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  L'ascolto del minore vittima di abuso.

 

 di Giuseppe Leo

 

Il presente contributo è tratto dalla tesi di specializzazione in Criminologia Clinica e Psichiatria forense conseguita dall'autore all'Università degli Studi di Bari nell'a.a.  2002-2003 (Relatore: Prof.ssa Laura Amerio).

                             

 CAPITOLO PRIMO

 

Par. I.1. PREMESSA

 

Negli ultimi decenni, parallelamente ad una maggiore attenzione riservata al tema dell’abuso sessuale ai danni di minori da parte degli organi di informazione, dell’opinione pubblica, nonché della letteratura psicologica, psichiatrica, criminologica e forense, si è registrato, nella società civile e nel mondo scientifico, un ininterrotto dibattito circa la ‘fondatezza’ della testimonianza resa da minori nel corso di processi in cui essi ricoprono la duplice veste di vittima e di testimone. I ‘mass media’, in Italia specie negli ultimi dieci anni, hanno ripetutamente portato agli ‘onori’ della cronaca casi di adulti ingiustamente condannati sulla base di dichiarazioni ‘false’ rese da presunte vittime in età evolutiva, oppure, al contrario, casi in cui la testimonianza di un minore, ritenuta non attendibile e non veritiera da una corte di giustizia, se adeguatamente utilizzata, avrebbe invece fornito degli elementi di prova insostituibili per confermare la realtà dell’avvenuto abuso ed arrivare al responsabile. E pensare che fino a pochi decenni fa non esisteva un reale dibattito circa l’attendibilità del minore testimone, in quanto i bambini venivano indiscriminatamente considerati ‘non competenti’ a fornire una versione aderente alla realtà storica dei fatti narrati!

Poiché un episodio di abuso sessuale raramente ha spettatori (per non parlare, poi, del complesso capitolo dell’abuso intrafamilare) e di rado lascia una traccia sulla vittima che inequivocabilmente possa considerarsi segno ‘specifico’  o ‘patognomonico’, la testimonianza della vittima costituisce, nella maggioranza dei casi,  l’unico elemento su cui il magistrato deve basare il suo giudizio. Egli può chiedere una perizia, ma psicologi e psichiatri si trovano sempre più ad essere chiamati a rispondere a quesiti sulle questioni più varie, che spesso esulano dalle loro competenze. Ma se caliamo questa premessa generale sul problema particolare della valutazione dell’attendibilità della vittima in senso psicologico e psichiatrico, uno dei quesiti fondamentali su cui l’esperto è chiamato ad esprimersi, allora dobbiamo lamentare che spesso lo scarso rigore metodologico esibito dal perito fa sì che egli <<per incapacità di “resistere” alla pressione dl Magistrato – alimentata di certo dalle più nobili intenzioni ma non sempre esente da condizionamenti – ovvero per personale onnipotente considerazione del sé, accetta acriticamente qualsiasi sollecitazione>>, per cui <<può capitare di leggere (...) richieste, e relative relazioni psicologiche, nelle quali veniva sancita la fondatezza scientifica delle dichiarazioni rese dalla vittima ovvero identificati gli “indicatori psicologici specifici della violenza sessuale subita”>>[1]. Quindi il rigore metodologico deve essere un imperativo morale e deontologico per l’esperto, ma si deve nutrire, per avere validità scientifica, dell’apporto delle scienze che più hanno studiato, negli ultimi decenni, i problemi della testimonianza in età evolutiva: la psicologia dello sviluppo costituisce quindi il substrato teorico-scientifico su cui fondare la psicologia della testimonianza del minore. Perciò, dopo il presente capitolo introduttivo, il secondo ed il terzo  verranno ad analizzare i contributi che la psicologia dello sviluppo viene a fornire all’esperto nell’arduo lavoro di esprimersi sull’attendibilità e sulla competenza del minore a testimoniare. Ma il ‘metodo’ deve essere rigoroso non solo rispetto ai dati psicologici e fenomenologici che emergono dall’oggetto d’indagine (la testimonianza del minore presunta vittima): deve anche poter circoscrivere il proprio ambito epistemologico[2], cioè di applicazione delle regole che ne assicurano la scientificità. Pertanto, è importante <<per lo psichiatra e lo psicologo, di imparare a differenziare (anche dal punto di vista metodologico) i diversi ambiti nei quali si può trovare ad operare, a tenere ben presente che ipotesi, suggestioni ed interpretazioni cliniche, utili ai fini terapeutici, non possono essere trasferite passivamente in quello forense, che richiede non solo diversa prudenza ma anche maggiore coscienza dei limiti delle proprie valutazioni>>[3]. Il quarto capitolo affronterà il tema della metodologia dell’ascolto e della valutazione clinico-forense, distinguendo la metodologia in ambito forense da quella in ambito clinico-terapeutico,  fornendo, infine, la trattazione delle ‘Linee guida della Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza (S.I.N.P.I.A.)’, unico tentativo finora fatto  in Italia di fornire ai professionisti del campo una  base metodologica comune.

Il quinto capitolo, attraverso una casistica di perizie effettuate su minori appartenenti a differenti fasce di età, cercherà di tradurre i concetti teorici esposti nei capitoli precedenti in argomentazioni a sostegno delle conclusioni a cui  è approdato il perito.

 

Par.I.2. Concetti generali sull’ abuso sessuale ai danni di minori.

 

Prima di tutto bisogna definire il termine di ‘abuso’ e declinarne le tipologie fenomenologiche ( in quanto di seguito ci occuperemo essenzialmente di un tipo di abuso, quello sessuale). Varie sono le definizioni che sono state proposte al termine ‘abuso’ e, quindi, sia per chi lavora in ambito clinico che in quello forense, ciò costituisce un problema in più, dato che è difficile concordare unanimemente su una definizione <<generale, standardizzata ed efficace sul piano cross-culturale[4]>>. Questa ‘variabilità dei criteri di definizione’ dell’abuso ha inevitabili ripercussioni, tra l’altro, sui dati statistici ed epidemiologici sull’entità del fenomeno, nonché sui risultati delle ricerche (problema dei criteri di reclutamento dei casi ammessi ad un  dato studio).

Una definizione proposta dal Consiglio d’Europa[5] definisce l’abuso come <<quell’insieme  di atti e carenze che turbano gravemente il bambino attentando alla sua integrità corporea e al suo sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono: la trascuratezza e/o lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura del bambino>>. Anche la definizione di maltrattamento contenuta nella legge dello Stato di New York che tutela i diritti dell’infanzia è abbastanza vicina a quella sopra citata[6] Nella Convenzione dei diritti dei minori(1989)[7], invece, ci si riferisce al <<danno o abuso fisico o mentale, trascuratezza o trattamento negligente, al maltrattamento, alle diverse forme  di sfruttamento e abuso sessuale intese come induzione e coercizione di un bambino/a in attività sessuale illegale, lo sfruttamento nella prostituzione o in altre pratiche sessuali illegali, lo sfruttamento in spettacoli e materiali pornografici, torture o ad altre forme di trattamento o punizione crudeli, inumane o degradanti, alo sfruttamento economico e al coinvolgimento in lavori rischiosi>>. Come si vede, di fronte ad una così ampia ‘casistica’ di forme di violenza all’infanzia bisogna, per contro, utilizzare definizioni restrittive per l’abuso che da una parte escludano quei problemi internazionali (malnutrizione, fame, abbandono, sfruttamento, guerre) che danneggiano l’infanzia, e che dall’altra consentano però anche di essere utilizzate in una varietà di contesti sociali e culturali che oramai risentono dei processi di ‘globalizzazione’[8]. La stessa OMS nel definire l’abuso ed il maltrattamento ai danni dei bambini ha fatto riferimento al testo della Convenzione sopra citato.

Un altro ordine di problemi è legato al diverso ambito professionale e scientifico in cui le definizioni vengono adoperate, per cui <<in ambito legale può essere utile una definizione circostanziata relativa all’abuso che specifichi quali atti siano concessi e quali no, quale sia l’età critica che trasforma un atto sessuale in un atto di abuso (...)>>,mentre <<in ambito clinico possono, invece, essere più utili definizioni più ampie che consentano di trattare con una vasta gamma di bambini e di nuclei familiari>> (Caffo et al., 2002, op.cit.).

  Uno sforzo chiarificatore apprezzabile è stato certamente quello del Child Protection Register inglese (Gibbons, Conroy & bell, 1995)[9] che definisce le seguenti tipologie fenomenologiche:

1)     Trascuratezza: <<grave o persistente negligenza nei confronti del bambino, o il fallimento nel proteggerlo dalla esposizione a qualsiasi genere di pericolo, incluso freddo o fame, o anche gli insuccessi in alcune importanti aree dell’allevamento che hanno come conseguenza un danno significativo per la salute o per lo sviluppo, compreso un ritardo della crescita in assenza di cause organiche>>[10];

2)     Maltrattamento fisico: <<implica un danno o il fallimento nel prevenirlo, inclusi gli avvelenamenti intenzionali, soffocamento e sindrome di Munchhausen per procura. Alcuni autori sottolineano la necessità di non escludere l’omicidio infantile, i danni determinati da ostilità tra gruppi e da pratiche rituali>>[11] ;

3)     Abuso sessuale: <<comporta lo sfruttamento sessuale di un bambino o adolescente, dipendente e/o immaturo sul piano dello sviluppo, e anche prostituzione infantile e pornografia>>[12];

4)     Abuso emozionale: <<comunemente denominato anche maltrattamento psicologico, che si riferisce a persistenti maltrattamenti emotivi e atteggiamenti di rifiuto e di denigrazione che determinano conseguenze negative sullo sviluppo affettivo e comportamentale. Tale categoria dovrebbe essere utilizzata quando si presenta da sola o è prevalente, dato che tutte le altre forme, in qualche modo, la comprendono[13].

 

Montecchi (1998)[14] propone, in ambito clinico, una definizione ampia di ‘abuso all’infanzia’ (quale sinonimo dell’inglese child abuse) <<in quanto onnicomprendente tutte le forme di maltrattamenti e violenze, aderendo anche alla definizione data dal Consiglio d’Europa (...)>>. Questo autore propone la seguente classificazione degli abusi all’infanzia (recepita dalla linee guida della S.I.N.P.I.A., vedi cap.IV, a cui si rimanda anche per le definizioni delle singole tipologie):

 

Abuso

Fisico

 

 

 

Psicologico

 

 

Patologia delle cure

Incuria

 

 

 

Discuria

 

 

 

Ipercura

 

 

 

 

Sinrome di Munchhausen per procura

 

 

 

Chemical Abuse

 

 

 

Medical shopping

 

 

 

 

 

Abuso sessuale

Extrafamiliare

 

 

 

Intrafamiliare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In buona sostanza, qualsiasi classificazione categoriale non è in grado di accogliere tutte le varianti cliniche e fenomenologiche che si incontrano nella realtà, dato che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a situazioni miste, per cui l’abuso ‘fisico’ può comportare facilmente anche una componente di tipo ‘psicologico’, ed un abuso sessuale è in genere difficilmente distinguibile dal maltrattamento fisico e/o psicologico.

In questo senso, la definizione di ‘abuso’ che dà la Petrucelli[15] ha il pregio, da un lato, di essere sufficientemente comprensiva della varie categorie che solo artificiosamente possono essere distinte l’una dall’altra in maniera netta, e, dall’altro, di avere delle implicazioni non solo sul terreno prettamente clinico, ma anche su quello, a volte più ‘scivoloso’, psicologico-forense: <<con il termine “abusi”, dunque, vengono indicati sia gli atti sia le carenze di cure che turbano gravemente il bambino, che attentano alla sua integrità corporea e al suo sviluppo fisico, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o le lesioni di ordine fisico e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di altri che hanno cura del minore>>. L’abuso sessuale, poi, viene definito come <<un coinvolgimento in qualsiasi attività sessuale di un minorenne incapace di un libero e cosciente consenso>>, dato che <<ogni rapporto sessuale tra un adulto e un bambino va considerato come abuso

a)    se il minore è usato o sfruttato per la gratificazione di un adulto;

b)     se il minore coinvolto sessualmente si trova nell’incapacità di essere consenziente, a causa della differenza di età e di ruolo dell’adulto;

c)      se il minore è coinvolto nell’attività sessuale con persone che hanno un ruolo determinante nell’ambiente familiare>>.

All’interno della categoria ‘abuso sessuale’ possiamo comprendere tipologie fenomeniche anche molto diverse tra di loro sulla base dell’appartenenza di autore e vittima allo stesso nucleo familiare (abuso intrafamiliare, a sua volta distinguibile in ‘manifesto’, ‘mascherato’, e ‘pseudoabuso’)[16] o meno, allo stesso sesso oppure no, alla stessa minore età o meno, sulla base della dimensione diadica o di gruppo in cui sono avvenuti i comportamenti sessuali. Sulla base del tipo di comportamenti sessuali messi in atto si può andare dallo stupro e dalla violenza sessuale alla manipolazione dei genitali (toccamenti sia che la vittima indossi o meno i vestiti, sia che li osservi, li subisca, o sia obbligato a compierli su di sé o su altri), al frottage, all’esibizionismo, alla fellatio, al cunnilingus, alla penetrazione anale o vaginale per mezzo di oggetti oppure di organi sessuali, al fare fotografie pornografiche a minori, allo sfruttamento della prostituzione minorile, ecc.. Recentemente è stata introdotta anche la tipologia, peraltro controversa, dell’abuso sessuale ritualistico. Quindi ‘abuso sessuale’ non è sinonimo di ‘violenza sessuale’[17],  né l’aggettivo ‘sessuale’ implica necessariamente un contatto attraverso i genitali tra autore e vittima[18].

Inoltre, non tutte le esperienze sessuali che un bambino può sperimentare possono essere comprese sotto il concetto di abuso sessuale. Ci riferiamo in particolare a quelle tra minori, dove il carattere di ‘abuso sessuale’ dovrebbe essere riferito, restando sempre in un ambito clinico, a quei comportamenti sessuali quando uno di loro è notevolmente più grande dell’altro oppure c’è stata coercizione. Possiamo, in altri termini, qualificare come ‘atti di abuso’ quelli che comportano uno o più differenze tra i due partecipanti in termini di:

a)   potere (l’atto viene compiuto da una persona che, avvalendosi del proprio ruolo, delle proprie capacità o caratteristiche fisiche, influenza e controlla la vittima con o senza l’uso della forza);

b)   conoscenze (uno dei due, la vittima, ha un minor grado di comprensione del significato e delle conseguenze dell’atto sessuale);

c)   gratificazione (l’atto risulta gratificante solo per uno dei partecipanti ed assume per la vittima un significato diverso).

Vedremo poi, nel paragrafo successivo, quali problemi si evidenziano  nel tentativo di ”incasellare”, in un ambito psicologico-forense, questa molteplice fenomenologia in comportamenti costituenti precise fattispecie di reato. Questo perché nel nostro codice penale non esiste alcuna dizione che faccia espressamente riferimento all’’abuso all’infanzia’ e, viceversa, una varietà di reati possono configurarlo. Come giustamente rilevato da Caffo e coll. (2002, op.cit.), risulta pertanto utile, <<sul piano di una migliore conoscenza del problema, cercare di mantenere su piani separati la valutazione clinica e quella legale e giudiziaria. Non sempre chi è stato vittima di maltrattamenti  suscettibili di un interessamento giudiziario presenta esiti di ordine clinico (in senso psicopatologico e/o psicosociale) e, viceversa, non sempre questi esiti  (come avviene, per esempio, in molti casi di abuso psicologico e di trascuratezza) sono legati a eventi tali da comportare un coinvolgimento giudiziario per l’abusante o gli abusanti>>.

 

 

 

 

Par. I.3. Quadro legislativo di riferimento in tema di tutela penale del minore vittima di abuso.

 

 

La legge italiana presume che  i minori di anni quattordici, e in alcuni casi i minori di anni sedici, non siano in grado di prestare alcun valido consenso in ambito sessuale. Nel caso di minori tra i quattordici ed i sedici anni, invece, il soggetto viene considerato capace di scelte consapevoli riguardo alla sessualità e di disporre liberamente del proprio corpo ma non nei confronti di persone a lui unite da vincoli familiari che possono viziare la libera manifestazione del consenso (Antolisei, 1996[19]; Venafro, 1996[20]).

Sul piano normativo dobbiamo partire dalla legge n.66 del 15 febbraio 1996 che porta il titolo “Norme contro la violenza sessuale” che ha abrogato i ‘delitti contro la libertà sessuale’[21], collocando tali reati nel capitolo dei delitti contro la libertà personale. Quindi non si parla più di violenza carnale <<bensì, con termine onnicomprensivo, di violenza sessuale (...)>>[22], ed inoltre, venendo a decadere la vecchia distinzione tra ‘violenza sessuale’ (che implicava la congiunzione carnale) e gli ‘atti di libidine’ (che comprendevano tutti quei comportamenti che non implicavano congiunzione carnale), tutte le ipotesi di reato vengono ad essere ricomprese in un’unica fattispecie, essendo il giudice preposto a graduare la pena in funzione della minore o maggiore gravità della condotta[23].

 

 

 

Art. 609-bis c.p. (Violenza sessuale)

 

<<Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1)     abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

2)     traendo in inganno la persona offesa  per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

 

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi>>.

 

L’art. 609-ter prevede le circostanze aggravanti (reclusione dai sei ai dodici anni) quando gli atti sessuali, con le caratteristiche di cui all’articolo precedente (art. 609-bis), sono commessi su persona che al momento del fatto:

1)   non aveva compiuto il quattordicesimo anno;

2)   non aveva compiuto il sedicesimo anno, quando l’autore è l’ascendente, il tutore  o il genitore anche adottivo;

3)   era sottoposta a limitazione della libertà personale;

oppure da persona che:

a)   aveva fatto ricorso all’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa;

b)  era travisata o aveva simulato la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

 

Un’ulteriore aggravante (reclusione tra sette e quattordici anni) è prevista qualora la vittima, al momento del fatto, non aveva compiuto gli anni dieci.

L’art. 609-quater (Atti sessuali con minorenne) così recita che soggiace alla stessa pena prevista dall’art. 609-bis

<<chiunque, al di fuori delle ipotesi previste da detto articolo, compia atti sessuali con persona che, al momento del fatto:

1)     non ha compiuto gli anni quattordici;

2)     non ha compiuto gli anni sedici, quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore, ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato o che abbia, con quest’ultimo, una relazione di convivenza.

 

Non è punibile il minorenne che, al di fuori delle ipotesi previste nell’articolo 609-bis, compie atti sessuali con un minorenne che abbia compiuto gli anni tredici, se la differenza di età tra i soggetti non è superiore a tre anni.

Si applica la pena di cui all’art. 609-ter, secondo comma, se la persona offesa non ha compiuto gli anni dieci>>.

 

Quindi i requisiti perché l’atto sessuale configuri il reato di Atti sessuali con minorenne non sono gli stessi di quello di Violenza sessuale (violenza o minaccia, abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica, oppure sostituzione di persona)  quando la vittima, al momento del fatto, non aveva compiuto i 14 anni (oppure non aveva compiuto i sedici quando il colpevole è una delle persone individuate dall’art.609-quater), in quanto alla base dell’art. 609-quater c’è il principio che l’infraquattordicenne non può mai prestare alcun consenso valido in ambito sessuale, e quindi si tratta sempre di ‘violenza sessuale presunta’, senza possibilità di prova contraria e senza che si rilevi l’errore sull’età del minore offeso[24]. Nel caso, invece, di minore fra i 14 ed i 16 anni, il principio è che si ritiene che il soggetto abbia l’età per effettuare scelte consapevoli in ambito sessuale, ma non nei confronti di persone che con lui abbiano vincoli ‘familiari’ e che in virtù di questi possano viziarne il consenso.

L’art. 609-quinqiues c.p. (Corruzione di minorenne) così recita:

<<Chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito (omissis)>>.

 

Anche in questo caso, mai l’autore può invocare, a propria scusa, l’ignoranza dell’età della persona offesa (art. 609-sexies c.p.).

Qualora l’autore del reato di violenza sessuale sia un minorenne, se è un infraquattordicenne,  non è imputabile. L’art. 609-quater, poi, stabilisce la non punibilità del minorenne che compie atti sessuali, naturalmente senza minaccia e senza violenza, con altro minore che abbia compiuto i 13 anni qualora la differenza di età tra i due non sia superiore ai 3 anni.

Un’ulteriore novità della legge 66/1996 consiste nell’aver introdotto il reato di ‘violenza sessuale di gruppo’.

Art. 609-octies c.p.:

<<La violenza sessuale di gruppo consiste nella partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis (omissis)>>.

La pena prevista consiste nella reclusione dai 6 ai 12 anni per coloro che abbiano partecipato in gruppo ad atti di violenza sessuale; la pena è aumentata se concorrono le circostanze aggravanti dell’art. 609-ter, mentre viene diminuita nei casi in cui un autore sia stato ‘determinato’ a commetterlo.

La normativa attuale ha inoltre introdotto, a maggior tutela delle vittime, delle pene accessorie (art. 609-novies) quali:

1)     perdita della potestà genitoriale, qualora la qualità di genitore sia ritenuta elemento costitutivo del reato;

2)     interdizione perpetua dagli uffici di tutore o di curatore;

3)     perdita del diritto agli alimenti ed esclusione dalla successione della persona offesa.

 

Ad ulteriore tutela del minore vittima sono previsti collegamenti tra il tribunale Ordinario e quello per i minorenni:

Art. 609-decies c.p. (Comunicazione al tribunale per i minorenni)

<<Quando  si procede per alcuno dei delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quinquies e  609-octies commessi in danno di minorenni, ovvero per il delitto previsto dall’articolo 609-quater, il procuratore della Repubblica ne dà notizia al tribunale per i minorenni.

Nei casi previsti dal primo comma l’assistenza affettiva e psicologica della persona offesa minorenne è assicurata, in ogni stato e grado del procedimento, dalla presenza dei genitori o di altre persone idonee indicate dal minorenne e ammesse dall’autorità giudiziaria che procede.

In ogni caso al minorenne è assicurata l’assistenza dei servizi minorili dell’Amministrazione della giustizia e dei servizi istituiti dagli enti locali.

Dei servizi indicati nel terzo comma si  avvale altresì l’autorità giudiziaria in ogni stato e grado del procedimento.>>

 

Inoltre, la legge 66/1996 prevede che l’imputato debba essere sottoposto, con perizia, ad accertamenti tecnici volti all’esclusione di patologie sessualmente trasmissibili (art. 16 della legge 66/1996)..

Riguardo alla procedibilità, l’attuale normativa ha ampliato il numero dei reati per cui essa è d’ufficio ( oltre ad aver allungato i termini entro cui è possibile presentare querela, da 3 a 6 mesi dalla notizia del reato):

1)   se il fatto di cui all’art. 609-bis è commesso ai danni di persona che, al momento del fatto, non aveva compiuto i 14 anni;

2)   se il fatto è stato commesso da genitore, anche adottivo, oppure da suo convivente, dal tutore, ovvero da altra persona a cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia;

3)   se il fatto è commesso da Pubblico Ufficiale o da incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni;

4)   se il fatto è commesso con altro delitto per cui è prevista la procedibilità d’ufficio;

5)   se il fatto è commesso nell’ipotesi di cui all’art. 609-quater, ultimo comma (609-septies c.p.).

 

L’art. 609-septies c.p. indica come procedibili d’ufficio le seguenti ipotesi:

a)   fatto commesso su vittima che non abbia compiuto i 14 anni, al momento del fatto, qualora l’atto sia stato compiuto con violenza o minaccia;

b)  fatto commesso su vittima che non aveva compiuto i 10 anni, al momento del fatto, sia che l’atto sia stato compiuto con violenza o minaccia (art. 609-bis c.p.) sia nel caso di ‘violenza presunta’ (art. 609-quater c.p.);

c)   fatto commesso da Pubblico Ufficiale o  da incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni;

d)  fatto commesso con un altro delitto per cui si deve procedere d’ufficio.

 

Nei casi non previsti dalla legge, la procedibilità è a querela di parte, che deve essere presentata entro 6 mesi dalla notizia del reato ed una volta presentata è irrevocabile. Se la vittima è infraquattordicenne, la querela deve essere presentata da chi esercita la potestà; se ha compiuto i 14 anni, egli stesso può presentarla ovvero, nonostante ogni sua volontà contraria, può presentarla anche chi esercita la potestà. Nel caso di conflitto d’interessi con l’esercente la potestà, la querela può essere presentata da un curatore speciale nominato dal G.I.P.,  su istanza del P.M. oppure su istanza dei Servizi preposti alla cura, all’educazione, alla custodia ed all’assistenza dei minori. Come per tutti i reati procedibili d’ufficio, l’obbligo della denuncia (la cui violazione è penalmente perseguibile) vale per ogni Pubblico Ufficiale o Incaricato di pubblico servizio (art. 331 c.p.p.). Anche gli esercenti una professione sanitaria in ambito privato vale l’obbligo, la cui violazione è penalmente sanzionabile ai sensi dell’art. 365 c.p., di riferire al P.M. o a un Ufficiale di Polizia Giudiziaria, entro 48 ore, fatti che potrebbero configurare ipotesi di reato perseguibile d’ufficio di cui sono venuti a conoscenza nell’esercizio della propria professione. Tale obbligo di referto non sussiste quando esso esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. Qualora però l’esercente la professione sanitaria sia anche Pubblico Ufficiale o Incaricato di Pubblico Servizio, tale esonero dall’obbligo di denuncia non è in alcun modo invocabile.

 

Oltre alla legge 66/1996 vediamo quali altri norme possono essere rilevanti in tema di abuso sessuale ai danni di minore. Sorvoleremo, per motivi di spazio, sulla pur importante ed innovativa legge 3 agosto 1998 n.269 (Norme contro lo sfruttamento sessuale dei minori) che mira a colpire i fenomeni dello sfruttamento della prostituzione (art. 600-bis c.p.), della pornografia (art. 600-ter c.p.), della detenzione di materiale pornografico (art. 600-quater c.p.) e del turismo sessuale (art. 600-quinquies c.p.) in danno dei minori, nonché la tratta di minori (art. 601 c.p.).

In tema di tutela della ‘privacy’ della vittima, accenniamo all’art. 734-bis c.p. che vieta la divulgazione delle generalità e dell’immagine della persona offesa senza il suo consenso.

Il c.p.p. prevede all’art. 472 (casi in cui si procede a porte chiuse) che <<la persona offesa può chiedere che si proceda a porte chiuse anche solo per una parte di esso. Si procede sempre a porte chiuse quando la persona offesa è minorenne. In tali procedimenti non sono ammesse domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa se non sono necessarie alla ricostruzione del fatto>>.

Altre fattispecie di reato che possono essere riconducibili all’abuso sul minore possono essere riferite ai Delitti contro la morale familiare, tra cui ricordiamo l’incesto (art. 564 c.p.), l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), i maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli (art. 572 c.p.), mentre altre ancora sono comprese nel titolo dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale (ad es., l’omicidio, l’infanticidio in condizioni di abbandono morale e materiale, le percosse, le lesioni personali, ecc.). Brevemente, ci soffermeremo sui seguenti reati:

1)    Incesto: l’art. 564 c.p. prevede la punibilità per <<chiunque, in modo che ne derivi pubblico scandalo commette incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea diretta, ovvero con una sorella o un fratello>>. La pena è aumentata nell’ipotesi in cui si ravvisi una vera e propria relazione incestuosa o anche <<se trattasi di incesto commesso da  persona maggiore di età con persona minore degli anni 18>>. Come afferma il Fornari[25], <<nel caso (...) di rapporti sessuali nell’ambito familiare, se non ricorrono gli estremi contenuti negli artt. 609-ter, comma cinque e 609-quater, comma due della legge n.66/1996 (...), non più di violenza sessuale si tratterà, ma di incesto (art. 564 c.p.), che esiste come reato solo quando viene commesso in modo che “ne derivi pubblico scandalo”. Altrimenti (se cioè non esiste pubblico scandalo, entrambi i partner sono consenzienti e il consenso della vittima, purché non infrasedicenne, è valido) il rapporto incestuoso con discendenti e ascendenti, con affini in linea retta o con fratelli o sorelle non costituisce reato>>

2)    Abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

Art. 571 c.p. <<Chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi.

Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli articoli 528 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni>>.

L’interpretazione di questa norma ha subito una notevole evoluzione storica, in quanto in passato <<dottrina e giurisprudenza concordavano nel ritenere che si configurasse detto reato ogniqualvolta lo scopo dell’autore fosse stato quello di correggere il minore, a prescindere dallo strumento utilizzato e dalle modalità di condotta. Oggi, si preferisce ritenere che caratteristica del reato in questione sia una necessaria correlazione fra i mezzi utilizzati e le finalità educative o disciplinari perseguite: ciò significa che tale reato può sussistere solo se si effettui un uso di mezzi leciti, anche se fuori dei casi in cui il ricorso a tali mezzi è consentito, ovverossia con modalità non consentite dall’ordinamento giuridico.In buona sostanza, tale reato presuppone un uso lecito di tali mezzi di correzione, tramutato, per eccesso, in illecito[26]>>. Quindi quando i mezzi usati sono illeciti (frustate a sangue, punizioni umilianti, ecc.) non si può fare riferimento a questo reato, ma ad altri (ad es., reato di lesioni personali).

Anche la sussistenza di un elemento ulteriore, “il pericolo di una malattia nel corpo o nella mente”, è un requisito necessario dato che l’offesa al minore deve essere di tale entità da mettere in pericolo la sua integrità psicofisica.

 

3)    Maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli.

Art. 572 c.p.: <<Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni>>.

 

Dobbiamo infine fare un doveroso cenno alla legge 7 marzo 2001 contenente ‘misure contro la violenza nelle relazioni familiari’. In virtù di questa norma, il giudice può ordinare al coniuge o al convivente autore di una condotta di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente l’allontanamento dal nucleo familiare. Essa può essere applicata “anche nel caso  in cui la condotta pregiudizievole sia stata tenuta da altro componente del nucleo familiare diverso dal coniuge o dal convivente”. Questa norma può essere applicata solo quando si procede per uno dei delitti per cui la legge prevede la pena dell’ergastolo oppure la reclusione superiore nel massimo ai 3 anni.

L’applicazione di tale misura, tuttavia, per espressa disposizione di legge, può essere disposta anche al di fuori di tali limiti di pena qualora si proceda per uno dei reati previsti agli artt. 570 (“violazione degli obblighi di assistenza familiare”), 571 (“abuso dei mezzi di correzione o di disciplina”), per i reati di cui agli artt. 600-bis e segg. (“sfruttamento della prostituzione quale nuova forma di riduzione in schiavitù”) e per i reati di violenza sessuale di cui agli artt. 609-bis e seguenti.

Oltre a ordinare l’allontanamento, il giudice può vietare all’imputato (dato che si tratta  di una misura cautelare) di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima dell’abuso; inoltre, il giudice può ordinare all’imputato, in caso di necessità, di pagare periodicamente un assegno a favore delle persone che all’interno del nucleo familiare restassero prive di mezzi di sostentamento.

 

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Par. I.4. Storia della psicologia della testimonianza in tema di abuso.

 

Rimandando ad altre opere per una completa rassegna storica sul fenomeno dell’abuso sessuale a danno di minori[27], in questo paragrafo ci soffermeremo sull’evoluzione storica[28] della psicologia della testimonianza, resa da bambini presunte vittime di abuso sessuale, nel corso dell’ultimo secolo. Se l’opera di Ambroise Tardieu (1860) “Etude médico-légale sur les sévices et mauvais traitements exercés sur des enfants” viene generalmente riportata come il primo studio scientifico sui maltrattamenti dei bambini, è molto più tardi, a partire dalla seconda metà del XX secolo, che compaiono i primi lavori scientifici sul maltrattamento infantile[29] il dibattito sulla validità della testimonianza dei bambini nei processi penali è ben più remoto, e si può dire che affonda nella notte dei tempi. In epoca moderna, un caso molto documentato è stato quello di Salem (1692), ma lo ‘spirito’ di quei tempi faceva ritenere ai magistrati che poiché i bambini erano ‘innocenti’, essi potessero meglio degli adulti riconoscere il diavolo e le sue manifestazioni. Pertanto, <<gli adulti, corrotti e corruttibili, non solo “potevano” accettare la testimonianza dei bambini, ma “dovevano” farlo>> (Caffo et al., 2002)[30]. Fino alla metà del  XX secolo, il caso di Salem veniva citato negli Stati Uniti come ‘paradigmatico’ dell’assoluta non competenza dei bambini a testimoniare nelle aule di tribunale. In Europa la letteratura scientifica sull’attendibilità del minore testimone iniziò a prodursi prima che negli U.S.A., agli inizi del XX secolo. Questo forse è dovuto, oltre che alla ‘memoria’ del caso di Salem, anche alla diversa struttura del sistema giudiziario vigente nei paesi anglosassoni (sistema accusatorio dei paesi a common law) rispetto a molti europei (sistema inquisitorio). Infatti, nei paesi anglosassoni (Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti) il sistema accusatorio che prevedeva la presenza della giuria e del controesame (cross-examination) da parte dei legali di parte erano considerate garanzie sufficienti tali da non richiedere incarichi peritali ad esperti in tema di competenza e credibilità del minore testimone. Nella maggior parte dei paesi europei, invece, l’adozione del sistema inquisitorio faceva sì che, non essendo presenti una giuria né le ‘garanzie’ relative al controesame, i giudici si avvalessero di consulenti (‘testimoni esperti’) per valutare la competenza a testimoniare del bambino. Ciò può spiegare come mai i primi studi, apparsi agli inizi del XX secolo, sull’attendibilità dei minori furono pubblicati in Europa anziché nei paesi di lingua inglese. E’ proprio del 1900 l’opera del Binet dal titolo ‘La suggestibilité[31]: in essa veniva studiata la suggestionabilità di minori di età tra i 7 ed i 14 anni. L’autore spiegava la suggestionabilità dei bambini sulla base di informazioni mancanti nella loro memoria tali da richiedere suggerimenti da parte dell’intervistatore, che finivano per colmare queste ‘lacune’ mnesiche. La suggestionabilità dipendeva sia dalle aspettative del bambino sia da fonti esterne di informazione ‘suggerita’. Il merito di Binet fu quello di calare questi studi sperimentali nell’operatività forense, raccomandando ai giudici di prestare attenzione alle modalità con cui venivano formulate le domande all’intervistato. Sembra, però, che questo autore dovette sopportare un certo ostruzionismo da parte delle autorità francesi che non gli consentirono di trascrivere e studiare le dichiarazioni testimoniali ‘dal vivo’, cioè assistendo ai processi.

Sempre in Europa, in Belgio ed in Germania, venivano a svilupparsi gli studi, rispettivamente, di Varendonck e di Stern. Varendonck (1911)[32] eseguì una serie di esperimenti con bambini (in uno con bambini di 7 anni[33] ed in un altro con una classe di bambini dai 9 ai 12 anni[34]), giungendo alle conclusioni che i bambini non sono affidabili quando gli si chiede qualcosa sui dettagli di una scena a cui hanno assistito, che sono facilmente soggetti alla loro fervida immaginazione, che se una persona esercita su di loro una qualche autorità agevolmente può trasmettere loro le proprie convinzioni, che basta una domanda mal posta, sia volontariamente che involontariamente, per ottenere risultati ‘stupefacenti’. Lo stesso Varendonck aveva sostenuto queste tesi anche sulla base della propria esperienza di ‘testimone esperto’ in un processo penale nel quale due bambine sarebbero state testimoni della scomparsa di una loro compagna di giochi, Cécile[35].

Tra gli anni ’10 e gli anni ’30, a Breslau Stern (1910[36]; 1939[37]) pubblicava le sue ricerche sulla psicologia della testimonianza. Egli sosteneva che, accanto a certe patologie psichiche, particolari età dell’individuo, come la pubertà, potevano ‘inficiare’ la testimonianza in quanto, in tali condizioni,  verrebbe meno la capacità di discriminare la fantasia dalla realtà fattuale. Ciononostante, al pari di Binet, Stern attribuiva un gran peso anche agli errori nella conduzione degli interrogatori. Un altro tedesco, Lipmann (1911)[38], propugnò la tesi di una differenza qualitativa (anziché quantitativa) tra il funzionamento della memoria negli adulti e nei bambini. I bambini presterebbero maggiore attenzione a dettagli differenti rispetto a quelli memorizzati dagli adulti, cosicché, se un bambino viene interrogato da un adulto autorevole su dettagli per lui poco rilevanti, egli finisce per accogliere i suggerimenti dell’adulto al fine di colmare la lacuna dei suoi ricordi. Siegmund Freud, nel caso del piccolo Hans (1909), così argomentava circa l’attendibilità delle dichiarazioni dei bambini ed i rapporti tra immaginazione e capacità di fornire resoconti aderenti alla realtà fattuale: <<Non condivido l’opinione, attualmente diffusa, che le affermazioni dei bambini siano sempre cervellotiche e inattendibili. Nella vita psichica non c’è posto per l’arbitrarietà. L’inattendibilità delle dichiarazioni dei bambini è dovuta al predominio dell’immaginazione, così come quella degli adulti dipende dal pregiudizio...>> (Freud, 1909)[39]. Tuttavia, qui Freud si riferiva alle applicazioni psicoterapeutiche delle affermazioni infantili, e non certo alle problematiche della psicologia forense.

Negli anni ’20 e ’30 le ricerche sull’attendibilità testimoniale dei minori si concentrarono soprattutto sull’interrelazione tra età, sesso, quoziente intellettivo e suggestionabilità. Gli esperimenti si basavano su domande poste per iscritto, e quasi invariabilmente dimostravano una correlazione significativa tra basso Q.I. e suggestionabilità (Otis, 1924[40]; Sherman, 1925[41]). Tuttavia tali risultati non sembravano tener conto dei bias metodologici, inevitabili se si pensa alla scarsa comprensibilità che le domande poste per iscritto potevano avere  in soggetti con ritardo mentale.

In Italia, nel 1925 esce la “Psicologia Giudiziaria” di Enrico Altavilla[42], a cui seguì la pubblicazione della “Psicologia della testimonianza” di Giorgio Tesoro[43]. Non di certo furono le prime opere pubblicate in Italia sulla psicologia della testimonianza[44], ma certamente tra quelle, insieme al contributo di poco posteriore del Musatti (1931), destinate a rimanere a lungo nel bagaglio di chiunque, psichiatra forense o giurisperito che fosse, si occupasse di queste questioni[45].

Complessivamente, fino agli anni ’70 del XX secolo, non è dato registrare ricerche degne di nota in tale campo. A partire da tali anni è soprattutto nei paesi anglosassoni (Gran Bretagna e Stati Uniti) che prendono nuovo impulso studi utili in ambito forense. Per Ceci e Bruck (1993[46]; 1995[47]) varie sarebbero le ragioni per il rinnovato interesse per i temi della suggestionabilità e della testimonianza infantile. Intanto, a partire da quegli anni, si sarebbe verificato in quei Paesi un sensibile incremento, oltre che delle denunce di abuso sessuale, delle richieste di consulenze di esperti che finiscono per essere considerate non solo sempre più ammissibili in tribunale, ma anche sempre più rilevanti ai fini della ‘validation’ della testimonianza dei minori. Nei decenni passati <<la riluttanza ad accettare le testimonianze non corroborate, lo scetticismo con cui la giuria accoglieva le dichiarazioni dei minori in seguito all’istruzione del giudice (‘cautionary instruction’), la non accettazione delle testimonianze indirette e l’obbligo della presenza dell’accusato durante la testimonianza del minore rendevano spesso traumatico il processo per il minore e ne compromettevano quindi l’attendibilità>> (Caffo et al., 2002, op.cit.). Anche l’aumentato interesse, registratosi alla fine degli anni ’60, per le problematiche dei diritti dei minori e della loro tutela ha avuto un ruolo propulsore sulle ricerche di psicologia della testimonianza.

Comunque, negli U.S.A. durante gli anni ’80 vari Stati hanno modificato la normativa procedurale in modo da rendere ammissibili anche le testimonianze non corroborate e quelle indirette.

Nel campo della psicologia della testimonianza è cambiato poi  sia lo scopo (non più confrontare la suggestionabilità dei bambini con quella degli adulti, ma stabilire quali condizioni incidano sull’attendibilità) che la metodologia delle ricerche (anziché porre i bambini di fronte a stimoli ‘neutrali’ si tende a privilegiare condizioni sperimentali sempre più vicine a quelle reali). Certamente, vanno aggiunti i rilevanti progressi che tra gli anni ’70 e ’80 ha registrato la psicologia dello sviluppo, i cui contributi alla psicologia della testimonianza infantile non possono che essere stati (ed essere tuttora) della più grande importanza.



 

NOTE:

[1]  Amerio L. & Catanesi R. (1999), “Violenza sessuale su minore. Contributo e limiti della perizia psicologico-psichiatrica”, in Abruzzese S. (a cura di), Minori e sessualità: vecchi tabù e nuovi diritti, Franco Angeli, Milano.

[2]  “Epistemologia” da ‘epistéme (scienza) e logos (discorso), <<branca della teoria generale della conoscenza che si occupa di problemi quali i fondamenti, la natura, i limiti e le condizioni di validità del sapere scientifico, tanto delle scienze cosiddette esatte (logica e matematica), quanto delle scienze cosiddette empiriche (fisica, chimica, biologia, ecc.: psicologia, sociologia, storiografia, ecc.). L’epistemologia è quindi lo studio dei criteri generali che permettono di distinguere i giudizi di tipo scientifico da quelli di opinione tipici delle costruzioni metafisiche e religiose, delle valutazioni etiche, ecc. In questo senso l’epistemologia è considerata parte essenziale della filosofia della scienza>> (da Enciclopedia di Filosofia, Garzanti, Milano, 1981).

[3]  Amerio L. & Catanesi R., op. cit.

[4]  Di Blasio P. (2000), Psicologia del bambino maltrattato, Il Mulino, Bologna.

[5]  Criminological aspects of the ill-tretment of children in the family”, IV Colloquio Criminologico di Strasburgo, Council of Europe, Strasbourg, 1981.

[6]  <<Gli atti commessi da parte di parenti o persone che se ne occupano, non accidentali, che danneggiano o minacciano di danneggiare la salute fisica, mentale ed emotiva del bambino>> cit. da Campanini A. (a cura di) (1993), “Maltrattamento all’infanzia. Problemi e strategie d’intervento”, Roma, La Nuova Italia Scientifica.

[7]  Ad essa hanno contribuito 43 paesi ed enti, è stata approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU  ed è stata ratificata nel 1991 dall’Italia.

[8]  Come giustamente affermano Finkelhor e Korbin (1988) in “Child abuse as an international issue”, in Child abuse and neglect, 12, pp. 18-28.

[9]  Gibbons J., Conroy S. & Bell C. (1995), Operating the Child protection System, London, HMSO Publication.

[10]  Di Blasio P. (2000), op. cit.

[11]  Di Blasio P. (2000), op. cit.

[12]  Di Blasio P. (2000), op. cit.

[13]  Di Blasio P. (2000), op. cit.. La stessa autrice cita una distinzione ad opera di O’Hagan (“Emotional and psychological abuse: problems of definition”, in Child abuse and neglect, 19,4, anno 1995, pp. 449-461) tra abuso emozionale e maltrattamento psicologico, implicando il primo <<da parte dell’adulto una reazione emozionale stabile, ripetitiva ed inappropriata alla esperienza del bambino e alle sue espressioni comportamentali, mentre il maltrattamento psicologico, nella sua forma di denigrazione verbale, critiche e svalutazioni, si configura come una risposta comportamentale stabile, ripetitiva ed inappropriata che danneggia o inibisce lo sviluppo di alcune facoltà cognitivo-emotive fondamentali quali l’intelligenza, l’attenzione, la percezione, la memoria>> (Di Blasio P., 2000, op. cit.).

[14]  Montecchi F. (1998), Gli abusi all’infanzia.Dalla ricerca all’intervento clinico, Roma, Carocci.

[15]  Petrucelli I. (2002), L’abuso sessuale infantile.L’intervento con i bambini, Carocci, Roma.

[16]  Per abuso sessuale intrafamiliare ‘manifesto’ si intendono quei casi in cui i comportamenti sessuali del familiare sono conclamati,  ‘mascherato’ quando essi si celano sotto forma di ricerca di cure e/o attenzioni eccessive o ‘morbose’ nei confronti del bambino. Si parla di ‘pseudoabuso’ per indicare quei casi in cui alle dichiarazioni accusatorie non risulta corrispondere alcun episodio reale, come si verifica nei casi di false rivelazioni da parte di pseudovittime oppure da parte di un adulto che ha per scopo quello di usare la denuncia come strumento da adoperare contro il presunto autore.

[17]  O meglio, l’abuso sessuale si può considerare come << una violenza che non richiede necessariamente l’applicazione della forza>> in quanto <<il coinvolgimento di un minore in attività sessuali non caratterizzate da violenza esplicita configura, infatti, un attacco confusivo e destabilizzante alla sua personalità e al suo percorso evolutivo>> (I. Petrucelli, 2002, op.cit.).

[18]  Secondo l’American Academy of Pediatrics (1999), <<si può parlare di abuso sessuale nei casi in cui un bambino  venga coinvolto in attività sessuali che non è in grado di comprendere, per le quali non è pronto e alle quali non può prestare consenso e/o che violano la legge o i tabù sociali. Le attività sessuali possono includere le forme di contatti oro-genitali, genitali o anali messe in atto sul bambino o dal bambino o le attività sessuali senza contatto come l’esibizionismo, il voyeurismo o l’utilizzazione del bambino nella produzione di materiale pornografico. L’abuso sessuale include una gamma di attività che varia dallo stupro a forme fisicamente meno intrusive di abuso sessuale. L’abuso sessuale può essere differenziato dal “gioco sessuale” valutando se sussiste un disequilibrio nel livello evolutivo dei partecipanti e nel riscontro di un comportamento di natura coercitiva...>>

[19]  Antolisei F. (1996), Manuale di diritto penale, Giuffré, Milano.

[20]  Venafro E. (1996), Legge 15 febbraio 1996, n.66.Norme contro la violenza sessuale, in Legislazione pen., sub artt. 5 e 6, 448-456.

[21]  articoli del codice penale Capo I del Titolo IX del libro secondo intitolato Dei delitti contro la libertà sessuale compresi tra il 519 e il 526: violenza carnale, atti di libidine violenti, ratto a fini di matrimonio e di libidine, seduzione con promessa di matrimonio. Così pure sono stati abrogati gli articoli 530 (Corruzione di minorenne) e alcune disposizioni comuni (artt. 539, 541, 542, 543).

[22]  Fornari U. (1997), Trattato di Psichiatria Forense, Torino, UTET.

[23]  Il legislatore ha volutamente fatto decadere tale distinzione sia perché anche degli ‘atti di libidine’, pur non associati a ‘congiunzione carnale’, possono comportare conseguenze sulla vittima non meno gravi, mentre con la vecchia normativa per essi ‘automaticamente’ la pena prevista era ridotta di un terzo rispetto a quella per la violenza carnale,  sia perché il giudice, dovendo distinguere le due fattispecie, inevitabilmente finiva per promuovere accertamenti minuziosi <<sulle modalità e caratteristiche dell’atto al fine di verificare se e in quale misura vi fosse stata penetrazione e, quindi, l’ipotesi più grave di violenza carnale; s’imponeva in questo modo alla vittima una rivisitazione dei fatti con conseguente comprensibile prolungamento delle sue sofferenze>> (Caffo et al., 2002, op. cit.).

[24]  Ai sensi dell’art. 609-sexies c.p. (Ignoranza dell’età della persona offesa).

[25]  Fornari U. (1997), op.cit.

[26]  Caffo et al. (2002), op. cit.

[27]  Ad esempio, Georges Vigarello (2001), “Storia della violenza sessuale. XVI-XX secolo”, Marsilio, Venezia.

[28]  Per una schematica rassegna storica sulla psicologia della testimonianza curata da Guglielmo Gulotta si veda la pagina internet http://www.psicologiagiuridica.com/Primo numero/storia_della_psicologia_giuridic.htm

[29]  In particolare citiamo l’articolo di Kempe et al., The battered-child syndrome, del 1962, che segnò una data storica per la pediatria  in quanto da esso si cominciò a parlare di diagnosi e trattamento dei bambini maltrattati.

[30]  Caffo E., Camerini G.B., Florit G. (2002), “Criteri di valutazione nell’abuso all’infanzia. Elementi clinici e forensi”, McGraw-Hill, Milano.

[31]  La consultazione è disponibile sul sito web della Bibliotheque Nationale de France: http://gallica.bnf.fr/scripts/ConsultationTout.exe?O=N077176

[32]  Varendonck J. (1911), Les témoignages d’enfants dans un procès retentissant, in Archives de Psychologie, 11, pagg. 129-171.

[33] Lo studioso belga chiese a 18 bambini di 7 anni, appartenenti ad una classe il cui  insegnante si chiamava  Sig. H., di rispondere per iscritto alla domanda:”Di che colore è la barba del Sig. H.?”. Sedici bambini risposero ‘nera’, due non scrissero nulla. Il Sig. H non portava alcuna barba.

 

[34]  Un certo Sig. B. fece visita alla classe e tenne il cappello in testa per tutta la durata della visita (il particolare, studiato ovviamente ‘a tavolino’ prima dell’esperimento, non poteva passare inosservato agli occhi dei ragazzi in quanto all’epoca un tale comportamento era indice di ‘maleducazione’). Dopo la visita del Sig.B, il maestro pose alla classe questa domanda: “In quale mano teneva il cappello il Sig. B?”. Dei 27 alunni solo 3 resistettero alla domanda ‘suggestiva’.

 

[35]  Sommariamente, <<una bambina di 9 anni, Cécile De Bruyker, venne trovata morta due giorni dopo la sua scomparsa. Le due bambine che avevano giocato con lei poco prima che scomparisse vennero più volte interrogate, ebbero modo di ascoltare l’opinione pubblica,  vennero sollecitate dagli insegnanti e dalla moglie del commissario di polizia e ricevettero doni in cambio. Le due bambine, che inizialmente avevano sostenuto di essere ignare della sorte di Cécile, dichiararono in seguito di aver visto un uomo alto con i baffi neri e vestito di nero offrire un centesimo a Cécile e allontanarsi con lei. Venne quindi incolpato il padre di una delle due testimoni e l’accusa utilizzò la testimonianza delle due bambine come maggiore prova a carico.>> (Caffo et al., 2002, op. cit.). Per maggiori particolari sull’opera di Varendonck, si veda anche Ceci S.J. & Bruck M. (1995), Jeopardy in the Courtroom. A scientific analysis of children’s testimony, Washington, APA.

 

[36]  Stern  W. (1910), Abstracts of lectures on the psychology of testimony and on the study of individuality, in American Journal of Psychology, 21, 270-282.

 

[37]  Stern W. (1939), The psychology of testimony, in Journal of abnormal and social Psychology, 34, 3-30.

[38]  Lipmann O. (1911), Pedagogical Psychology of Report, in Journal of Educational Psychology, 2, 253-260.

[39]  Freud S. (1909), Analisi della fobia di un bambino di cinque anni (caso clinico del piccolo Hans), in S. Freud (1989), Opere, vol. V, Bollati Boringhieri, Torino.

[40]  Otis M. (1924), A study of suggestibility in children, in Archives of Psychology, 11, 5-108.

[41]  Sherman I. (1925), The suggestibility of normal and mentally defective children, in Comparative Psychology Monograph,2.

[42]  Altavilla E. (1925), La psicologia giudiziaria, con prefazione di Enrico Ferri, Torino, UTET.

[43]  Tesoro G. (1929), La psicologia della testimonianza, con prefazione di Enrico Ferri, Torino, F.lli Bocca Editori.

[44]  Si veda ancora Gulotta al già citato ‘link’ (http://www.psicologiagiuridica.com/Primo numero/storia_della_psicologia_giuridic.htm) sulla storia della psicologia giuridica. In particolare, rispetto alle questioni che ci interessano, l’autore segnala, in ambito italiano, vengono citate le seguenti opere: C. Lombroso (1905), La psicologia dei testimoni nei processi penali, "Scuola Positiva", 15;  M. Longo (1906), Psicologia criminale.( Il volume XXVII dell’ "Archivio di Psichiatria" contiene un articolo dedicato alla Psicologia dei testimoni.);  V. A. Berardi (1908), Giudici e testimoni. Studio di psicologia giudiziaria;  U. Fiore (1909), Manuale di Psicologia giudiziaria;  G. Dattino (1909), La psicologia dei testimoni;  U. Fiore (1910), Il valore psicologico della testimonianza; 1912: Numero monografico sulla rivista "Psiche" dedicato alla psicologia applicata a temi giuridici; S. De Sanctis e S. Ottolenghi (1920), Trattato di psicopatologia forense;  L. Battistelli (1922), La bugia nei normali, nei criminali, nei folli;  L. Ferrante Capetti (1922), Reati e psicopatie sessuali;  G. Donà (1923), La testimonianza nel fatto comune e nella vicenda giudiziaria;  S. Sighele (1923), I delitti della folla studiati secondo la psicologia, il diritto e la giurisprudenza. In questa bibliografia, comunque, manca l’opera del Tesoro.

 

[45]  Per una più dettagliata rassegna delle opere di questi autori italiani si veda il contributo sulla rivista ‘on line’ dell’Associazione per lo Studio della Storia e dell’Epistemologia della Psichiatria (A.S.S.E.Psi.): “Note per una storia della psicologia della testimonianza infantile” di Giuseppe Leo (all’indirizzo: http://members.xoom.virgilio.it/assepsi/testimonianza.htm).

[46]  Ceci S.J. & Bruck M. (1993), The suggestibility of the child witness: A historical review and synthesis, in Psychol. Bullettin, 113, 3, 403-439.

[47]  Ceci S.J. & Bruck M. (1995), Jeopardy in the Courtroom. A scientific analysis of children’s testimony, Washington, APA.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

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