Metafore dell'<<artigianato>> nel
lessico di Benjamin e di Freud.
Quale saggezza ancestrale ci
insegnano, dunque, nel racconto omerico, le mani di Penelope mentre,
al di là dei secoli, noi ritroviamo nel pensiero di un filosofo della
nostra epoca il ruolo fondamentale <<della mano all'opera>> questa
volta nella stessa costituzione del racconto?
<<Allora, di giorno Penelope
tesseva la grande tela, e di notte disfaceva la sua opera, alla luce
delle fiaccole. Continuando così per tre anni, ella seppe nascondere
la sua astuzia e ingannare gli Achei>>3 (Omero).
Secondo Omero, Penelope tesse e
disfa con le sue mani un'opera in cui ella dipana l'attesa, la
perseveranza e l'astuzia per soprassedere alla minaccia e resistere
all'oppressione. Si constata che le mani di Penelope hanno la stessa
funzione dilatoria della voce in un'altra donna, la affabulatoria
Scheherazade4. Questa corrispondenza illustra infatti,
come si capirà, la concezione poco comune di Walter Benjamin che
paragona Il narratore ad un artigiano che lavora <<il suo
materiale - la vita umana>>: il filosofo collega in particolare, nel
suo saggio eponimo, l'anima con la mano. Per rappresentare questa
azione congiunta della voce e del gesto nel narratore, egli
caratterizza questo nella postura di un artigiano che sta per mettersi
a <<lavorare (...) la materia prima delle esperienze>>.
Al fine di rintracciare il valore
argomentativo dei significanti <<mano>> e <<opera>> nella citazione
che segue, notiamo preliminarmente le continuità lessicali, che
attraversano l'intero testo di Benjamin ma che spariscono nella
traduzione francese, dei due componenti del termine 'Handwerk',
<<artigianato>>, letteralmente <<opera della mano>>:
- 'Hand', <<mano>>, 'Handwerker',
<<artigiano>>, letteralmente: <<colui che opera con le sue mani>>, 'handwerklich'
<<artigianale>>,
-'Werk', <<opera>>, 'hineinwirken',
<<essere all'opera in ...>>5 ,
Benjamin scrive:
<<[Nella sua dimensione
sensibile, la narrazione non è in alcun modo l'opera (das Werk)
della sola voce. Nell'autentica narrazione è anche all'opera (wirkt
hinein) la mano (die Hand) che, coi suoi gesti rodati
dall'esperienza (erfahrenen ) del lavoro (Arbeit),
sostiene in mille modi ciò che si fa intendere]. L'antica
coordinazione dell'anima, dell'occhio e della mano (die Hand)
(...) è la coordinazione artigianale (handwerklich )(...). Si
può andare oltre e chiedersi se la relazione che lega il narratore al
suo materiale (Stoff) - la vita umana - non sia altro se non
una relazione artigianale (handwerklich) , se il compito del
narratore non consista se non precisamente nel lavorare (bearbeiten)
in maniera solida, utile ed unica la materia prima (Rohstoff)
delle esperienze (Erfahrungen) (...). I proverbi, si potrebbe
dire, sono le rovine (Trümmer)
che si trovano al posto di antiche storie>>
(Sottolineiamo che si potrebbe ugualmente, a sostegno del nostro
proposito, considerare le sorti delle reliquie operate dalle mani dei
sopravvissuti come delle rovine al posto di storie impossibili da
proferire)
<<(...) Il narratore, così considerato, dev'essere messo nel novero
dei maestri e dei saggi (...). Poiché gli è accordato di risalire il
corso (zurückgreifen)
di tutta una vita (...). Il dono che egli ha è quello di poter
narrare la propria vita, la sua dignità è quella di poter narrare
tutta la propria vita.>> (Benjamin W., 2000, 141)
Forse meraviglierà trovare qui una
certa analogia tra il pensiero del filosofo e ciò che potrebbe
emergere da una riflessione sulle risorse e sulle poste in gioco
dell'elaborazione psichica di una storia del soggetto per tutta la
durata di una cura analitica. Come è certo che la mano dello scrittore
dispone in maniera più o meno conscia i fili che si intrecciano nella
sua scrittura, così si sottolineerà che, se i termini die Hand/ das
Handwerk / handwerklich, das Werk/ wirkt hinein non sono specifici
del lessico freudiano, tuttavia la loro scansione in
leitmotive nell'elaborazione del discorso del filosofo, i termini
bearbeiten (lavorare, elaborare), zurückgreifen
(risalire nel tempo), Erfahrung (esperienza), Stoff
(materiale), Rohstoff (materia prima) ed infine la metafora
delle rovine (Trümmer)
ci avvicinano in modo insolito alla semantica freudiana degli studi
dei casi e dei racconti nei sogni6.
Bisognerebbe ugualmente rilevare
come in Freud, secondo il quale
<<Si ritiene che le donne abbiano
portato scarsi contributi alle scoperte ed alle invenzioni della
storia della cultura, ancorché forse (...) abbiano inventato una
tecnica, quella dell'intrecciare (Flechten) e del tessere (Weben)>>
(Freud S., 1932,142; 1995, 216)
le metafore del tessere e
dell'artigianato sono pertanto costitutive della sua teorizzazione del
sogno e dei processi inconsci. Non solo tale teorizzazione trova - <<
ancorché>>! - nel pensiero del ricercatore una figurazione con l'aiuto
di numerosi derivati di:
- weben, <<tessere>>: das Gewebe
/ verweben/ die Verwebung (la trama del sogno/
inserire nella trama/ l'inserzione nella trama del sogno)
- flechten, <<intrecciare>>:
das Geflecht / verflochten (l'intreccio /intrecciato)
- spinnen, <<filare>>: weiterspinnen
/ fortspinnen/ ausspinnen/ anspinnen/ umspinnen
(continuare la filatura /proseguirla/ svilupparla/ raccordarla/ filare
tutt'intorno)
- einwickeln,
<<avviluppare>>: entwickeln / die Entwicklung / verwickelt
(sviluppare / sviluppo/ ingarbugliato)
- knüpfen,
« annodare »:
anknüpfen/ die Anknüpfung/
verknüpfen/ die Verknüpfung ( collegare/
punto di collegamento/ connettere/ connessione)
-
lösen,
« snodare, sciogliere »:
die Lösung/ auflösen/
die Auflösung/ ablösen (
scioglimento, soluzione/ risolvere,
analizzare/ la risoluzione,
l’analisi/ distaccare,
dare il cambio)7
- die Hüllen, « gli
involucri » : verhüllen/ verhüllt/
unverhüllt/ die Umhüllung/ enthüllen/die
Enthüllung (velare/ in
maniera velata/ in maniera non velata/
l’involucro/ svelare/ lo
svelamento)
- der Schleier,
« il velo » :
verschleiern (ricoprire di un velo)
- die Decke,
« la copertura » : decken/
verdecken/ entdecken/ aufdecken
(coprire/ ricoprire/
scoprire/ mettere allo scoperto).
D'altronde non è perturbante constatare
che, nonostante questo <<poco di contributi>> delle donne <<alle
scoperte ed alle invenzioni della storia della cultura>>, è la
familiarità di Freud con questa tecnica, <<anche se inventata>>
da loro - in particolare il <<ricamo>> di un segno, la <<tessitura>>
di una tunica, la <<cura che ha tessuto
(gewebt)
al sogno la sua tunica>> - che
lo rende capace di metaforizzare le strategie occultatrici del sogno
in cui si affina tutta la sua arte di scopritore? Al di là di ciò che
il narratore non consapevole dice o non potrebbe dire del suo sogno,
il suo discorso non è che una tessitura che va a <<tradirlo>> al
cospetto dell'analista esperto delle manovre che inspirano l'opera:
<<Quando
il resoconto di un sogno mi sembra sin dall'inizio difficilmente
comprensibile, invito il narratore a ripetermelo. E' raro che ciò
avvenga allora con le stesse parole. Ma i punti in cui egli ha
modificato l'espressione mi sono stati segnalati come i punti deboli
di travestimento del sogno, essi mi servono come serve
ad Hagen il segno ricamato sulla tunica di
Sigfrido. E' da lì che può partire l'interpretazione del sogno. Il
narratore (...) protegge quindi rapidamente, sotto la spinta della
resistenza, i punti deboli del travestimento del sogno
sostituendo un'espressione che lo tradisce con un'altra più lontana
(...) Dagli sforzi per difendere la soluzione del sogno posso così
concludere accuratamente chi ha tessuto al sogno la sua
tunica>>8 .
Parimenti è il ricorso alla metafora
di una <<tessitura>> che mira all'inganno, infatti, a denudare il
desiderio inconscio che va a far comprendere l'impostura flagrante del
sogno:
<<l'Imperatore esce
vestito di questa tunica invisibile>> che <<due
impostori tessono ... L'impostore è il sogno,
l'Imperatore è lo stesso sognatore>>9 .
Queste elaborazioni alquanto erudite potranno farmi forse
perdonare del carattere autobiografico di ciò che sto per scrivere di
seguito. Avendo considerato gli elementi autobiografici dei miei testi
sulla trasmissione psichica nei discendenti dei sopravvissuti alle
violenze collettive come una messa in forma secondarizzata di un
<<materiale clinico>> suscettibile di servire agli altri, autorizzo me
stessa a consegnarli in questo mio scritto. Le pratiche di violenza
hanno proprio per effetto quello di saccheggiare la dimensione
personale, l'intimità degli esseri, mentre il fatto di renderle
pubbliche libera invece da ipoteca e protegge lo spazio soggettivante
della vita individuale. D'altro canto gli avvenimenti che inaugurano
la mia storia, ripresi qui nell'"après-coup" di un percorso analitico,
sono evidentemente emblematici per un numero crescente di esseri
inseguiti in qualche parte del mondo e di cui solo i discendenti più
privilegiati arrivano sino al divano dello psicoanalista. L'apporto
della realtà nella mia testimonianza avrà almeno il merito di
costituire un contrappunto pragmatico ai contributi dei ricercatori
che attorniano quello mio.
Indicherei
dunque, a titolo di esempi quanto più possibile concreti, quattro
modalità di espressione di gesti salvatori che presiedono alla storia
dei miei antenati. Li si può rilevare consegnati al "Diario di
deportazione" di mio padre che mette evidenza, di fronte all'imminenza
della morte, l'incidenza sulla vita umana di quattro <<gesti>> (nei
due sensi del termine) fondamentali. Essi hanno in comune il fatto di
esercitare, a dei livelli diversi, una funzione di separazione e di
affrancamento rispetto all'influenza della morte programmata:
- i gesti del
lavoro e del suo prodotto <<artigianale>> dal potere miracoloso,
- quelli di
un rituale di sepoltura, privilegio strappato di misura ai boia,
- quelli
dell'urgenza di eludere il destino di una morte dovuta alla fame o al
tifo
- ed infine
quelli dello scrittore che ha potuto affrontare i ricordi ancora
scottanti per testimoniare i tre gesti precedenti lasciando in eredità
un manoscritto-reliquia, bottiglia lasciata in eredità al mare
ed in attesa di inscrizione.
Il primo
ordine di riflessioni concernerà in qualche modo gli effetti a
posteriori delle mani che costruiscono degli oggetti induttori di
cultura, il secondo ed il quarto quelli delle mani che creano degli
involucri rituali o scritturali per separare i morti dai vivi, il
terzo quelli dei gesti connessi con la nutrizione o con la
trasmissione delle funzioni nutritive.
I. Le mani all'opera.
Trattandosi del primo tipo di
materiale, vorrei preliminarmente ricordare, per meglio coglierne
il carico di affetti, le innumerevoli allusioni all'artigianato,
al <<lavoro delle mani>>, di cui inconsciamente ho disseminato il
mio lavoro di scrittura in vece e al posto delle diverse figure
genitoriali,
mossa dal sentimento che queste mani al lavoro incarnavano, in
seno alle famiglie dei superstiti un agire ricorrente
privilegiato, rappresentante e traccia sintomatica di una
resistenza particolare.
Mi sono d'altronde chiesta, a
posteriori, se non ci fosse un legame tra l'intensità delle mie
rievocazioni popolate da genitori all'opera10, le metafore tessili
di una scrittura in 'patchwork' in cui il mio testo si stende su
quello dell'altro servendogli da pezzo di assemblaggio o di
costruzione11 e la virtù magica di un prodotto artigianale che
potrebbe far sognare i bambini dei racconti, un olio di rosa al
quale forse devo la mia nascita. Il racconto "Un flacone di
olio di rosa" ci terrà dunque col fiato sospeso raccontandoci
gli 'avatara' salvatori di questa essenza che, formando con un
Vangelo tutto quello <<che restava del tesoro>> paterno, poté per
un certo tempo tenere in vita coloro che la possedevano. Infine,
tratteggerò una riflessione su questa espressione <<manuale>>
della testimonianza in cui i valori di un popolo a tradizione
artigianale si trasmettono, dai rifugiati ai loro discendenti,
molto più attraverso ciò che plasmano le loro mani piuttosto che
attraverso ciò che dicono o tacciono le loro parole.
Ecco dunque per cominciare
qualche estratto in cui abbondano le metafore in questione,
faranno seguito quelle del racconto traumatico che riferisce gli
effetti di un olio di rosa, divenuto poi olio di <<sesamo>>,
prodotto protettore e produttore di vita:
Avevo ricordato come la
tradizione artigianale, che mi era familiare e la cui saggezza
raccomandava sempre di fare con il poco che si ha, mi aveva
suggerito di intrecciare, legare, affinché di questo annodare
stretto nulla cadesse nelle maglie del rinnegamento, i
discorsi di <<I miei tre divani>>12 : il discorso
del divano terrificante che aveva promulgato per i miei
l'editto della deportazione verso ciò che è spaventoso e verso la
morte, quello del divano meraviglioso della nonna o del
padre che mi raccontavano i loro Paesi scomparsi, ed infine quello
del divano dell'analista - artigiano non lo è?! -
che è stato per me l'approdo salvifico.
Scrivere era insomma rendere
omaggio a questo artigianato fecondo di assemblaggi rischiosi, era
aderire alle astuzie della penuria che dettarono a Pollicino,
analfabeta ma familiare agli espedienti della sopravvivenza, di
seminare coi sassolini laddove gli erano mancate le parole, era
tentare di ricomporre in polifonia i discorsi scissi e scuciti di
tre divani estranei, ossia ostili, tra di loro.
Se il 'sédir' - termine
arabo-turco che rinvia a un quadro di vita austera e povera -
della nonna era in realtà per me, attraverso le rievocazioni
mediterranee del suo Bosforo scomparso, un 'sofa' - termine
arabo che rimanda ad un ambiente ricco di cuscini e di tappeti -,
c'era stato in aggiunta un divano , poiché questo termine
persiano - che designa una sede e poi ciò che vi si raccoglie: dei
testi fondamentali, una collezione di poesie - è proprio la figura
metonimica di parole essenziali tanto quanto il loro luogo di
emergenza e ciò che vi si applica, letteralmente, nel quadro della
cura istituzionalizzata da Freud.
Culla ancestrale ricoperta dei
suoi 'kilim' consumati, residui dei calori lasciati in quei Paesi,
esso troneggiava nella mia memoria, austero e protettore, con le
sue lacrime e le sue preghiere assassine e salvifiche, prodigante
le dolcezze conviviali dei suoi piccoli caffé, il lavorare a
maglia, lavori d'ago e di rammendo alle prese con la vita, le
accoglienze familiari e nostalgiche delle sue mille ed una opera
di sopravvivenza. Il suo ricordo si condensava in me con il divano
stranamente familiare e così poco occidentale di Berggasse
che ha, infatti, fatto da contrappunto sul mio cammino.
E' la via al divano freudiano
che mi ha più tardi aperto questo 'divano' enigmatico dei racconti
familiari, sostituito in seguito dalla cattedra intimidatrice
della classe scolastica i cui racconti affascinanti consolavano la
figlia degli emigrati che io ero, ma rattristandola
amaramente poiché l'escludevano dal luogo di loro pertinenza.
L'enigma per me di queste fiabe inconciliabili tra di loro mi
aveva quindi portato a tessere la trama sanguinante della Storia
collettiva e dei brandelli sparsi della sofferenza psichica nello
sfondo del mio piacere di bambina verso i racconti di un Altro
inghiottito, piacere diventato più tardi attaccamento della
scolara alla letteratura.
Se nei miei ricordi di copertura
mi ritornano sempre, dato che mi hanno plasmata, <<i lavori ed i
giorni>>13 dei miei, non è per la minaccia, per l'angoscia dei
loro racconti di miseria, per le loro recriminazioni opprimenti,
per le loro rievocazioni dei luoghi sterminati in cui si radicava
la loro esistenza che la loro sofferenza irrimediabile è arrivata
a me. Essa si impadronisce paradossalmente di tutta la mia persona
in presenza dei <<loro lavori>> volti a colmare la loro
insicurezza primaria, al ricordo della loro pena ostinata, della
povertà piena di ingegnosità, della tenacia creatrice,
dell'incrollabile affermazione con la quale essi gestivano la loro
vita di esuli, le basi della mia vita. L'emozione meno tollerabile
che mi ha spinto a scrivere della loro indigenza è quella che mi
stringe il cuore davanti alle tracce lasciate dalle loro mani e
dalla loro fede artigianale, i merletti aristocratici fatti
all'uncinetto da mia nonna, i ricami di speranza
fatti in mazzolini da mia madre, l'attenzione industriosa che mio padre
indirizzava alle stoffe del laboratorio, al materiale protettore
della casa, all'esercizio col suo violino. Nel rigore e nel
rispetto essi celebravano tutti questi rituali che mantenevano e sacralizzavano i ritmi della vita. Non ritrovo nei loro gesti al
lavoro l'immaturità degli orfani, ma il loro discernimento maturo.
Padri morti chissà dove che nessun sudario avvolse, compianto di
nonne in esilio, tappeto di luce, merletti e gioielli come ricordi,
ricami della nostalgia, <<Apritemi solo le strade d'Armenia>>!14
Per seguire a questo punto il
movimento del narratore di Benjamin, andiamo a <<risalire il corso
di tutta una vita>> fino a questo olio di rosa del racconto
crudele che decise la mia storia. Ma per introdurlo ecco come per
il filosofo si manifesta nei racconti la resistenza alle
potenze malefiche15:
<<Il racconto insegnava un tempo all'umanità, ed insegna ancora
oggi ai bambini, che la cosa più opportuna, per chi vuole far
fronte alle potenze dell'universo mitico, è combinare l'astuzia e
la sfrontatezza. (il coraggio [Mut], nel racconto, s'inscive
dialetticamente tra i poli del coraggio sotterraneo [Untermut,
neologismo creato da Benjamin, (cioè l'astuzia) e della
sfrontatezza [Übermut])>>.
(Benjamin W., 2000, 15)16
Dei brandelli di questo racconto17
aderente ai fatti
d' adolescente, fatto in una lingua rudimentale, la prima sequenza
prenderà in considerazione prioritariamente i passaggi illustranti
le tematiche del lavoro, della perseveranza e dell'astuzia messi
al servizio della resistenza alla morte. Sebbene i temi del lavoro
e della fame siano in realtà intrecciati per tutto il corso delle
due sequenze, questa prima sequenza servirà di riferimento ai due
sviluppi rispettivamente delle mani industriose e delle mani che
seppelliscono i morti, mentre la seconda sequenza darà piuttosto
luogo allo sviluppo delle mani apportatrici di nutrimento o di
quelle che, nella loro miseria, delegano ad altri questa funzione
vitale. Malgrado la necessità di operare dei larghi tagli nel
racconto, esso non ha potuto essere ridotto ancora per
preservare un po' e trasmettere al lettore la concatenazione temporale specifica
che regna sotto il terrore.
Ho intitolato questo
<<racconto>> dei tempi moderni per mezzo di uno dei suoi
significanti che si ripete sette volte: Un flacone d'olio di
rosa. Ma si potrebbe ugualmente considerarlo come parte dei
titoli di testa di un film d'orrore, un affresco di tempi
fintamente arcaici, che è arrivato a noi per qualche istante da
una voce fuori campo e da contrade ignote: |
Un flacone
d'olio di rosa
<<Siamo partiti da Boursa su un carretto tirato da un bue e siamo
arrivati a Alayout (...) Ci abbiamo impiegato dieci giorni. Là
abbiamo montato la nostra tenda (...) Mio padre ha detto: "Non è
bene restare inattivi, bisogna fare un lavoro". Abbiamo portato
con noi la macchina per tritare la carne. Abbiamo voluto preparare
della carne "à
keufté “ ed abbiamo cominciato (...) Il lavoro ha permesso
di aumentare il nostro piccolo capitale. All'inizio, c'era un 'okha'
[1282 grammi] di carne, poi cinque, quindi un montone intero (...)
Ciò permetteva di far vivere sei-sette famiglie di genitori e di
altre persone. Siamo restati tre mesi in quella città. Tutti i
deportati erano già dei nuovi esiliati. Allora hanno voluto
deportarci (...)
Il treno non poteva andare
più lontano (...) Essi volevano che ci si stancasse. Si trattava
di un imbroglio. Mentre loro trasportavano i nostri bagagli sui
carretti, avevano rubato i 50
'okha di soudjouk' (...) Queste cose qua sono scomparse così (...)
Ma la deportazione è ricominciata; In quel posto non c'era nulla,
mio padre ha capito che essi ci stavano per svaligiare. Là abbiamo
venduto la macchina da cucire Singer a un gendarme per la somma di
5 libbre. Abbiamo noleggiato tre cammelli fino ad un posto
chiamato Islahié, ogni cammello per una libbra (...)
Pioveva sempre molto (...)
Non c'erano né case né nient'altro, tranne che tende ... Era il
Kaymakan [sottoprefetto] che mandava i ladroni e faceva
saccheggiare la gente (...), persino la notte ci hanno svaligiato,
noi che eravamo 36 persone. Sono venuti, hanno strappato il
tessuto della tenda con dei colpi di spada e l'hanno ridotta in
pezzi. Non è rimasto nulla. Si sono portati via tutto. Mio padre
ed io ci siamo rifugiati accanto nell'altra tenda. Se avessero
visto la nostra fuga, ci avrebbero ammazzati. Il nostro Haig si è
potuto nascondere tra le gambe una bottiglia di olio di rosa18
. Infuriati, due ladri avevano acceso il fuoco per meglio
distinguere tutt'intorno. Alla fine, tranne la bottiglietta di
olio di rosa, nulla, nulla era rimasto. C'era anche un Vangelo. Lo
hanno guardato, riguardato, poi lo hanno lasciato perché era
scritto in armeno. Era un libro che restava nel nostro tesoro.
Quando siamo arrivati a
Antarin, eravamo tormentati da un lato dalla fame, e dall'altra
dalla sporcizia. I cani dilaniavano i morti che non venivano
sepolti. Tutto intorno era cattivo (...) A Bab (...) il 'Mektar'
[sindaco] ci ha consigliato di rimanere in dietro (...) e ci ha
allontanati dal convoglio (...) Allora non avevamo più denaro per
comprare del pane. Si è restati là, ad aspettare che mia madre si
ristabilisse (...) io ho portato a pascolare i montoni del capo.
Mio padre lavorava nel suo giardino. Mia madre cuciva (...) Ma
vicino a noi non c'era nessuno. Abbiamo cominciato ad avere paura
(...) Non c'erano più armeni. Non avevamo altro che la
bottiglietta di olio di rosa, ed un libro. Ma a cosa ciò poteva
servirci? La gente là non sapeva neppure quello che c'era stato.
Per la strada, essi hanno fermato i carretti e ci hanno chiesto 5
pezzi d'oro per carretto (...) mio padre ha detto: "Non ho
denaro". L'hanno fatto scendere, hanno rovistato tutto per vedere
se c'erano degli oggetti da portare via. Ma non hanno trovato
nulla. Non ci restava altro che la bottiglietta d'olio di rosa.
Non la voleva nessuno. Mio padre non aveva più forze per
camminare. Mia madre lo sorreggeva (...) Io ero partito davanti,
avevo montato la tenda. Quando è arrivato mio padre, l'abbia fatto
coricare ma il suo star male aumentava. Non avevamo più del denaro
(...) Andavo a cercare la legna lontano e la vendemmo per due
piastre. In breve, si sopravviveva. Di tanto in tanto si comprava
della carne per mio padre, la si faceva bollire perché bevesse del
brodo. Così ha cominciato a star meglio. Ma a che pro? Ci hanno
nuovamente deportati.
A Haman abbiamo constatato
che la gente mangiava cavallette. Gente che stava morendo, morti
dappertutto (...) Mio padre era molto malato (...) presto non
c'erano più cavallette, perché tutti ne avevano mangiato. E la
deportazione non finiva... Mia madre ha detto: "Il nostro malato è
gravemente sofferente e partirà la prossima volta "(...)" Osate
parlare?" ha detto un gendarme e ha colpito alla testa di mio
padre. Mia madre supplicava (...) di non essere colpita e che
fosse lasciato stare mio padre. Detto ciò, il gendarme ha colpito
mia madre (...) Cosa diventa un uomo gravemente ammalato quando lo
si picchia? Sei giorni dopo, il giorno della morte di mio padre,
ci hanno di nuovo deportati. Colpivano nostra madre. Noi due
fratelli piangevamo. Non potevamo far nulla, dato che essi erano
come una muta di cani. Dicevano a mia madre: <<Il tuo malato è
morto>>. E mia madre: <<Partiremo quando avremo sepolto il morto".
Essi rispondevano: "Faremo a voi quello che abbiamo fatto agli
altri". Gli altri (...) abbandonavano i morti e la notte gli
sciacalli li divoravano.
Avevo visto che ciò non
andava bene e che bisognava fare qualcosa. Ho preso un flacone di
75 'dirhem' [1 dirhem= 3 gr.], l'ho riempito di olio di rosa e
sono andato a vedere il capo dei gendarmi della deportazione
(...). Gli ho regalato il flacone che egli ha accettato. Siamo
restati ancora un giorno. Abbiamo scavato una fossa ed abbiamo
pagato 5 piastre al prete. Così abbiamo sepolto mio padre (...)
Quindici giorni dopo la deportazione è ricominciata (...) Essi
bruciavano tutti (...) Mi sono nascosto là, poiché ho saputo che
più oltre essi uccidevano la gente (..), si aveva tanta fame e
sete. Ho visto che eravamo destinati a morire di fame. Ho riempito
un flacone d'olio di rosa di 100 'dirhem' e l'ho portato
all'impiegato del telegrafo del luogo (...) Mi ha detto: "Figlio
mio, cosa vuoi che ti faccia? >> Ma mi ha proposto due libbre
turche, dicendomi di andare a comunicare questa proposta a mia
madre (...) Mia madre ha riflettuto, ha pensato che ciò ci
permetteva di vivere per due mesi. Eravamo costretti, avevamo
tanta fame. Due mesi dopo, avevamo speso queste due libbre.
Eravamo costretti a vendere ancora un po' (...) per non morire di
fame. A quel
punto non ci restava più olio di rosa. Cosa fare? Non smettevamo
di pensarci. La deportazione non cessava e ad Haman non restava
nessuno. A Racca, ci hanno mostrato una locanda. Ci siamo andati e
cosa abbiamo visto? La gente moriva dappertutto di fame. Non si
poteva più restare all'interno della locanda, dappertutto si
sentiva odore di putrefazione (...) Non avevamo denaro, è per
questo che abbiamo cominciato a mangiare erba. Abbiamo tentato di
continuare così per un mese, ma abbiamo visto che si andava verso
la morte. Facevamo appena due passi e cadevamo a terra. Mia madre
ha riflettuto : "Per morire io morirò, quanto a voi non dovrà
accadere!" E' così che ella ci ha dato, noi due, a degli arabi.>>
Riprenderei a questo punto,
argomentandola, l'opinione precedentemente esposta, per cui la
testimonianza della resistenza come valore si trasmette, dai
rifugiati a noi, molto più attraverso ciò che fanno le loro mani
piuttosto che attraverso ciò che dicono o tacciono le loro parole.
Il linguaggio resta in effetti per loro spesso inchiodato ad un
ritiro quasi autistico o all'iperrealtà della ripetizione ostinata
e del pensiero operativo, poiché la violenza di una realtà senza
senso ha rotto in loro qualsiasi continuità transizionale tra la
realtà dei fatti e la realtà psichica.
<<Una delle più importanti
figure del traumatismo>> scrive Claude Janin (1996, 24) <<si
costituisce attraverso la 'detransizionalizzaione della realtà'
(...) lo spazio psichico e quello esterno comunicano in modo tale
che l'apparato psichico non può più ricoprire il suo ruolo di
contenente del mondo interno>>.
E' per questo che, in coloro che
sopravvivono alla perdita dei loro oggetti d'amore e degli spazi
transizionali della loro esistenza sociale, alla perdita dei
legami che li contenevano, la pulsione di vita non può che girare
attorno alla pericolosa, o meglio impossibile, relazione all'altro
e spostarsi chiedendo in prestito un mediatore, quello di una
relazione creatrice, non agli esseri ma ai materiali protettori
della vita. La saggezza artigianale ha evidentemente insegnato
loro che, nella necessità, il mantenimento della vita dipende da
ciò che innanzitutto deve assicurare il suo annidamento.
Tutto avviene allora come se, per riprendere la distinzione di
Winnicott tra il seno che fa ed il seno che è,
l'annientamento in loro dello spazio dell'alterità, che
rende impossibile l'essere per la tenerezza, e l'essere
per la parola - essendo queste due vie/voci divenute
impraticabili - si trovassero riportati al fare di un
mantenimento in vita, ma un fare che costituirebbe una
variante salutare del seno che fa.
Foto: D.W. Winnicott
Essendo sopravvissuto alle
fratture psichiche ed ai risvegli derealizzanti dell'angoscia,
questo seno non può in effetti che divenire un seno che fa
degli oggetti per vivere, laddove regna il ricordo della morte,
dunque un seno che, in mancanza di offrire in esso accoglienza,
crea, in una qualche forma di delega, degli oggetti accoglienti.
Nelle conclusioni di Winnicott:
<<O la madre ha un seno che
è, cosa che permette anche al bebè di essere, oppure
la madre è incapace di apportare questo contributo nel qual caso
il bebé deve svilupparsi senza la capacità di essere
(...)richiedendo l'identità iniziale (...) un seno che è e
non un seno che fa >> (Winnicott D. W., 1975, 114)19
,
si potrebbe forse aggiungere un
terzo termine in alternativa: <<o la madre, incapace di apportare
questo contributo, organizza, nella sua resistenza al crollo, dei
sostituti del seno, insomma dei <<nidi>> di paglia e di
transizione, affinché l'uccellino, come nel racconto precedente,
possa raccogliere il nutrimento di un'altra madre. E' per questo,
d'altronde, che, nonostante l'usurpazione20 che
egli patisce crudelmente, il bambino resterà sempre in debito
verso questo seno che, malinconico o operativo, <<faceva>>
senza mai poter <<essere>>.
Per ciò che concerne
l'impossibilità dell'essere per la tenerezza e per la parola,
tranne che il poter vivere lo scarto di un'alterità, conviene
ricordare che quando degli esseri sono sopravvissuti per un pelo a
scene terrificanti di un annientamento di massa, l'impronta del
terrore li mantiene spesso nella necessità, a cui furono ridotti,
di rinsaldarsi di fronte alla persecuzione, non potendo essere
l'altro per essi che un persecutore.
Il far fronte psichicamente e
culturalmente all'alterità richiede un fondamento narcisistico che
in loro le tracce incistate del terrore, dell'insicurezza profonda
e dell'essere ghermiti durante la persecuzione di tutti hanno
minato. I processi di differenziazione, sessuale così come
generazionale , si trovano intralciati e ciò che predomina
all'interno delle relazioni familiari, assoggettate ai bisogni più
elementari, sono troppo spesso i rapporti di influenza sia nella
modalità fusionale sia, al contrario, in quella dell'esclusione e
del rifiuto.
A tal proposito ci si può
stupire di vedere per quale scappatoia di salvaguardia - come se
il desiderio di conoscere e di amare si fosse spostato dagli
uomini alle cose - il rispetto dei limiti tra sé e l'altro ossia
il consenso alla castrazione nell'accettazione dell'alterità,
totalmente in scacco nella relazione rispetto agli esseri, si
manifesti invece sotto forma di operatore onnipresente ed
ingegnoso nella relazione creatrice nei confronti dei materiali
protettori della vita. Dei genitori che non si sono
investiti in modo narcisistico, spesso loro stessi orfani
disorientati e la cui genitorialità non può che essere
deficitaria, investono in effetti di rado nei loro bambini degli
oggetti per se stessi ed autorizzano poco l'espressione di
conflittualità edipiche strutturanti, autonomizzanti. Essi
investono essenzialmente in essi i loro testimoni, le prove della
loro miracolosa, angosciante sopravvivenza.
Come la madre potrebbe ancora
contenere e <<sognare>> quando i due genitori strappati alla loro
matrice territoriale e psichica, sono attaccati a questo solo
compito: fabbricare giustamente tra se stessi e l'orrore del
passato, che è indicibile ma che li occupa, qualche bene
protettore, qualche bambino che riempie o ripara lo sradicamento
di cui si suppone egli sia il frutto21 ?
L'intersoggettività tra madre e bambino è in un vicolo cieco. Come
parlare al bambino in quanto altro quando, per la madre, il
fantasma del <<ritorno>> non parla più? Non poter
ritornare più col pensiero a sé, perché si verrebbe sterminati,
induce un tabù del contatto con se stessi e priva in qualche modo
delle basi territoriali riguardanti la tenerezza nei confronti dei
neonati venuti al mondo da questa parte.
Si arriva al punto che i valori,
le dolcezze dell'esistenza, divenuti per lei irrimediabilmente
inaccessibili, non arrivano alla rappresentazione se non negati
aggressivamente e che, in questa impresa disperata di
sopravvivenza, essi non si trasmettono al bambino - che non
saprebbe pertanto ingannarsi - se non, per così dire , <<di
contrabbando>> (Hassoun J., 1994), sotto forma di condotte di
resistenza, sotto le forme di oggetti protettori, nella
clandestinità di una simbolizzazione in sofferenza. Se il bambino
arriva a sopravvivere a questo isolamento, questo esilio che
costituisce l'impossibile rappresentazione dei suoi bisogni
psichici, è malgrado tutto in questa percezione di un amore
mutilato delle sue possibilità di affetti e di espressioni, ma
industrioso nell'organizzazione di un terreno di vita, che egli
trova le tracce, diventate sacre, di un'etica di resistenza
ciecamente trasmessa.
Le cure portate agli oggetti che
condizionano la sopravvivenza interpongono così una sorta di
interfaccia che rimette in tensione la realtà materiale con quella
psichica, esse diventano i sostituti di un 'holding' impossibile.
Se esse mettono, nonostante tutto, solidamente radici in
un'impronta corporea in cui s'inscriveva una verità violenta, il
bambino intuisce certamente che, all'inizio della sua genealogia,
c'è un luogo vietato alla rappresentazione perché assassino o
estinto, ma egli trova, all'arrivo, delle tecniche di salvataggio
e di costruzione, dei modelli di identificazione di comportamento
che gli servono di puntellatura per affrontare il suo destino.
Ricordandoci l'insegnamento del racconto secondo Benjamin:
<<combinare l'astuzia con la sfrontatezza>>, pensiamo a questo
racconto di Grimm in cui l'ingiunzione di un padre a suo figlio di
apprendere a <<fare>> qualche cosa per guadagnarsi il pane, dà
luogo al racconto iniziatico della <<Storia di uno che se ne andò
per apprendere ad avere paura>>!
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(fine della prima parte - la
seconda parte dell'articolo verrà pubblicata in versione italiana
in un prossimo numero di Frenis Zero) |
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Note
dell'autrice:
1) Questo film di Atom Egoyan, uscito nel settembre
2002, tenta di rievocare gli ostacoli della trasmissione del genocidio
armeno del 1915 nelle giovani generazioni di Armeni dispersi in tutto
il mondo. Queste sono impersonate dal giovane Raffi la cui madre,
storica dell'arte, lavora sull'opera e la vita del pittore Arshile
Gorky. Nel corso del film ella commenta il celebre quadro in cui il
pittore ha riprodotto la scena della fotografia che lo rappresenta
ragazzino in piedi vicino a sua madre le cui mani sono <<incompiute>>.
Cfr. Masson (2002) e Rollet (2004).
2) Alla domanda: <<Ha sempre pensato di terminare il
film con il primo piano della madre che cuce il bottone?>> Atom Egoyan
risponde in un'intervista con Michel Ciment: <<Mi piace questa
immagine perché rimanda a un'idea che si ritrova nel mondo della
cultura ebraica: per guarire il mondo, cominciate con un gesto
semplice. Il bottone mancante conduce la mano a questo gesto
importante che si vede nell'inquadratura>> (Ciment, 2002, p. 12)
Avendo scritto il mio testo ben prima di aver avuto conoscenza di
queste parole del cineasta, non ho potuto evitare di constatare come
le stesse impronte della memoria possano talora abitare negli eredi di
una stessa Storia (Atom Egoyan è il nipote di una nonna che
sopravvisse orfana al genocidio armeno).
3) Omero, Odissea, Canto II: 57/137, si veda
anche la nota 7.
4) Eroina della raccolta di racconti arabi, Le Mille
e una Notte, la quale, affascinando con i suoi racconti il re
persiano Shahriyar, finisce per distorglierlo dal suo progetto
omicida.
5) Lo studio lessicale dettagliato delle due citazioni
di Benjamin si trova in appendice alla fine di questo articolo. Per le
finalità dell'argomentazione ho tradotto il testo di Benjamin in
maniera più letterale, mettendo per mia iniziativa le radici o le
parole da sottolineare, nel contesto dell'articolo, in grassetto
corsivo.
6) Si veda in Freud bearbeiten, verarbeiten
corrispondono a <<elaborare>>, durcharbeiten a <<perlaborare>>, umarbeiten a <<rimaneggiare>>, 'Stoff ' in
'Märchenstoffe' a
'materiali dei racconti', 'zurückgreifen'
a <<risalire>> (ad es. <<risalire al tempo dell'infanzia>>). Ho
tentato (cfr. Altounian J. 2003) un approccio della lingua di Freud
come quello caratterizzato dalle questioni che pone l'impossibile
fedeltà di una traduzione dei significanti che contraddistinguono
l'originale.
7) Bisogna qui fare riferimento alle elaborazioni di
Jean Laplanche che mostrano come, attraverso la sua radice greca,
<<analizzare>> significa <<disfare, dis-tessere>>:
<<il verbo greco (...) è esattamente il tedesco
lösen,
<<slegare>> <<risolvere>> (...). A
partire da esso, la lingua tedesca sviluppa una serie di derivati:
lösen, auflösen, ablösen,
erlösen. (...)
Analuein in ogni caso è esattamente
auf/lösen,
dissolvere, ana/lizzare: si tratta di una risoluzione che si pera
<<risalendo indietro>> (auf
– ana), cioè avvicinandosi all'elementare o
all'originario. La psico-analisi avrebbe potuto essere chiamata da
Freud, se non avesse voluto scegliere un termine greco,
Seelen-Auflösung :
scioglimento, dissoluzione o risoluzione delle anime>>.
Devo d'altronde riferire che, nel consultare questo
passaggio che avevo notato e sottolineato da molto tempo
(l'esposizione di Jean Laplanche era stata pronunciata nel giugno
1990), ho constatato con un sentimento di <<inquietante familiarità>>
che l'autore sosteneva il suo commento linguistico sulla base del
testo omerico precedentemente citato - cosa che avevo completamente
<<dimenticato>> quando vi ho fatto riferimento io stessa; bell'esempio
di <<après-coup>> (concetto studiato d'altronde nell'articolo in
questione)!
Il mio interesse di germanista coincise tutto a un
tratto con lo scopo del presente lavoro sulla <<testimonianza delle
mani>> quando, durante questa rilettura, <<scoprii>> la traduzione che
Jean Laplanche dava di questo stesso passaggio: <<Avete riconosciuto
Penelope. Conoscete la sua astuzia, quella della famosa tela.
Lasciamoci, a nostra volta, condurre dall'astuzia di qualche parola:
<<[citazione dei versi greci Od., II, 104-105, 109] Di giorno
tesseva un grande tessuto/ E di notte, l'analizzava (...)/ e la
trovammo in procinto di analizzare il suo risplendente tessuto>>.
D'altronde, questo richiamo etimologico che si inserisce in uno studio
dei rapporti tra temporalità e elaborazione del lutto, l'ho scoperto
anche in questa annotazione:
<<Non ci si può meravigliare di vedere Freud, che non
fa in alcun modo allusione a Penelope, avvicinarsi alla stessa
immagine per l'elaborazione del lutto (...) Ancora di più colpisce
l'altra intuizione di Freud, portandolo a riferire alla donna
l'invenzione dell'arte della tessitura (....). A partire da ciò si
aprono numerose piste: (...) - Un domandarsi sul rapporto privilegiato
della donna allo stesso tempo con il tessere-disfare, con il lutto e
con la melancolia>> (Laplanche J., 1990, 376-378).
8) OCF/P,
IV, pp. 567/568. Die Traumdeutung,
G.W., II/III pp. 519/520: « Wenn mir der Bericht eines Traums
zuerst schwer verständlich erscheint, so bitte ich den Erzähler, ihn
zu wiederholen. Das geschieht dann selten mit den nämlichen Worten.
Die Stellen aber, an denen er den Ausdruck verändert hat, die sind mir
als die schwachen Stellen kenntlich gemacht worden, die dienen mir wie
Hagen das gestickte Zeichen an Siegfieds Gewand. Dort
kann die Traumdeutung ansetzen. Der Erzähler...schützt also rasch,
unter dem Drange des Widerstands, die schwachen Stellen der Traumverkleidung,
indem er einen verräterischen Ausdruck durch einen ferner
abliegenden ersetzt... Aus der Mühe, mit der die Traumlösung
verteidigt wird, darf ich auch die Sorgfalt schließen, die dem Traum
sein Gewand gewebt hat. »
9) OCF/P,
IV, p. 282. - Die Traumdeutung, G.W.,
II/III p. 249 : « Der Kaiser geht mit diesem unsichtbaren Gewand
bekleidet aus », « zwei Betrüger, die für [ihn]... weben...
Der Betrüger ist der Traum, der Kaiser der Träumer selbst. »
10) Avendo fornito una testimonianza in una raccolta di
inchieste realizzata da Nadine Vasseur (2000), opera che ho letto con
emozione e piacere per i ricordi di infanzia a cui mi rinviava, citerò
questo breve estratto di testimonianza di René Frydman (p. 386) poiché
egli restituisce, nel suo stesso enunciato (le sottolineature sono
mie), l'argomentare della presente esposizione: <<Tra i miei genitori
e me c'è stato un processo di ascesa sociale, ma è sugli stessi
meccanismi che si basano le nostre vite: sul lavoro, e su
questa convinzione che le cose non sono regalate. Bisogna
conquistarsele con la forza del pugno. Quando ci si dà da
fare (in francese <<mettre la main à la pate) se ne può uscire...
- E la specializzazione in ostetricia, le questioni
della procreazione, anche questo è legato a tutto ciò?
- Al Sentiero? No, non lo penso. Ma alla storia
ebraica, certamente. Poiché ogni vita guadagnata è un po' una
vittoria contro la morte...>>
11) Si veda ad es. come il titolo stesso della raccolta
:<< Apritemi solo le strade d'Armenia>>, basato su Corneille (Nicomède,
1713), offra per così dire una pietra tombale decente per ricoprire il
reale del sottotitolo: <<Un genocidio nei deserti dell'inconscio>>.
Ricorrere per questo titolo alla poesia di un grande classico della
letteratura francese rileva una strategia in partenza inconscia. La
mia preoccupazione era stata semplicemente di rivestire un disastro
interno col piacere salvifico verso la letteratura che mi aveva fatto
conoscere la scuola, oppure di mettere la tragedia di un padre sotto
la protezione di un Padre adottivo civilizzatore e garante.
12) Titolo della premessa di Altounian J. (1990).
13) Titolo di un poema didattico di Esiodo (VIII-VII
secolo).
14) Questi quattro paragrafi riprendono con poche
modifiche brani di Altounian J. (1990, 1, 5-7) e Altounian J. (2000,
10-11).
15) Su questo tema si veda anche: René Kaes (1996).
16) L'autore qui gioca con le parole 'Mut' (coraggio),
'Untermut' (neologismo, letteralmente: coraggio sotterraneo, astuzia),
'Übermut'
(sfrontatezza, letteralmente coraggio in eccesso).
17) Questo 'Diario' <<Tutto ciò che ho sopportato dal
1915 al 1919>> di Vahram Altounian è stato pubblicato nella sua
interezza con il titolo di <<Terrorismo di un genocidio>> nel febbraio
1982 in 'Temps Modernes' e ripreso in Altounian J. (1990, da pag. 85 a
115) e commentato da me (l'autrice, N.d.T) - 23 anni dopo la
sua prima pubblicazione! - in Altounian J. (2005). Il manoscritto è stato tradotto, annotato e corredato di
postfazione da Krikor Beledian, scrittore di lingua armena, 'maitre de
Conférences' all' INALCO, del quale bisogna leggere le note e la
postfazione che sono illuminanti per situare queste pagine
intollerabili nel loro contesto storico, geografico ed informarsi
sulle particolarità della sua lingua rispetto alle altre testimonianze
<<grezze>> scritte alla stessa epoca.
18) Il padre dell'autore possedeva dei campi coltivati
a rose da cui si estraeva quest'olio utilizzato come prodotto
dermatologico o cosmetico. Haig è suo figlio cadetto, fratello del
narratore.
19) Ecco l'insieme del passaggio ripreso sopra di <<La
creatività e le sue origini>>: <<Nessun sentimento di sé si può
costruire senza appoggiarsi sul sentimento d'ESSERE>> scrive Winnicott
<<(...) Ciò che è in gioco qui è una continuità reale di generazioni,
ossia ciò che nel neonato (...) è trasmesso da una generazione
all'altra grazie alla mediazione dell'elemento femminile nell'uomo e
nella donna, (...). L'elemento femminile (...) è (....) Non è la
frustrazione che è [qui] in causa, ma la mutilazione (...) O la madre
ha un seno che è, cos che permette anche al bebé di essere,
oppure la madre è incapace di apportare questo contributo, nel qual
caso il bebé deve svilupparsi senza la capacità di essere (...)
richiedendo l'identità iniziale un seno che è e non un seno che
fa >>.
20) nel senso definito da Winnicott D.W. ad esempio in
(1969, 192).
21) Questi aspetti sono stati studiati in modo più
ampio in Altounian J. (1990 e 2000).
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