Le due ipotesi di Tacito


Tacito accenna innanzitutto i motivi per credere, a un caso fortuito. Il fuoco è scoppiato nelle vicinanze del Circo Massimo tra le botteghe colme di mercanzie, trovandovi un facile alimento, specialmente a quell’ora in cui soffiava un forte vento che lo spinse nel Circo. Le vie strette e tortuose e l'enorme blocco delle case resero facile la propagazione dell’incendio e la confusione, le esitanze paralizzarono ogni soccorso: cuncta impediebant scrive Tacito. Egli indica poi i motivi che lascian pensare a una volontà criminale. Si eran viste persone impedir l'opera degli estintori del fuoco, gettarvi materie infiammabili, dichiarando averne l’ordine: Tacito tuttavia non può dire se i miserabili fossero mandati da Nerone o semplicemente ladri che si fingevano inviati per predare impunemente: sive ut raptus licentius exercerent seu iussu. Narrando in seguito gli, sforzi di Nerone per soccorrere la folla senza ricovero né risorse aggiunge che tali misure non giunsero a dar popolarità all’imperatore e riporta, senza affermare, i rumori che correvano allora, pervaserat rumor, su Nerone che aveva cantato la rovina di Troia mentre Roma era in fiamme. Similmente quando parla del ridestarsi dell'incendio dopo la tregua del sesto giorno aggiunge che il popolo era indignato perché questa volta il fuoco aveva ripreso nei giardini di Tigellino e che si riteneva Nerone averne cercato l'occasione per fondare una nuova città che portasse il suo nome. Tacito non afferma nulla perché nulla sa di certo, ma nota le circostanze sospette, i rumori correnti, i moti della pubblica opinione, appunto in quanto storico e in quanto tutto ciò si riferisce alla storia. Le fonti scritte usate da Tacito e le testimonianze orali che poté raccogliere offrono due sole ipotesi per spiegar l'incendio: il caso o l'ordine di Nerone. Utrumque auctores prodidere. Ora, un'affermazione così personale e completamente circoscritta esclude l'esistenza di una terza ipotesi sulla colpevolezza dei cristiani. Se quest'ultima fosse stata plausibile, Tacito non avrebbe detto utrumque, ma tria auctores prodidere . Il testo tacitiano, affermando tutto ridursi alla questione chi tra il caso e Nerone avesse incendiato Roma, parla unicamente di due opinioni e con ciò stesso nega che ve ne sia una terza. Una fra le parti più importanti del racconto tacitiano è quella dov'è descritta la condotta dì Nerone verso i cristiani. Le storico ha menzionato i sacrifici e le espiazioni, ricordando subito che né le dimostrazioni religiose, né le larghezze imperiali erano riuscite ad allontanare i sospetti intorno all'imperatore, il quale allora pensò di presentare i cristiani come colpevoli dell'incendio. La frase usata da Tacite è degna di nota: subdidit reos, che nella sua ovvia versione corrisponde all'altra: “sostituì degli accusati”, cioè, in fondo, li accusò falsamente. Tacito non poteva dir più chiaramente che Nerone volendo stornare dalla sua persona i sospetti ebbe l'idea di cercare tra i cristiani non dei veri criminali ma dei capri emissari da sostituire in suo luogo. Egli indica ancora il motivo che fece cadere proprio sui cristiani la scelta., Quanti dividevano la loro “esecrabile superstizione”, erano, dice lo storico, “odiati a causa dei loro delitti”, per flagitia invisos, e l'impopolarità che gravava su di essi mentre rendeva facili le accuse, poteva al bisogno tener anche luogo di prova. Tacito narra il processo dicendo come fu iniziato. "Si arrestarono dapprima i confessi”, correpti qui fatebantur. I confessi di che cosa? Appunto qui sta il nocciolo della questione, e la grande maggioranza dei critici ha interpretato "quelli che confessavano esser cristiani". Scrive il Rénan :"Da principio si arrestarono alcune persone sospettate di appartenere alla nuova setta. Esse confessarono la loro fede e ciò poté esser riguardato come una confessione del delitto che se ne giudicava inseparabile (E.RENAN, L’Antèchrist). E l’Aubé, con precisione anche maggiore: "Quando Tacito nota che si arrestarono molti cristiani dietro loro confessione, intende con queste parole non la confessione del delitto loro imputato , cioè l’incendio di Roma, ma la professione della fede cristiana, che malgrado i pericoli confessavano a fronte alta. Tale interpretazione apparentemente così naturale, era generalmente ammessa anche in Germania quando fu contestata da H. Schiller in un articolo abbastanza paradossale inserito nel 1877 nella pubblicazione edita in onore del sessantesimo genetliaco di T. Mommsen. Secondo lui, siccome Nerone non intentava ai cristiani un processo per causa di religione, il primo interrogatorio subìto da alcuni di essi doveva riferirsi esclusivamente all'incendio: quindi, se confessavano qualche cosa, ciò non poteva essere che la loro partecipazione all'incendio sulla quale erano interrogati e non la religione che non entrava in causa ( H.SCHILLER, Ein Problem der Tacituserklarung,in Commentationes philologiae in honorem Theodori Mommseni, Berlino, 1877). Tale ragionamento, per l'Allard, non sembra fondato né in diritto, né in fatto. Infatti, poiché i cristiani esclusivamente erano incolpati dell'incendio, bisognava innanzitutto appurare che gli arrestati, come incendiari appartenessero appunto alla setta cristiana: questa era la prima questione da porsi loro e dalla loro dichiarazione in proposito dipendeva la continuazione dell'istruttoria o la libertà.



Nessun segno esterno, secondo la giusta osservazione dell' Hardy distingueva i cristiani, e tra le persone catturate in fretta e un po' a caso se ne potevano incontrare talune trattenute ad errore e non professanti affatto, il cristianesimo: solo la confessione o la sconfessione del medesimo poteva designare alla polizia romana quelli da trattenere e quelli da rilasciare; solo contro gli arrestati che professavano la religione cristiana ed unicamente dopo la loro confessione, si poteva procedere oltre . Perciò l’informazione preventiva sulla professione de1 cristianesimo doveva precedere l'istruzione regolare sul capo d'accusa dell’incendio, avendo Nerone risoluto di incriminare i soli cristiani (HARDY, Christianity and the roman government, Londra,1881). Secondo quanto nota il Boissier la stessa costruzione della frase e il tempo dei verbi confermano a chiare note quest'ordine logico. Correpti qui fatebantur : quei che confessavano furono messi in causa divenendo oggetto di un mandato di arresto legale: la confessione ha dunque preceduto l'atto giudiziario e doveva riferirsi alla qualità di cristiano. Tacito aggiunge che dietro loro indicazione l'autorità romana imprigionò una grande moltitudine di altri cristiani. La parola indicio eorum vuol forse significare per Tacito che i catturati dalla polizia romana tradirono i fratelli e ne causarono l'arresto in gran numero? Ma il tradimento non è verosimile in persone che sapendo probabilmente che potevan salvarsi dichiarando non esser cristiani, avevano avuto il coraggio di confessar la propria fede. Scrive il Renan: "Non è possibile che veri cristiani abbiano denunciato i loro fratelli, ma probabilmente si poterono sequestrare documenti e alcuni neofiti appena iniziati poteron cedere ai tormenti. Dalle indicazioni così ottenute in un modo o nell'altro dalla polizia derivò la cattura di una grande moltitudine di cristiani, multitudo ingens, espressione anche questa commentatissima. Pur essendo ovvio intenderla in senso relativo e i cristiani, anche se “moltitudine” non rappresentando nel 64 che una minoranza quasi impercettibile nella popolazione totale di Roma, non si può porre in dubbio che i cristiani di già fossero assai numerosi: ed in tal senso appunto si esprime il contemporaneo San Clemente Romano (a proposito dei fedeli massacrati nel 64) con la frase “una gran folla di eletti”. Se, come è verosimile, i 977 martiri inseriti nel calendario geronimiano al 29 giugno rappresentano le vittime romane della persecuzione di Nerone, noi possediamo un prezioso dato per arguire il valore numerico della comunità di Roma la quale per sopravvivere alle stragi del 64, per- non aver avuto come ci attesta la storia, la pro - pria vita e il proprio sviluppo arrestati, ed infine per aver subito l'ingente perdita senza indebolirsi, bisognava si fosse già, saldamente radicata. Ma la mancanza di ogni prova non permise all’accusa di tenersi a lungo sul terreno prima scelto e la costrinse a deviare per non sembrare assurda e non essere obbligata a chiuder tutto con un non luogo a procedere. La grande moltitudine, di cui parla Tacito, fu alla fine convinta non tanto del delitto d'incendio quanto di odio contro l'uman genere o, secondo il più antico dei manoscritti, fu compresa nell'accusa non tanto del delitto d'incendio quanto di odio del genere umano. Durante il processo, l’accusa di incendio fu dunque abbandonata completamente o quasi ( v. a questo proposito CALLEWAERT, Revue d’Hist.eccl., Lovanio,1903). In tal guisa si passa dalla repressione legale di un crimine di diritto comune, in piena persecuzione religiosa. "L'odio del genere umano” non è delitto previsto dalle leggi e imputandolo ai cristiani si viene a dire che essi a causa della loro religione son divenuti refrattari alla civiltà romana: genus humanum non può qui avere altro senso e si fa loro un processo tendenzioso, perseguitandoli non come incendiari, ma come cristiani. La condotta di Nerone verso questi condannati di nuovo genere finisce per far meglio rilevare la scopo propostosi nel perseguitarli: cioè non castigar veri malfattori, ma sviare e assorbire l'attenzione del popolo e far tacere la plebe dando alimento prima al suo astio, poi alla sua curiosità malsana e crudele. Da qui i supplizi cambiati in spettacoli, pereuntibus addita ludibria, che Tacito descrive: i cani lanciati alle peste di uomini camuffati da fiere, i giardini illuminati da torce vive dove il popolo circola per i sentieri dolorosi, dividendo l'attenzione tra il rantolo dei morenti e il carro guidato dall'imperatore in costume d'auriga. Nerone, tuttavia, non avendo saputo misurarsi nella crudeltà, non aveva ottenuto il suo scopo. La plebe romana era difficile a commuoversi, né l'inteneriva la vista dei supplizi: ma non amava essere ingannata e come ogni massa popolare aveva un senso innato della giustizia. Perciò, dice Tacito, sebbene sì trattasse di colpevoli degni di ogni estremo rigore, sorse un sentimento di pietà al pensiero che essi perivano non per utile pubblico, ma per soddisfare la crudeltà di uno solo (TAC.,Annali,XV,44). Il popolano si commuove perché i cristiani sono stati sacrificati non all'utile pubblico, ma alla crudeltà di un monarca, tamquam non utilitate publica sed in saevitiam unius absumerentur. Se veramente fossero stati incendiari il supplizio sarebbe stato di pubblica utilità, perché appunto essa rende giusta la pena di morte. Per essere stati immolati alla crudeltà di uno solo bisognava fossero stati innocenti di quel delitto, commesso il quale avrebbero dovuto dar soddisfazione alla società intera. Indubbiamente essi sono colpevoli, sontes, e meritano gli estremi rigori, novissima exempla meritos. Ma tutto ciò solo a causa dei flagitia loro imputati, a causa dell’ odium generis humani che comincia a porli fuori della legge, e non già a motivo dell'incendio che un popolo esasperato dalle sofferenze, com'era allora quello romano, non avrebbe certamente perdonato ove li avesse ritenuti responsabili.