Sono state dette e si dicono moltissime cose sul tema della pandemia. Per fornire un punto di vista meno consueto ho deciso di utilizzare come spunto lo storico lavoro di Bleger sul Setting (Encuadre, cornice, perimetro) del 1967, che tornerà più volte come riferimento nell’odierno seminario.

In questo lavoro, l’analista argentino aveva descritto un modello di setting destinato a costituirsi come un punto basilare nel tempo. Gli elementi qualificanti di questo testo sono rappresentati sia dall’avere collocato la radice immaginaria inconscia di questa cornice nella dimensione corporea, materna in particolare, sia dall’avere segnalato che è una struttura che normalmente non appare, non è percepita, a meno che non avvenga qualcosa che la destabilizzi, che non vada incontro ad una vera e propria rottura. La terapia psicoanalitica è vista come un processo, dove avvengono delle cose, parole, emozioni, interpretazioni ecc., ma consentita esclusivamente dall’esistenza di un perimetro sufficientemente sicuro e stabile, come dice Bleger, ‘idealmente normale’, dove il processo alloggia, per così dire. L’encuadre svolge il suo compito nel silenzio, non si evidenzia: “non è un problema” quando “non piange”, usando una espressione di Bleger che fa riferimento a quel detto che non ci si accorge dei bambini a meno che non stiano piangendo. Si viene addirittura a creare nella relazione una “simbiosi muta”, che è destinata a manifestarsi soltanto quando si rompe. Il modello originario è quello di un feto che può crescere e svilupparsi soltanto all’interno di una sorta di equilibrio, di stabilità, rappresentate dagli assetti tranquilli, corporeo e psichico, materni. Bleger definisce questa cornice il non-io, o meta-io (cioè che sta aldilà del sé) e ad essa attribuisce una funzione essenziale nella definizione della propria identità, come un pavimento al camminare dell’essere. In essa si deposita la cosiddetta parte gliscrocaria – cioè agglutinata, viscosa – affine alla parte psicotica della mente di ciascuno, anomala ma pertinente anche alla non-patologia, cosicché possiamo avere manifestazioni di tipo psicotico, in caso di gravi minacce o cedimenti dell’encuadre, sia in soggetti normali che in presenza di disagio psichico evidente. Peraltro la terapia psicoanalitica, per Bleger, deve proprio utilizzare questo sdoppiamento per operare una modificazione dell’encuadre di tipo sufficientemente moderato, in modo da permettere una risistemazione, una mobilizzazione, come lui dice, di solo alcuni di questi aspetti, permettendo la loro integrazione nel processo e permettendo così i cambiamenti terapeutici evolutivi. Si aprono così “fessure attraverso le quali filtra la realtà”, che, se tollerabili, portano a crescite, se eccessive, conducono a vissuti traumatici disorganizzanti o inducono a difese denegatorie (‘non è successo niente’)[1]. Bleger sostiene (1967, 281) che le interpretazioni riferite al corpo in analisi, le implicazioni troppo concernenti l’area fisica dei soggetti evochino una minaccia al non-io, all’encuadre della relazione analitica e producano sensazioni fortemente persecutorie, ma penso che, in generale, ciò avvenga solo in quanto questo tipo di minaccia sembra avere una forza particolare nel mettere a repentaglio il nostro Sé più arcaico e fondamentale. In fondo, come diceva Freud (1922), l’Io è originariamente corporeo.

Dobbiamo tralasciare per ragioni di tempo e complessità un possibile parallelismo tra questo discorso e le teorizzazioni di W. Bion (tra assunti di base, come assetto interno della mente anche individuale, e encuadre e tra gruppo di lavoro e processo), parallelismo che riterrei tuttavia possibile e interessante per una maggiore comprensione degli eventi micro e macroscopici, intrapsichici e collettivi, concernenti le vicende Covid-dipendenti.

Attualizzando le considerazioni di Bleger, anche i nostri giorni sembrano, infatti, caratterizzati dall’uso dei ‘depositari’ delle parti inconsce ‘agglutinate’, cioè informi, arcaiche e non-pensanti, che necessitano di ‘abitare’ anche menti altrui costituendo legami di tipo simbiotico per garantire al sé una parziale sensazione di sicurezza e coesione: i depositari non vengono considerati né riconosciuti come persone ma solo come depositari (può trattarsi anche di cose). La persona dell’altro non esiste come tale: è “cosificata” scriveva Bleger (1966,270). Complice – come oggi accade – la possibilità che l’altro sia davvero depositario di un pericoloso agente patogeno, può svilupparsi, come difesa, la stessa condizione di blegeriana ambiguità che non garantisce comunque sicurezza e benessere, come tutte le organizzazioni patologiche. Da un lato c’è la paura, gli individui  ̶  scriveva Bleger (ivi,193)  ̶  temono di «una socialità che li destituisca dal loro essere persone e li trasformi in un unico ambiente omogeneo, sincretico, in cui nessuno emerga come figura (come persona) dallo sfondo, ma ciascuno vi si trovi immerso, il che implica una dissoluzione dell’identità strutturata dei livelli più integrati dell’Io, del Sé o della personalità. La paura nasce in presenza di questa organizzazione e non soltanto dalla disorganizzazione (…) si tratta della paura del gruppo di regredire ai livelli di una socialità sincretica che non è costituita da un’interrelazione o da un’interazione, ma esige una dissoluzione dell’individualità». Da un altro lato, tuttavia, non si può tollerare la solitudine, occorre necessariamente trovare e legarsi ai depositari per collocarvi le parti insostenibili. Penso non tanto e non solo alle angosce conclamate di contaminazione e morte e ai più che evidenti meccanismi denegatori, ma anche a quella sottile e pervasiva liquefazione identitaria che sta coinvolgendo soprattutto la fascia giovanile 15-25 anni con appiattimento emotivo, abbandono scolastico, incremento delle tendenze autolesive e/o suicidarie ecc., dove il fantasma interno non è tanto la morte quanto l’imprigionamento, l’essere accomunati dall’isolamento e dalla paralisi e il non essere in grado di elaborare strategie che ne prevedano una fine.

Sottolineo che, se da un lato queste condizioni tendono ad essere rifuggite con terrore, dall’altro, sono contemporaneamente ricercate inconsciamente come forma di rassicurazione, ponendosi probabilmente alla base anche – a livello collettivo – del compattamento populista, oclocrazia o volgocrazia che dir si voglia e della reazioni aggressivo-distruttive: la de-uma­nizzazione dell’altro^[2] come mezzo “indispensabile” per ridare senso e cornice “dura”[3] al Sé in pericolo. Lo possiamo leggere come un tentativo progressivo paradossale di raggiungere ed esprimere l’assetto psichico schizoparanoide (quindi frammentato, proiettivo e conflittuale) visto come comunque preferibile a quello ambiguo-agglutinato, a-conflittuale e indifferenziato di cui parla Bleger, la posizione gliscro-caria^[4], che appunto precede la dissociazione/proiezione, (1967,88), costituendo, in effetti, uno stato ancor più arcaico e minaccioso. Peccato, però, che tale ‘evoluzione’ porti con sé comunque un altissimo rischio di bellicosità e distruttività, gestite in “assembramenti”, come nelle risse adolescenziali accadute più volte in questo periodo.

Questo vale sia per gruppi sociali che per l’individuo. Credo che si tratti di un meccanismo in fondo non dissimile dalla “identificazione con l’aggressore” di cui è nota la valenza inconscia di fantasia eliminatoria dell’oggetto pericoloso di cui si prende il posto, alienandolo tuttavia in uno spazio altro, visto che difficilmente può realizzarsi (nella parte arcaica della mente) una definitiva scomparsa del persecutore.

E’ nella relazione simbiotica immobilizzata che Bleger (1967,94) ritrova l’alienazione di una parte di sé per poter continuare a vi­vere, un Sé alieno, fantasticato come luogo sicuro di proiezione del negativo, ma attaccabile dal Sé proprio perché non riconosciuto, esattamente come in un processo autoimmune e, tuttavia, conservato accuratamente come permanenza di un elemento clivato del sé. Concetti simili sono in Fonagy (2007) o in Brenman (1984,65), con la sua descrizione della pelle come struttura superficialmente morta per mantenere in vita l’individuo in essa contenuto. Per Bleger (1967,97), questo vincolo simbiotico si configura, anziché come equilibrio fra processo vitale e parte solida perimetrale, come un patto tra parti vive e morte per continuare a vivere, meccanismo a volte temporaneamente utile, a volte solo causa di un trascinarsi appresso un cadavere vivente che deve essere conservato, controllato e immobilizzato da coloro che ne sono coinvolti. Dice Bleger (ibidem) che in questo caso la relazione oggettuale funziona in blocco (tutto o niente): se vuole vivere, deve riparare e far vivere anche i suoi oggetti morti, ma così facendo vi è il rischio che l’io soccomba con tutti i suoi oggetti buoni. Aggiungerei tuttavia che si devono far morire continuamente gli oggetti vivi, attaccando un “nemico” Sé/non-Sé.  Possono aprirsi innumerevoli strade psicopatologiche, dominate dall’ambiguità, dall’ipocondria, dalle relazioni perverse, dalle troppe identificazioni primarie non discriminate che mantengono in primo piano il nucleo agglutinato (ivi, 158), ma anche da agìti compulsivi o violenti accompagnati da un Io-spettatore^[5] che sembra osservare il tutto da estraneo. Nel caso della pandemia, questo capovolgimento che sembra dare più attenzione alla pelle morta che al corpo vivo, potrebbe essere rappresentato dalla concentrazione del pericolo nel vaccino, che rischia di essere più volte “strappato via”, nonostante il fatto che ogni “no” al vaccino comporti un numero ben maggiore di eventi infausti dovuti alla malattia. Ma l’Io spettatore è il regno del non-conflitto, come se non fosse successo e non stesse succedendo niente, un Io artefatto che ha le caratteristiche «di non compromettersi, non assumersi la responsabilità, non farsi carico di una situazione, del suo significato, delle sue motivazioni e delle sue conseguenze. Niente viene affermato o negato totalmente.» (Bleger, ivi,213-214). Il processo generalmente implicato è la (101) Metamorfosi, per Bleger ben diversa dalla Trasformazione (pensante), in quanto nella prima il cambiamento è “magico” e totale, la granulosità dell’Io fa sì che l’identità passi da un frammento all’altro attuando un vero e proprio salto di personalità (102), e dove (224) ogni atteggiamento è funzione di un segmento diverso dell’Io, o, come diceva Pessoa (1996,63) … in ogni angolo della mia anima c’è un altare a un dio diverso.

Temo che – dal momento che le istituzioni tendono ad ammalarsi delle malattie che vogliono curare, come spesso Bleger ricorda – si possa vedere nella frammentazione delle opinioni cliniche e delle indicazioni procedurali di consenso/proibizione circa la mobilità e la sicurezza dei soggetti, accompagnata da una discreta indifferenza nelle procedure generali di controllo, una certa triste affinità con le descrizioni blegeriane.

Paradossalmente, dunque, sembra proprio la paura di essere immobilizzati in una condizione sincretico-agglutinata la condizione che promuove la paralisi, trasformando una dinamica problematica ma in fondo vitale in una condizione irrigidita, immobilizzata, ma soggetta a irruzioni di violenza, facendo perdere di vista, come ricordava Bion per i gruppi in assunto di base rispetto al gruppo di lavoro, il compito, lo scopo realistico del lavoro, a favore di una illusoria sopravvivenza, attuando così una:

“legge generale delle organizzazioni, secondo la quale in tutte le organizzazioni gli obiettivi espliciti per cui sono state create corrono sempre il rischio di passare in secondo piano, mentre acquisisce primaria importanza la perpetuazione dell’organizzazione in quanto tale (…) [cosicché] qualsiasi organizzazione tende ad avere la stessa struttura del problema che deve affrontare e per il quale è stata creata” (1966, p.195-196).

Se il tema ha ovviamente un particolare respiro in ambito pluripersonale/sociale e anche nella sua connessione con i fattori ecologico/ambientali[6], a livello individuale amo esemplificare tale genere di procedure[7] con una famosa opera letteraria, le Metamorfosi di Kafka, dove l’Autore, probabilmente, non ha potuto affrontare l’esordio della malattia tubercolare che poi l’avrebbe condotto a morte, che tendendo ad avere la stessa struttura del problema – diventando/tramutandosi nel morto, nel piatto e rinsecchito coso là, lo scarafaggio di cui non ci si deve più preoccupare essendo pronto per essere spazzato via dalla solerte cameriera.

 Scrive il filosofo Gargani:

“Gregor Samsa non è un individuo che una mattina si risvegli e si senta come uno scarafaggio, perché egli è diventato uno scarafaggio (…), Gregor Samsa compie semplicemente la catastrofe della sua metamorfosi diventando un insetto. Di tutto ciò è sintomatico che Kafka [che veniva regolarmente apostrofato e trattato dal dittatoriale padre come ‘immondo scarafaggio’] sopprima ogni similitudine, metafora o allegoria, dicendo non già «io sono come uno scarafaggio», ma «io sono uno scarafaggio». (…) E’ un compimento reale della situazione dalla quale volge e deriva, al tempo stesso, la sua catastrofe.” (Gargani, 1992, p. 27).

Kafka, psicologicamente caratterizzato da un divieto d’accesso[8] alla vita emotiva adulta e indipendente, reagisce attuando una intenzionalità psichica inconscia distruttiva che si trova quasi a convalidare il destino già scritto della condanna paterna. Il corpo si fa estraneo, alieno e minaccioso, può solo divenire oggetto di metamorfosi e precipitare in anticipo nella condizione estrema.

L’atteggiamento di Kafka sembra un esempio di ribaltamento perverso – scrive: “Noi stiamo costruendo il pozzo di Babele”^[9] – un mondo alla rovescia, onnipotente, ma in “negativo” (Green, 1993), illusoriamente dominato attraverso l’impossessamento della morte, la facoltà di morire contento, come scrive nei Diari ( 1914, in 1972, p.511).

Sembra identificarsi con il non-io, come potrebbe forse accadere in chi “diventa” il virus, o perlomeno sembra collocarsi da quel punto di vista, vivendo come nemica la vaccinazione, più che la malattia. Certamente un contributo a questa dinamica potrebbe derivare anche da una colpa persecutoria inelaborata (Grinberg,1971) come pare di rilevare nella forte percentuale (si spera solo iniziale) di rifiuti di vaccinarsi proprio nelle RSA dove più intensa è stata la contaminazione indotta dagli operatori a danno degli ospiti.

Concludo citando Pessoa (1996), autore, fra le tante altre cose, di un racconto-lungo ripescato dal famoso baule dei manoscritti (quindi di difficile datazione, comunque giovanile, dei primissimi del ‘900), pubblicato col titolo L’ora del Diavolo.

E’ un dialogo fra il Diavolo e una Signora, incontrata ad una misteriosa festa e accompagnata a casa per farle far ritorno alla sua vita abituale (forse).

16: Sono il negativo assoluto, l'incarnazione del niente. Quello che si desidera e non si può ottenere, quello che si sogna perché non può esistere - in ciò risiede il mio regno nullo e lì poggia il trono che non mi fu dato. (…) Sono l'oblio di tutti i doveri, l'esitazione di tutte le intenzioni. I tristi e gli stanchi della vita (…) levano gli occhi verso di me, perché anch'io, e a mio modo, sono la Stella Lucente del mattino.

24: Sono il Dio dell’Immaginazione, perduto perché non creo.  (25): …signore assoluto dell’interstizio e dell’intermedio, di ciò che nella vita non è vita. Come la notte è il mio regno, il sogno è il mio dominio. Ciò che non ha peso né misura – questo è mio.

13: Corrompo, certo, perché faccio immaginare. Ma Dio è peggiore - in un senso, perlomeno - perché ha creato il corpo corruttibile, che è molto meno estetico. I sogni, almeno, non marciscono. Passano. Meglio così, non è vero?

Occorre dire che Pessoa coglie il distruttivo sottile, non quello clamorosamente esplosivo, il “Male quotidiano” della contrapposizione continua al Bene, ma sembra considerare solo negativamente l’Immaginazione.

Se è vero che il definirsi “perduto perché non creo” coglie l’aspetto anticostruttivo della seduzione demoniaca, dove l’anima umana , dice sempre Pessoa, si turba a sentire la viva vita di ciò che non esiste, dobbiamo vedere nella capacità immaginativa – o meglio nell’Immaginazione Speculativa di cui parlava Bion – una grande risorsa, purché non sia autosufficiente, alternativa all’azione, ma, come diceva Freud, un “preludio all’azione”, una “prova” dell’azione stessa, pensata nella sua forma e nelle sue conseguenze, prima di essere effettuata. L’immaginazione di cui parla Pessoa sarebbe per Freud l’allucinazione, che sostituisce la realtà con la fantasia e la impone come vera.

Dobbiamo quindi fare molta attenzione al fatto che, se non possiamo modificare la situazione che non desideriamo, anzi, temiamo, ma che ci sembra di non poter evitare, siamo spinti a trasformarla in qualcosa che desideriamo, che rappresenta il massimo “piacere”. La tenebra diviene Lucifero, portatore di luce. Il male è il miglior bene. Un esempio da tenere presente nel valutare se l’inconscio desiderio di una persona – così come quello di una collettività propensa a fumare l’ultima sigaretta del condannato cogliendo l’assembramento fuggente – possa essere non tanto rivolto ad una difesa del Sé, come magari afferma, ma, paradossalmente, ad un trionfo, purché “autogestito”, sulle angosce attraverso la corsa verso il precipizio della devastazione del Sé (psichico o corporeo) come scriveva anche Bataille ne La nozione di dépense: “Il pericolo di morte non viene evitato e costituisce al contrario l’oggetto di una forte attrazione inconscia” (1933, 45).

BIBLIOGRAFIA

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