Le
Frecce Tricolori
Chi sono, come vivono, come si addestrano i piloti della pattuglia acrobatica italiana, una delle più famose al mondo. di Gualtiero Tramballi ("Epoca" - 1977) |
Rivolto
del Friuli, giugno Il tenente colonnello Paolo Barberis, comandante della pattuglia acrobatica nazionale, scese dal Fiat G. 91 che era quasi mezzogiorno. Prima aveva guidato da terra, via radio, l'allenamento dei suoi ragazzi, poi aveva compiuto il suo volo quotidiano in compagnia di soli tre "gregari", forse bisognosi di ripassare la lezione: mezz'ora di picchiate, di looping (il famoso giro della morte), di tonneau lenti e veloci (l'aereo che si avvita su se stesso), di preziosi ricami eseguiti a ottocento chilometri all'ora stillo sfondo azzurro del cielo, il tutto concluso da un perfetto atterraggio reso più morbido dal paracadute sbocciato come un fiore - a metà pista - dalla coda del jet. Toltosi il casco, il comandante Barberis guardò l'orologio; poi, senza nemmeno asciugarsi il sudore, si avviò di corsa verso la palazzina comando. "Qualcosa che non va?", chiesi a uno dei piloti. "No, no", rispose. "Deve solo andare a prendere i figli all'asilo. Ed è in ritardo". Un episodio all'apparenza insignificante, ma che invece consente di dare una dimensione immediata agli uomini che compongono uno dei più famosi team acrobatici del mondo e che costituiscono l'élite, il meglio dell'Aeronautica italiana. Diciamo la verità: arrivando a Rivolto del Friuli (venti chilometri da Udine) per trascorrere tre giorni con le "Frecce Tricolori", mi aspettavo di trovare un gruppo di distaccati superman, con i quali sarebbe stato difficile allacciare contatti di qualsiasi natura. Giovani e famosi, genio e sregolatezza, passerelle di fantastiche donne adoranti: alzi la mano chi non ha questa immagine dei piloti della pattuglia acrobatica. Qui a Rivolto, invece, i miti si infrangono nello spazio di un mattino, il tempo cioè di guardarsi intorno, di entrare nel gruppo. I piloti della pattuglia sono undici: nove compongono la formazione che vola a stretto contatto di ali, poi c'è il solista incaricato di riempire i vuoti, che si sbizzarrisce cioè quando la squadriglia si è allontanata per preparare una nuova figura, infine il comandante che sta a terra, con gli occhi fissi al cielo e le labbra incollate a un microfono, il quale trasmette consigli, correzioni, raccomandazioni. Undici uomini, dunque. Ebbene, fra essi non ce n'è uno - uno solo ripeto - al quale si possa attribuire una punta di divismo o di supponenza. Undici caratteri tanto simili da sembrare riprodotti con la carta carbone e nei quali affabilità e cortesia si mescolano in uguale misura alla modestia e alla semplicità. |
Il comandante
che corre a prendere i due figli all'asilo per non far muovere la moglie
che è in attesa del terzo, il capo-pattuglia che coltiva peperoni e pomodori,
un altro pilota che nel pomeriggio si trasforma in bambinaia perché la moglie
studia e ha bisogno di un po' di tempo libero. Uomini come noi, con gli
stessi problemi: corrono molti più rischi, è evidente, ma amando la vita
come il proprio lavoro, non lasciano nulla al caso. Di qui la rigorosa applicazione
quotidiana, lo studio continuo di ogni manovra, il rispetto di certe regole
che consapevolmente gestiscono in proprio. Sanno cioè da soli che cosa possono
mangiare, quanto devono dormire, quando è possibile permettersi certi passatempi.
Detto molto francamente, piloti abili come quelli della pattuglia, nell'Aeronautica italiana ve ne sono a decine. Ma la capacità professionale è solo una delle componenti necessarie per poter essere ammessi tra le "Frecce Incolori". Altrettanto importanti - se non di più - sono le doti psicologiche: come la calma, la tenacia, la pazienza, la volontà, il rispetto per gli altri, soprattutto l'umiltà. Occorrono tutte per poter compiere ogni giorno acrobazie incredibili, praticamente incollati - a mille chilometri orari - ad altri otto aerei. L'immagine del pilota affascinante che trascorre la notte fra donne e champagne e poi corre a infilarsi nell'abitacolo del suo velivolo è dunque la prima da cancellare giungendo a Rivolto. Qui gli incoscienti non hanno diritto all'ingresso, non vi entreranno mai. Anche perché prescindendo da ogni altra considerazione, chi potrebbe permettersi notti brave con 550 mila lire al mese e con famiglia a carico? A tanto infatti ammonta lo stipendio di un capitano pilota della pattuglia e davvero vien da sorridere pensando agli ingaggi di un campione dell'automobilismo che di rischi pure ne corre molti, ma che in fin dei conti viaggia sempre con quattro ruote ben poggiate sulla pista. Chi glielo fa fare, allora, a questi ragazzi? Durante il periodo trascorso a Rivolto ho parlato con tutti i piloti della pattuglia, anche separatamente. E molti mi hanno confessato: "Il giorno che me ne dovrò andare, probabilmente piangerò". Credo che la risposta sia esauriente. La pattuglia acrobatica nazionale (Pan ne è la sigla) ha appena cominciato la sua stagione, che dura da maggio a ottobre. Una fitta serie di esibizioni in Italia e all'estero che praticamente la vedrà impegnata tutte le domeniche. "Siamo come una squadra di calcio", commenta il maggiore Renato Rocchi, che della pattuglia è lo storico e che durante le manifestazioni ha le funzioni di speaker, cioè annuncia e spiega al pubblico le figure che gli aerei stanno per compiere in volo. "Partiamo il venerdì e rientriamo la domenica sera. Il lunedì si riposa e per il resto della settimana sempre allenamenti, con qualunque tempo". La pattuglia è divenuta reparto autonomo - il 313° Gruppo addestramento acrobatico - dalla fine del 1960. Rappresenta l'intera Aeronautica militare italiana e pertanto i piloti provengono da tutti gli stormi, ovviamente dopo avere superato durissime selezioni. Prima di quella data, la pattuglia, era invece espressione di uno dei vari reparti da caccia esistenti nel nostro paese e rimaneva "in carica" un anno (dopo essersi naturalmente addestrata per tutto l'anno precedente). Di qui le varie denominazioni: "Cavallino rampante", "Getti tonanti", "Tigri bianche", "Diavoli rossi", "Lancieri neri". Divenendo reparto autonomo, la pattuglia ha anche assunto un nome fisso, appunto "Frecce Tricolori". È assistita da un gruppo di formidabili specialisti, anche loro scelti dai vari reparti dopo una severa selezione, che seguono piloti e aerei durante ogni spostamento. Più o meno come i tecnici di un team di formula uno. I motivi per cui si preferì trasformare la pattuglia in reparto autonomo sono diversi, ma il più importante è quello dell'affiatamento. Anche il più completo dei piloti ha bisogno di circa un anno di addestramento prima di imparare a far piroette nel cielo con le ali del suo jet a meno di due metri dalle ali di altri aerei. Un secondo anno è necessario per far acquistare al pilota sicurezza e disinvoltura assoluta. Ma a questo punto, col sistema precedente, il pilota (e la pattuglia) venivano sostituiti. Dunque, tempo, sforzi e tanti sacrifici quasi sprecati, il gioco insomma non valeva la candela. Oggi, invece, il pilota selezionato rimane in pattuglia per un periodo medio di cinque anni e le conseguenze sono immaginabili: affiatamento assoluto con gli altri compagni, perfezione delle figure. Il che ha portato la squadriglia acrobatica italiana a primeggiare nel mondo, forse solo gli inglesi sono allo stesso livello. |
Il primo comandante
delle "Frecce Tricolori" (cioè della pattuglia dopo la trasformazione
in reparto autonomo) è stato il maggiore Mario Squarcina. Per due anni
addestrò e diresse una formazione composta di sei piloti, più il solista.
Poi, nel 1963, decise di allargare la squadriglia a nove aerei, mai nessuno
al mondo ne aveva messi tanti insieme in una pattuglia acrobatica. "Troppo
affollamento", dissero subito i critici e in effetti il debutto della
formazione a nove con programma acrobatico completo (il 5 maggio 1963,
a Forlì) Si concluse tragicamente. Nell'apertura della "bomba" due aerei
si scontrarono: i piloti si lanciarono immediatamente, ma ad uno di essi
- Eugenio Colucci - il paracadute non si aprì in tempo. |