Le caste

L'India è uno dei pochi Paesi al mondo che realisticamente può essere definito in via di sviluppo. Ricchezze minerarie, classi superiori con istruzione di tipo e di livello occidentale, controllo della natalità costituiscono importanti indizi di una programmazione e di una tendenza verso un futuro diverso. Tuttavia, nonostante gli sforzi compiuti dal governo per una modernizzazione dei Paese, il peso della tradizione rimane molto forte. L'esempio più evidente è dato dal permanere delle caste (classi sociali chiuse), che neanche Gandhi, pur combattendole, è riuscito a scalzare. La preminenza quasi assoluta in campo religioso dell'Induismo (professato dall'80% della popolazione) ha fatto sì che esso potesse condizionare, con la propria dottrina e visione del mondo, tutto il sistema sociale. Tale religione, infatti, suddivide gli individui in strati sociali e caste. Gli strati, che sono quattro, si distinguono fondamentalmente in base al lavoro. Al vertice si trovano i sacerdoti (brahmani) e gli uomini di cultura; seguono i re e i guerrieri, poi i contadini e gli artigiani e, infine, i servi. Al di fuori dei sistema si trovano i paria (gli intoccabili), rifiutati da tutti. Essi devono vivere adattandosi a svolgere i lavori più umili o cercando l'elemosina. All'interno degli strati sono poi presenti diverse caste, che condizionano le prospettive sociali ed economiche di chi vi appartiene: i membri di caste diverse non possono sposarsi tra loro e, pur modificando la propria professione (quando e se possibile), essi rimangono sempre relegati all'interno della casta originaria. Purtroppo questa realtà, che non è riconosciuta dalla legislazione, rimane ancora viva nella pratica.



Dalla mentalità tradizionale induista deriva anche l'atteggiamento sociale verso la donna. Essa è considerata un essere socialmente inferiore, soggetta alle figure maschili: il padre, il marito e perfino i figli. C’è la difficoltà estrema a sradicare una cultura millenaria e profonda e questo può farci capire certe contraddizioni della realtà indiana. A un occidentale, che rileva la povertà del Paese e la carenza di prodotti alimentari, appare strana e contraddittoria la presenza di un elevato numero di capi di bestiame (soprattutto bovini e bufali: alcune centinaia di milioni) che non vengono utilizzati per l'alimentazione. La religione induista ritiene che nell'animale abbia trovato la reincarnazione un'anima, per questo ai praticanti è fatto divieto di macellare bovini e di mangiare carne. Esistono anche motivi di carattere igienico, in quanto è difficile conservare cibi facilmente deteriorabili in ambienti caldi senza avere frigoriferi. D'altra parte gli animali sono più utili da vivi che da morti. Le capre e le pecore danno lana e latte, ma sono le vacche ad avere un ruolo primario nell'economia, perché oltre ai loro prodotti (latte e burro) possono essere utilizzate per i lavori agricoli. Quando muoiono, esse vengono scuoiate dai paria per la pelle e la carcassa rimane preda degli avvoltoi, la cui presenza diventa insostituibile in un Paese dove manca il servizio di nettezza urbana.