Nel
suo proposito il libro intende indagare il modo in cui la paura,
l’ansia ed altre emozioni stressanti giochino un ruolo essenziale
nel nostro sviluppo psichico nel “creare effetti emotivi prevedibili
che plasmano il modo in cui pensiamo, sentiamo ed agiamo”. La
focalizzazione sul sistema della paura, come precisa Ginot
nell’introduzione del libro, non comporta la disamina dei sintomi
psicopatologici correlati all’ansia ed alla paura (su questo esiste
già una consistente e abbondante letteratura psichiatrica e
psicoanalitica), bensì il proposito è quello di “esplorare la
miriade di effetti inconsci che gli stati precoci di disregolazione ha
su vari aspetti dei tratti e comportamenti della
personalità per tutta la vita. L’estesa interconnessione tra
regioni e circuiti cerebrali nonché il fatto che le funzioni tra aree
diverse si sovrappongono, è alla base di una serie di conseguenze,
ciascuna delle quali verrà analizzata in un apposito capitolo: la
vulnerabilità alla paura ed all’ansia (cap. 3); la generalizzabilità
dell’influenza di stress, paura e ansia a tutte le funzioni della
mente/cervello, come attenzione, percezioni, ricordi, apprendimento,
difese, e regolazione emotiva, ma anche la generalizzabilità della
capacità di rispondere in modo adattivo a tali emozioni soverchianti
(cap.4); l’influenza inconscia di paura ed ansia su altri stati
emotivi, con la conseguenza di un intrecciarsi con essi e di
un’intensificazione di affetti quali ad es. la vergogna, oppure di
un interferire con la qualità dell’attaccamento (cap.5).
Come
chiarisce il cap. 1, la gran parte di questi processi sono inconsci.
Non siamo consapevoli del fatto che le relazioni precoci, le tracce
mnesiche, e le esperienze apprese sono codificate e immagazzinate in
vari circuiti cerebrali che formano la base del modo in cui veniamo a
sperimentare noi
stessi e gli altri. L’unicità del modo in cui precocemente il
nostro cervello/mente si sviluppa in modo “malleabile” determina
la natura dei nostri modelli inconsci emotivi, cognitivi e di
risposta. Gran parte di ciò che possiamo apprendere dei nostri
modelli inconsci può giungere dalle nostre esperienze consce
(sentimenti, pensieri, comportamenti).
L’inestricabile
inter-penetrazione tra emozione e cognizione, che ha alla base le
diffuse ed intime interconnessioni tra l’amigdala ed i circuiti
neuronali implicati nelle funzioni cognitive superiori, viene
analizzata nel cap.11 che spiega come durante i primi anni di vita
tali processi neuropsicologici modellano e determinano le nostre
narrazioni riguardanti il sé e gli altri.
I
capitoli 6 e 7 riguardano rispettivamente il ruolo della risonanza
intersoggettiva precoce e lo sviluppo di condizioni traumatiche
durante l’infanzia. Molto precocemente bisogni innati di
attaccamento, di sintonizzazione e di conforto fisico ed emotivo ci
rendono vulnerabili e proni a stati di frustrazione, di stress, o di
iperattivazione (iperarousal). Inoltre, siamo anche straordinariamente
sensibili agli stati emotivi dei nostri ‘caregivers’, potendo
interiorizzare le loro paure ed ansietà in modo che esse possono
diventare anche le nostre (cap.6). Tali effetti risultano devastanti
quando i bambini sono vittime di abuso sessuale, fisico o emotivo,
oppure di negligenza. Tali esperienze traumatiche spesso causano
durature difficoltà interiori ed interpersonali “radicate in un
pervasivo stato di vigilanza e paura”. Le ricerche che indagano
sulle basi neuropsicologiche del disturbo da stress post-traumatico (PTSD)
sottolineano gli effetti non solo a breve ma anche a lungo termine del
trauma infantile (cap.7). Ma dato che il sistema della paura,
l’amigdala ed i circuiti correlati sono attivi ben prima della
nascita, siamo anche vulnerabili ad una tale varietà di “insulti”
emotivi provenienti da esperienze, norme, eventi ordinari, che essi
possono sembrare benigni ai genitori, pur avendo conseguenze dannose
per bambini ed adolescenti. Dalla prima infanzia in poi i bambini sono
alla mercé di emozioni disturbanti e quindi di pensieri che possono
danneggiare il loro senso di benessere e di fiducia. Un accumulo di
tali esperienze dolorose rinforza lo sviluppo di stati del sé ansiosi
e pieni di sentimenti di offesa: sacche di narrazioni di sé negative
e dense di ansietà si sviluppano persino in presenza di buone cure
genitoriali e di un ambiente supportivo e pieno di amore per il
bambino. Il fatto che la corteccia prefrontale, la regione
maggiormente coinvolta nella comprensione razionale del mondo
circostante, maturi più tardi delle altre aree cerebrali comporta la
potenziale comparsa di conclusioni dense di emozioni e spesso distorte
riguardanti sé e gli altri. Di conseguenza, all’insaputa dei
genitori e di altri adulti significativi, i bambini reagiranno
internamente a molti eventi ed interazioni con una prospettiva ed una
comprensione limitata. Ciò può portare ad un incremento di ansietà
e di interpretazioni irrazionali come fonte di origine e di senso di
situazioni interpersonali perturbanti con genitori e coetanei. Nel
modo che è tipico del mondo dei bambini, la loro comprensione delle
interazioni disregolate tende a focalizzarsi sui propri comportamenti
carichi di vergogna e percepiti in modo errato nonché sulle proprie
presunte manchevolezze (cap.8). Questo stesso capitolo esplora anche
il ruolo dell’epigenetica e delle complesse mutue influenze tra
genoma ed ambiente. Sin dagli esordi della vita umana temperamento ed
ambiente diventano inestricabilmente avviluppati tra di loro ed
insieme influenzano ciò che diveniamo. A causa dell’importanza
della paura nella prima infanzia, tale interazione epigenetica è
particolarmente significativa per la prevalenza dei nostri stati del sé
carichi di angoscia. Una maggiore tendenza a sperimentare la paura
rende l’ambiente più spaventoso e meno sicuro nell’esperienza del
bambino. Viceversa, un ambiente abusante innalzerà con la massima
frequenza la vulnerabilità per i disturbi d’ansia e fobici. Allo
stesso tempo, cioè sin dai primissimi momenti di vita, nel tentativo
di ripristinare il senso di benessere, in modo automatico reclutiamo e
ricorriamo a meccanismi di “coping” ed a varie difese. Con la
crescita le difese più precoci diventano modelli ben consolidati di
risposta automatica a minacce percepite, ma esse possono spesso anche
eccedere e oltrepassare il loro compito adattativo: ciò che
funzionava nella prima infanzia ed in adolescenza può non essere
utile da adulti (cap.9).
Quando
i livelli di sofferenza emotiva durante l’infanzia vengono
sperimentati come particolarmente disregolanti, le difese inconsce
utilizzate contro di essi tendono anch’esse ad essere estreme. Dato
che l’evitamento del dolore di risperimentare il danno temuto o
l’insicurezza diventa la motivazione inconscia più urgente, gli
individui possono sviluppare dei tratti narcisistici. Vale la pena di
ricordare, comunque, che, secondo l’autrice, a partire dalla prima
infanzia in poi, stati del sé ansiogeni inevitabili e ‘normali’
si intrecciano inestricabilmente con insulti ed offese al nostro senso
del sé. Alla luce di ciò,
Efrat Ginot afferma che, in effetti, tutti noi abbiamo una
certa dose duratura di offese e di difese, e perciò, conclude,
“tutti noi siamo narcisisti” (cap.10).
Visto
che le evidenze neuroscientifiche sostengono la conclusione che la
paura e l’ansia sono al centro delle nostre dinamiche psicologiche,
l’autrice sottolinea il ruolo che queste emozioni hanno nei
pensieri, nei modi di vedere e nelle credenze che noi sviluppiamo su
noi stessi e sugli altri, ossia nelle nostre narrazioni del sé
(cap.11). Tali narrazioni sono date dalle molte modalità automatiche
e ripetitive con cui diamo significato agli eventi e con cui
esprimiamo ben radicate modalità di sentimento e di pensiero su noi
stessi ed altre persone che ci giudicano. In quanto espressione del
modo centrale in cui ci rapportiamo a noi stessi ed agli altri, le
narrazioni di sé sono costituenti essenziali della nostra identità e
del senso del sé. Esse danno voce sia agli elementi positivi che a
quelli negativi delle nostre visioni del mondo e, cosa importante, ci
danno informazioni sull’ampia gamma di stati del sé consci ed
inconsci (cap.1).
Ma
con lo sviluppo dell’individuo molte altre forze, oltre a quelle
dell’immediato ‘entourage’ familiare, possono influenzare lo
stress emotivo. L’autrice, come esempio, fa riferimento al fatto di
aver scritto questo libro durante la pandemia da Covid-19: in questo
periodo l’attenzione dell’autrice ha oscillato, a suo dire, tra la
vasta mole di ricerche sull’ansia e la paura da un lato, e
dall’altro l’inevitabile confusione, il senso di imprevedibilità
ed i timori connessi alla pandemia. Di conseguenza questo libro, pur
concepito all’inizio col compito di esplorare gli effetti a lungo
termine dei precoci sistemi della paura sullo sviluppo psichico, ha
dovuto prendere in considerazione pure le rilevanti e inevitabili
interazioni tra pandemia ed i nostri sistemi della paura. In
particolare l’autrice si concentra sulle conseguenze ansiogene degli
eventi del 2020 e dei loro effetti sulla genitorialità e sui bambini
(cap.12). Altre condizioni del contesto esterno che secondo
l’autrice si è dimostrato contribuire ad elevati livelli di ansia
sono quelle socialmente determinate come la povertà e la
discriminazione razziale o contro minoranze religiose. Una crescente
mole di dati provenienti dalle ricerche psicologiche e
neuropsicologiche rilevano quanto siano dannosi gli effetti di tali
condizioni su intere generazioni di bambini (cap. 13). Ed aggiunge la
Ginot: “Mi sembra che, specialmente in questo contesto, la
conoscenza significhi potere: il potere della chiarezza sul ruolo dei
fattori socio-economici ed il potere di cambiarli”.
Il
capitolo 14 esamina un altro potenziale fattore capace di influenzare
i livelli di ansia nei bambini: i contenuti violenti dei media e dei
giochi violenti. Sebbene i risultati delle ricerche siano ancora
relativamente scarsi, per non dire controversi, emerge comunque un
quadro complessivamente interessante sugli effetti negativi che tali
immagini violente possono avere sui bambini ed adolescenti.
Sebbene
nella nostra psiche ci siano modelli pressoché universali di
narrazioni e sentimenti
negativi, persino di fronte a modalità più
o meno inconsce che si ripetono e vengono agite in modo automatico e
ripetitivo abbiamo ancora la capacità di agentività (‘agency’)
per modificare i loro effetti. La psicoterapia ci incoraggia ad
osservare, ad identificare ed a comprendere i nostri modelli interni
ed interpersonali dannosi allo scopo di lavorare in modo da modificare
i loro effetti negativi sulle nostre vite. In tale processo
rafforziamo anche le nostre percezioni nonché le modalità di
risposta resilienti ed adattative. Apprendiamo così a tollerare ed a
vivere bene
con una quota occasionale ed inevitabile di ansia (cap.15). Ma la
psicoterapia non è il solo approccio che può espandere la nostra
capacità di comprendere e contrastare le dinamiche interne causate
dalla disregolazione emotiva. Gli approcci contemporanei basati sugli
esercizi di ‘mindfulness’ e di controllo cosciente del respiro
dimostrano la loro efficacia nel gestire stati della mente carichi di
ansia. La ‘mindfulness’ in particolare può risultare utile per
una genitorialità sufficientemente buona. Genitori più
‘mindful’ possono, ad esempio, minimizzare l’insorgenza di
interazioni emotive perturbanti grazie alla capacità di prestare
attenzione alle proprie tendenze a essere impazienti o arroganti.
Chiedere scusa a un bambino ferito o arrabbiato ed accettare la
responsabilità quando appropriata può creare le premesse per ridurre
l’ansia del bambino riguardo all’aver sbagliato o al timore di
perdere l’amore o l’approvazione di un genitore. Gli atteggiamenti
‘mindful’ rendono
anche i ‘caregivers’ più capaci di identificare e di
rispettare le tendenze e preferenze
innate del bambino senza alcuna imposizione dei propri bisogni
e dei propri modelli consolidati su di esse. Ed, infine, un genitore
‘mindful’ può aiutare un bambino sotto stress ed angosciato ad
elaborare con consapevolezza, ad accettare ed a comprendere le
situazioni difficili, presentandogli un modello di ‘coping’
adattativo.
“Il
più grande dono che possiamo fare a noi stessi ed ai nostri bambini
è il coraggio di divenire consapevoli dei nostri modelli e dei nostri
stati di ansia e di vulnerabilità” afferma la Ginot,
“comprendendo cosa li scatena, cosa li attutisce, cosa permette di
accettarli per quello che sono, ossia parti inevitabili di chi siamo.
Accettare il modo in cui siamo venuti in possesso degli stati del sé
ansiosi e difensivi, comprendere in che modo si siano formati prima
che la coscienza entrasse in funzione può portare a sperimentare
un’autentica compassione per sé e per gli altri. La terapia, in
particolare, può aiutarci a vedere che le nostre percezioni,
proiezioni, interpretazioni e comportamenti difensivi negativi sono il
prodotto di processi di sviluppo inevitabili. Più comprendiamo la
portata del sistema della paura nel nostro sviluppo precoce, meglio
accetteremo le nostre fragilità umane e meglio impareremo a vivere e
a crescere con esse” (concetti che verranno ripresi e sviluppati
nell’epilogo del libro).
I
contenuti dei capitoli sono mirabilmente illustrati da vignette
cliniche riportate in modo molto ampio e dettagliato.
Una
importante nota finale concerne lo stile di scrittura dell’opera: è
veramente rimarchevole come il linguaggio sia caratterizzato da
un’apprezzabile dono di chiarezza e di linearità, persino per il
lettore non madrelingua inglese, una dote davvero impensabile per i
libri di psicoanalisi spesso dallo stile convoluto e pieno di
riferimenti per soli “iniziati” che abbondano specie alle
latitudini mediterranee.
CAPITOLO
1: PROCESSI E MODELLI INCONSCI
Per
comprendere le emozioni dell’ansia e della paura è necessario avere
un MODELLO DELL’INCONSCIO: senza un tale modello non riusciremmo a
comprendere in che modo tali emozioni possano generare senso di
vulnerabilità, aspettative negative e comportamenti auto-sabotanti
che sono alla base delle dinamiche psichiche del soggetto e quindi del
suo senso del sé. L’autrice usa il termine
“CERVELLO/MENTE/CORPO” per sottolineare la natura interconnessa di
tutti i processi che sono alla base della nostra esistenza umana.
La
definizione che dà dell’inconscio l’autrice è la seguente: “I
processi inconsci sono la somma totale delle continue attività
neuronali che sono coinvolte in tutti gli aspetti delle nostre
caratteristiche fisiologiche, emotive, cognitive e comportamentali”.
Tali modelli inconsci, mappe neuronali o schemi sono organizzati
ATTORNO A SPECIFICHE EMOZIONI (più avanti Ginot connetterà tali
emozioni coi SISTEMI MOTIVAZIONALI desunti da Panksepp, 2012).
Un
primo punto essenziale l’autrice viene a chiarire: l’inconscio non
è separato dal conscio, ma c’è un CONTINUUM CONSCIO-INCONSCIO.
“(…) i processi inconsci sono sempre in funzione sullo sfondo,
valutando l’ambiente, e mettendo in atto reazioni appropriate. Così,
i processi inconsci non sono isolati dalle forme consce di
funzionamento. I due ambiti sono intrecciati, inseparabili e si
influenzano reciprocamente”.
Un
altro punto chiave è che NON ESISTE UN’ENTITA’ CENTRALE E UNICA
DELLA SELF-AGENCY (un Io), che controlli le attività difensive, e ciò
che può diventare conscio rispetto a ciò che deve rimanere
inconscio. Piuttosto ardito è il tentativo di far corrispondere a
mappe o circuiti neuronali (Damasio) (definiti secondo la legge di
Hebb come quei neuroni che si attivano o disattivano all’unisono) e
gli stati del sé (Bromberg, 1998). In senso evolutivo tali circuiti
si modellano epigeneticamente, cioè grazie all’interazione
geni-ambiente, ed il ‘pruning’, cioè l’eliminazione di sinapsi
che non vengono più utilizzate abitualmente, può essere alla base
degli effetti della mancata sintonizzazione ripetuta e delle
negligenze genitoriali sullo sviluppo “difettuale” del
cervello/mente. Gli stati del sé sono dinamici, vengono continuamente
RI-CREATI. Ciò è coerente con l’assunto del CONTINUUM
CONSCIO-INCONSCIO.
La
precisazione seguente è poi della massima importanza: ciò che
costituisce le fondamenta del nostro cervello/mente/corpo è dato
dalle “interazioni intersoggettive che sin dall’inizio della vita
abbiamo coi caregiver. Gli aspetti importanti delle comunicazioni
intersoggettive sono dati dalla RISONANZA verbale e non, reciproca e
bidirezionale tra genitori e bambini. Questa risonanza emotiva,
verbale e fisica è al centro della sintonizzazione genitoriale. Nella
sintonizzazione riuscita, sia il lattante che il caregiver comunicano
reciprocamente i loro stati interni e co-regolano gli stati di
stress”.
CAPITOLO
2: LE EMOZIONI
Le
ricerche delle neuroscienze affettive (Panksepp, 2012) hanno definito
sette SISTEMI AFFETTIVI CENTRALI che rappresentano EMOZIONI INNATE:
1)
RICERCA/ATTESA;
2)
PAURA/ ANSIA;
3)
RABBIA;
4)
PIACERE/ECCITAMENTO SESSUALE;
5)
CURA/ NUTRIMENTO;
6)
PANICO/LUTTO/TRISTEZZA;
7)
GIOCO/ GIOIA SOCIALE.
Un
altro importante PRINCIPIO (meglio sarebbe dire RISULTATO della
ricerca neuroscientifica) riguarda lo sviluppo di tali sistemi
emotivi: le esperienze nuove NON creano strutture che SI SOVRAPPONGONO
A STRATI sulle strutture più antiche (controllandole e regolandole),
ma SI INTEGRANO (embedded) rispetto alle prime.
NB:
definizione di AROUSAL: “livello di intensità emotiva
soggettivamente sperimentata nel corso di una sfida da parte
dell’ambiente circostante che richiede una risposta” (cap.2).
CAP.
3: IL SISTEMA DELLA PAURA E L’AMIGDALA
Amigdala--à
paura
Bed
nucleus della stria terminale -à
ansietà prolungata (minaccia non realistica o esagerata--à
aspettative negative, preoccupazioni ripetute, ruminazioni)
CAP.
4: L’INFLUENZA DEL SISTEMA DELLA PAURA ESTESA A TUTTO IL CERVELLO
Un
altro assunto che il dialogo tra le
indagini neuroscientifiche e la psicoanalisi sta superando è
quello della contrapposizione tra l’autenticità del sentimento (o
dell’emozione) e la difensività del pensiero. In realtà, ogni
stato del sé contiene, in modo integrato, componenti emotive,
percettive, cognitive, e comportamentali. Questo capitolo si concentra
sull’influenza che i circuiti del sistema della paura hanno sul
cervello in fase di sviluppo e, di conseguenza, sui modelli consci ed
inconsci. Nel bambino l’amigdala, nell’”etichettare” uno
stimolo come minaccioso (tra gli stimoli minacciosi dagli effetti
PIU’ DEVASTANTI* abbiamo L’ABUSO FISICO E SESSUALE, L’ASSENZA DI
SINTONIZZAZIONE COL CAREGIVER, LA MANCANZA DI SICUREZZA, INTERAZIONI
DOMINATE DALLA VERGOGNA CHE CAUSANO VISSUTI DI UMILIAZIONE
INTOLLERABILE, EVENTI TERRORIZZANTI come litigi tra i genitori o
essere bullizzati dai coetanei, nei BAMBINI MOLTO PICCOLI anche rumori
forti ed imprevedibili, espressioni facciali negative e una
genitorialità caratterizzata da abituale nervosismo, modalità
caotiche o inconsistente) porta il bambino a sperimentare ciò che
sembra buono o cattivo, tranquillo o fonte di stress. L’amigdala,
mentre elicita umore negativo, sentimenti di terrore, di paura e di
chiusura difensiva, modella altre funzioni in fase di sviluppo:
l’attenzione, la memoria, l’apprendimento inconscio, le
rappresentazioni interpersonali ed il senso del sé del bambino,
anch’esso in via di sviluppo. L’amigdala è stata individuata già
durante lo sviluppo intrauterino e raggiunge la sua maturazione
dall’OTTAVO MESE DI GESTAZIONE. Dopo la nascita, le reti del sistema
della paura si sviluppano rapidamente PRIMA DEL TERZO MESE. Studi con
la fMRI dimostrano l’esistenza di connessioni funzionali
dell’amigdala con le altre regioni cerebrali in bambini dai 3 mesi
ai 5 anni. Tali altre regioni comprendono le regioni motorie, visive e
uditive della corteccia, alcune aree prefrontali, e le reti
sottocorticali come l’ippocampo, il grigio periacqueduttale
(importante centro delle emozioni), i gangli della base, ed il
cervelletto (quest’ultimo importante nella formazione di abitudini e
nell’apprendimento). Tali
aree sottocorticali sono cruciali nel modellare gli stati emotivi, nel
creare ricordi, nel formare abitudini, nell’influenzare i processi
di apprendimento e nello stabilire aspettative e previsioni inconsce.
Queste connessioni tra l’amigdala e le altre regioni RAGGIUNGONO LA
CONNETTIVITA’ ADULTA tra i 4 e i 10 anni. I sopraelencati* stimoli
minacciosi incidono sui processi di ‘potatura’ (pruning) delle
sinapsi (secondo la legge di Hebb per cui le sinapsi che sono usate più
spesso si rafforzano, mentre quelle non coinvolte dalla stimolazione
proveniente dall’esterno tendono ad indebolirsi ed a svanire). Studi
sulla conduttanza cutanea già a 3-4 mesi di età ci dicono che tra
uno stimolo minaccioso (ad es., facce arrabbiate o spaventate) ed uno
positivo o neutro, la risposta a quello negativo è più rapida e
quindi by-passa la coscienza (questa priorità ha una base
evoluzionistica).
Il
ruolo del sistema DELLA PAURA NELLA REGOLAZIONE EMOTIVA sin dalla
prima infanzia si avvale di DUE MODALITA’:
1)
Sintonizziamo i nostri filtri dell’attenzione automatica alla
minaccia percepita, diventando quindi più predisposti a sperimentare
la minaccia come disregolante;
2)
Utilizziamo la difesa molto efficace dell’evitamento nei
confronti di minacce che ci coinvolgono o anche che notiamo appena.
Uno
studio (Shields et al., 2017) che esplora la relazione tra stress e
funzioni esecutive ha dimostrato che lo stress danneggia la memoria di
lavoro, la flessibilità cognitiva e l’inibizione cognitiva. Questo
studio indica che lo stress contribuisce ad una regolazione più
debole delle abituali reazioni autonomiche, compromettendo la
regolazione emotiva. In base alla sua esperienza clinica, l’autrice
sostiene che l’evitamento è la difesa più forte ed insidiosa,
quella dalle conseguenze più gravi per la vita quotidiana. “Il
potere dell’evitamento di paralizzare, di promuovere la
procrastinazione e di funzionare CONTRO ciò che si deve fare proviene
dall’innata esistenza della paura e dai tentativi molto precoci di
regolazione della paura nei bambini piccoli”. Crescendo
l’individuo si dota di potenti giustificazioni razionali a supporto
delle strategie di evitamento di sfide esistenziali anche cruciali: in
questo modo le strategie di evitamento sono molto difficili da
cambiare, perché sono quelle tra le più efficienti nel fronteggiare
la ansie e le paure più antiche, per cui tali strategie restano a
lungo non riconosciute e parti inseparabili del funzionamento
psichico.
Un
aspetto importante delle emozioni, il loro potere insidioso, consiste
nella loro durata che può arrivare anche ad ore, e che può tingere
di sé anche gli eventi seguenti (anche neutri) a quello che ha
suscitato l’emozione originaria. “Dopo che l’evento disregolante
è cessato, il perdurante stato di sconvolgimento può cambiare la
valenza delle esperienze seguenti. Ciò succede anche se le esperienze
seguenti sono più neutrali o persino più positive nella loro
natura”. Analogamente, cambiamenti nella connettività funzionale
tra amigdala ed ippocampo persistono per più di due ore a seguito
dell’esposizione ad un intenso stress sociale. Tali processi
neuropsicologici di distorsione in senso negativo finiscono per
rafforzare la nostra tendenza a percepire e ad aspettarci eventi
negativi, spesso a discapito di quelli positivi. Questo può far luce
su come, all’interno di un determinato campo intersoggettivo (in cui
ad es. le interazioni possono essere fonte di ansia, di vergogna o di
vulnerabilità, la disregolazione protratta continuerà a colorare di
sé i ricordi ed i processi associativi successivi: continueremo
ancora a percepirli come dannosi anche quando mantengono un differente
tono emotivo.
Un
altro fattore della persistenza di
significati colorati negativamente concernenti le esperienze
interpersonali è dato dal più lento sviluppo della corteccia
prefrontale. “Mancando della capacità di regolare in modo
appropriato i sentimenti e di riguadagnare la prospettiva in un
conflitto momentaneo, i bambini imparano ed interiorizzano le
percezioni dei genitori su di loro come una realtà di fatto. Essi
ancora non possiedono la capacità di differenziare tra la loro
soggettività e quella di un genitore”.
EMOZIONE
E MEMORIA: gli eventi carichi negativamente vengono meglio ricordati,
come si sa. Eventi causali e altri stimoli che erano presenti
nell’ambiente durante un evento negativo possono anch’essi
acquisire un significato negativo a livello di ricordi. La prossimità
e la bidirezionalità dei collegamenti tra amigdala ed ippocampo
spiega le forti connessioni tra emozioni e ricordi.
L’elaborazione
dei ricordi, che si divide in tre fasi (codifica, consolidamento e
recupero), in ognuna di esse può essere influenzata dalle emozioni.
Eventi ed interazioni che indicano una minaccia ad uno stato di
benessere fisico o psicologico, o anche ricordi codificati durante un
grave turbamento emotivo sono più spesso ricordati e più facilmente
recuperati. Questo è anche il caso dei ricordi impliciti nei primi
anni di vita: sebbene la maggior parte di questi ricordi emotivi, o
meglio tracce mnemoniche, non abbiano accesso all’espressione
verbale, sono comunque codificate (anche se non in un’area
specifica, quindi garantendone la loro dinamicità).
Il
potere degli eventi minacciosi di determinare la forza dei ricordi
codificati influenza il modo in cui ricordiamo e il modo in cui i
ricordi ci appaiono. Le emozioni colorano la natura codificata dei
ricordi ma anche il loro recupero nella memoria esplicita. Le emozioni
possono interferire coi ricordi enfatizzando certe qualità emotive,
così distorcendole. A causa dell’acuta vivacità che i ricordi
emotivi generano, essi tendono a sembrare soggettivamente più reali,
e possiamo accettarli come l’unica vera e valida rappresentazione di
ciò che è accaduto. Tale fiducia nel realismo e nella accuratezza
dei ricordi negativi a volte sfida un apprezzamento più obiettivo dei
fatti che sono accaduti. “In effetti, poiché non siamo coscienti di
questa tendenza a concentrarci, ricordare e recuperare i ricordi
negativi in tempo reale, specie durante i periodi di umore negativo,
non siamo consapevoli di questi meccanismi nascosti. Possiamo
letteralmente riscrivere le narrazioni della nostra vita personale
sulla base di sentimenti e non di fatti realmente accaduti. Ciò può
generare sia esperienze positive che negative, distorcendo il nostro
senso del sé ed influenzando le nostre relazioni con gli altri”. Ciò
naturalmente solleva non poche questioni in psicoterapia su come
affrontare un eccesso di ricordi negativi che sommergono quelli
positivi, pur documentati. Perché, come dice l’autrice,
“clinicamente, in tutti i casi, c’è un sacco di benefici
nell’aiutare i pazienti a sviluppare un quadro diverso, più misto e
bilanciato della loro infanzia”.
IN
RELAZIONE ALLA REGOLAZIONE ED ALLE RUMINAZIONI AUTO-REFERENZIALI la
relazione tra amigdala e corteccia prefrontale è particolarmente
importante. La corteccia prefrontale in particolare grazie alle sue
connessioni con l’amigdala modula gli effetti di un’iperattivazione
dell’amigdala stessa. La parte MEDIALE della PFC fa parte del DMN (Default-Mode
Network) che si focalizza sui processi psicologici interiori, come i
processi cognitivi auto-referenziali che si manifestano in condizioni
di riposo, ossia quando non siamo impegnati attivamente in compiti che
interessano il mondo esterno. Mentre si è liberi da questi ultimi, si
può entrare in uno stato di ruminazione o di dialogo interiore
(ruminazioni su esperienze passate, immaginazione concernente il
futuro, attività di modellazione di opzioni concernenti se stessi e
gli altri, creazione di ricordi autobiografici). Date le connessioni
dell’amigdala con il DMN, essa può influenzare molti dei
sopramenzionati processi con una tonalità affettiva triste, dolorosa
o minacciosa. Il risultato è una mappa neuronale in espansione di
sentimenti, fantasie, pensieri e modelli relazionali autoreferenziali
negativi. Si è trovato ad es. che in studi con la fMRI pazienti che
abusavano di droghe o riferivano gravi idee negative su se stessi
mostravano più forti connessioni tra amigdala e DMN. “Questo dato
suggerisce che i pazienti con disturbi d’ansia mantengono una forte
comunicazione tra amigdala e BNST e i circuiti coinvolti
nell’attenzione, pensiero autoreferenziale ed elaborazione
visuo-spaziale. Una forte associazione tra amigdala centrale e
corteccia prefrontale mediale si correla con una maggiore gravità dei
sintomi d’ansia sociale”.
Con
lo sviluppo del linguaggio e di comportamenti con sempre maggiori
sfumature i significati concettuali raccolti dai bambini piccoli sulle
loro esperienze portano a persino maggiori opportunità di sviluppare
un senso del sé profondamente vulnerabile, un sé che si organizza
attorno a molteplici interpretazioni distorte e negative.
CAP.
5: ALTRE EMOZIONI ED IL SISTEMA DELLA PAURA
VERGOGNA:
LA FRAGILITA’ DEL NOSTRO SENSO DEL SE’
La
vergogna non è appresa ma innata, afferma Ginot. Può essere
considerata come parte del sistema di allerta che ci avverte che
qualcosa di negativo e di sconvolgente è accaduto o sta per accadere.
Evoluzionisticamente, la vergogna garantiva la sopravvivenza visto che
l’individuo era interamente dipendente dal gruppo a cui apparteneva.
I
PROCESSI DI SVILUPPO DEI SENTIMENTI DI AUTO-COSCIENZA
I
sentimenti di auto-coscienza, specialmente la coscienza emergente
della vergogna, compaiono tra i 18 ed i 24 mesi. Tali sentimenti sono
legati ad un nascente senso di competenza ed alle richieste
provenienti dalle figure di attaccamento. I sentimenti di vergogna e
di imbarazzo richiedono un insieme di capacità cognitive più
sofisticate, specialmente la capacità di valutare se stessi in
relazione agli altri. Inoltre, i processi di auto-valutazione
dipendono da un senso interiorizzato che distingua ciò che è giusto
da ciò che è sbagliato,
come comprensione basilare di ciò che buono e cattivo significano per
coloro che si prendono cura del bambino. Analogamente, una
comprensione interiorizzata delle aspettative degli adulti, nonché le
regole dette e non dette che determinano il buon comportamento e
l’essere accettati dagli altri sono parte di questo processo in fase
di sviluppo di auto-valutazione. La consapevolezza di sé di deludere
gli altri comincia a provocare timori di perdere l’amore del
caregiver, il suo sostegno e le sue conferme.
Possiamo
così vedere in che modo l’ansia su come ci si paragoni con gli
altri sia una parte inestricabile dei sentimenti di vergogna. In
particolare in età adulta ed in adolescenza una delle caratteristiche
significative che accompagna la vergogna è il nostro paragonarci
interiormente agli altri nel valutare il nostro aspetto, il nostro
status e prestigio sociale, il libello di riconoscimento da parte
degli altri, di competenza, di successo e così via.
In
realtà proprio perché la vergogna, che faccia parte o meno di un
quadro psicopatologico, spesso non riflette una reazione giustificata
dalla realtà esteriore, ad eventi offensivi esterni, può essere
considerata come un “default mode” di guardare se stessi, una
parte di noi stessi che, attraverso la predisposizione temperamentale
e l’apprendimento precoce, può convincerci che senza la convalida
degli altri non possiamo fidarci del nostro valore.
ALTRI
SENTIMENTI DI VULNERABILITA’: PIU’ SIMILI CHE DISSIMILI
Ci
sono molte altre emozioni che ci fanno sentire vulnerabili e coscienti
di sé, agendo in modo simile alla vergogna. Ad es., la colpa, il
rimorso, il rimpianto, la rabbia sono tutti sentimenti di vulnerabilità
che implicano una coscienza di sé. La rabbia è connessa con stati di
aumentato stress, di frustrazione e di reazione a desideri e scopi
percepiti come bloccati. In casi di rabbia estrema, specie quando tali
sentimenti sono messi in atto e diretti verso gli altri, c’è anche
un fallimento della capacità di regolazione emotiva in senso
adattativo.
La
rabbia sul breve termine può essere adattativa, quando siamo messi di
fronte a pressioni o a controllo sociali , ad una paura potenziale di
perdere autonomia ed indipendenza, o di fronte ad una grave offesa del
nostro senso del sé, ma al lungo termine, se paure inconsce riguardo
all’autorità persistono e si generalizzano, essa può diventare
maladattativa.
Per
Ginot, riconsiderando i sette sistemi affettivi, gli affetti negativi
sono tra loro più simili che dissimili, per cui sentimenti differenti
di fatto confluiscono l’uno nell’altro, sovrapponendosi in quanto
a sensazioni fisiche e a pensieri, e portando a difese simili.
Secondo
Barrett (2017) tutti i sentimenti sarebbero radicati fisicamente in un
comune stato di attivazione (‘arousal’): ciò che li
differenzierebbe è la differente interpretazione cognitiva che
assegniamo a tali stati di arousal. L’esperienza clinica sostiene
l’osservazione che questi sentimenti spesso sono caotici e causano
simili perturbazioni fisiologiche, pensieri negativi e narrazioni
convincenti.
Ciò
che sembra unire questi sentimenti negativi è l’ansietà che li
guida. D’altronde, a livello neurobiologico
il ruolo dell’amigdala coi suoi nuclei specializzati, reagendo ad
una vasta gamma di minacce, sembra essere uno degli
elementi unificanti di tutti gli stati affettivi negativi.
L’amigdala
di regola reagisce agli stimoli salienti, ossia che catturano
maggiormente l’attenzione, i quali sono imprevedibili e che
segnalano minaccia o ricompensa. È anche coinvolta nella reazione ad
altri stati emotivi come il disgusto, la felicità, la rabbia e la
tristezza. Dall’infanzia all’età adulta le connessioni
dell’amigdala con le altre regioni cerebrali rimangono stabili,
fondendo differenti stati affettivi ed emotivi tra di loro. Con lo
sviluppo della corteccia delle regioni frontali le connessioni tra
amigdala e corteccia prefrontale mediale si sviluppano. Quest’ultimo
dato spiega la più ricca e raffinata comprensione dei propri stati
affettivi che hanno i bambini più grandicelli e gli adolescenti. Si
è trovato che la sola capacità di “etichettare” questa ampia
gamma di sentimenti incrementi in modo efficace la regolazione
emotiva.ù
Cap.
6: PREPARARE LE BASI PER LE DIFFICOLTA’ EMOTIVE: LA
SIGNIFICATIVITA’ DELLA RISONANZA INTERSOGGETTIVA PRECOCE
L’esplorazione
del sistema della paura non consiste in un’impresa
“archeologica” (come sosteneva Freud), poiché nessuno di noi può
avere un accesso diretto ai ricordi precoci di eventi o a come tali
eventi ci abbiano fatto sentire. Ma, sostiene Ginot, traducendo le
scoperte neuropsicologiche in un paradigma centrato sul cervello/mente
possiamo espandere in modo significativo la nostra comprensione delle
nostre vulnerabilità emotive.
Se
è inevitabile la presenza di paura ed ansia nelle nostre vite, è
importante comprendere la relazione che sin dalla nascita c’è tra
il bisogno innato dei bambini di un attaccamento sintonizzato e
l’onnipresente sistema della paura ad azione disregolante. Durante
un periodo in cui il bambino piccolo è interamente dipendente dai
caregiver per i suoi bisogni di attaccamento, di prossimità fisica,
di calore, di nutrizione, e di risposte sintonizzate, la capacità del
caregiver di regolare la sua fisiologia, la sua emotività ed il suo
comportamento è particolarmente cruciale.
I
cervelli dei mammiferi si sviluppano attraverso un processo di
sincronia bio-comportamentale con un genitore, specialmente attraverso
la comunicazione vis-à-vis, lo sguardo oculare e la vocalizzazione.
Una gran mole di ricerche dimostra che le diadi madre-bambino piccolo
generano complessi canali di comunicazione a più livelli. A partire
dai 3-4 mesi di vita, le interazioni vis-à-vis impegnano le più
avanzate capacità comunicative. I partecipanti alla diade
madre-bambino mantengono lo sguardo verso l’altro, guardano altrove,
si coinvolgono in differenti intensità di sorriso o restano non
responsivi. Durante tali scambi intersoggettivi
i bambini possono anche esprimere stress attraverso espressioni
facciali, vocalizzazioni o tentativi di rivolgere i loro volti altrove
rispetto all’interazione.
Tale
reciproca comunicazione genera uno scambio sincronizzato di segnali
ormonali, emotivi e fisiologici tra il genitore ed il bambino.
Coordinati livelli ormonali, battito cardiaco e ritmo respiratorio
sono parte inestricabile delle interazioni intersoggettive. Quando
tali relazioni di cura precoci sono profondamente disturbate, come nel
caso di trascuratezza, abuso o trauma, i loro effetti sullo sviluyppo
emotivo e sociale possono essere devastanti. Ad un livello
endocrino-neurologico, la
qualità delle cure genitoriali, che può dipendere dal proprio
assetto neurobiologico, è strettamente legata allo sviluppo
neurobiologico del bambino e alla traiettoria del loro sviluppo
neuropsicologico. Tale stretto scambio intersoggettivo e mutua
risonanza tra genitore e bambino mediano quella che spesso viene
considerata la trasmissione
intergenerazionale del trauma. Sembra che la comunicazione
verbale e non verbale tra genitori e bambini porti l’impronta degli
stati emotivi dei genitori, e le loro radici nel loro sistema
endocrino e neurobiologico. Ad es., il ruolo delle variazioni di
neuropeptidi, dei recettori degli ormoni steroidei, del testosterone e
dell’ossitocina è stato recentemente studiato come mediatore di
comportamenti genitoriali e
quindi di trasmissione intersoggettiva intergenerazionale.
La
ricerca ha ripetutamente sottolineato l’importanza della
SINTONIZZAZIONE RECIPROCA tra caregiver e lattante, che è alla base
della capacità del bambino di regolazione fisiologica (lo stato di omeostasi), di
regolazione emotiva, di espressione di empatia nell’infanzia e
nell’adolescenza, e di regolazione dell’attaccamento. Si è
dimostrato che la capacità del lattante di mantenere lo sguardo
fisso in quello dell’altro è associata ad un attaccamento sicuro, mentre una minore capacità con
l’attaccamento evitante (Beebe et al., 2010).
Attraverso
le espressioni facciali, il tono della voce, ed il linguaggio del
corpo il caregiver fornisce segnali non verbali di sicurexxa e di
risonanza. Ciò che permette salute, empatia e sintonizzazione
promuovente lo sviluppo è la COMUNICAZIONE NON VERBALE TRA EMISFERI
DESTRI del lattante e della madre. In un processo intersoggettivo sia
il bambino che il caregiver comunicano E RISUONANO con gli stati
emotivi dell’altro.
Tale
comunicazione può compensare le conseguenze disregolanti dell’iper-attivazione
(‘hyper-arousal’), del dolore e del disagio indotti
dall’amigdala. Per converso, comunicazioni impazienti, negative o
non sintonizzate da parte del genitore forniscono limitata
rassicurazione e possono esacerbare lo stress del bambino (Beebe et
al., 2010).
La
storia dell’intersoggettività madre-bambino e la potenziale
interferenza disregolante del sistema della paura COMINCIANO PRIMA
DELLA NASCITA con la natura dell’attaccamento materno al bambino non
ancora nato. Dato che L’AMIGDALA SI ATTIVA NEGLI ULTIMI DUE MESI DI
GRAVIDANZA, essa può già rendere il cervello in fase di sviluppo
suscettibile a stati avversi o dirompenti. Lo stato di salute della donna in gravidanza, il suo benessere emotivo, il sostegno
emotivo ricevuto durante la gravidanza, pressioni finanziarie e stress
familiari sono tutti fattori che incidono sul feto. Tali stressor
interni e ambientali sembrano ridurre la capacità materna di creare
un attaccamento di amore col feto.
Un
duraturo stress materno in gravidanza diventa PARTE DELL’EREDITA’
GENETICA DEL NASCITURO (Yehuda et al., 2005). Questo avviene grazie al
fatto che l’amigdala reagirà agli stati di stress della madre
attraverso segnali inviati dagli ormoni dello stress. I processi di
attaccamento che iniziano in utero costituiscono l’incorporazione
della prima forma di mutua comunicazione, che continua dopo la
nascita. Un importante aspetto di tale attaccamento
precoce è la capacità materna di regolare
non verbalmente gli stati di stress del suo feto. Dopo la
nascita, la capacità dei genitori di modificare le risposte emotive,
biologiche e neuronali del lattante agli stressor interni ed esterni
è un fattore essenziale per uno sviluppo sano.
DOPO
LA NASCITA, i genitori possono ATTUTIRE (‘buffer’, ‘DOWNREGULATE’)
O amplificare (‘UPREGULATE’)
le risposte di paura del lattante e del bambino (in misura minore ciò
è valido per un adolescente). Ciò dipende dagli stati interni dei
genitori e da come essi li mettono in azione (‘enact’), nonché,
come l’autrice ha già sottolineato più volte, dalla neurobiologia
interna al genitore.
IL
MONDO INTERSOGGETTIVO: ESPERIENZE DI RECIPROCA RISONANZA
I
cambiamenti strutturali più degni di nota dell’amigdala si verificano
PRIMA DELL’ADOLESCENZA E CONTINUANO NELLA PRIMA ETA’ ADULTA.
Specie il PRIMO ANNO DI VITA è un anno di rapidi cambiamenti
parallelamente alla PLASTICITA’
dell’amigdala e, di conseguenza, alla sua tendenza a reagire
a molte minacce percepite, in particolare relative all’ambiente
sociale.
La
ricerca ha dimostrato un importante bilanciamento tra
l’apprendimento delle minacce guidato dall’amigdala nel bambino e,
dall’altra parte, la capacità genitoriale di ‘buffering’, che
è in grado di sopprimerlo. Tali paure apprese vengono soppresse se la
madre o il padre è presente nel bloccare l’amigdala dal codificare
le paure apprese ed i ricordi paurosi. L’informazione circa la
presenza del genitore viene trasmessa grazie a segnali DOPAMINERGICI
provenienti dall’area
tegmentale ventrale, circuito che fa parte delle estese
connessioni che l’amigdala ha coi circuiti coinvolti nella codifica
delle ricompense e delle emozioni.
La
PRESENZA del genitore può RIDURRE il livello di stress del bambino
piccolo ma non sopprimerlo del tutto. Ciò può verificarsi nelle
forme più precoci di apprendimento avversativo, che comportano la
codifica e il consolidamento di stati d’ansia connessi a situazioni
frustranti. In tali situazioni le esperienze avversative vengono a
competere con quelle caratterizzate da ricompensa e dalla
rassicurazione dell’attaccamento. Il temperamento anche in questo
caso ha un ruolo importante. La sfumature dei due stati, quello di
ricompensa e quello avversativo, ed il modo con cui essi sono
sperimentati dal bambino piccolo dipende infatti da UN’INNATA
TENDENZA A DISTORCERE IN SENSO NEGATIVO le proprie percezioni ed
emozioni. Tali processi sottolineano il delicato equilibrio esistente
tra apprendimento della paura e interiorizzazione di un senso di
sicurezza e conforto.
Gli
stili innati di
comunicazione e di entrare in relazione sono stati esplorati avendo
come focus la capacità sociale del bambino piccolo di comportamenti
comunicativi. Si è valutato ciò grazie ad una metodologia che
prevede la registrazione di video secondo per secondo della
comunicazione vis-à-vis madre-bambino quando quest’ultimo ha
un’età di 4 mesi. Questo studio di Margolis et al. (2019) valutava
QUATTRO comportamenti del bambino: sguardo, espressione affettiva
facciale, vocalizzazione dell’affetto, e orientamento del capo. Da
questo studio emersero profili comportamentali unici che
rappresentavano tipi naturali di comportamento comunicativo infantile.
Ad es., un gruppo di bambini mostrava varie forme di disregolazione
affettiva: in questo profilo, un’emotività vocale negativa
mantenuta a lungo era correlata a disorganizzazione; emotività
vocalizzata in modo casuale era associata a resistenza
all’attaccamento; ed espressione affettiva a livello facciale e
delle vocalizzazioni di tipo casuale, positiva o negativa, erano
comunque associate a temperamento “difficile”.
Anche
senza una piena comprensione degli effetti di
tali innati tendenze relazionali sulle future difficoltà
personali, possiamo immaginare che le difficoltà comunicative del
bambino piccolo possono interferire con la capacità del caregiver di
mantenere il ‘buffering’ ed
interazioni pienamente sintonizzate. La reciprocità integrata nella
diade madre-bambino può anche produrre reazioni ansiose e
disorganizzate dalla parte del genitore. In risposta al mantenimento
di un’affettività negativa da parte del bambino piccolo o alla sua
resistenza ad una piena partecipazione emotiva, un genitore può
ritirarsi e rinunciare, agendo sentimenti di delusione e di
fallimento. Tali comportamenti, a loro volta, incrementeranno
ulteriormente gli stati già esistenti di disagio all’interno del
bambino.
Inoltre,
alla luce del riconoscimento dell’importanza della relazione della
madre col feto e della plasticità dell’amigdala in questi primi
mesi di gestazione, possiamo ipotizzare anche che almeno alcuni dei
comportamenti dei bambini in questo studio (Margolis et al., 2019)
possano essere stati influenzati da tali processi molto precoci.
Sebbene ancora oggi non riusciamo a decifrare tutte le possibili e
varie influenze sul temperamento dei bambini piccoli, nondimeno
possiamo identificare e rivolgersi ad alcune delle loro difficoltà
allorquando diventano più ovvie. Come suggerisce questo studio, i
clinici possono essere formati a cercare segnali emotivi e
comportamentali nei bambini piccoli che possano indicare difficoltà
comunicative e di attaccamento. Essi possono aiutare i genitori a
passare ad un livello più basso di ‘arousal’ mantenendo un ritmo
più basso, accettando il disimpegno visivo del bambino, e fornendo
comportamenti di saluto di livello moderato (anziché alto) quando il
bambino risponde (Margolis et al., 2019).
GLI
EFFETTI INTERSOGGETTIVI DELL’ABUSO E DELLA NEGLIGENZA
Ricerche
etologiche dimostrano che un prendersi cura di un piccolo inizialmente
in modo abusante o negligente impedisce successivamente al caregiver
di riuscire ad esercitare una capacità di regolazione; ciò può
essere associato a differenti sviluppi avversi per la salute mentale
nel corso del loro sviluppo. Ciò che appare significativo è che,
sebbene la presenza genitoriale sopprima l’attivazione delle regioni
coinvolte nei circuiti di elaborazione delle percezioni e dei
sentimenti minacciosi durante e dopo il periodo sensibile, i genitori
possono avere difficoltà a fornire una sintonizzazione in grado di
tranquillizzare se c’è una storia di grave non sintonizzazione (come nel
caso ad es. delle madri depresse). In questi casi l’apprendimento
della paura diventa predominante perché espressioni facciali fredde o
impassibili non possono fornire il necessario ‘buffering’ emotivo
positivo nei confronti dell’’iper-arousal’.
A
seguito di storie di non sintonizzazione o di negligenza in tali
coppie intersoggettive, i genitori sono meno capaci di attutire le
ansietà dei loro lattanti. In effetti, proprio come si è visto nel
capitolo 1, queste iniziali conseguenze persistenti di relazioni di
attaccamento precoce negativo attestano la tenacia dei più precoci
circuiti di codifica: a causa della grande plasticità del cervello in
fase di sviluppo durante questi periodi sensibili, e a causa del
potere del sistema della paura, l’apprendimento precoce della paura
dimostra una spiccata capacità di resistenza nel tempo. Ciò prepara
il terreno per un aumento di attenzione distorta, sia percepita che
immaginata, nei confronti delle minacce.
LA
DANZA TRA MINACCIA E SICUREZZA
I
lattanti mostrano una tendenza innata a prestare più attenzione alle
facce spaventate ed alle espressioni correlate ad una minaccia che
coinvolgano il sistema della paura (l’amigdala ed i suoi circuiti).
Molti studi che esplorano il modo in cui i lattanti reagiscono a volti
spaventati misurano l’intervallo di tempo in cui essi fissano le
immagini dei volti con differenti espressioni. In generale dai 5 ai 12
mesi essi ‘preferiscono’ i volti spaventati. Analogamente tra i 12
ed i 36 mesi i bambini prestano più attenzione ai volti spaventati
che a quelli felici. La maggiore attenzione per altre espressioni
negative, come quelle di rabbia, sembra comparire dopo quella per la
paura, intorno ai 36 mesi. In uno studio in cui si valutava la
direzione dello sguardo dei lattanti, quelli dai 10 ai 18 mesi
riuscivano a categorizzare percettivamente le espressioni facciali di
rabbia e di disgusto. A 18 mesi mostrano anche un’aumentata
sensibilità ai volti arrabbiati, suggerendo ciò che durante il
secondo anno di vita si raffinano le capacità di categorizzazione
delle emozioni.
Uno
studio (Morales et al., 2017) ha messo in evidenza una relazione
positiva tra l’attenzione di un bambino (dai 4 ai 24 mesi) verso
stimoli correlati ad una minaccia e il livello di ansietà materno. In
questo studio il pattern attentivo veniva misurato attraverso
comportamenti di tracciamento oculare accompagnati da misurazioni
dell’arousal psicofisiologico. I figli di madri, che avevano
riportato più alti livelli di stress e di depressione, mostravano più
alti livelli di iper-arousal ed una più forte tendenza ad avere
un’attenzione distorta nei confronti
di stimoli minacciosi. Le espressioni neutre o ambigue potevano
risultare più minacciose di quanto si potesse credere in questa
fascia precoce di età quando i bambini non essendo in grado di
ricevere stimoli sufficientemente forti che provino il reale
potenziale di minaccia, la valutazione automatica dell’amigdala
tende a leggere le espressioni neutre come minacce reali.
TRASMISSIONE
INTERGENERAZIONALE DELLE DIFFICOLTA’ EMOTIVE
Lo
studio di Abraham et al. (2020), iniziato nel 1982, ha esplorato in
che modo le qualità di un prendersi cura sintonizzato da parte di
genitori depressi e non depressi possa plasmare i circuiti cerebrali
deputati alle interazioni sociali dei loro bambini. Lo studio ha
esaminato 44 coppie di padri e madri nel corso dei primi 16 anni di
vita di sviluppo dei loro bambini ed ha preso in considerazione la
sincronicità neuronale tra genitori e figli. In particolare, i
ricercatori volevano comprendere se i circuiti alla base delle
interazioni sociali nei figli di genitori depressi e non depressi
assomigliassero a quelli dei loro genitori. I risultati hanno fornito la
prima prova neurobiologica della sincronicità genitore-bambini in
specifiche connessioni della sostanza bianca cerebrale, come tra
gangli della base e aree corticali temporali. Queste connessioni,
assieme alla giunzione temporo-parietale, sono coinvolte nella nostra
capacità di relazionarci agli altri e di vederli come entità
separate da noi. Questa are media quella che viene chiamata la
“teoria della mente”, ossia la conoscenza che gli altri hanno
menti e desideri per conto proprio.
Le
connessioni tra i nuclei della base e la corteccia temporale sono
coinvolti nell’attaccamento umano e nella formazione e mantenimento
del legame genitore-bambino. Esse mediano anche l’apprendimento e la
formazione di abitudini. Sia i nuclei della base che la corteccia
temporale sono bidirezionalmente connessi con l’amigdala, dato che
sono al centro di un delicato bilanciamento tra ‘buffering’
genitoriale, natura della sintonizzazione e stati d’ansia. Quando
viene stimolato ma non attutito da un genitore sintonizzato, il
sistema della paura prenderà il sopravvento sull’esperienza interna
del bambino. A seguito di ripetuti comportamenti genitoriali non
sintonizzati e incapaci di protezione, più esperienze di attaccamento
negativo saranno codificate come esperienze apprese. Ricordando il
ruolo dei gangli della base nella formazione delle abitudini, possiamo
vedere come in tal modo le esperienze negative implicitamente
ricordate e codificate si organizzino in modelli duraturi
interpersonali di aspettative ansiogene negative.
Questo
è particolarmente importante per la nostra comprensione di come gli
stili precoci di attaccamento dei genitori modellino letteralmente il
cervello in crescita dei loro bambini (Abraham et al, 2020). Migliori
cure da parte di genitori non depressi o solo moderatamente depressi
portano a connessioni neuronali più forti nel circuito specificamente
responsabile dell’attaccamento sociale. Genitori con più forti
connessioni in questo circuito risultavano più capaci di fornire una
sintonizzazione capace di ‘buffering’ contro
situazioni emotivamente stressanti.
D’altra
parte, diadi in cui i genitori soffrivano di depressione mostravano
connessioni ridotte in questo circuito. E i loro figli avevano
anch’essi connessioni più deboli nello stesso circuito. In altre
parole, cure genitoriali più sintonizzate, sostenute da connessioni
più forti in questo circuito per l’attaccamento sociale,
permettevano di predire una maggiore concordanza neuronale coi loro
figli. Genitori sofferenti di depressione tendono a parlare di meno,
ad avere meno contatti visivi, sono in genere più lenti nelle
risposte indirizzate ai loro figli, esprimono meno emozioni positive,
e mostrano una minore comprensione empatica.
Questo
studio (Abraham et al, 2020) fornisce la PROVA NEUROLOGICA DELLA
SINCRONICITA’ nelle diadi genitore-bambino. Tali relazioni pongono
le basi per lo sviluppo normale del cervello. Gli effetti delle cure
precoci sono condizionati, come evidenzia tale studio, dalla gravità
dei sintomi depressivi del genitore. Lo scompaginamento nella cura
sintonizzata è un importante fattore di rischio per la trasmissione
intergenerazionale della psicopatologia (Abraham et al, 2020). La
connettività dei gangli della base dei genitori predice, secondo
questo studio, un minor grado
di sintomi aggressivi (di quanto ci si potesse aspettare) nei
loro figli di 6 anni. Ciò è dovuto all’influenza della co-genitorialità
sintonizzata e collaborativa negli anni pre-scolari (Abraham et al,
2020).
Lo
stesso studio ha anche dimostrato che l’interazione tra i livelli di
depressione dei genitori e la qualità dei comportamenti precoci di
cura che essi fornivano producevano una vasta gamma di difficoltà
comportamentali nei loro bambini (Abraham et al, 2020). Non si tratta
di un risultato sorprendente, dato che esso riflette l’ampia gamma
di difficoltà emotive e sociali nonché degli altri tratti di
personalità che possono caratterizzare i genitori. Un genitore
moderatamente depresso oppure un genitore ipercritico e non empatico
interagità differentemente con il temperamento dei loro bambini,
fornendo loro differenti ed unici elementi costitutivi per lo sviluppo
della personalità dei loro figli.
Questa
trasmissione di difficoltà emotive da una generazione alla successiva
va oltre i sintomi della depressione. La trasmissione
intergenerazionale DINAMICA abbraccia un’ampia gamma di
emozioni e di comportamenti adattativi e maladattativi. Quando
l’eccessiva ansietà, la mancanza di empatia con le esperienze
interiori del bambino, l’ipercriticismo e comportamenti che
suscitano vergogns in quest’ultimo sono parte della psicologia del
genitore, essi diventano ugualmente parte delle dinamiche interne del
bambino.
CONSIDERAZIONI
EPIGENETICHE
Un’amigdala
iper-reattiva in senso temperamentale avrà più frequenti motivi per
attivarsi e far scattare l’allarme di pericolo. Le caratteristiche
innate possono anche rendere i bambini più sensibili alle
informazioni a contenuto spaventoso. Comunque, anche in questi casi
l’effetto di ‘buffering’ della genitorialità sensibile ed
empatica fornisce un’opportunità per ridurre i comportamenti ed i
sentimenti ansiosi. Quindi esiste un’evidenza stringente per cui a
seconda dei particolari tratti di personalità dei genitori
l’apprendimento esperenziale all’interno delle quotidiane
interazioni intersoggettive può produrre un’eccessiva ansietà ed
attenzione eccessiva nei confronti della negatività. Ad es., di
fronte a stimoli nuovi le espressioni facciali del genitore forniscono
indizi essenziali e feedback emotivi che insegnano ai lattanti ed ai
bambini come rispondere ai nuovi stimoli e alle continue sfide
quotidiane. Se i genitori forniscono direttamente o indirettamente
informazioni correlate a sentimenti di paura a bambini più grandi (ad
es. parlandone o sottindendendo che un qualche evento è pericoloso),
ciò può portare ugualmente ad un incremento dell’ansia e
dell’eccessiva o distorta attenzione a ciò che viene avvertito come
negativo (Morales et al., 2017).
I
FATTORI GENETICI ED AMBIENTALI NON OPERANO INDIPENDENTEMENTE. Le
caratteristiche innate che predispongono i bambini a sperimentare
paura, ansia, tristezza, vergogna o eccessiva agitazione possono
evocare nei loro caregivers specifiche risposte emotive e
comportamentali. Per converso, i conseguenti coinvolgimenti
intersoggettivi generano addizionali paure, ansietà , vergogna ed
aggressività; ciò finisce necessariamente per interferire con la
qualità dell’attaccamento e dello stile di vicinanza con gli altri.
Ad es., scrive Ginot, un’iper-reattività emotiva negativa in
bambini adottati di 9 mesi di età predicono più sintomi ansiosi nei
genitori (sia madri che padri) adottivi 18 mesi più
tardi (Brooker et al., 2020).Gli autori suggeriscono che queste
tendenze costituzionali dei bambini contribuiscano a generare le
ansietà dei loro genitori adottivi. In un circolo di feedback
negativo tali ansietà finiscono per contribuire a loro volta ai
successivi comportamenti problematici dei bambini.
Ovviamente,
precisa Ginot, non possiamo trascurare l’intreccio tra fattori
genetici e ambientali nell’influenzare la qualità del legame di
sintonizzazione tra genitori e figli. Ad es., i fattori genetici ,
come le variazioni per l’allele del 5-HTTLPR, sono correlati
all’ansietà, alla negatività ed all’attenzione eccessivamente
rivolta a quest’ultima. Analogamente, gli studi genetici (ad es.
quelli sui gemelli) hanno trovato che l’eccessiva attenzione nei
confronti dei sintomi emotivi e fisici dell’ansia (come la frequenza
cardiaca) ha considerevoli connessioni genetiche. Ma ciononostante
resta ancora il fatto che i fattori ambientali spieghino una
proporzione significativa di difficoltà trasmesse tra le generazioni.
Nello studio longitudinale di Abraham et al., alcuni dei bambini
ereditavano la propensione a maggiori difficoltà emotive e sociali? I
risultati di questo particolare studio, che dimostrano una
corrispondenza neurale tra le reti mente/cervello di genitore e
bambino, suggeriscono la presenza di forze interattive. Ciò lascia
uno spazio significativo alla trasmissione intergenerazionale
attraverso le dinamiche interne ed
i comportamenti del genitore.
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