, jìttəchə ecc., e per dare valore palatale ai digrafi <gl>, <ch> davanti a <ə>: figljə, chjəcà; 2.1.3.6. I nessi /gl/ e /gn/ Nella scrittura si conserveranno i grafemi <gl> e <gn> che hanno caratteristiche foniche uguali a quelle dell’italiano, ma, attenzione!, essi sono sempre pronunciati rafforzati. 2.2. Fenomeni diversi Altri fenomeni di modificazioni fonetiche e grafiche interessano il nostro dialetto e lo caratterizzano. Sono, in gran parte, quelle che vengono definite dai grammatici “figure retoriche di dizione”, ossia, figure espressive che modificano la forma di una parola, dapprima solo verbalmente, poi, col tempo, anche graficamente. Vediamole, in breve, una per una. 2.2.1. Afèresi Vi sono vocali (o sillabe) iniziali che cadono in modo sistematico specie davanti a nessi consonantici: «a» come in Ndònjə (Andonjə = Antonio), mmalàtə (ammalàtə = malato), mmuffìtə (ammuffìtə = ammuffito); «i» come in: ndrəcandə (indrəcandə = intrigante), mmaggənà (immaggənà = immaginare), nfamà (infamà = infamare) etc. 2.2.2. Anaptìssi Talvolta, al fine di rendere più gradevole un nesso consonantico complesso si inserisce un suono eufonico per agevolarne la pronuncia: óləpa (volpe) dal lat. vŭlpe(m). Un procedimento analogo è anche l'inserimento di una vocale, cosiddetta d'appoggio, in principio di parola; l'esempio più frequente è quello della «a» che si prepone, talvolta solo in alcune forme flesse, al prefisso «rə» dei verbi frequentativi: arəpónnə (riporre, conservare, risparmiare), arəfà (rifare), arəmənì (ritornare) e sim. 2.2.3. Apòcope Come in molti altri dialetti italiani anche nel nostro la forma più diffusa di apòcope è la caduta sistematica e generalizzata della sillaba finale «re» delle antiche desinenze dell'infinito presente delle tre coniugazioni, che dà vita, quasi sempre, a forme tronche: candà (cantare), vədé (vedere), səndì (sentire). 2.2.4. Elisione Anche nel dialetto, come in italiano, la vocale finale cade per elisione davanti a parola che inizi per vocale: Sand’Andònjə (Sant'Antonio), l'uósənə (l'asino), l'àlma (l'anima), o a vocale isolata: v'a ffatəjè (vai a lavorare). Confortati dall'insegnamento di Rohlfs e di altri insigni studiosi, abbiamo segnato, in questi casi, un apostrofo al posto della vocale elisa. 2.2.5. Epèntesi (suoni di transizione) In taluni casi di incontro di due vocali c’è la tendenza a frapporre tra loro un suono consonantico o semiconsonantico che prende il nome di suono di transizione. È il caso della «v» in parole come àvətə (alto), fàvəzə (falso), cìvəzə (gelso), lavədàtə (lodato); del «(gh)» in voci come pa(gh)ùra (paura) e sim.; della «j» in parole come majǽštra (maestra), vəjètə (beato), pajésə 2.2.6. Epìtesi (o paragòge) Spesso, per dare un diverso ritmo ad una parola (per lo più tronca) le si aggiunge una sillaba in posizione finale: ménə per mé (me); (gh)uanə per (gh)uà (oddìo). Non è da ritenersi aggiunta paragogica il nə dopo scì (sì) e nó (no) data la differenza sintattica tra scì e scìnə (e tra nó e nónə), uno usato nel discorso diretto e l’altro in quello indiretto. 2.2.7. Metàtesi È frequente il fenomeno della metàtesi, specie della «r» postconsonantica che si sposta nella sillaba precedente: frabbəcà (lat. fabricāre), prǽta (lat. pĕtra(m)), crapa (lat. căpra(m)), frǽva (lat. fĕbre(m)). 2.2.8. Pròtesi Col tempo si sono venuti sviluppando, per il fenomeno della pròtesi, suoni non etimologici sia in principio che all'interno di una parola: talora un suono semiconsonantico, in genere quello della fricativa palatale «j», davanti ad iniziale vocalica, come in jǽrva, erba; jǽva, era; japrì, aprire; jǽssə, essere etc.; con maggior frequenza e in forma molto più generalizzata, il suono di una fricativa velare sonora qui trascritto col simbolo «(gh)»: (gh)alà, sbadigliare; (gh)óləpa, volpe; (gh)ùjə, oggi; (gh)ùrzə, orso, etc. 2.2.9. Sonorizzazione e raddoppiamento Qualche nesso consonantico tende ad evolvere sonorizzando, e talora raddoppiando, la prima consonante: «pr > bbr», come in lǽbbrə, lepre. 2.2.10. «g» iniziale davanti a vocale palatale La «g» iniziale davanti a vocale palatale (ǽ, è, é, ə, i) sviluppa talvolta in «j»: jənucchjə (ginocchio) dal lat. genŭculu(m), jənǽštra (ginestra) dal lat. genĕsta(m), jìnnərə (genero) dal lat. gĕneru(m), ma, in ugual misura, mantiene il suono palatale etimologico pronunciato, però, con forte intensità. 2.2.11. Raddoppiamento e raddoppiamento sintattico Le consonanti «b» e «g palatale» in posizione iniziale si raddoppiano sempre: bbubbónə (bubbone), bbuscìa (bugìa), bbarracca (baracca), ggióvənə (giovane), ggǽndə (gente), ggiùdəcə (giudice) etc. In posizione intervocalica, «b», «g palatale» e «z» , anche se scempie, sono spesso pronunciate con intensità così da sonare come raddoppiate: abbətjè (abitare), dà(z)zjə È frequente anche il raddoppiamento sintattico delle consonanti iniziali allo scopo di legare in sequenza logico-fonetica le parole: v'a ttogljə ru varilə (va a prendere il barile), va ccand'a mmàmməta (vai da tua madre). 2.2.12. Palatalizzazione di «gl» Il nesso latino «gl» (glo, gla, glu) ha subìto un processo di palatalizzazione evolvendo in «gli» (glio, glia, gliu): glŏmere(m) > gliòmmərə (gomitolo); glănde(m) > gliènna (ghianda). 2.2.13. Agglutinazione e deglutinazione Come in italiano e in altre lingue romanze, anche nel nostro dialetto vi sono esempi dei due fenomeni che vanno sotto il nome di agglutinazione e di deglutinazione che si verificano quando, abituati a pronunciare articolo e nome con un’unica emissione di voce, fatalmente, col tempo, si finisce col perdere la cognizione della corretta forma dei due termini (articolo e nome) e si comincia a dividerli in maniera arbitraria. L' agglutinazione (o concrezione) porta ad unire al nome l'articolo (o parte di esso) e ad anteporre un nuovo articolo: lu apə (l'ape) è divenuto ru luópə; l'écənə (l'endice), si è trasformato in ru lécənə; l'utəmə (l'ultimo) è cambiato in ru lùtəmə. Si ha, invece, deglutinazione (o discrezione) quando l’iniziale di un nome viene scambiata per un articolo o per una parte di esso e viene quindi separata dalla parola: (la) lasagna, Lucìfərə, l'Abbadessa, l'arena, l’acita, l'arecchia, làrəcə divengono così la sagna, lu Cìfərə, la Bbadessa, la réna, la cita, la récchia, l'àrəcə. 2.2.14. Sviluppo «pl > chi (chj)» e «cl > chi (chj)» Il nesso latino «pl» si è sviluppato in diversi modi nelle lingue e nei dialetti. Nel nostro (come in altri meridionali, del resto) esso è divenuto «chj»: plūs > cchiù (più); platēa > chièzza (piazza); plēnu(m) > chjìnə (pieno); plānu(m) > chiènə (piano) etc. La stessa evoluzione ha subito anche il nesso «cl»: clāve(m) > chjèva (chiave) etc. 2.2.15. Sviluppo di «l» preconsonantica Talvolta la «l» latina, in posizione preconsonantica, subisce un processo di velarizzazione in «u» con conseguente esito sonoro della consonante che segue; si ha, quindi, l’inserimento di un suono di transizione (in genere una «v») e il successivo affievolimento delle vocali atone diverse dalla «a», fino al dissolvimento nella «e indistinta»: fălsu(m) > fàuzu » fàvuzu > fàvəzə (falso); sălsa(m) > sàuza » sàvuza > sàvəza (salsa); cĕlsa(m) > cèuza > cèvuza > cìvəzə (gelso). 2.2.16. Dissimilazione di consonanti Per evitare il ripetersi dello stesso suono («r-r»; «l-l»; «n-n»; «n-m») si sviluppa il fenomeno della dissimilazione che porta al cambiamento della prima delle due consonanti o alla caduta di uno dei due suoni: arātru(m) > aràtə (aratro), ănima(m) > alma (anima); vindēmia(m) > vəllégna (vendemmia), etc. Il fenomeno si registra anche oggi, nel caso di vocaboli presi in prestito dalla lingua nazionale, qualora non si tratti di un fenomeno di ipercorrettismo: i nostri giovani dicono àlbitro al posto di àrbitro. 2.2.17. Assimilazione di consonantiUn fenomeno inverso a quello della dissimilazione si verifica quando, talora, la consonante iniziale di una parola “si muta”, come dice Rohlfs (Grammatica storica, Vol. 1, pag. 463), “facilmente nella consonante con cui inizia la seconda sillaba, in seguito ad una anticipazione della articolazione fonetica di quest’ultima”. Così abbiamo cǽrca (quercia) dal lat. quĕrcea(m); mənì (venire) dal lat. venīre etc. Il fenomeno si verifica qualche volta anche per nessi consonantici all’interno della parola: cannéla (candela) da candēla(m); sammùca (sambuco) da sambūca(m); callàrə (caldaio) da calidāriu(m) etc. 2.2.18. Alternanza «b > < v» Molto comune è nel nostro dialetto, così come nella maggior parte delle parlate meridionali, il fenomeno dell’alternanza «b > < v», per cui la «b» etimologica tende a trasformarsi in «v», e viceversa: bărba(m) > vàrəva (barba); beātu(m) > vəjètə (beato); ad vălle(m) > abbàllə (verso il basso, in giù); bāsiu(m) > vàscə (bacio); brāchiu(m) > vruóccə (braccio) e il nostro stesso cognome è spesso pronunciato Vagnùlə, specie se usato in senso collettivo: rə Vagnùlə, i (quelli della famiglia) Bagnoli. 3 Alcune vecchie grammatiche e alcuni insegnanti, non molto aggiornati sui progressi della linguistica, affermano che le vocali italiane sono 5, ma, come vedremo, sbagliano perché non tengono conto delle differenze fonetiche; 4 Michele Castelli, originario di Santa Croce di Magliano, è uno dei più affermati linguisti di livello internazionale, Insegna “Linguistica generale e Dialettologia” all’Università Centrale del Venezuela – Caracas. 5 Questo suono non può essere trascritto, come fanno alcuni, semplicemente con la <a>, perché si tratta di due fonemi differenti; e ce lo dimostra la regola della “opposizione fonologica”. Basta confrontare i due sostantivi fossaltesi /mǽlə/, miele, e /malə/, male, per accorgersi che si tratta di due suoni diversi. 6 Cfr. Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol.1° Fonetica, pp. 44-45, Einaudi, 1966 7 “Italia dialettale”, p. 160, Nota 8 il nesso <nf> passa a <mp> per assimilazione reciproca», quindi «questo mp partecipa alla sonorizzazione cui va soggetto mp primitivo» (cfr. G. Rohlfs, op. citata, 1° vol., p. 365) |