Il libro della psicoanalista nord-americana, uscito originariamente nel 2021, è degno di essere recensito in quanto unisce due qualità davvero apprezzabili nel panorama dei libri italiani di psicoanalisi: da un lato, l’approccio manualistico, cui la chiarezza espositiva si addice ad un lettore non necessariamente ‘esperto’ di supervisione psicoanalitica, ma interessato ad essa in quanto psicoterapeuta o anche studente di corsi di specializzazione post-laurea, ma persino professionista della salute mentale (assistente sociale, tecnico della riabilitazione, infermiere psichiatrico, ecc.) , in quanto la McWilliams vi dedica pagine veramente illuminanti sia riguardo alla supervisione “di training” tra allievo e docente in ambito post-universitario, sia alla supervisione istituzionale nei luoghi di cura; dall’altro, l’’appeal’ trattatistico di questo libro, che non solo nel panorama italiano è uno splendido esempio di trattazione completa e pressocché onnicomprensiva della materia.

Chiaramente il libro deriva dalla rielaborazione in un ‘unicum’ editoriale di una stratificazione di svariate pubblicazioni che l’autrice ha dedicato in tanti anni di carriera a questo tema. Uno di questi articoli è stato pure pubblicato  dalla rivista on-line di psicoanalisi Frenis Zero, dal titolo “Alcune osservazioni sui gruppi di supervisione” (n.31, anno 16, gennaio 2019 link: http://web.tiscali.it/cispp/MCwilliamsSUPERVISION.htm ).

    Nella prefazione del libro l’autrice illustra le coordinate e le “stelle polari” con cui orientarsi in questo campo, ma anche i “principi ispiratori” del suo lavoro pluridecennale:

      a)  La supervisione, che come la psicoterapia, è un’arte (pag.XIV). Se essa «deve essere nutrita dalla scienza», è pur vero che «non è equivalente alla scienza. Dovrebbe in effetti essere evidence based, ma (…) tale evidenza non dovrebbe includere solo gli studi clinici randomizzati (randomized control trials, RCT), ma anche le ponderate considerazioni di clinici con anni di esperienza» (p.XIV);

        b)    Da ciò consegue, che è inevitabile che l’andamento di una supervisione dipenda da tanti fattori, non ponderabili in senso oggettivo: ad es., l’interiorizzazione delle figure dei supervisori, i “feedback” dei loro supervisionati, le evidenze cliniche di eventuali miglioramenti dei pazienti a seguito dei suggerimenti del supervisore.

        c)     Un dato di realtà è che comunque gli studi empirici sulla supervisione sono in aumento nella letteratura internazionale, non solo limitandosi alla supervisione psicoanalitica e non solo ai contesti del setting analitico classico. Pertanto, l’autrice ha inteso indirizzarsi come ‘target’ del suo libro non solo agli psicoanalisti e agli psicoterapeuti psicodinamici, ma a tutti i professionisti della salute mentale di tutte le discipline e di ogni formazione. Questa ‘mission’ ha indotto la McWilliams ad evitare qualsiasi espressione gergale tipica di una certa corrente od orientamento particolare, e ad adattare la trattazione del tema ad un ampio spettro di contesti e di situazioni cliniche.

Questo ultimo aspetto della pluri-contestualità e della pluri-disciplinarietà della supervisione risuona molto bene con l’impostazione che i seminari di supervisione organizzati da Frenis Zero hanno rappresentato in questi quindici anni di storia. In essi si sono alternati vari supervisori in una situazione di piccolo gruppo (max 15 persone), formato da professionisti della salute mentale di varia provenienza (psicoterapeuti libero-professionisti, professionisti della salute mentale del settore pubblico) e formazione (psichiatri, psicologi, assistenti sociali, terapisti della riabilitazione, ecc.).

A proposito delle precedentemente richiamate evidenze di miglioramento dei pazienti, McWilliams nel Terzo Capitolo consiglia di dedicare una particolare attenzione ai “dieci segni vitali” di progresso in terapia:

       1)  Una maggiore sicurezza nell’attaccamento;

       2) Un’accresciuta capacità di costanza di sé e dell’oggetto;

      3) Un maggiore senso di ‘agency’;

       4)  Una maturazione di un’autostima più affidabile e realistica;

        5) Una maggiore resilienza  e accresciuta capacità di regolazione degli affetti;

         6)  Una migliore capacità di riflettere su di sé e di mentalizzazione sugli altri;

           7)  Un accresciuto benessere in contesti individuali e collettivi;

            8)   Un più solido senso di vitalità;

          9)     Uno sviluppo di più mature capacità di accettazione, perdono e gratitudine;

          10)  Più ampie capacità di amare, lavorare e giocare.

     Nel Primo Capitolo vengono discussi gli obiettivi ed i processi implicati nella supervisione psicoanalitica. In esso si sottolineano i seguenti punti:  (a) l’importanza di offrire un supporto ai clinici, (b) promuovere l’onestà, (c) condividere informazioni, (d) insegnare e trasmettere competenze, (e) favorire la maturazione di una sensibilità etica, (f) introdurre i colleghi all’’ethos’ psicoanalitico e (g) alimentare la “fiamma perpetua” della curiosità e prevenire i burnout (pag.4).

         (a) L’attitudine della supervisione di fornire supporto psicologico ai clinici va tenuta in considerazione dato che «i terapeuti devono imparare come sopravvivere alle tempeste dei vissuti negativi dei pazienti infelici che si abbattono su di loro, come mantenere la propria autostima quando vengono svalutati in modo implacabile, come riconoscere e affrontare ciò che c’è di vero nelle lamentele che ricevono dai pazienti, come gestire le proprie risposte a racconti traumatici e terribili dei pazienti, come sopportare la presenza di sensazioni spiacevoli e aliene dentro di sé, come tollerarel’incertezza, come porrei dei confini con le persone che si sentono ferite se vengono posti dei limiti ragionevoli, come rispettare il segreto professionale (…), come trovare la speranza quando il paziente riempie lo studio con la propria disperazione, come gestire l’ansia che un paziente potrebbe suicidarsi, e altre lezioni che sono molto faticose a livello emotivo» (pag.10). Una delle “stelle polari” che va sempre tenuta in considerazione è l’attenzione al transfert che il supervisore deve continuamente sollecitare.

        (b) In termini di onestà nel rapporto supervisore-supervisionato tale requisito ovviamente deve essere rispettato in modo reciproco. Se per il supervisionato è necessario presentare il proprio lavoro con franchezza (compito ancora più difficile quando in certi contesti istituzionali il supervisore è chiamato anche a valutare il supervisionato), dalla parte del supervisore è richiesto un atteggiamento sensibile, capace di sintonizzarsi con le risposte dei supervisionati ai propri feed-back. Una tecnica che riconosca il valore del lavoro del supervisionato potrebbe ad esempio prevedere di iniziare il proprio commento sottolineando i lati positivi di una data interazione terapeutica portata dal clinico. Un'altra difficoltà per il supervisore potrebbe essere quello di relazionarsi con un supervisionato che ha uno stile particolare di presentazione: gli attacchi preventivi a se stesso.

       (c)  Rispetto al punto del fornire le informazioni, specie i clinici in formazione, dovrebbero acquisire delle informazioni rilevanti per l’esercizio e la regolamentazione (anche legale) della propria professione (dettagli delle normative che regolano il setting clinico in cui lavorano, informazioni sulle leggi locali e gli aspetti etici rilevanti per il trattamento, sulla fatturazione e la tenuta della documentazione, condizioni di pagamento stabilite da terze parti, informazioni relative a risorse di auto-aiuto, indicazioni su cosa potersi aspettare e cosa fare quando si riceve un messaggio da un legale) (pagg.17-18). Ovviamente le informazioni che possono essere veicolate in supervisione possono anche essere dei consigli su letture e pubblicazioni scientifiche che il supervisore propone, in particolare su dati di ricerca empirica «da menzionare quando l’approccio e la pratica della psicoanalisi vengono attaccati in maniera svalutante» (pag. 19).

       (d) La trasmissione delle competenze che la supervisione può veicolare possono essere rappresentate dalle seguenti: stabilire un’alleanza terapeutica; rigurdare processi non verbali di ascolto e di contenimento; il porre dei confini; stabilire un senso di padronanza delle comunicazioni verbali; la chiarificazione dei problemi.

(     (e) La promozione di una sensibilità etica implica per i clinici in formazione un’opera di traduzione degli standard etici dalla teoria alla pratica.

(      ( f) Anche l’introdurre i supervisionati all’’ethos’ psicoanalitico comprende delle cornici di riferimento che sono molto diverse dagli approcci utilitaristici e pragmatici che magari i supervisionati hanno assimilato in precedenza.

       (g)  Alimentare la “fiamma perpetua” della curiosità oltre a rendere il lavoro clinico sempre interessante, permette di prevenire il pericolo sempre in agguato di “burnout”.

   Infine, il Primo capitolo si conclude con un paragrafo su cosa non è supervisione: né indottrinamento, né bullismo, né sfruttamento. Un punto essenziale è dato dal fatto che «è il supervisionato ad avere a disposizione le più accurate informazioni non verbali su ciò che sia possibile e impossibile dire in un determinato momento (…). Tuttavia, alcuni di noi evidentemente non riescono a fare a meno di esercitare la propria autorità o ostentare la propria presenta capacità superiore di comprensione clinica. Dobbiamo ricordarci che, anche quando siamo sicuri di aver capito qualcosa in più del supervisionato, a meno che non sia implicata una questione etica urgente, non possiamo indurre il clinico ad andare oltre ciò che sia visibile per lui o lei nella situazione clinica, e dovremmo evitare di spingere il nostro collega con minore esperienza fuori dalla sua comfort zone (…)» (pag.33).

   Il Secondo Capitolo contiene un excursus storico sul tema della supervisione psicoanalitica. L’autrice tratta di due “tensioni” ricorrenti che si sono variamente intersecati nella storia della psicoanalisi.

I)                   Se compito del supervisore sia quello di insegnare o quello di “trattare” il clinico in supervisionato;

II)                Se si debbano insegnare delle tecniche oppure si debba incoraggiare un processo di crescita professionale complessiva.

  Dopo il Terzo capitolo che tratta dei già citati “segni vitali” di progresso in terapia, il Quarto capitolo si focalizza sulla supervisione e sulla consultazione individuale, allorché il Quinto tratta del setting gruppale.

Se le considerazioni espresse nei precedenti capitoli vengono ripresi ed approfonditi nel Quarto, il Quinto merita di essere letto con una specifica attenzione visto che l’autrice compie una scrupolosa disamina delle varie tipologie di supervisione in gruppo, in particolare differenziando la supervisione di gruppo coi terapeuti in formazione, da quella con gruppo di clinici già formati, ed ancora dalla supervisione in gruppi di due clinici. In generale, l’autrice nel comparare vantaggi e svantaggi tra le supervisioni individuali e quelle di gruppo, afferma che queste ultime «danno (…) spazio a molte prospettive, aprono a un’ampia gamma di identificazioni, alla possibilità di avere un sollievo dalle molte ansie insite al ruolo di supervisionati e al vantaggio di essere meno soli nel ruolo intrinsecamente solitario del clinico. Inoltre, [la supervisione di gruppo] supporta la maturazione dei partecipanti in un’ottica di diventare loro stessi dei buoni supervisori, dando loro modelli multipli in relazione a cosa fare (e, ogni tanto, cosa non fare) quando si offrono dei feedback ad altri clinici» (p.131).

Un grosso problema, per contro, della supervisione di gruppo consiste nell’affrontare efficacemente il problema causato da un eventuale importante disturbo della personalità di un supervisionato, problema già molto delicato nella supervisione individuale, e virtualmente impossibile da gestire in un setting di gruppo.

Il Sesto capitolo si focalizza sulle questioni etiche correlate alla supervisione. In modo molto chiaro, l’autrice indica come responsabilità fondamentali dei supervisori quella di proteggere gli utenti da clinici inadeguati, corrotti, imcompetenti o criminali. Questo capitolo tratta di quali informazioni il paziente ha il diritto di conoscere, e anche dei dilemmi etici relativi al migliore interesse che riguarda, rispettivamente, il paziente, il terapeuta e la collettività. Delle vignette cliniche presentate in questo capitolo rendono tali questioni più vivide ed efficaci. Il Sesto capitolo si conclude focalizzandosi sul compito di valutazione, di vigilanza e di selezione che il supervisore è chiamato a svolgere.

Il capitolo Settimo pertiene la supervisione presso gli istituti psicoanalitici di formazione, con una disamina delle sfide che specificamente occorre tenere presenti nel lavorare in tali contesti: in particolare, «è importante non dimenticare le dinamiche regressive, l’identità psicoanalitica, le problematiche derivanti dai fenomeni di idealizzazione, svalutazione e scissione» (p.5). Si tratta di tematiche controverse, «tra cui le dinamiche istituzionali che a volte operano a sfavore sia dei supervisionati sia dei loro pazienti» (p.5). L’autrice rivolge anche specifiche raccomandazioni ai supervisori al fine di evitare le insidie che possono complicare il lavoro di supervisione all’interno di tali contesti.

Il capitolo Ottavo è quello che più mi ha colpito in termini di visione davvero innovativa e direi pionieristica sulla supervisione. Se «gli studi empirici sulla supervisione indicano che l’alleanza di supervisione è centrale per la maturazione del clinico tanto quanto l’alleanza terapeutica è centrale per il progresso in terapia» (pag. 195) è pur vero che non sono molti gli studi che hanno indagato «come le personalità uniche dei terapeuti influenzino il loro lavoro clinico o la supervisione» (pag. 195). Il contributo più originale che Nancy McWilliams ha dato con questo libro è, a mio avviso, l’aver cercato, sulla base della propria pluridecennale esperienza, di aver indicato quali configurazioni di personalità, in senso dinamico e relazionale, possono condizionare il lavoro della diade supervisore-supervisionato ed indicare delle strategie di coping per superare impasse a volte molto critiche. Queste sono le configurazioni da lei trattate:

         1)    Dinamiche depressive e masochistiche;

           2)    Dinamiche paranoidi;

           3)    Dinamiche schizoidi;

           4)    Dinamiche isteriche/istrioniche;

            5)    Dinamiche ossessivo-compulsive;

           6)    Dinamiche post-traumatiche;

            7)    Dinamiche narcisistiche.

Per ogni configurazione l’autrice analizza cosa potrebbe succedere quando il supervisore o il supervisionato mostrano un funzionamento appartenente a una di queste dinamiche e cosa succede quando entrambi condividono un funzionamento simile (ad es., supervisore e supervisionato con funzionamento di tipo depressivo).

Il capitolo Nono, infine,  si indirizza a quelli che potrebbero essere visti come i benefici e i vantaggi della supervisione: promuovere la maturazione di un supervisore interno, sapere quando richiedere aiuto, apprezzare la soggettività del supervisore, massimizzare il valore di una supervisione non ideale.

Complessivamente in questo libro risplendono alcune delle qualità che chi ha conosciuto personalmente l’autrice riconoscerebbe senz’altro: la sua grande onestà nel riconoscere anche di “non sapere” in certe situazioni terapeutiche, utilizzando espressioni del tipo “non ho ancora trovato una buona strada per creare o ripristinare un senso di alleanza di supervisione quando si verifica un’impasse del genere” (come a pag. 215); l’uso sapiente di episodi tratti dalla propria storia personale (e non solo professionale) che ci rende ancora più empatici con l’autrice facendoci ancor più comprendere certe dinamiche sottese a contesti di supervisione clinica; la grandissima padronanza della letteratura psicoanalitica ma anche delle discipline ad essa confinanti (psichiatria, infant research, neuroscienze, ecc.) con uno sforzo meritorio di aggiornare il proprio bagaglio e di trasmetterlo attingendo alle ricerche più avanzate (ci sono voci bibliografiche nel suo libro che sono del tutto contemporanee alla data della sua uscita in inglese).

In conclusione, è questo un libro che non può mancare non solo in qualsiasi studio di psicoanalisi, ma anche e soprattutto in qualsiasi contesto di cura, tenendo conto che la cura pertiene ambiti che a prima vista scotomizziamo o scindiamo spesso nei nostri servizi (ad es. nel caso della riabilitazione psicosociale) quando perdiamo il suo significato nella nostra ‘mission’.

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