L'opinione degli antichi storici


Lo studioso Carlo Pascal, già noto per interessanti studi di antichità e di mitologia, sembra aver riassunto in modo soddisfacente i motivi che mirano a discolpare Nerone. Senza aver fatto completamente la luce e pur restando largo campo alla tesi opposta, egli mostra che l'ipotesi della colpevolezza di Nerone urta contro molte inverosimiglianze. Innanzitutto Nerone non era in Roma quando scoppiò l'incendio e bisognerebbe che egli avesse dato i suoi ordini da lontano, confidando cosi il segreto del suo delitto a un centinaio, forse a un migliaio, di schiavi e di pretoriani (C.PASCAL, Fatti e leggende di Roma antica, 1903). E poi, se veramente egli fosse stato il colpevole, sarebbe rientrato in Roma nell’infierir della catastrofe, sfidando la collera e la disperazione di un popolo numeroso? E lo si sarebbe visto, come Tacito riferisce, errar senza protezione e senza guardie, incustoditus, tra le rovine del sua palazzo in fiamme? E poi a quale scopo il delitto? Forse per godersi lo spaventevole e grandioso spettacolo dell’incendio? Ma da Anzio, dove si trovava allo scoppiar del medesimo egli non poteva vederlo. Distruggere le viuzze strette e luride dei vecchi quartieri di Roma per ricostruirli eleganti e spaziosi? Conviene confessare, afferma il Boissier, che il cammino stesso dell’incendio, il luogo dov'è scoppiato, la direzione che ha preso, convengono ben poco ai progetti che si attribuiscono a Nerone. L'incendio si estese alle più belle regioni di Roma divorando gli antichi templi, le terme, i portici, gli edifici di lusso, i palazzi, lasciando intatti i quartieri più sudici e più poveri. Si potrebbe obiettare che Nerone aveva intenzione di procurarsi senza spesa né resistenze vasti terreni, per edificarvi la Domus Aurea, ossia per prolungare i palazzi di Augusto e Tiberio fin sull' Esquilino attraverso la Velia: ma si risponde osservando che proprio dal lato opposto, nel Circo Massimo, il fuoco scoppiato in modo da non po- ter raggiungere l'Esquilino senza distruggere prima il Palatino. Tutte queste ragioni rendono difficile ammettere che Nerone abbia voluto l'incendio tale almeno quale di fatto si sviluppò nel 64. Esse tuttavia, afferma l'Allard, non son decisive perché pare se ne possano addurre altre in contrario. Una delle più forti è la rapidità con la quale Roma si rialzò dalle rovine, secondo un piano regolare e dimensioni ben precise, come se tutto fosse stato previsto in precedenza. Soprattutto la celerità dì Nerone, nel costruire sul terreno sgombrato dal fuoco il palazzo da lungo tempo sognato, la Domus aurea, che sembrava un’intera città con la molteplicità degli edifici seminati in mezzo a prati e laghi artificiali. Il notevole è che, ad eccezione di Tacito, tutti gli antichi di cui si è conservato il pensiero si accordano nell'accusare Nerone. La prima accusa portata contro di lui avvenne mentre egli era ancor vivo: ed alla sua presenza. Il tribuno Subrio Flavio, uno dei complici nella congiura dei Pisoni che cagionò in Roma la morte di tanti illustri personaggi (tra i quali Seneca e Lucano), compariva al principio del 65 al cospetto dell'imperatore, il quale gli domandò la ragione che gli aveva fatto dimenticare il giuramento di fedeltà. "Nessun soldato, rispose Subrio, "ti è stato più fedele di me finché tu hai meritato l'affetto. Io ho cominciato ad odiarti quando sei divenuto parricida, uccisore di tua moglie, auriga, istrione e incendiario" ( TACITO, Annales,XV,67). Tacito, che narra l'episodio, aggiunge: "Ho voluto portar le sue stesse parole”: ipsa retuli verba. Evidentemente le aveva tolte da buona fonte. Ed è importante rilevare che Tacito nel ripeterle sembra approvarle pienamente senza fare alcuna riserva per quanto riguarda l'incendio, poiché aggiunge: "Nulla di più terribile pervenne in tutto l'incidente all'orecchio di Nerone tanto più pronto a commetter delitti, quanto poco abituato a sentirsi ricordare i propri misfatti. Certo le parole di un nemico dichiarato come Subrio Flavio possono sembrare parziali e da sole non potrebbero rappresentare a sufficienza la pubblica opinione, afferma l’Allard; ma quelle di un contemporaneo, Plinio il Vecchio, che personalmente non ebbe a quanto pare a lamentarsi di Nerone, vanno tenute in considerazione. Parlando, nella sua Storia naturale della longevità di alcuni alberi, egli scrive: "Durarono fino all’incendio con il quale Nerone bruciò Roma. E si noti che Plinio dice la frase come se parlasse di un argomento noto ed accettato da tutti. "Probabilmente egli ha narrato altrove particolareggiatamente l'incendio e quivi si pronunciava senz'altro per la colpevolezza di Nerone” ( ALLARD, op.cit.). Stazio non è, come Plinio, un contemporaneo, poiché aveva solo tre anni all'epoca dell' incendio ma poté raccogliere l'opinione in voga e inserirla in una delle Silvae dedicata a Palla Argentaria, vedova di Lucano: è un tratto dedicato alla glorificazione di quest'ultimo di cui celebra i versi e piange la morte prematura: "Tu canterai”, fa dire alla Musa che culla sulle braccia il poeta fanciullo, “tu canterai l’incendio che fece passar sui colli di Roma le fiamme accese da un despota colpevole”.



Senza dubbio, qui si tratta dell'incendio del 64 e il dominus nocens è Nerone. Lucano ha forse nell'ultimo anno della sua vita composto un poema sul terribile argomento, dove accusava Nerone, sì che il suo imprudente linguaggio, poté essere causa della sua morte. Questo sembrano indicare i versi oscuri di Stazio, ma Tacito non dice nulla a questo proposito. Bisogna riconoscere che il linguaggio di Lucano divenuto nemico di Nerone, o di Stazio che scriveva alla vedova di Lucano, non offre una garanzia completa d'imparzialità. Ma vi sono altri due interpreti della tradizione che dobbiamo esaminare e che scrissero senza dubbio con la più completa indipendenza. L'uno, Svetonio, contemporaneo, come Tacito, degli Antonini, ma più giovane di vent'anni e libero da ogni ricordo e da ogni influenza che avesse potuto renderlo sistematicamente ostile alla memoria di Nerone. L'altro, Dione Cassio, senatore sotto Commodo e che scrisse sotto Alessandro Severo quando i tempi di Nerone erano semplicemente storia passata già da tempo. Ecco come Svetonio narra l'incendio di Roma: "Nerone usava recitare ad alta voce questa verso: Che dopo la mia morte la terra sia distrutta dal fuoco!" e aggiungeva: "Anzi, ciò avvenga mentre sono ancor vivo!" E così fece, giacché quasi fosse stato colpito dalla sudiceria dei vecchi edifici, dall'angustia e dalle giravolte delle vie, incendiò la città così palesemente che molti consolari non osarono arrestare i suoi schiavi sorpresi nei loro giardini con le stoppie o le torce alla mano e nei pressi della Domus aurea alcuni magazzini, la cui area desiderava, furono abbattuti con macchine da guerra, essendone le mura di pietra. Il fuoco devastò per sei giorni e sette notti, mentre il popolo si rifugiava nei monumenti e nelle tombe. Allora , oltre un immenso numero di case, bruciarono le case degli antichi condottieri ancora ornate dalle spoglie nemiche, i templi degli dei innalzati e consacrati dai re al tempo delle guerre puniche e galliche e quanto l'antichità aveva lasciato di memorabile. Contemplando l’incendio dall'alto della torre di Mecenate, e lieto come diceva della bellezza delle fiamme, cantò in veste scenica la rovina di Troia. E’ impossibile non rilevare la differenza tra questa narrazione e quella di Tacito. Questi riproduce, controllandole, le fonti contemporanee, mentre l'autore delle Vite dei Cesari riassume piuttosto le tradizioni popolari, che hanno già snaturato ed amplificato i fatti dando loro i vaghi contorni della leggenda. Dove Tacito afferma solamente che la voce popolare accusava Nerone di aver, durante l’incendio, cantata sul teatro la rovina di Troia, Svetonio afferma l'imperatore averla cantata in vetta alla torre mentre guardava l'incendio e non si cura della contraddizione che probabilmente esiste tra questo vocìo diffuso nell’ambiente popolare e il fatto che, secondo Tacito, allo scoppio dell'incendio Nerone era ad Anzio. Ci sembra, scrive l'Allard, non si debba far assegnamento quanto ai particolari sulla narrazione di Svetonio. La narrazione svetoniana giova non per informarci sulle circostanze reali dell'incendio, ma per mostrare come nel primo quarto del II secolo, delle due ipotesi accennate da Tacito, solo una, quella della colpevolezza dì Nerone, fosse stata accettata dalla pubblica opinione. Simile impressione lascia il testo di Dione Cassio. Egli comincia a narrare che Nerone aveva il desiderio insensato e perverso di atterrare con un colpo Roma e l'im- pero ed invidiava Priamo che aveva assistito alla distruzione della patria. Aggiunge che Nerone inviò emissari incaricati di appiccar segretamente il fuoco in diversi punti della città ed inserisce la descrizione della disperazione del popolo, della fuga randagia dei Romani cacciati di casa dalle fiamme, aggiungendo ancora un particolare forse ispirato da Tacito circa i soldati e gli agenti dì polizia che pensavano unicamente a saccheggiare ed accrescevano l’incendio invece di spegnerlo. Finalmente narra che, durante questo tempo Nerone, con la lira in mano, contemplava lo spettacolo dall'alto di una torre del suo palazzo. Il tratto di Dione, animato, pittoresco, ma poco esatto, serve unicamente ad attestare la versione prevalente alla fine del Il secolo.