"La vita spirituale di cui l'arte è una
componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo,
tanto complesso quanto chiaro e preciso. E' IL MOVIMENTO DELLA
CONOSCENZA. "
Questa frase di Kandinsky, contenuta nel suo Lo spirituale
nell'arte, l'ho letta dopo aver visitato la mostra
sull'action painting, ma, a posteriori, mi ha confermato la
vocazione di 'conoscenza interiore' che ho intuito nell'ammirare un
suo quadro che apriva la mostra modenese. Liberarsi dalla
figurazione per accedere ad una conoscenza che va oltre la
percezione, che mira alla (auto) consapevolezza da parte
dell'artista. Ed all'inizio della mostra, nella prima sala, si
potevano avvicinare quegli artisti europei che avevano preannunciato
la 'pittura d'azione' americana: oltre a Kandinsky , a Paul
Klee, a Piet Mondrian, Sebastian Matta con i suoi rimandi al
surrealismo nell'automatismo e nell'indagine di una morfologia
psichica attraverso cui egli scandaglia le profondità
dell'inconscio. Matta si era trasferito da Parigi a New York nel
1939 e costituisce una figura ponte tra il surrealismo europeo e
l'espressionismo astratto (o action painting) che nascerà a
New York grazie alla galleria "Art of this century"
di Peggy Guggenheim.
L'automatismo e la randomizzazione del gesto creativo è quindi
trasmigrata nel 'dripping' (sgocciolamento) di Pollock, del quale
però c'erano anche esposte alcune tele della sua fase iniziale,
ancora figurativa. Ma 'action painting' non è solo indice di
spostamento semantico dall'azione che crea la pittura all'azione che
è pittura. Dalla mostra è risultato un quadro più variegato degli
ambiti a cui applicare una tale 'etichetta'.
Foto: Rothko, Senza titolo (Nero su grigio), 1969-1970
Per es. in questa tela di Rothko, a mio parere bisogna
parlare di 'espressionismo astratto', perchè qui ci troviamo sul
solco di Kandinsky più che di Mondrian. Nero e grigio non occupano
semplicemente due fasce sovrapposte della tela, ma presentano
ciascuno delle fini modulazioni cromatiche che sembrano creare un
ponte tra i due campi più che demarcarli. Quasi una finestra
nell'anima in cui ci sentiamo immersi nel paesaggio interiore del
quadro (la scelta di dimensioni cospicue del quadro deve far pensare
ad una precisa volontà di creare nello spettatore un'emozione di
panico coinvolgimento DENTRO il quadro), in cui sentiamo che i
nostri piedi poggiano su un grigio finito ed il nostro sguardo è
affisso dal nero infinito. Ho subito associato questo paesaggio
mentale alla morte per suicidio dell'autore.
Sì, chi ha detto che l'espressionismo astratto è
trans-figurativo e vuole mirare al di là di un impatto emotivo che
invece la 'figura' avrebbe?
A parte altri quadri dello stesso Rothko (ad es. Nero, giallo,
rosso su rosso, del 1968) e di Sam Francis (come 'Rosso e nero', del
1954) in cui è dato cogliere come ci fossero degli ascendenti 'fauves'
in questa pittura, nella violenza delle esplosioni cromatiche che
incendiano letteralmente il quadro, lo stesso Pollock ha teorizzato
un modo di fare arte in cui il dipingere non è un'azione che si fa
sopra un supporto, ma è un'azione che l'artista opera tutt'intorno
a sè, come nella pittura dei pellirossa americani in cui il pittore
si muove dentro la pittura e non a debita distanza da essa. Pollock,
che sottopose i suoi quadri a degli analisti junghiani, così
descriveva la fase di creazione artistica: "Quando sono nel mio
quadro non sono cosciente di quel che faccio. Solo dopo una specie
di 'presa di coscienza' vedo ciò che ho fatto. Non ho paura di fare
dei cambiamenti, di distruggere l'immagine, ecc., perché un quadro
ha una vita propria".
Voglio concludere con un quadro che rimanda alla morte, alla
morte tragica di Pollock. Questi morì per un incidente stradale nel
1956, e Conrad Marca-Relli, nel suo 'La morte di Jackson Pollock",
usando il collage, sembra indicarci attraverso questa
frammentazione visiva che contiene, nell'astrazione del soggetto,
una dinamicità intrinseca ed una vitalità 'dionisiaca', un omaggio
alla genialità del collega prematuramente scomparso.
Foto: Conrad Marca-Relli, la morte di Jackson Pollock, 1956.
La mostra "Moi!Autoritratti del XX secolo", in corso
nella galleria degli Uffizi, e proveniente dal 'Musée Louxembourg'
di Parigi, sin dal suo ingresso ci fa subito entrare in uno spazio
mitopoietico in cui si intrecciano miti della grecità (Narciso),
rinascimentali (la riproduzione su pannelli di ritratti collezionati
da Leopoldo de' Medici) e contemporanei (l'attentato alle Twin
Towers).
Foto: Nicolas Alquin, "Ombra portata", 2000-2003
All'interno di questa scenografia dai forti richiami mitologici
è stata collocata la scultura di Nicolas Alquin, in cui una donna
regge tra le mani un busto, in cui la fisionomia del viso ci
suggerisce un senso di macabra alterità. E' l'alterità del
doppio-morto, del nostro doppio proiettato nello specchio della
'vanitas' che vuole alludere alla tragedia delle Torri Gemelle di
New York, il cui crollo avvenne durante la realizzazione dell'opera
e conferì un ulteriore spazio mitologico in cui collocare i
riferimenti semantici.
D'altro canto il ritratto ha le sue origini nella maschera
funeraria, e l'ombra è menzionata da Plinio con riferimento alle
origini della pittura.
La mostra si articola in una serie di sezioni, ognuna delle quali
ha un titolo tematico. Dopo la stanza "Somiglianza e diversità"
(<<dove si accostano opere che non hanno nulla in comune e
mettono in risalto obiettivi e contraddizioni impliciti nella
rappresentazione di se stessi>>), si passa a "Maschera
& espressione", <<dove si può constatare che le
espressioni della fisionomia talvolta nascondono più di quanto non
rivelino, mentre le maschere possono svelare più di quanto non
occultino>>.
Foto: Felix Nussbaum, "Autoritratto con maschera", 1928.
Felix Nussbaum, nato a Osnabruck nel 1904, deportato in un lager
nazista, vi muore nel 1944. <<Le sue opere, in uno stile
meticoloso e particolareggiato, sono espressione di un realismo
talvolta tragico e ineluttabile. >>
Foto: Yang Shaobin, "Number 3, 2000", 2000.
Shaobin, nato nel 1963, <<realizza ammassi di carni dai
colori vivaci e volti urlanti che esprimono odio o sofferenza>>.
Nella sezione "Storia & metamorfosi" <<si
comprende come essere anacronistici sia un modo per essere
contemporanei, e come per rivelarsi possa essere necessario subire
una metamorfosi>>.
Foto: Ron B. Kitaj, "Autoritratto in versione femminile",
1984.
Kitaj , nato in Ohio nel 1932, nella sua arte valorizza le
proprie radici culturali ebraiche, avendo tra l'altro realizzato
negli anni settanta delle opere sulla Shoah. In questo
"Autoritratto in versione femminile" egli non vuole
mettere in atto una fantasia di travestitismo. In un suo scritto
egli dichiara che non vuole essere donna, piuttosto intende
identificarsi con una donna in particolare. Si tratta di Hedwig
Bacher, la quale in Austria, dopo l'Anschluss, viene denunciata di
avere relazioni con un ebreo. Viene allora costretta ad attraversare
nuda un quartiere di Vienna, con un cartello appeso al collo
in cui si dichiaravano i suoi misfatti. Kitaj in questa donna
riconosce la propria identità ebraica.
Segue la sezione "Lo studio del pittore & lo
sguardo", <<dove si è portati a chiedersi quale intimità
l'artista invita a condividere e a porsi la domanda: chi guarda
chi?>>. Tra le opere qui raccolte (tra le altre autoritratti
di Chagall, Bacon, ecc.) ci piace ricordare l'autoritratto di Zoran
Music, il cui aspetto spettrale ci dà l'idea delle proprie
condizioni di vita a Dachau nel 1943.
Foto: Zoran Music, Autoritratto, 1989.
L'intimità viene esibita come relazione tra due artiste che si
(auto)ritraggono in "Close up" di Eva & Adele,
del 1998.
Foto: Eva & Adele, "Close up", 1998.
In "Corpo & vanità" <<ci si accorge che la
comparsa del corpo, della sua sessualità, non modifica quella che
è la vera posta in gioco della rappresentazione di sé: tenere
testa alla morte>>.
Foto: Egon Schiele, "Eros", 1911.
In questa sezione Esther Ferrer nel suo "Autoretrato en el
tiempo" utilizza la fotografia come esercizio implacabile per
rivelare le trasformazioni che il tempo incide sul proprio volto. Il
volto biografico viene freddamente ricostruito giustapponendo due
metà di foto scattate agli estremi di questo arco temporale, 1981 e
1989.
Foto: Esther Ferrer, "Autoritratto nel tempo 81/89",
1981-1989.
Di Helena Schjerfbeck, artista finlandese nata nel 1862 e morta
nel 1946, sono presenti due opere a confronto, quasi in un raffronto
da "memento mori": un suo autoritratto giovanile
(1884-1885) ed uno "dalla macchia rossa" del 1944, poco
prima della morte. Così scriveva nel 1921: <<Siccome sentivo
che dipingevo troppo di rado negli ultimi giorni, ho iniziato un
autoritratto, il mio modello era sempre a disposizione. Non è
divertente fissarsi sempre>>. E qualche settimana prima aveva
scritto: <<Forse l'artista non deve far altro che penetrare in
se stesso, in questo 'soltanto me' duro e glaciale>>.
Foto: Helena Schjeferbeck, "Autoritratto dalla macchia
rossa", 1944.
Interessante anche un autoritratto di Laszlo Moholy-Nagy del
1919, che egli regalò ad un amico nel 1922.
Foto: Laszlo Moholy-Nagy, Autoritratto, 1919.
Infine, nella sezione "Specchio & Fotografia"
<<ci si rende conto che l'immagine di sé è sempre quella di
un altro>>.
G.L.
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