Par. I.1. PREMESSA
Negli
ultimi decenni, parallelamente ad una maggiore attenzione
riservata al tema dell’abuso sessuale ai danni di minori da
parte degli organi di informazione, dell’opinione pubblica,
nonché della letteratura psicologica, psichiatrica,
criminologica e forense, si è registrato, nella società
civile e nel mondo scientifico, un ininterrotto dibattito
circa la ‘fondatezza’ della testimonianza resa da minori
nel corso di processi in cui essi ricoprono la duplice veste
di vittima e di testimone. I ‘mass media’, in Italia
specie negli ultimi dieci anni, hanno ripetutamente portato
agli ‘onori’ della cronaca casi di adulti ingiustamente
condannati sulla base di dichiarazioni ‘false’ rese da
presunte vittime in età evolutiva, oppure, al contrario, casi
in cui la testimonianza di un minore, ritenuta non attendibile
e non veritiera da una corte di giustizia, se adeguatamente
utilizzata, avrebbe invece fornito degli elementi di prova
insostituibili per confermare la realtà dell’avvenuto abuso
ed arrivare al responsabile. E pensare che fino a pochi
decenni fa non esisteva un reale dibattito circa
l’attendibilità del minore testimone, in quanto i bambini
venivano indiscriminatamente considerati ‘non competenti’
a fornire una versione aderente alla realtà storica dei fatti
narrati!
Poiché un episodio di abuso sessuale raramente ha
spettatori (per non parlare, poi, del complesso capitolo
dell’abuso intrafamilare) e di rado lascia una traccia sulla
vittima che inequivocabilmente possa considerarsi segno ‘specifico’
o ‘patognomonico’,
la testimonianza della vittima costituisce, nella
maggioranza dei casi, l’unico
elemento su cui il magistrato deve basare il suo giudizio.
Egli può chiedere una perizia, ma psicologi e psichiatri si
trovano sempre più ad essere chiamati a rispondere a quesiti
sulle questioni più varie, che spesso esulano dalle loro
competenze. Ma se caliamo questa premessa generale sul
problema particolare della valutazione dell’attendibilità
della vittima in senso psicologico e psichiatrico, uno dei
quesiti fondamentali su cui l’esperto è chiamato ad
esprimersi, allora dobbiamo lamentare che spesso lo scarso
rigore metodologico esibito dal perito fa sì che egli
<<per incapacità di “resistere” alla pressione
dl Magistrato – alimentata di certo dalle più nobili
intenzioni ma non sempre esente da condizionamenti – ovvero
per personale onnipotente considerazione del sé, accetta
acriticamente qualsiasi sollecitazione>>, per cui
<<può capitare di leggere (...) richieste, e
relative relazioni psicologiche, nelle quali veniva sancita la
fondatezza scientifica delle dichiarazioni rese dalla vittima
ovvero identificati gli “indicatori psicologici specifici
della violenza sessuale subita”>>.
Quindi il rigore metodologico deve essere un imperativo morale
e deontologico per l’esperto, ma si deve nutrire, per avere
validità scientifica, dell’apporto delle scienze che più
hanno studiato, negli ultimi decenni, i problemi della
testimonianza in età evolutiva: la psicologia dello sviluppo
costituisce quindi il substrato teorico-scientifico su cui
fondare la psicologia della testimonianza del minore. Perciò,
dopo il presente capitolo introduttivo, il secondo ed il terzo
verranno ad analizzare i contributi che la psicologia
dello sviluppo viene a fornire all’esperto nell’arduo
lavoro di esprimersi sull’attendibilità e sulla competenza
del minore a testimoniare. Ma il ‘metodo’ deve essere
rigoroso non solo rispetto ai dati psicologici e
fenomenologici che emergono dall’oggetto d’indagine (la
testimonianza del minore presunta vittima): deve anche poter
circoscrivere il proprio ambito epistemologico,
cioè di applicazione delle regole che ne assicurano la
scientificità. Pertanto, è importante <<per lo
psichiatra e lo psicologo, di imparare a differenziare (anche
dal punto di vista metodologico) i diversi ambiti nei
quali si può trovare ad operare, a tenere ben presente che
ipotesi, suggestioni ed interpretazioni cliniche, utili ai
fini terapeutici, non possono essere trasferite passivamente
in quello forense, che richiede non solo diversa prudenza ma
anche maggiore coscienza dei limiti delle proprie valutazioni>>.
Il quarto capitolo affronterà il tema della metodologia
dell’ascolto e della valutazione clinico-forense,
distinguendo la metodologia in ambito forense da quella in
ambito clinico-terapeutico,
fornendo, infine, la trattazione delle ‘Linee guida
della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e
dell’Adolescenza (S.I.N.P.I.A.)’, unico tentativo finora
fatto in Italia
di fornire ai professionisti del campo una
base metodologica comune.
Il quinto capitolo, attraverso una casistica di
perizie effettuate su minori appartenenti a differenti fasce
di età, cercherà di tradurre i concetti teorici esposti nei
capitoli precedenti in argomentazioni a sostegno delle
conclusioni a cui è approdato il perito.
Par.I.2.
Concetti generali sull’ abuso sessuale ai danni di minori.
Prima di tutto bisogna definire il termine di
‘abuso’ e declinarne le tipologie fenomenologiche ( in
quanto di seguito ci occuperemo essenzialmente di un tipo di
abuso, quello sessuale). Varie sono le definizioni che sono
state proposte al termine ‘abuso’ e, quindi, sia per chi
lavora in ambito clinico che in quello forense, ciò
costituisce un problema in più, dato che è difficile
concordare unanimemente su una definizione <<generale,
standardizzata ed efficace sul piano cross-culturale>>.
Questa ‘variabilità dei criteri di definizione’
dell’abuso ha inevitabili ripercussioni, tra l’altro, sui
dati statistici ed epidemiologici sull’entità del fenomeno,
nonché sui risultati delle ricerche (problema dei criteri di
reclutamento dei casi ammessi ad un
dato studio).
Una definizione proposta dal Consiglio d’Europa
definisce l’abuso come <<quell’insieme di atti e carenze che turbano gravemente il bambino
attentando alla sua integrità corporea e al suo sviluppo
fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui
manifestazioni sono: la trascuratezza e/o lesioni di ordine
fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di
altri che hanno cura del bambino>>. Anche la
definizione di maltrattamento contenuta nella legge dello
Stato di New York che tutela i diritti dell’infanzia è
abbastanza vicina a quella sopra citata
Nella Convenzione dei diritti dei minori(1989),
invece, ci si riferisce al <<danno o abuso fisico o
mentale, trascuratezza o trattamento negligente, al
maltrattamento, alle diverse forme
di sfruttamento e abuso sessuale intese come induzione
e coercizione di un bambino/a in attività sessuale illegale,
lo sfruttamento nella prostituzione o in altre pratiche
sessuali illegali, lo sfruttamento in spettacoli e materiali
pornografici, torture o ad altre forme di trattamento o
punizione crudeli, inumane o degradanti, alo sfruttamento
economico e al coinvolgimento in lavori rischiosi>>.
Come si vede, di fronte ad una così ampia ‘casistica’ di
forme di violenza all’infanzia bisogna, per contro,
utilizzare definizioni restrittive per l’abuso che da una
parte escludano quei problemi internazionali (malnutrizione,
fame, abbandono, sfruttamento, guerre) che danneggiano
l’infanzia, e che dall’altra consentano però anche di
essere utilizzate in una varietà di contesti sociali e
culturali che oramai risentono dei processi di ‘globalizzazione’. La stessa OMS nel
definire l’abuso ed il maltrattamento ai danni dei bambini
ha fatto riferimento al testo della Convenzione sopra citato.
Un altro ordine di problemi è legato al diverso
ambito professionale e scientifico in cui le definizioni
vengono adoperate, per cui <<in ambito legale può
essere utile una definizione circostanziata relativa
all’abuso che specifichi quali atti siano concessi e quali
no, quale sia l’età critica che trasforma un atto sessuale
in un atto di abuso (...)>>,mentre <<in
ambito clinico possono, invece, essere più utili definizioni
più ampie che consentano di trattare con una vasta gamma di
bambini e di nuclei familiari>> (Caffo et al., 2002,
op.cit.).
Uno sforzo chiarificatore apprezzabile è stato certamente
quello del Child Protection Register inglese (Gibbons,
Conroy & bell, 1995)
che definisce le seguenti tipologie fenomenologiche:
1)
Trascuratezza: <<grave o persistente negligenza nei confronti del bambino, o
il fallimento nel proteggerlo dalla esposizione a qualsiasi
genere di pericolo, incluso freddo o fame, o anche gli
insuccessi in alcune importanti aree dell’allevamento che
hanno come conseguenza un danno significativo per la salute o
per lo sviluppo, compreso un ritardo della crescita in assenza
di cause organiche>>;
2)
Maltrattamento fisico: <<implica un danno o il fallimento nel
prevenirlo, inclusi gli avvelenamenti intenzionali,
soffocamento e sindrome di Munchhausen per procura. Alcuni
autori sottolineano la necessità di non escludere
l’omicidio infantile, i danni determinati da ostilità tra
gruppi e da pratiche rituali>>
;
3)
Abuso sessuale: <<comporta lo sfruttamento sessuale di un bambino o
adolescente, dipendente e/o immaturo sul piano dello sviluppo,
e anche prostituzione infantile e pornografia>>;
4)
Abuso emozionale: <<comunemente denominato anche maltrattamento psicologico,
che si riferisce a persistenti maltrattamenti emotivi e
atteggiamenti di rifiuto e di denigrazione che determinano
conseguenze negative sullo sviluppo affettivo e
comportamentale. Tale categoria dovrebbe essere utilizzata
quando si presenta da sola o è prevalente, dato che tutte le
altre forme, in qualche modo, la comprendono.
Montecchi
(1998)
propone, in ambito clinico, una definizione ampia di ‘abuso
all’infanzia’ (quale sinonimo dell’inglese child
abuse) <<in quanto onnicomprendente tutte le
forme di maltrattamenti e violenze, aderendo anche alla
definizione data dal Consiglio d’Europa (...)>>.
Questo autore propone la seguente classificazione degli abusi
all’infanzia (recepita dalla linee guida della S.I.N.P.I.A.,
vedi cap.IV, a cui si rimanda anche per le definizioni delle
singole tipologie):
Abuso
|
Fisico
|
|
|
|
Psicologico
|
|
|
Patologia delle cure
|
Incuria
|
|
|
|
Discuria
|
|
|
|
Ipercura
|
|
|
|
|
Sinrome di Munchhausen per procura
|
|
|
|
Chemical Abuse
|
|
|
|
Medical shopping
|
|
|
|
|
|
Abuso sessuale
|
Extrafamiliare
|
|
|
|
Intrafamiliare
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
In
buona sostanza, qualsiasi classificazione categoriale non è
in grado di accogliere tutte le varianti cliniche e
fenomenologiche che si incontrano nella realtà, dato che
nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a
situazioni miste, per cui l’abuso ‘fisico’ può
comportare facilmente anche una componente di tipo ‘psicologico’,
ed un abuso sessuale è in genere difficilmente distinguibile
dal maltrattamento fisico e/o psicologico.
In
questo senso, la definizione di ‘abuso’ che dà la
Petrucelli
ha il pregio, da un lato, di essere sufficientemente
comprensiva della varie categorie che solo artificiosamente
possono essere distinte l’una dall’altra in maniera netta,
e, dall’altro, di avere delle implicazioni non solo sul
terreno prettamente clinico, ma anche su quello, a volte più
‘scivoloso’, psicologico-forense: <<con il
termine “abusi”, dunque, vengono indicati sia gli atti sia
le carenze di cure che turbano gravemente il bambino, che
attentano alla sua integrità corporea e al suo sviluppo
fisico, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la
trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o
sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura
del minore>>. L’abuso sessuale, poi, viene
definito come <<un coinvolgimento in qualsiasi
attività sessuale di un minorenne incapace di un libero e
cosciente consenso>>, dato che <<ogni
rapporto sessuale tra un adulto e un bambino va considerato
come abuso
a)
se il minore è usato o sfruttato per la gratificazione di un adulto;
b)
se il minore coinvolto
sessualmente si trova nell’incapacità di essere
consenziente, a causa della differenza di età e di ruolo
dell’adulto;
c)
se il minore è coinvolto
nell’attività sessuale con persone che hanno un ruolo
determinante nell’ambiente familiare>>.
All’interno
della categoria ‘abuso sessuale’ possiamo comprendere
tipologie fenomeniche anche molto diverse tra di loro sulla
base dell’appartenenza di autore e vittima allo stesso
nucleo familiare (abuso intrafamiliare, a sua volta
distinguibile in ‘manifesto’, ‘mascherato’, e ‘pseudoabuso’)
o meno, allo stesso sesso oppure no, alla stessa minore età o
meno, sulla base della dimensione diadica o di gruppo in cui
sono avvenuti i comportamenti sessuali. Sulla base del tipo di
comportamenti sessuali messi in atto si può andare dallo
stupro e dalla violenza sessuale alla manipolazione dei
genitali (toccamenti sia che la vittima indossi o meno i
vestiti, sia che li osservi, li subisca, o sia obbligato a
compierli su di sé o su altri), al frottage, all’esibizionismo,
alla fellatio, al cunnilingus, alla penetrazione
anale o vaginale per mezzo di oggetti oppure di organi
sessuali, al fare fotografie pornografiche a minori, allo
sfruttamento della prostituzione minorile, ecc.. Recentemente
è stata introdotta anche la tipologia, peraltro controversa,
dell’abuso sessuale ritualistico. Quindi ‘abuso
sessuale’ non è sinonimo di ‘violenza sessuale’,
né l’aggettivo ‘sessuale’ implica
necessariamente un contatto attraverso i genitali tra autore e
vittima.
Inoltre,
non tutte le esperienze sessuali che un bambino può
sperimentare possono essere comprese sotto il concetto di
abuso sessuale. Ci riferiamo in particolare a quelle tra
minori, dove il carattere di ‘abuso sessuale’ dovrebbe
essere riferito, restando sempre in un ambito clinico, a quei
comportamenti sessuali quando uno di loro è notevolmente più
grande dell’altro oppure c’è stata coercizione. Possiamo,
in altri termini, qualificare come ‘atti di abuso’ quelli
che comportano uno o più differenze tra i due partecipanti in
termini di:
a)
potere (l’atto viene compiuto da una persona che,
avvalendosi del proprio ruolo, delle proprie capacità o
caratteristiche fisiche, influenza e controlla la vittima con
o senza l’uso della forza);
b)
conoscenze (uno dei due, la vittima, ha un minor grado
di comprensione del significato e delle conseguenze
dell’atto sessuale);
c)
gratificazione (l’atto risulta gratificante solo per
uno dei partecipanti ed assume per la vittima un significato
diverso).
Vedremo
poi, nel paragrafo successivo, quali problemi si evidenziano
nel tentativo di ”incasellare”, in un ambito
psicologico-forense, questa molteplice fenomenologia in
comportamenti costituenti precise fattispecie di reato. Questo
perché nel nostro codice penale non esiste alcuna dizione che
faccia espressamente riferimento all’’abuso
all’infanzia’ e, viceversa, una varietà di reati possono
configurarlo. Come giustamente rilevato da Caffo e coll.
(2002, op.cit.), risulta pertanto utile, <<sul piano
di una migliore conoscenza del problema, cercare di mantenere
su piani separati la valutazione clinica e quella legale e
giudiziaria. Non sempre chi è stato vittima di maltrattamenti
suscettibili di un interessamento giudiziario presenta
esiti di ordine clinico (in senso psicopatologico e/o
psicosociale) e, viceversa, non sempre questi esiti
(come avviene, per esempio, in molti casi di abuso
psicologico e di trascuratezza) sono legati a eventi tali da
comportare un coinvolgimento giudiziario per l’abusante o
gli abusanti>>.
Par. I.3. Quadro legislativo di riferimento in tema
di tutela penale del minore vittima di abuso.
La legge italiana presume che
i minori di anni quattordici, e in alcuni casi i minori
di anni sedici, non siano in grado di prestare alcun valido
consenso in ambito sessuale. Nel caso di minori tra i
quattordici ed i sedici anni, invece, il soggetto viene
considerato capace di scelte consapevoli riguardo alla
sessualità e di disporre liberamente del proprio corpo ma non
nei confronti di persone a lui unite da vincoli familiari che
possono viziare la libera manifestazione del consenso (Antolisei,
1996;
Venafro, 1996).
Sul piano normativo dobbiamo partire dalla legge n.66
del 15 febbraio 1996 che porta il titolo “Norme contro la
violenza sessuale” che ha abrogato i ‘delitti contro la
libertà sessuale’,
collocando tali reati nel capitolo dei delitti contro la
libertà personale. Quindi non si parla più di violenza
carnale <<bensì, con termine onnicomprensivo, di
violenza sessuale (...)>>,
ed inoltre, venendo a decadere la vecchia distinzione tra
‘violenza sessuale’ (che implicava la congiunzione
carnale) e gli ‘atti di libidine’ (che comprendevano
tutti quei comportamenti che non implicavano congiunzione
carnale), tutte le ipotesi di reato vengono ad essere
ricomprese in un’unica fattispecie, essendo il giudice
preposto a graduare la pena in funzione della minore o
maggiore gravità della condotta.
Art. 609-bis c.p. (Violenza sessuale)
<<Chiunque,
con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità,
costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è
punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Alla
stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o
subire atti sessuali:
1)
abusando delle condizioni di inferiorità fisica
o psichica della persona offesa al momento del fatto;
2)
traendo in inganno la persona offesa
per essersi il colpevole sostituito ad altra
persona.
Nei
casi di minore gravità la pena è diminuita in misura
non eccedente i due terzi>>.
|
L’art. 609-ter prevede le circostanze aggravanti
(reclusione dai sei ai dodici anni) quando gli atti sessuali,
con le caratteristiche di cui all’articolo precedente (art.
609-bis), sono commessi su persona che al momento del fatto:
1)
non aveva compiuto il quattordicesimo anno;
2)
non aveva compiuto il sedicesimo anno, quando
l’autore è l’ascendente, il tutore
o il genitore anche adottivo;
3)
era sottoposta a limitazione della libertà personale;
oppure
da persona che:
a)
aveva fatto ricorso all’uso di armi o di sostanze
alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o
sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa;
b)
era travisata o aveva simulato la qualità di pubblico
ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.
Un’ulteriore aggravante (reclusione tra sette e
quattordici anni) è prevista qualora la vittima, al momento
del fatto, non aveva compiuto gli anni dieci.
L’art. 609-quater (Atti sessuali con minorenne)
così recita che soggiace alla stessa pena prevista
dall’art. 609-bis
<<chiunque,
al di fuori delle ipotesi previste da detto articolo, compia
atti sessuali con persona che, al momento del fatto:
1)
non ha compiuto gli anni quattordici;
2)
non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole
sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore,
ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione,
di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è
affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di
convivenza.
Non è
punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste
nell’articolo 609-bis, compie atti sessuali con un minorenne
che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età
tra i soggetti non è superiore a tre anni.
Si applica la
pena di cui all’art. 609-ter, secondo comma, se la persona
offesa non ha compiuto gli anni dieci>>.
Quindi i requisiti perché l’atto sessuale
configuri il reato di Atti sessuali con minorenne non
sono gli stessi di quello di Violenza sessuale
(violenza o minaccia, abuso delle condizioni di inferiorità
fisica o psichica, oppure sostituzione di persona)
quando la vittima, al momento del fatto, non aveva
compiuto i 14 anni (oppure non aveva compiuto i sedici quando
il colpevole è una delle persone individuate
dall’art.609-quater), in quanto alla base dell’art.
609-quater c’è il principio che l’infraquattordicenne non
può mai prestare alcun consenso valido in ambito sessuale, e
quindi si tratta sempre di ‘violenza sessuale presunta’,
senza possibilità di prova contraria e senza che si rilevi
l’errore sull’età del minore offeso.
Nel caso, invece, di minore fra i 14 ed i 16 anni, il
principio è che si ritiene che il soggetto abbia l’età per
effettuare scelte consapevoli in ambito sessuale, ma non nei
confronti di persone che con lui abbiano vincoli
‘familiari’ e che in virtù di questi possano viziarne il
consenso.
L’art. 609-quinqiues c.p. (Corruzione di
minorenne) così recita:
<<Chiunque
compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni
quattordici, al fine di farla assistere, è punito (omissis)>>.
Anche in questo caso, mai l’autore può invocare, a
propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa
(art. 609-sexies c.p.).
Qualora l’autore del reato di violenza sessuale sia
un minorenne, se è un infraquattordicenne, non è imputabile. L’art. 609-quater, poi, stabilisce la non
punibilità del minorenne che compie atti sessuali,
naturalmente senza minaccia e senza violenza, con altro minore
che abbia compiuto i 13 anni qualora la differenza di età tra
i due non sia superiore ai 3 anni.
Un’ulteriore novità della legge 66/1996 consiste
nell’aver introdotto il reato di ‘violenza sessuale di
gruppo’.
Art. 609-octies c.p.:
<<La
violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da
parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di
cui all’art. 609-bis (omissis)>>.
La pena prevista consiste nella reclusione dai 6 ai
12 anni per coloro che abbiano partecipato in gruppo ad atti
di violenza sessuale; la pena è aumentata se concorrono le
circostanze aggravanti dell’art. 609-ter, mentre viene
diminuita nei casi in cui un autore sia stato
‘determinato’ a commetterlo.
La normativa attuale ha inoltre introdotto, a maggior
tutela delle vittime, delle pene accessorie (art.
609-novies) quali:
1)
perdita della potestà genitoriale, qualora la qualità
di genitore sia ritenuta elemento costitutivo del reato;
2)
interdizione perpetua dagli uffici di tutore o di
curatore;
3)
perdita del diritto agli alimenti ed esclusione dalla
successione della persona offesa.
Ad
ulteriore tutela del minore vittima sono previsti collegamenti
tra il tribunale Ordinario e quello per i minorenni:
Art.
609-decies c.p. (Comunicazione al tribunale per i minorenni)
<<Quando
si procede per alcuno dei delitti previsti dagli
articoli 609-bis, 609-ter, 609-quinquies e
609-octies commessi in danno di minorenni, ovvero per
il delitto previsto dall’articolo 609-quater, il procuratore
della Repubblica ne dà notizia al tribunale per i minorenni.
Nei
casi previsti dal primo comma l’assistenza affettiva e
psicologica della persona offesa minorenne è assicurata, in
ogni stato e grado del procedimento, dalla presenza dei
genitori o di altre persone idonee indicate dal minorenne e
ammesse dall’autorità giudiziaria che procede.
In
ogni caso al minorenne è assicurata l’assistenza dei
servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia e dei
servizi istituiti dagli enti locali.
Dei
servizi indicati nel terzo comma si
avvale altresì l’autorità giudiziaria in ogni stato
e grado del procedimento.>>
Inoltre, la legge 66/1996
prevede che l’imputato debba essere sottoposto, con perizia,
ad accertamenti tecnici volti all’esclusione di patologie
sessualmente trasmissibili (art. 16 della legge 66/1996)..
Riguardo
alla procedibilità, l’attuale normativa ha ampliato il
numero dei reati per cui essa è d’ufficio ( oltre ad aver
allungato i termini entro cui è possibile presentare querela,
da 3 a 6 mesi dalla notizia del reato):
1)
se il fatto di cui all’art. 609-bis è commesso ai
danni di persona che, al momento del fatto, non aveva compiuto
i 14 anni;
2)
se il fatto è stato commesso da genitore, anche
adottivo, oppure da suo convivente, dal tutore, ovvero da
altra persona a cui il minore è affidato per ragioni di cura,
di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia;
3)
se il fatto è commesso da Pubblico Ufficiale o da
incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie
funzioni;
4)
se il fatto è commesso con altro delitto per cui è
prevista la procedibilità d’ufficio;
5)
se il fatto è commesso nell’ipotesi di cui
all’art. 609-quater, ultimo comma (609-septies c.p.).
L’art.
609-septies c.p. indica come procedibili d’ufficio le
seguenti ipotesi:
a)
fatto commesso su vittima che non abbia compiuto i 14
anni, al momento del fatto, qualora l’atto sia stato
compiuto con violenza o minaccia;
b)
fatto commesso su vittima che non aveva compiuto i 10
anni, al momento del fatto, sia che l’atto sia stato
compiuto con violenza o minaccia (art. 609-bis c.p.) sia nel
caso di ‘violenza presunta’ (art. 609-quater c.p.);
c)
fatto commesso da Pubblico Ufficiale o
da incaricato di pubblico servizio nell’esercizio
delle proprie funzioni;
d)
fatto commesso con un altro delitto per cui si deve
procedere d’ufficio.
Nei casi non previsti dalla legge, la procedibilità
è a querela di parte, che deve essere presentata entro 6 mesi
dalla notizia del reato ed una volta presentata è
irrevocabile. Se la vittima è infraquattordicenne, la querela
deve essere presentata da chi esercita la potestà; se ha
compiuto i 14 anni, egli stesso può presentarla ovvero,
nonostante ogni sua volontà contraria, può presentarla anche
chi esercita la potestà. Nel caso di conflitto d’interessi
con l’esercente la potestà, la querela può essere
presentata da un curatore speciale nominato dal G.I.P.,
su istanza del P.M. oppure su istanza dei Servizi
preposti alla cura, all’educazione, alla custodia ed
all’assistenza dei minori. Come per tutti i reati
procedibili d’ufficio, l’obbligo della denuncia (la cui
violazione è penalmente perseguibile) vale per ogni Pubblico
Ufficiale o Incaricato di pubblico servizio (art. 331 c.p.p.).
Anche gli esercenti una professione sanitaria in ambito
privato vale l’obbligo, la cui violazione è penalmente
sanzionabile ai sensi dell’art. 365 c.p., di riferire al
P.M. o a un Ufficiale di Polizia Giudiziaria, entro 48 ore,
fatti che potrebbero configurare ipotesi di reato perseguibile
d’ufficio di cui sono venuti a conoscenza nell’esercizio
della propria professione. Tale obbligo di referto non
sussiste quando esso esporrebbe la persona assistita a
procedimento penale. Qualora però l’esercente la
professione sanitaria sia anche Pubblico Ufficiale o
Incaricato di Pubblico Servizio, tale esonero dall’obbligo
di denuncia non è in alcun modo invocabile.
Oltre alla legge 66/1996 vediamo quali altri norme
possono essere rilevanti in tema di abuso sessuale ai danni di
minore. Sorvoleremo, per motivi di spazio, sulla pur
importante ed innovativa legge 3 agosto 1998 n.269 (Norme
contro lo sfruttamento sessuale dei minori) che mira a
colpire i fenomeni dello sfruttamento della prostituzione
(art. 600-bis c.p.), della pornografia (art. 600-ter c.p.),
della detenzione di materiale pornografico (art. 600-quater
c.p.) e del turismo sessuale (art. 600-quinquies c.p.) in
danno dei minori, nonché la tratta di minori (art. 601 c.p.).
In tema di tutela della ‘privacy’ della
vittima, accenniamo all’art. 734-bis c.p. che vieta la
divulgazione delle generalità e dell’immagine della persona
offesa senza il suo consenso.
Il c.p.p. prevede all’art. 472 (casi in cui si
procede a porte chiuse) che <<la persona offesa può
chiedere che si proceda a porte chiuse anche solo per una
parte di esso. Si procede sempre a porte chiuse quando la
persona offesa è minorenne. In tali procedimenti non sono
ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della
persona offesa se non sono necessarie alla ricostruzione del
fatto>>.
Altre fattispecie di reato che possono essere
riconducibili all’abuso sul minore possono essere riferite
ai Delitti contro la morale familiare, tra cui
ricordiamo l’incesto (art. 564 c.p.), l’abuso
dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), i
maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art.
572 c.p.), mentre altre ancora sono comprese nel titolo dei
delitti contro la vita e l’incolumità individuale (ad es.,
l’omicidio, l’infanticidio in condizioni di abbandono
morale e materiale, le percosse, le lesioni personali, ecc.).
Brevemente, ci soffermeremo sui seguenti reati:
1)
Incesto:
l’art.
564 c.p. prevede la punibilità per <<chiunque, in modo
che ne derivi pubblico scandalo commette incesto con un
discendente o un ascendente, o con un affine in linea diretta,
ovvero con una sorella o un fratello>>. La pena è
aumentata nell’ipotesi in cui si ravvisi una vera e propria
relazione incestuosa o anche <<se trattasi di incesto
commesso da persona
maggiore di età con persona minore degli anni 18>>.
Come afferma il Fornari,
<<nel caso (...) di rapporti sessuali nell’ambito
familiare, se non ricorrono gli estremi contenuti negli artt.
609-ter, comma cinque e 609-quater, comma due della legge
n.66/1996 (...), non più di violenza sessuale si tratterà,
ma di incesto (art. 564 c.p.), che esiste come reato solo
quando viene commesso in modo che “ne derivi pubblico
scandalo”. Altrimenti (se cioè non esiste pubblico
scandalo, entrambi i partner sono consenzienti e il consenso
della vittima, purché non infrasedicenne, è valido) il
rapporto incestuoso con discendenti e ascendenti, con affini
in linea retta o con fratelli o sorelle non costituisce
reato>>
2)
Abuso
dei mezzi di correzione o di disciplina.
Art.
571 c.p. <<Chiunque abusa dei mezzi di correzione o
di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua
autorità, o a lui affidata per ragione di educazione,
istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per
l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se
dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella
mente, con la reclusione fino a sei mesi.
Se
dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene
stabilite negli articoli 528 e 583, ridotte a un terzo; se ne
deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto
anni>>.
L’interpretazione
di questa norma ha subito una notevole evoluzione storica, in
quanto in passato <<dottrina e giurisprudenza
concordavano nel ritenere che si configurasse detto reato
ogniqualvolta lo scopo dell’autore fosse stato quello di
correggere il minore, a prescindere dallo strumento utilizzato
e dalle modalità di condotta. Oggi, si preferisce ritenere
che caratteristica del reato in questione sia una necessaria
correlazione fra i mezzi utilizzati e le finalità educative o
disciplinari perseguite: ciò significa che tale reato può
sussistere solo se si effettui un uso di mezzi leciti, anche
se fuori dei casi in cui il ricorso a tali mezzi è
consentito, ovverossia con modalità non consentite
dall’ordinamento giuridico.In buona sostanza, tale reato
presuppone un uso lecito di tali mezzi di correzione,
tramutato, per eccesso, in illecito>>.
Quindi quando i mezzi usati sono illeciti (frustate a
sangue, punizioni umilianti, ecc.) non si può fare
riferimento a questo reato, ma ad altri (ad es., reato di
lesioni personali).
Anche
la sussistenza di un elemento ulteriore, “il pericolo di una
malattia nel corpo o nella mente”, è un requisito
necessario dato che l’offesa al minore deve essere di tale
entità da mettere in pericolo la sua integrità psicofisica.
3)
Maltrattamenti
in famiglia o verso i fanciulli.
Art. 572 c.p.: <<Chiunque,
fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta
una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata
per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o
custodia, o per l’esercizio di una professione o di
un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Se dal fatto deriva una
lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a
otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione
da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione
da dodici a venti anni>>.
Dobbiamo infine fare un doveroso
cenno alla legge 7 marzo 2001 contenente ‘misure contro la
violenza nelle relazioni familiari’. In virtù di questa
norma, il giudice può ordinare al coniuge o al convivente
autore di una condotta di grave pregiudizio all’integrità
fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o
convivente l’allontanamento dal nucleo familiare. Essa può
essere applicata “anche nel caso in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro
componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal
convivente”. Questa norma può essere applicata solo quando
si procede per uno dei delitti per cui la legge prevede la
pena dell’ergastolo oppure la reclusione superiore nel
massimo ai 3 anni.
L’applicazione di tale misura,
tuttavia, per espressa disposizione di legge, può essere
disposta anche al di fuori di tali limiti di pena qualora si
proceda per uno dei reati previsti agli artt. 570
(“violazione degli obblighi di assistenza familiare”), 571
(“abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”), per i
reati di cui agli artt. 600-bis e segg. (“sfruttamento della
prostituzione quale nuova forma di riduzione in schiavitù”)
e per i reati di violenza sessuale di cui agli artt. 609-bis e
seguenti.
Oltre a ordinare
l’allontanamento, il giudice può vietare all’imputato
(dato che si tratta di
una misura cautelare) di avvicinarsi ai luoghi
abitualmente frequentati dalla vittima dell’abuso; inoltre,
il giudice può ordinare all’imputato, in caso di necessità,
di pagare periodicamente un assegno a favore delle persone che
all’interno del nucleo familiare restassero prive di mezzi
di sostentamento.
.
Par.
I.4. Storia della psicologia della testimonianza in tema di
abuso.
Rimandando ad altre opere per una completa rassegna
storica sul fenomeno dell’abuso sessuale a danno di minori,
in questo paragrafo ci soffermeremo sull’evoluzione storica
della psicologia della testimonianza, resa da bambini presunte
vittime di abuso sessuale, nel corso dell’ultimo secolo. Se
l’opera di Ambroise Tardieu (1860) “Etude médico-légale
sur les sévices et mauvais traitements exercés sur des
enfants” viene generalmente riportata come il primo
studio scientifico sui maltrattamenti dei bambini, è molto più
tardi, a partire dalla seconda metà del XX secolo, che
compaiono i primi lavori scientifici sul maltrattamento
infantile il dibattito sulla
validità della testimonianza dei bambini nei processi penali
è ben più remoto, e si può dire che affonda nella notte dei
tempi. In epoca moderna, un caso molto documentato è stato
quello di Salem (1692), ma lo ‘spirito’ di quei tempi
faceva ritenere ai magistrati che poiché i bambini erano ‘innocenti’,
essi potessero meglio degli adulti riconoscere il diavolo e le
sue manifestazioni. Pertanto, <<gli adulti, corrotti
e corruttibili, non solo “potevano” accettare la
testimonianza dei bambini, ma “dovevano” farlo>>
(Caffo et al., 2002).
Fino alla metà del XX
secolo, il caso di Salem veniva citato negli Stati Uniti come
‘paradigmatico’ dell’assoluta non competenza dei bambini
a testimoniare nelle aule di tribunale. In Europa la
letteratura scientifica sull’attendibilità del minore
testimone iniziò a prodursi prima che negli U.S.A., agli
inizi del XX secolo. Questo forse è dovuto, oltre che alla
‘memoria’ del caso di Salem, anche alla diversa struttura
del sistema giudiziario vigente nei paesi anglosassoni
(sistema accusatorio dei paesi a common law) rispetto a
molti europei (sistema inquisitorio). Infatti, nei paesi
anglosassoni (Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti) il sistema
accusatorio che prevedeva la presenza della giuria e del
controesame (cross-examination) da parte dei legali di
parte erano considerate garanzie sufficienti tali da non
richiedere incarichi peritali ad esperti in tema di competenza
e credibilità del minore testimone. Nella maggior parte dei
paesi europei, invece, l’adozione del sistema inquisitorio
faceva sì che, non essendo presenti una giuria né le
‘garanzie’ relative al controesame, i giudici si
avvalessero di consulenti (‘testimoni esperti’) per
valutare la competenza a testimoniare del bambino. Ciò può
spiegare come mai i primi studi, apparsi agli inizi del XX
secolo, sull’attendibilità dei minori furono pubblicati in
Europa anziché nei paesi di lingua inglese. E’ proprio del
1900 l’opera del Binet dal titolo ‘La suggestibilité”:
in essa veniva studiata la suggestionabilità di minori di età
tra i 7 ed i 14 anni. L’autore spiegava la suggestionabilità
dei bambini sulla base di informazioni mancanti nella loro
memoria tali da richiedere suggerimenti da parte
dell’intervistatore, che finivano per colmare queste
‘lacune’ mnesiche. La suggestionabilità dipendeva sia
dalle aspettative del bambino sia da fonti esterne di
informazione ‘suggerita’. Il merito di Binet fu quello di
calare questi studi sperimentali nell’operatività forense,
raccomandando ai giudici di prestare attenzione alle modalità
con cui venivano formulate le domande all’intervistato.
Sembra, però, che questo autore dovette sopportare un certo
ostruzionismo da parte delle autorità francesi che non gli
consentirono di trascrivere e studiare le dichiarazioni
testimoniali ‘dal vivo’, cioè assistendo ai processi.
Sempre in Europa, in Belgio ed in Germania, venivano
a svilupparsi gli studi, rispettivamente, di Varendonck e di
Stern. Varendonck (1911)
eseguì una serie di esperimenti con bambini (in uno con
bambini di 7 anni
ed in un altro con una classe di bambini dai 9 ai 12 anni),
giungendo alle conclusioni che i bambini non sono affidabili
quando gli si chiede qualcosa sui dettagli di una scena a cui
hanno assistito, che sono facilmente soggetti alla loro
fervida immaginazione, che se una persona esercita su di loro
una qualche autorità agevolmente può trasmettere loro le
proprie convinzioni, che basta una domanda mal posta, sia
volontariamente che involontariamente, per ottenere risultati
‘stupefacenti’. Lo stesso Varendonck aveva sostenuto
queste tesi anche sulla base della propria esperienza di
‘testimone esperto’ in un processo penale nel quale due
bambine sarebbero state testimoni della scomparsa di una loro
compagna di giochi, Cécile.
Tra gli anni ’10 e gli anni ’30, a Breslau Stern
(1910;
1939)
pubblicava le sue ricerche sulla psicologia della
testimonianza. Egli sosteneva che, accanto a certe patologie
psichiche, particolari età dell’individuo, come la pubertà,
potevano ‘inficiare’ la testimonianza in quanto, in tali
condizioni, verrebbe
meno la capacità di discriminare la fantasia dalla realtà
fattuale. Ciononostante, al pari di Binet, Stern attribuiva un
gran peso anche agli errori nella conduzione degli
interrogatori. Un altro tedesco, Lipmann (1911),
propugnò la tesi di una differenza qualitativa (anziché
quantitativa) tra il funzionamento della memoria negli adulti
e nei bambini. I bambini presterebbero maggiore attenzione a
dettagli differenti rispetto a quelli memorizzati dagli
adulti, cosicché, se un bambino viene interrogato da un
adulto autorevole su dettagli per lui poco rilevanti, egli
finisce per accogliere i suggerimenti dell’adulto al fine di
colmare la lacuna dei suoi ricordi. Siegmund Freud, nel caso
del piccolo Hans (1909), così argomentava circa
l’attendibilità delle dichiarazioni dei bambini ed i
rapporti tra immaginazione e capacità di fornire resoconti
aderenti alla realtà fattuale: <<Non condivido
l’opinione, attualmente diffusa, che le affermazioni dei
bambini siano sempre cervellotiche e inattendibili. Nella vita
psichica non c’è posto per l’arbitrarietà.
L’inattendibilità delle dichiarazioni dei bambini è dovuta
al predominio dell’immaginazione, così come quella degli
adulti dipende dal pregiudizio...>> (Freud, 1909). Tuttavia, qui Freud si
riferiva alle applicazioni psicoterapeutiche delle
affermazioni infantili, e non certo alle problematiche della
psicologia forense.
Negli anni ’20 e ’30 le ricerche
sull’attendibilità testimoniale dei minori si concentrarono
soprattutto sull’interrelazione tra età, sesso, quoziente
intellettivo e suggestionabilità. Gli esperimenti si basavano
su domande poste per iscritto, e quasi invariabilmente
dimostravano una correlazione significativa tra basso Q.I. e
suggestionabilità (Otis, 1924;
Sherman, 1925). Tuttavia tali risultati
non sembravano tener conto dei bias metodologici,
inevitabili se si pensa alla scarsa comprensibilità che le
domande poste per iscritto potevano avere
in soggetti con ritardo mentale.
In Italia, nel 1925 esce la “Psicologia
Giudiziaria” di Enrico Altavilla,
a cui seguì la pubblicazione della “Psicologia della
testimonianza” di Giorgio Tesoro.
Non di certo furono le prime opere pubblicate in Italia sulla
psicologia della testimonianza, ma certamente tra
quelle, insieme al contributo di poco posteriore del Musatti
(1931), destinate a rimanere a lungo nel bagaglio di chiunque,
psichiatra forense o giurisperito che fosse, si occupasse di
queste questioni.
Complessivamente, fino agli anni ’70 del XX secolo,
non è dato registrare ricerche degne di nota in tale campo. A
partire da tali anni è soprattutto nei paesi anglosassoni
(Gran Bretagna e Stati Uniti) che prendono nuovo impulso studi
utili in ambito forense. Per Ceci e Bruck (1993;
1995)
varie sarebbero le ragioni per il rinnovato interesse per i
temi della suggestionabilità e della testimonianza infantile.
Intanto, a partire da quegli anni, si sarebbe verificato in
quei Paesi un sensibile incremento, oltre che delle denunce di
abuso sessuale, delle richieste di consulenze di esperti che
finiscono per essere considerate non solo sempre più
ammissibili in tribunale, ma anche sempre più rilevanti ai
fini della ‘validation’ della testimonianza dei
minori. Nei decenni passati <<la riluttanza ad
accettare le testimonianze non corroborate, lo scetticismo con
cui la giuria accoglieva le dichiarazioni dei minori in
seguito all’istruzione del giudice (‘cautionary
instruction’), la non accettazione delle testimonianze
indirette e l’obbligo della presenza dell’accusato durante
la testimonianza del minore rendevano spesso traumatico il
processo per il minore e ne compromettevano quindi l’attendibilità>>
(Caffo et al., 2002, op.cit.). Anche l’aumentato interesse,
registratosi alla fine degli anni ’60, per le problematiche
dei diritti dei minori e della loro tutela ha avuto un ruolo
propulsore sulle ricerche di psicologia della testimonianza.
Comunque, negli U.S.A. durante gli anni ’80 vari
Stati hanno modificato la normativa procedurale in modo da
rendere ammissibili anche le testimonianze non corroborate e
quelle indirette.
Nel campo della psicologia della testimonianza è
cambiato poi sia
lo scopo (non più confrontare la suggestionabilità dei
bambini con quella degli adulti, ma stabilire quali condizioni
incidano sull’attendibilità) che la metodologia delle
ricerche (anziché porre i bambini di fronte a stimoli
‘neutrali’ si tende a privilegiare condizioni sperimentali
sempre più vicine a quelle reali). Certamente, vanno aggiunti
i rilevanti progressi che tra gli anni ’70 e ’80 ha
registrato la psicologia dello sviluppo, i cui contributi alla
psicologia della testimonianza infantile non possono che
essere stati (ed essere tuttora) della più grande importanza.
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