Gli eremiti del bosco

Fino al secolo scorso decine di migliaia di “bore” e “borelli” venivano fatti scendere per fluitazione lungo il Serio e il Brembo. La vita dura dei boscaioli e antiche sapienze nelle sfruttamento delle piante. Boscaiolo e carbonaio: antichissime attività dei montanari e ricchezza delle comunità che vivevano in stretto rapporto con il patrimonio verde. Fino alla fine del secolo scorso gli alberi dell’Alta Val Brembana venivano condotti a Bergamo per fluitazione lungo il fiume Brembo. Per esso si conducevano nelle piene ogni anno più di 500.000 borelli, dando così la misura dell’intenso sfruttamento dei boschi della valle Brembana per soddisfare le esigenze della città. I borelli servivano come legna da ardere per cucinare e per far funzionare fucine e fornaci; ma lungo il Brembo scendevano anche le bore, tronchi d’albero più grossi, di abeti e larici in particolare, usati come legname per costruzioni. Questo traffico era una fonte di attività primaria. Borelli e bore venivano fatti scendere fino a Ponte S. Pietro dove venivano trasportati a Bergamo, in Piazza Pontida, che era il cuore del commercio del legname: proprio per questo in passato veniva chiamata Piazza della Legna. Attività importanti, quindi, nei nostri paesi di montagna, fin dopo il secondo conflitto mondiale, erano quelle dei boscaioli e dei carbonai, dalle quali le popolazioni traevano parte del sostentamento nella vita di ogni giorno. Attività che oggi è possibile far rivivere attraverso le testimonianze dei pochi che ci lavorano ancora, degli anziani o visitando il Museo Etnografico dell’Alta Valle Seriana di Ardesio. L’uomo ha sempre considerato il bosco una miniera verde dalla quale ricavare molti prodotti utili: legna da ardere, carbone, legname da costruzione, utensili oppure attrezzi e anche opere d’arte. Una volta il bosco era anche una riserva di foraggio per gli animali. Nei più pianeggianti pascolavano le mucche, mentre nei più ripidi si tagliavano gerle di erba. In autunno poi si raccoglieva la foglia secca per fare la lettiera agli animali e i frutti di bosco: dalle note castagne e nocciole ai mirtilli, lamponi, cornioli e molti altri. Vi erano poi le ghiande che, tostate nel brusì servivano come surrogato del caffè. Il bosco ha fornito e continua a fornire la materia prima per la produzione della carta, per ricavare alcool, resine, tannino e altri prodotti. Infine vi era la rasa (resina) che guariva ogni male. I boschi, soprattutto in passato, sono stati un bene fondamentale per la vita della gente di montagna. La Comunità della Valle Seriana Superiore era provvista di suoi Statuti che contemplavano delle norme generali, valide per tutti i Comuni e per i loro abitanti, circa le modalità di sfruttamento dei boschi. Gli Statuti suggerivano anche quando dovevano essere tagliati gli alberi di alto fusto e i boschi cedui e quali erano le modalità per ricavare il carbone dalla legna. Questi piani regolatori dei boschi hanno sempre riservato circa il diritto delle popolazioni locali di poter avere la legna per riscaldarsi e cuocere i cibi, così come di raccogliere la resina per usi domestici. La scorza degli alberi tagliati è quasi sempre stata riservata ai boscaioli, i quali la vendevano ai proprietari dei pestù d’la rosca, cioè grandi mortai dove la scorza di abete veniva polverizzata, usandola poi per la concia delle pelli. La vita dei boscaioli è sempre stata dura. Un tempo per tagliare gli alberi usavano la scure ( sgùr ). Il lavoro iniziava all’alba e spesso continuava fino a tarda sera. Il taglio delle piante resinose (abete rosso, abete bianco e larice) si effettuava soprattutto in primavera e in estate. Abbattuti gli alberi si procedeva a sramarli (con lo sgurot ) per poi toglier loro la corteccia (con il roschì ). Quindi con il partidur (una grande sega) si sezionavano alle lunghezze volute. Tagliati, scortecciati e sezionati, i tronchi si lasciavano nel bosco fino all’autunno e si portavano poi a valle. Per brevi tratti si trascinavano con il sapì, specie di piccone uncinato. Se le distanze erano significative, si facevano scorrere fino al luogo voluto in apposite piste ghiacciate. Nei tratti in salita ci si serviva degli animali da soma; ammucchiati i tronchi in una determinata località, grazie alle teleferiche si facevano scendere a valle. Da lì, con i carretti, il legname raggiungeva le cartiere o le segherie che erano presenti in quasi tutti i paesi, solitamente lungo i corsi d’acqua. I rami delle piante resinose venivano raccolti dalla popolazione che li utilizzava per accendere il fuoco. Il taglio delle latifoglie, utilizzate soprattutto come legna da ardere, avveniva e avviene nel periodo del riposo vegetativo (da settembre a fine aprile). Normalmente per il taglio della legna da ardere i boscaioli tenevano conto delle fasi lunari; una volta tagliata e sramata, la legna si doveva portare a valle. Per quella minuta provvedevano gli uomini, le donne e i ragazzi, i quali la raccoglievano in fascine. Se la legna era grossa, ma non troppo, si utilizzavano le slitte trainate da muli o asini. Quando la legna era tanta ci si serviva e ci si serve ancora del filo a sbalzo. Bisognava poi tagliare la legna; i pezzi più lunghi erano destinati ai camini, i più corti invece per le stufe. La legna da ardere, una volta tagliata, veniva sistemata nei solai, nelle cantine arieggiate e asciutte e, spesso, ammucchiata diligentemente lungo i muri delle case, sotto l’ala del tetto: in questo modo si essiccava a puntino. Ancora oggi, nei paesini dell’alpe, i montanari, che per scaldare le case utilizzano stufe e camini, ripetono gli antichi gesti per far la scorta di legna per l’inverno, Ma sempre più pochi sono quelli che ricorrono a questo metodo. I boschi cedui non vengono più coltivati, si infittiscono troppo, diventano impenetrabili e facile esca degli incendi.



I carbonai in bergamasca sono scomparsi. Un tempo invece erano tantissime le persone che trasformavano la legna in carbone, utilizzato poi per il riscaldamento delle case e anche per la prima cottura dei minerali che si estraevano dalle viscere della montagna. Essi lavoravano di pari passo con i boscaioli. In mezzo al bosco preparavano uno spiazzo pianeggiante, l’ aral, al centro del quale si piantava un palo, ol medil, alto circa due metri e mezzo. Intorno ad esso, per circa un metro d’altezza, si predisponeva la casèla, incrociando dei legni corti. Quindi, tagliata la legna nelle giuste misure, si appoggiava intorno ad essa fino a formare un cono,il poiàt. Lo si ricopriva di rami verdi di abete e poi di terra. Tolto il medil lo si imboccava con della brace e pezzetti di legna dall’alto, con particolare cura. E così in sei-sette giorni di lavoro assiduo, la legna si trasformava in carbone. Il carbone prodotto veniva posto nel carbonil ed affidato ai portatori: uomini, donne e ragazzi che lo trasportavano a valle. Il trasporto avveniva per mezzo di grossi sacchi, chiusi in modo particolare, perché il carbone non si spezzasse. I portatori si aiutavano con un grosso bastone e si fermavano ogni tanto a riposare in posti fissi chiamati metide. I carbonai in bergamasca sono scomparsi, i boscaioli sono rimasti in pochi: il lavoro, nonostante i mezzi moderni dei quali si servono per compierlo, è pur sempre molto duro e pericoloso. Oggi sono rimasti in pochi, ma una volta contrade intere vivevano nel bosco e per il bosco. Allora, con loro, c’erano anche i carbonai, che ogni anno ripetevano l’antico e sempre misterioso rito del poiàt. Veri eremiti del bosco essi vivevano nell’isolamento per mesi e mesi, dalla primavera all’autunno inoltrato, finché c’era legna da carbonizzare. Oggi i carbonai sono scomparsi e i giovani che fanno il boscaiolo sono sempre meno, ma i vecchi sono convinti che il mestiere non potrà mai morire. Un detto bergamasco ( Di bore l’vé zo di tape ) trae origine dal lavoro dei boscaioli delle nostre vallate. Il boscaiolo, quando ancora non c’erano le motoseghe, si muniva della scure per tagliare gli alberi; faceva un’incisione intorno alla base e scanalava il tronco su un lato così da causare il crollo della pianta nella direzione da lui voluta ( per evitare danni al bosco e per la sua stessa incolumità, anche se non mancavano incidenti). I pezzi di tronco (tape) sono naturalmente della stessa qualità della pianta e questo suggerisce l’immagine che anche tra gli uomini i figli siano della stessa natura dei genitori. Vi sono altri detti quasi simili,che sottolineano lo stesso concetto. Ad esempio: Chi nass de lègn, a l’ sent de sòch (Chi nasce di legno sente di ceppo) , oppure: Segònd ol sòch a l’ vé zò i tape (Tale è il ceppo, tale la scheggia). I modi di dire sembrano dare esclusiva importanza all’ereditarietà; ma nella realtà hanno importanza decisiva anche gli ambienti in cui uno si trova a vivere, la gente con la quale si incontra ,le proprie tendenze e gusti, la propria volontà. Ognuno ha una personalità risultante da tanti elementi e fattori e non è detto che si possa verificare anche il contrario di quanto affermato nei detti riportati. I genitori possono essere stolti e i figli saggi, o i genitori saggi e i figli stolti.