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Scienze della Mente, Filosofia, Psicoterapia e Creatività

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"Mnemosyne": psicoanalisti e memoria dei traumi collettivi

 

Foto: un'immagine del film "Ararat" di Atom Egoyan  "Di cosa sono testimonianza le mani dei sopravvissuti? Dell'annientamento dei viventi, dell'affermazione della vita"

 

di Janine Altounian

 

 

  Traduzione dal francese di Giuseppe Leo.

  pour la version française cliquer ici (site de "Thalassa. Portolano of Psychoanalysis")

 

Résumé

Comparant Le narrateur à un artisan qui travaille son matériau, la vie humaine, Walter Benjamin met en lien, dans son essai éponyme, l’âme et la main: « L’ancienne coordination de l’âme, de l’œil et de la main (Hand)... est la coordination artisanale (handwerklich)... On peut... se demander si la relation qui lie le narrateur à son matériau - la vie humaine - n’est pas même une relation artisanale (handwerklich), si la tâche du narrateur ne consiste pas précisémént à travailler de manière solide... la matière première des expériences... Les proverbes, pourrait-on dire, sont les ruines  qui se trouvent à l’emplacement d’anciennes histoires... » [1]. On pourrait également considérer les sortes de reliques œuvrées par les mains des survivants comme des ruines à l’emplacement d’histoires impossibles à proférer.

                                                               Je partirai de deux séquences du récent film Ararat d’Atom Egoyan qui mettent en lumière, s’agissant des souvenirs et de la créativité, le rôle capital des mains maternelles dans la transmission d’un héritage englouti: Prenant comme exemple un élément autobiographique - notamment le rôle salvateur dans l’histoire de mon ascendance d’un produit « artisanal » - j’essayerai de dégager en quoi ce sont les gestes silencieux et les mains « à l’ouvrage » des survivants, qui  témoignent à leur enfant de ce qu’ils ne pourront jamais lui dire. Aussi la fidélité du descendant à cette mémoire gestuelle, constituée, telle une pellicule cinématographique sans parole, d’un « négatif » encore non « développé », soutient-elle les traces d’empreintes industrieuses en attente de réinsertion dans le champ du discours et dans l’histoire du monde.

Elle est le tenant lieu d’un héritage apparemment éteint et néanmoins agissant puisqu’il contraignit jadis les rescapés à œuvrer en « artisans de la vie », c’est à dire à réinvestir, malgré tout, sinon les jeux de l’enfant esseulé, du moins les ruses et expédients qui surent l’entourer des murs d’une précarité protectrice.


[1] W. Benjamin, Le Conteur, in Œuvres III, trad. M. de Gandillac, P. Rusch, R. Rochlitz, Gallimard folio, 2000, p. 141.

 

 

 

Janine Altounian è psicoanalista, saggista e germanista,  co-traduttrice di Freud dagli anni '70 per le 'Opere Complete' di Freud nell'edizione "Presses Universitaires de France". Tra i suoi libri ricordiamo: « Ouvrez-moi seulement les chemins d’Arménie »/ Un génocide aux déserts de l’inconscient (Préface de René Kaës), Les Belles Lettres/ Confluents psychanalytiques, 1990, 2003; La Survivance / Traduire le trauma collectif (Préface de Pierre Fédida, Postface de René Kaës), Dunod / Inconscient et Culture, 2000, 2003; L’écriture de Freud/ Traversée traumatique et traduction, PUF/ bibliothèque de psychanalyse, 2003; L’intraduisible / Deuil, mémoire, transmission, Dunod/ Psychismes, 2005.
 

       A mia madre

 

    Introduzione.

             Quando nello scrivere "Le livre de ma mère" Albert Cohen tenta di fare il lutto di un'infanzia in cui <<non si era nulla per tutta la società, degli isolati senza alcun contatto con l'esterno>> (Cohen, 1954, p. 53), egli commemora in questi termini i gesti di sua madre:

          

« brusquement passant de sa somnolence d’esclave ou de chien fidèle à un extrème intérêt à vivre, (...) Maman vieillissante (...) eut ses deux gestes à elle, d’où lui étaient-ils venus et en quelle enfance avaient-ils été puisés? (...) Le terrible des morts c’est leurs gestes de vie dans notre mémoire. Car alors, ils vivent atrocement et nous n’y comprenons plus rien » ( Cohen, 1954, 108). 

Questo commento inatteso, dato che associa il fallimento della comprensione al dolore del ricordo, come se non si trattasse affatto, davanti alla perdita dell'essere amato, <<di comprendere qualcosa>>, ci sorprende. Davanti all'eterodossia di questo accostamento tra <<il terribile dei morti>> ed i loro <<gesti di vita>> azzarderei a fare questa ipotesi: se il dolore nel sentir <<vivere atrocemente>> nella memoria non tanto le immagini o le parole dei defunti - riproducibili e quindi condivisibili - quanto i loro gesti familiari, si accompagna all'impressione che <<noi non comprendiamo più nulla>>, allora questi gesti che sopravvivono stranamente agli esseri che avevano loro infuso la vita si imprimono per così dire nel nostro corpo psichico e ci assillano senza potersi staccare da noi. Essi dimorano prigionieri in noi che ne restiamo segretamente e per sempre gli esclusivi detentori.

Ecco ad esempio nel recente film "Ararat"  di Atom Egoyan1, un giovane armeno in costume tradizionale dei villaggi anatolici all'alba del XX secolo. Il kitsch della rappresentazione filmica ed i colori del suo folklore idealizzante mettono in guardia lo spettatore da ogni straripamento emotivo. La madre posa con il suo ragazzo per una fotografia che diverrà portatrice di messaggi di speranza e di attesa angosciosa di un padre, partito a cercare lontano un riparo in grado di salvare i suoi dall'imminente massacro. Essendosi accorta che un bottone mancava all'abito del figlio, gli ha  offerto un fiore per rimpiazzarlo e nascondere questa negligenza nel suo modo di vestire. Un 'flash back' ci ha già mostrato in che modo il ragazzo, divenuto un pittore celebre dopo l'emigrazione, si abbandonava nella solitudine del suo 'atelier' newyorchese alle immagini che affluivano in lui alla vista di una reliquia: un bottone. Questo porterà il film a proseguire risalendo al ricordo della scena in cui, nella mischia di una folla indaffarata, la madre diligente ed inquieta si impegna a cucire il prezioso bottone sull'abito che ne era sprovvisto2. Cosa c'è di più banale di tutti questi gesti riparatori?

E così queste sequenze, in cui, con un ago svelto e con un fiore ingegnoso, la sollecitudine materna vigila nel contenere, nel <<legare>> la disperazione del messaggio al padre grazie alla cura messa nel salvaguardare la correttezza dell'abbigliamento del figlio ed il quadro rassicurante delle buone maniere, sono, del tutto eredi di questa stessa Storia, pesantemente caricate di affetti << per nulla comprendere>>. In lui vanno affiorando, non si sa da dove, lacrime ignorate che oramai si liberano: egli ricorda di aver da lungo tempo confusamente sentito ciò di cui testimoniavano in silenzio le mani della nonna umilmente all'opera. Come quelle di Penelope che sfidavano la minaccia, esse continuavano il loro compito senza che si parlassero, smentendo <<affinché nulla si comprendesse>>  l'affaticamento del corpo, lo sfinimento della voce, l'irrompere delle lacrime malgrado il dono affettuoso dei sorrisi. Le mani avvedute annodavano con dignità l'afflizione per le perdite all'ostinazione delle lotte per la vita, la povertà dei materiali tessuti alla ricchezza delle speranze tenaci. Esse testimoniavano la necessità che  si debba, nell'urgenza, conservare dei gesti che, se non possono garantire la protezione aleatoria di coloro che vivono, preservano con ostinazione il rispetto dovuto alla vita.

E' d'altronde sulle mani di sua madre che si manifesta, nel pittore Arshile Gorky, la disperazione della sua impotenza creatrice: eccolo che lavora alla sua tela "L'artista e sua madre" ispirandosi alla vecchia fotografia in cui, per il padre, egli, ragazzino,  si teneva accanto ad una madre che sarebbe morta come deportata. Ma, una volta riprodotto il personaggio materno, preso dalla malinconia, egli ne cancella le mani <<dalla sensibilità rurale>>: <<Il nostro pensiero>> egli dice <<può ritrovare i ricordi del passato, ma la sensazione della terra depositata in queste mani resta per sempre perduta per i nostri sensi>>. La traccia del contatto impossibile - con la terra della madre? con la madre? - si scava crudelmente in lui. Se non c'è più modo di <<toccare>> la terra, l'erede è abitato da questa assenza di ostentazione dei sentimenti che lo immerge in un immaginario non localizzabile e lo amputa di qualsiasi organo capace di trasmettere agli altri la qualità delle mani che per lui sono state le primi mediatrici del mondo.

  Foto:  il dipinto di Arshile Gorky "L'artista e sua madre"

Il silenzio delle tracce sensoriali di questi gesti o di questi contatti bloccati invade a volte in modo traumatico l'immaginario del campo transferale ma, quando i cammini della cura permettono di elaborare pazientemente i percorsi artigianali nei due protagonisti dell'"atelier" analitico, nessun gesto risalente al passato viene comunque a manifestarsi. Non sembrerebbe un antropologo nell'atto di raccoglierli? Ascoltiamo Michel de Certeau:

<< Sono dei frammenti di riti, (...) delle tonalità (...) Queste reliquie di un corpo sociale perduto, staccate dall'insieme di cui facevano parte, acquistano (...) una forza più grande ma senza essere integrate in una totalità, come isolate, inerti, piantate in un altro corpo (...) Esse non hanno più un linguaggio che le simbolizzi o le riunisca (...) Esse sono là come addormentate. Il loro sonno perciò non è che apparente (...) Certi gesti (...) conservano in effetti, nel testo dei giorni e dei lavori, la funzione capitale che ha in un testo scritto la punteggiatura (...) Sono dei "significanti", ma non se ne sa di più (...) Hanno un ruolo metonimico (dicono la parte per il tutto che è stato cancellato), storico (rappresentano il luogo di ciò che è morto), (...) poetico (sono induttori di invenzioni) (...) Queste reliquie apparentemente banali (...) obbligano, anche se si è in silenzio (...) Esse rappresentano ciò che è più sconosciuto dalle pedagogie che (...) non percepiscono le scansioni materialistiche con le quali un gruppo difende, all'insaputa dei maestri, il suo rapporto presente con un patrimonio disperso.>> (de Certeau M., 1986, 808)

Riprendendo a suo tempo e volendo illustrare l'esistenza di questi <<induttori di invenzioni>>, il presente lavoro cercherà di cogliere in che cosa, nei sopravvissuti, si trovano i gesti silenziosi delle mani <<all'opera>>, mani industriose, discriminanti o che apportano nutrimento, che testimoniano al loro bambino ciò che non potranno mai dirgli. La fedeltà del discendente a questa memoria gestuale costituita, come una pellicola cinematografica spogliata della parola, di un <<negativo>> ancora non <<sviluppato>>, sostiene in effetti le tracce di impronte creatrici in attesa di un reinserimento nel campo del discorso e nella storia del mondo. Nella fondazione culturale che fa seguito all'esperienza della messa a morte - proprio come, si sa, nella messa al mondo di un bambino - i gesti venuti d'altrove precedono religiosamente le parole. Le loro tracce sono, di questo fatto, il <<luogo tenente>> di un'eredità apparentemente estinta e nemmeno agente dato che essa costringe i superstiti ad operare come <<artigiani della vita>>, cioè a reinvestire malgrado tutto, se non i giochi dei loro bambini isolati, almeno le astuzie e gli espedienti che permettono di circondarli di una protezione precaria.

In queste famiglie luttuose e mutilanti, in cui essere in famiglia significa essere in lotta contro l'oppressione per restare fedeli a se stessi ed a coloro che sono scomparsi, il valore che si trasmette ai bambini è in effetti, sfidando tutte le ferite, quello della Resistenza (Altounian J., 2002a). Direi che questa passa in primo luogo attraverso ciò che è testimoniato dai gesti attraverso i quali dicono le parole o i mutacismi. Non si tratta di una resistenza - nel senso stretto del termine - politica ma di un'altra forma, che partecipa dell'identità stessa del bambino. Questo si trova spesso sotto l'influenza di un legame crudele e paradossale in quanto, se egli soffre di un diniego di esistenza tra coloro che non hanno conosciuto né poesia né infanzia, la sua nascita costituisce nondimeno la posta in gioco della loro lotta contro la persecuzione e la catastrofe. Egli sa da subito che se è lì, protetto e nutrito dai suoi, è perché essi hanno saputo resistere al terrore, resistono ancora contro il suo ricordo e che la sua vita ha per essi il premio supremo che hanno dovuto pagare per arrivare a trasmettergliela.

 

 


 

Metafore dell'<<artigianato>> nel lessico di Benjamin e di Freud.

Quale saggezza ancestrale ci insegnano, dunque, nel racconto omerico, le mani di Penelope mentre, al di là dei secoli, noi ritroviamo nel pensiero di un filosofo della nostra epoca il ruolo fondamentale <<della mano all'opera>> questa volta nella stessa costituzione del racconto?

<<Allora, di giorno Penelope tesseva la grande tela, e di notte disfaceva la sua opera, alla luce delle fiaccole. Continuando così per tre anni, ella seppe nascondere la sua astuzia e ingannare gli Achei>>3 (Omero).

Secondo Omero, Penelope tesse e disfa con le sue mani un'opera in cui ella dipana l'attesa, la perseveranza e l'astuzia per soprassedere alla minaccia e resistere all'oppressione. Si constata che le mani di Penelope hanno la stessa funzione dilatoria della voce in un'altra donna, la affabulatoria   Scheherazade4. Questa corrispondenza illustra infatti,  come si capirà, la concezione poco comune di Walter Benjamin che paragona Il narratore ad un artigiano che lavora <<il suo materiale - la vita umana>>: il filosofo collega in particolare, nel suo saggio eponimo, l'anima con la mano. Per rappresentare questa azione congiunta della voce e del gesto nel narratore, egli caratterizza questo nella postura di un artigiano che sta per mettersi a <<lavorare (...) la materia prima delle esperienze>>.

Al fine di rintracciare il valore argomentativo dei significanti <<mano>> e <<opera>> nella citazione che segue, notiamo preliminarmente le continuità lessicali, che attraversano l'intero testo di Benjamin ma che  spariscono nella traduzione francese, dei due componenti del termine 'Handwerk', <<artigianato>>, letteralmente <<opera della mano>>:

- 'Hand', <<mano>>, 'Handwerker', <<artigiano>>, letteralmente: <<colui che opera con le sue mani>>, 'handwerklich' <<artigianale>>,

-'Werk', <<opera>>, 'hineinwirken', <<essere all'opera in ...>>5 ,

Benjamin scrive:

<<[Nella sua dimensione sensibile, la narrazione non è in alcun modo l'opera (das Werk) della sola voce. Nell'autentica narrazione è anche all'opera (wirkt hinein) la mano (die Hand) che, coi suoi gesti rodati dall'esperienza (erfahrenen ) del lavoro (Arbeit), sostiene in mille modi ciò che si fa intendere]. L'antica coordinazione dell'anima, dell'occhio e della mano (die Hand) (...) è la coordinazione artigianale (handwerklich )(...). Si può andare oltre e chiedersi se la relazione che lega il narratore al suo materiale (Stoff) - la vita umana - non sia altro se non una relazione artigianale (handwerklich) , se il compito del narratore non consista se non precisamente nel lavorare (bearbeiten) in maniera solida, utile ed unica la materia prima (Rohstoff) delle esperienze (Erfahrungen) (...). I proverbi, si potrebbe dire, sono le rovine (Trümmer) che si trovano al posto di antiche storie>>

(Sottolineiamo che si potrebbe ugualmente, a sostegno del nostro proposito, considerare le sorti delle reliquie operate dalle mani dei sopravvissuti come delle rovine al posto di storie impossibili da proferire)

<<(...) Il narratore, così considerato, dev'essere messo nel novero dei maestri e dei saggi (...). Poiché gli è accordato di risalire il corso (zurückgreifen) di tutta una vita (...). Il dono che egli ha è quello di poter narrare la propria vita, la sua dignità è quella di poter narrare tutta la propria vita.>> (Benjamin W., 2000, 141)

Forse meraviglierà trovare qui una certa analogia tra il pensiero del filosofo e ciò che potrebbe emergere da una riflessione sulle risorse e sulle poste in gioco dell'elaborazione psichica di una storia del soggetto per tutta la durata di una cura analitica. Come è certo che la mano dello scrittore  dispone in maniera più o meno conscia i fili che si intrecciano nella sua scrittura, così si sottolineerà che, se i termini die Hand/ das Handwerk / handwerklich, das Werk/ wirkt hinein non sono specifici del lessico freudiano, tuttavia la loro scansione in  leitmotive nell'elaborazione del discorso del filosofo, i termini bearbeiten (lavorare, elaborare), zurückgreifen (risalire nel tempo), Erfahrung (esperienza), Stoff (materiale), Rohstoff (materia prima) ed infine la metafora delle rovine (Trümmer) ci avvicinano in modo insolito alla semantica freudiana degli studi dei casi e dei racconti nei sogni6.

Bisognerebbe ugualmente rilevare come in Freud, secondo il quale

<<Si ritiene che le donne abbiano portato scarsi contributi alle scoperte ed alle invenzioni della storia della cultura, ancorché forse (...) abbiano inventato una tecnica, quella dell'intrecciare (Flechten) e del tessere (Weben)>> (Freud S., 1932,142; 1995, 216)

le metafore del tessere e dell'artigianato sono pertanto costitutive della sua teorizzazione del sogno e dei processi inconsci. Non solo tale teorizzazione trova - << ancorché>>! - nel pensiero del ricercatore una figurazione con l'aiuto di numerosi derivati di:

- weben, <<tessere>>: das Gewebe / verweben/ die Verwebung  (la trama del sogno/ inserire nella trama/ l'inserzione nella trama del sogno)

- flechten, <<intrecciare>>: das Geflecht / verflochten (l'intreccio /intrecciato)

- spinnen, <<filare>>: weiterspinnen / fortspinnen/ ausspinnen/ anspinnen/ umspinnen (continuare la filatura /proseguirla/ svilupparla/ raccordarla/ filare tutt'intorno)

- einwickeln, <<avviluppare>>: entwickeln / die Entwicklung / verwickelt (sviluppare / sviluppo/ ingarbugliato)

- knüpfen,  « annodare »: anknüpfen/ die Anknüpfung/ verknüpfen/ die Verknüpfung ( collegare/ punto di collegamento/ connettere/ connessione)

- lösen,  « snodare, sciogliere »:  die Lösung/ auflösen/ die Auflösung/ ablösen ( scioglimento, soluzione/ risolvere, analizzare/  la risoluzione, l’analisi/ distaccare, dare il cambio)7

- verwirren,  «  aggrovigliare »: entwirren/ verworren/ die Verworrenheit (sbrogliato/ aggrovigliato, confuso, lo stato di confusione)

- verstricken,  «  rendere inestricabile »:  die netzartige Verstrickung/ der Knoten/ das Knäuel ( la rete inestricabile/ il nodo/ il gomitolo),

ma ancora gli occultamenti del sogno, le astuzie della sua censura si significano in riferimento a delle rappresentazioni <<tessili>> derivate da:

- das Kleid, « l’abito »: kleiden/  bekleiden/ die Kleidung/ verkleiden/ die Verkleidung/ die  Einkleidung ( vestire/ rivestireil rivestimento / travestire/ il travestimento/  l’abbigliamento)

  - die Hüllen, « gli involucri » : verhüllen/ verhüllt/ unverhüllt/ die Umhüllung/ enthüllen/die Enthüllung (velare/ in maniera velata/ in maniera non velata/ l’involucro/ svelare/ lo svelamento)

- der Schleier,  « il velo » : verschleiern (ricoprire di un velo)

- die Decke, « la copertura » :  decken/ verdecken/ entdecken/ aufdecken (coprire/ ricoprire/ scoprire/ mettere allo scoperto).

D'altronde non è perturbante constatare che, nonostante questo <<poco di contributi>> delle donne <<alle scoperte ed alle invenzioni della storia della cultura>>, è la familiarità di Freud con questa tecnica, <<anche se  inventata>> da loro - in particolare il <<ricamo>> di un segno, la <<tessitura>> di una tunica, la <<cura che ha tessuto (gewebt) al sogno la sua tunica>> - che lo rende capace di metaforizzare le strategie occultatrici del sogno in cui si affina tutta la sua arte di scopritore? Al di là di ciò che il narratore non consapevole dice o non potrebbe dire del suo sogno, il suo discorso non è che una tessitura che va a <<tradirlo>> al cospetto dell'analista esperto delle manovre che inspirano l'opera:

<<Quando il resoconto di un sogno mi sembra sin dall'inizio difficilmente comprensibile, invito il narratore a ripetermelo. E' raro che ciò avvenga allora con le stesse parole. Ma i punti in cui egli ha modificato l'espressione mi sono stati segnalati come i punti deboli di travestimento del sogno, essi mi servono come serve ad Hagen il segno ricamato sulla tunica di Sigfrido. E' da lì che può partire l'interpretazione del sogno. Il narratore (...) protegge quindi rapidamente, sotto la spinta della resistenza, i punti deboli del travestimento del sogno sostituendo un'espressione che lo tradisce con un'altra più lontana (...) Dagli sforzi per difendere la soluzione del sogno posso così concludere accuratamente chi ha tessuto al sogno la sua tunica>>8  .

Parimenti è il ricorso alla metafora di una <<tessitura>> che mira all'inganno, infatti, a denudare il desiderio inconscio che va a far comprendere l'impostura flagrante del sogno:

<<l'Imperatore esce vestito di questa tunica invisibile>> che <<due impostori tessono ... L'impostore è il sogno, l'Imperatore è lo stesso sognatore>>9  .

 Queste elaborazioni alquanto erudite potranno farmi forse perdonare del carattere autobiografico di ciò che sto per scrivere di seguito. Avendo considerato gli elementi autobiografici dei miei testi sulla trasmissione psichica nei discendenti dei sopravvissuti alle violenze collettive come una messa in forma secondarizzata di un <<materiale clinico>> suscettibile di servire agli altri, autorizzo me stessa a consegnarli in questo mio scritto. Le pratiche di violenza hanno proprio per effetto quello di saccheggiare la dimensione personale, l'intimità degli esseri, mentre il fatto di renderle pubbliche libera invece da ipoteca e protegge lo spazio soggettivante della vita individuale. D'altro canto gli avvenimenti che inaugurano la mia storia, ripresi qui nell'"après-coup" di un percorso analitico, sono evidentemente emblematici per un numero crescente di esseri inseguiti in qualche parte del mondo e di cui solo i discendenti più privilegiati arrivano sino al divano dello psicoanalista. L'apporto della realtà nella mia testimonianza avrà almeno il merito di costituire un contrappunto pragmatico ai contributi dei ricercatori che attorniano quello mio.

Indicherei dunque, a titolo di esempi quanto più possibile concreti, quattro modalità di espressione di gesti salvatori che presiedono alla storia dei miei antenati. Li si può rilevare consegnati al "Diario di deportazione" di mio padre che mette evidenza, di fronte all'imminenza della morte, l'incidenza sulla vita umana di quattro <<gesti>> (nei due sensi del termine) fondamentali. Essi hanno in comune il fatto di esercitare, a dei livelli diversi, una funzione di separazione e di affrancamento rispetto all'influenza della morte programmata:

- i gesti del lavoro e del suo prodotto <<artigianale>> dal potere miracoloso,

- quelli di un rituale di sepoltura, privilegio strappato di misura ai boia,

- quelli dell'urgenza di eludere il destino di una morte dovuta alla fame o al tifo

- ed infine quelli dello scrittore che ha potuto affrontare i ricordi ancora scottanti per testimoniare i tre gesti precedenti lasciando in eredità un manoscritto-reliquia, bottiglia lasciata in eredità al mare ed in attesa di inscrizione.

Il primo ordine di riflessioni concernerà in qualche modo gli effetti a posteriori delle mani che costruiscono degli oggetti induttori di cultura, il secondo ed il quarto quelli delle mani che creano degli involucri rituali o scritturali per separare i morti dai vivi, il terzo quelli dei gesti connessi con la nutrizione o con la trasmissione delle funzioni nutritive.

 

I. Le mani all'opera.

Trattandosi del primo tipo di materiale, vorrei preliminarmente ricordare, per meglio coglierne il carico di affetti, le innumerevoli allusioni all'artigianato, al <<lavoro delle mani>>, di cui inconsciamente ho disseminato il mio lavoro di scrittura in vece e al posto delle diverse figure genitoriali, mossa dal sentimento che queste mani al lavoro incarnavano, in seno alle famiglie dei superstiti un agire ricorrente privilegiato, rappresentante e traccia sintomatica di una resistenza particolare.

Mi sono d'altronde chiesta, a posteriori, se non ci fosse un legame tra l'intensità delle mie rievocazioni popolate da genitori all'opera10, le metafore tessili di una scrittura in 'patchwork' in cui il mio testo si stende su quello dell'altro servendogli da pezzo di assemblaggio o di costruzione11 e la virtù magica di un prodotto artigianale che potrebbe far sognare i bambini dei racconti, un olio di rosa al quale forse devo la mia nascita.  Il racconto "Un flacone di olio di rosa" ci terrà dunque col fiato sospeso raccontandoci gli 'avatara' salvatori di questa essenza che, formando con un Vangelo tutto quello <<che restava del tesoro>> paterno, poté per un certo tempo tenere in vita coloro che la possedevano. Infine, tratteggerò una riflessione su questa espressione <<manuale>> della testimonianza in cui i valori di un popolo a tradizione artigianale si trasmettono, dai rifugiati ai loro discendenti, molto più attraverso ciò che plasmano le loro mani piuttosto che attraverso ciò che dicono o tacciono le loro parole.

Ecco dunque per cominciare qualche estratto in cui abbondano le metafore in questione, faranno seguito quelle del racconto traumatico che riferisce gli effetti di un olio di rosa, divenuto poi olio di <<sesamo>>, prodotto protettore e produttore di vita:

Avevo ricordato come la tradizione artigianale, che mi era familiare e la cui saggezza raccomandava sempre di fare con il poco che si ha, mi aveva suggerito di intrecciare, legare, affinché di questo annodare stretto nulla cadesse nelle maglie del rinnegamento,  i discorsi di <<I miei tre divani>>12  : il discorso del divano terrificante che aveva promulgato per i miei l'editto della deportazione verso ciò che è spaventoso e verso la morte, quello del divano meraviglioso della nonna o del padre che mi raccontavano i loro Paesi scomparsi, ed infine quello del divano dell'analista - artigiano non lo è?! - che è stato per me l'approdo salvifico.

Scrivere era insomma rendere omaggio a questo artigianato fecondo di assemblaggi rischiosi, era aderire alle astuzie della penuria che dettarono a Pollicino, analfabeta ma familiare agli espedienti della sopravvivenza, di seminare coi sassolini laddove gli erano mancate le parole, era tentare di ricomporre in polifonia i discorsi scissi e scuciti di tre divani estranei, ossia ostili, tra di loro.

Se il 'sédir' - termine arabo-turco che rinvia a un quadro di vita austera e povera - della nonna era in realtà per me, attraverso le rievocazioni mediterranee del suo Bosforo scomparso, un 'sofa' - termine arabo che rimanda ad un ambiente ricco di cuscini e di tappeti -, c'era stato in aggiunta un divano , poiché questo termine persiano - che designa una sede e poi ciò che vi si raccoglie: dei testi fondamentali, una collezione di poesie - è proprio la figura metonimica di parole essenziali tanto quanto il loro luogo di emergenza e ciò che vi si applica, letteralmente, nel quadro della cura istituzionalizzata da Freud.

Culla ancestrale ricoperta dei suoi 'kilim' consumati, residui dei calori lasciati in quei Paesi, esso troneggiava nella mia memoria, austero e protettore, con le sue lacrime e le sue preghiere assassine e salvifiche, prodigante le dolcezze conviviali dei suoi piccoli caffé, il lavorare a maglia, lavori d'ago e di rammendo alle prese con la vita, le accoglienze familiari e nostalgiche delle sue mille ed una opera di sopravvivenza. Il suo ricordo si condensava in me con il divano stranamente familiare e così poco occidentale di Berggasse che ha, infatti, fatto da contrappunto sul mio cammino.

E' la via al divano freudiano che mi ha più tardi aperto questo 'divano' enigmatico dei racconti familiari, sostituito in seguito dalla cattedra intimidatrice della classe scolastica i cui racconti affascinanti consolavano la figlia degli emigrati che io ero, ma rattristandola  amaramente poiché l'escludevano dal luogo di loro pertinenza. L'enigma per me di queste fiabe inconciliabili tra di loro mi aveva quindi portato a tessere la trama sanguinante della Storia collettiva e dei brandelli sparsi della sofferenza psichica nello sfondo del mio piacere di bambina verso i racconti di un Altro inghiottito, piacere diventato più tardi attaccamento della scolara alla letteratura.

Se nei miei ricordi di copertura mi ritornano sempre, dato che mi hanno plasmata, <<i lavori ed i giorni>>13 dei miei,  non è per la minaccia, per l'angoscia dei loro racconti di miseria, per le loro recriminazioni opprimenti, per le loro rievocazioni dei luoghi sterminati in cui si radicava la loro esistenza che la loro sofferenza irrimediabile è arrivata a me. Essa si impadronisce paradossalmente di tutta la mia persona in presenza dei <<loro lavori>> volti a colmare la loro insicurezza primaria, al ricordo della loro pena ostinata, della povertà piena di ingegnosità, della tenacia creatrice, dell'incrollabile affermazione con la quale essi gestivano la loro vita di esuli, le basi della mia vita. L'emozione meno tollerabile che mi ha spinto a scrivere della loro indigenza è quella che mi stringe il cuore davanti alle tracce lasciate dalle loro mani e dalla loro fede artigianale, i merletti aristocratici fatti all'uncinetto da mia nonna, i ricami di speranza  fatti in mazzolini da mia madre, l'attenzione industriosa che mio padre indirizzava alle stoffe del laboratorio, al materiale protettore della casa, all'esercizio col suo violino. Nel rigore e nel rispetto essi celebravano tutti questi rituali che mantenevano e sacralizzavano i ritmi della vita. Non ritrovo nei loro gesti al lavoro l'immaturità degli orfani, ma il loro discernimento maturo. Padri morti chissà dove che nessun sudario avvolse, compianto di nonne in esilio, tappeto di luce, merletti e gioielli come ricordi, ricami della nostalgia, <<Apritemi solo le strade d'Armenia>>!14

Per seguire a questo punto il movimento del narratore di Benjamin, andiamo a <<risalire il corso di tutta una vita>> fino a questo olio di rosa del racconto crudele che decise la mia storia. Ma per introdurlo ecco come per il  filosofo si manifesta nei racconti la resistenza alle potenze malefiche15:

<<Il racconto insegnava un tempo all'umanità, ed insegna ancora oggi ai bambini, che la cosa più opportuna, per chi vuole far fronte alle potenze dell'universo mitico, è combinare l'astuzia e la sfrontatezza. (il coraggio [Mut], nel racconto, s'inscive dialetticamente tra i poli del coraggio sotterraneo [Untermut, neologismo creato da Benjamin, (cioè l'astuzia) e della sfrontatezza [Übermut])>>. (Benjamin W., 2000, 15)16

Dei brandelli di questo racconto17 aderente ai fatti   d' adolescente, fatto in una lingua rudimentale, la prima sequenza prenderà in considerazione prioritariamente i passaggi illustranti le tematiche del lavoro, della perseveranza e dell'astuzia messi al servizio della resistenza alla morte. Sebbene i temi del lavoro e della fame siano in realtà intrecciati per tutto il corso delle due sequenze, questa prima sequenza servirà di riferimento ai due sviluppi rispettivamente delle mani industriose e delle mani che seppelliscono i morti, mentre la seconda sequenza darà piuttosto luogo allo sviluppo delle mani apportatrici di nutrimento o di quelle che, nella loro miseria, delegano ad altri questa funzione vitale. Malgrado la necessità di operare dei larghi tagli nel racconto, esso non ha potuto essere  ridotto ancora per preservare un po' e trasmettere al lettore la concatenazione temporale specifica che regna sotto il terrore.

Ho intitolato questo <<racconto>> dei tempi moderni per mezzo di uno dei suoi significanti che si ripete sette volte: Un flacone d'olio di rosa. Ma si potrebbe ugualmente considerarlo come parte dei titoli di testa di un film d'orrore, un affresco di tempi fintamente arcaici, che è arrivato a noi per qualche istante da una voce fuori campo e da contrade ignote:

 

Un flacone d'olio di rosa

<<Siamo partiti da Boursa su un carretto tirato da un bue e siamo arrivati a Alayout (...) Ci abbiamo impiegato dieci giorni. Là abbiamo montato la nostra tenda (...) Mio padre ha detto: "Non è bene restare inattivi, bisogna fare un lavoro". Abbiamo portato con noi la macchina per tritare la carne. Abbiamo voluto preparare della carne "à  keufté “ ed abbiamo cominciato (...) Il lavoro ha permesso di aumentare il nostro piccolo capitale. All'inizio, c'era un 'okha' [1282 grammi] di carne, poi cinque, quindi un montone intero (...) Ciò permetteva di far vivere sei-sette famiglie di genitori e di altre persone. Siamo restati tre mesi in quella città. Tutti i deportati erano già dei nuovi esiliati. Allora hanno voluto deportarci (...)

Il treno non poteva andare più lontano (...) Essi volevano che ci si stancasse. Si trattava di un imbroglio. Mentre loro trasportavano i nostri bagagli sui carretti, avevano rubato i 50 'okha di soudjouk' (...) Queste cose qua sono scomparse così (...) Ma la deportazione è ricominciata; In quel posto non c'era nulla, mio padre ha capito che essi ci stavano per svaligiare. Là abbiamo venduto la macchina da cucire Singer a un gendarme per la somma di 5 libbre. Abbiamo noleggiato tre cammelli fino ad un posto chiamato Islahié, ogni cammello per una libbra (...)

Pioveva sempre molto (...) Non c'erano né case né nient'altro, tranne che tende ... Era il Kaymakan [sottoprefetto] che mandava i ladroni e faceva saccheggiare la gente (...), persino la notte ci hanno svaligiato, noi che eravamo 36 persone. Sono venuti, hanno strappato il tessuto della tenda con dei colpi di spada e l'hanno ridotta in pezzi. Non è rimasto nulla. Si sono portati via tutto. Mio padre ed io ci siamo rifugiati accanto nell'altra tenda. Se avessero visto la nostra fuga, ci avrebbero ammazzati. Il nostro Haig si è potuto nascondere tra le gambe una bottiglia di olio di rosa18  . Infuriati, due ladri avevano acceso il fuoco per meglio distinguere tutt'intorno. Alla fine, tranne la bottiglietta di olio di rosa, nulla, nulla era rimasto. C'era anche un Vangelo. Lo hanno guardato, riguardato, poi lo hanno lasciato perché era scritto in armeno. Era un libro che restava nel nostro tesoro.

Quando siamo arrivati a Antarin, eravamo tormentati da un lato dalla fame, e dall'altra dalla sporcizia. I cani dilaniavano i morti che non venivano sepolti. Tutto intorno era cattivo (...) A Bab (...) il 'Mektar' [sindaco] ci ha consigliato di rimanere in dietro (...) e ci ha allontanati dal convoglio (...) Allora non avevamo più denaro per comprare del pane. Si è restati là, ad aspettare che mia madre si ristabilisse (...) io ho portato a pascolare i montoni del capo. Mio padre lavorava nel suo giardino. Mia madre cuciva (...) Ma vicino a noi non c'era nessuno. Abbiamo cominciato ad avere paura (...) Non c'erano più armeni. Non avevamo altro che la bottiglietta di olio di rosa, ed un libro. Ma a cosa ciò poteva servirci? La gente là non sapeva neppure quello che c'era stato. Per la strada, essi hanno fermato i carretti e ci hanno chiesto 5 pezzi d'oro per carretto (...) mio padre ha detto: "Non ho denaro". L'hanno fatto scendere, hanno rovistato tutto per vedere se c'erano degli oggetti da portare via. Ma non hanno trovato nulla. Non ci restava altro che la bottiglietta d'olio di rosa. Non la voleva nessuno. Mio padre non aveva più forze per camminare. Mia madre lo sorreggeva (...) Io ero partito davanti, avevo montato la tenda. Quando è arrivato mio padre, l'abbia fatto coricare ma il suo star male aumentava. Non avevamo più del denaro (...) Andavo a cercare la legna lontano e la vendemmo per due piastre. In breve, si sopravviveva. Di tanto in tanto si comprava della carne per mio padre, la si faceva bollire perché bevesse del brodo. Così ha cominciato a star meglio. Ma a che pro? Ci hanno nuovamente deportati.

A Haman abbiamo constatato che la gente mangiava cavallette. Gente che stava morendo, morti dappertutto (...) Mio padre era molto malato (...) presto non c'erano più cavallette, perché tutti ne avevano mangiato. E la deportazione non finiva... Mia madre ha detto: "Il nostro malato è gravemente sofferente e partirà la prossima volta "(...)" Osate parlare?" ha detto un gendarme e ha colpito alla testa di mio padre. Mia madre supplicava (...) di non essere colpita e che fosse lasciato stare mio padre. Detto ciò, il gendarme ha colpito mia madre (...) Cosa diventa un uomo gravemente ammalato quando lo si picchia? Sei giorni dopo, il giorno della morte di mio padre, ci hanno di nuovo deportati. Colpivano nostra madre. Noi due fratelli piangevamo. Non potevamo far nulla, dato che essi erano come una muta di cani. Dicevano a mia madre: <<Il tuo malato è morto>>. E mia madre: <<Partiremo quando avremo sepolto il morto". Essi rispondevano: "Faremo a voi quello che abbiamo fatto agli altri". Gli altri (...) abbandonavano i morti e la notte gli sciacalli li divoravano.

Avevo visto che ciò non andava bene e che bisognava fare qualcosa. Ho preso un flacone di 75 'dirhem' [1 dirhem= 3 gr.], l'ho riempito di olio di rosa e sono andato a vedere il capo dei gendarmi della deportazione (...). Gli ho regalato il flacone che egli ha accettato. Siamo restati ancora un giorno. Abbiamo scavato una fossa ed abbiamo pagato 5 piastre al prete. Così abbiamo sepolto mio padre (...) Quindici giorni dopo la deportazione è ricominciata (...) Essi bruciavano tutti (...) Mi sono nascosto là, poiché ho saputo che più oltre essi uccidevano la gente (..), si aveva tanta fame e sete. Ho visto che eravamo destinati a morire di fame. Ho riempito un flacone d'olio di rosa di 100 'dirhem' e l'ho portato all'impiegato del telegrafo del luogo (...) Mi ha detto: "Figlio mio, cosa vuoi che ti faccia? >> Ma mi ha proposto due libbre turche, dicendomi di andare a comunicare questa proposta a mia madre (...) Mia madre ha riflettuto, ha pensato che ciò ci permetteva di vivere per due mesi. Eravamo costretti, avevamo tanta fame. Due mesi dopo, avevamo speso queste due libbre. Eravamo costretti a vendere ancora un po' (...) per non morire di fame.

A quel punto non ci restava più olio di rosa. Cosa fare? Non smettevamo di pensarci. La deportazione non cessava e ad Haman non restava nessuno. A Racca, ci hanno mostrato una locanda. Ci siamo andati e cosa abbiamo visto? La gente moriva dappertutto di fame. Non si poteva più restare all'interno della locanda, dappertutto si sentiva odore di putrefazione (...) Non avevamo denaro, è per questo che abbiamo cominciato a mangiare erba. Abbiamo tentato di continuare così per un mese, ma abbiamo visto che si andava verso la morte. Facevamo appena due passi e cadevamo a terra. Mia madre ha riflettuto : "Per morire io morirò, quanto a voi non dovrà accadere!" E' così che ella ci ha dato, noi due, a degli arabi.>>

Riprenderei a questo punto, argomentandola, l'opinione precedentemente esposta, per cui la testimonianza della resistenza come valore si trasmette, dai rifugiati a noi, molto più attraverso ciò che fanno le loro mani piuttosto che attraverso ciò che dicono o tacciono le loro parole. Il linguaggio resta in effetti per loro spesso inchiodato ad un ritiro quasi autistico o all'iperrealtà della ripetizione ostinata e del pensiero operativo, poiché la violenza di una realtà senza senso ha rotto in loro qualsiasi continuità transizionale tra la realtà dei fatti e la realtà psichica.

<<Una delle più importanti figure del traumatismo>> scrive Claude Janin (1996, 24) <<si costituisce attraverso la 'detransizionalizzaione della realtà' (...) lo spazio psichico e quello esterno comunicano in modo tale che l'apparato psichico non può più ricoprire il suo ruolo di contenente del mondo interno>>.

E' per questo che, in coloro che sopravvivono alla perdita dei loro oggetti d'amore e degli spazi transizionali della loro esistenza sociale, alla perdita dei legami che li contenevano, la pulsione di vita non può che girare attorno alla pericolosa, o meglio impossibile, relazione all'altro e spostarsi chiedendo in prestito un mediatore, quello di una relazione creatrice, non agli esseri ma ai materiali protettori della vita. La saggezza artigianale ha evidentemente insegnato loro che, nella necessità, il mantenimento della vita dipende da ciò che innanzitutto deve assicurare il suo annidamento. Tutto avviene allora come se, per riprendere la distinzione di Winnicott tra il seno che fa ed il seno che è, l'annientamento in loro dello spazio dell'alterità, che  rende impossibile l'essere per la tenerezza, e l'essere  per la parola - essendo queste due vie/voci divenute impraticabili - si trovassero riportati al fare di un mantenimento in vita, ma un fare che costituirebbe una variante salutare del seno che fa.

  Foto: D.W. Winnicott

Essendo sopravvissuto alle fratture psichiche ed ai risvegli derealizzanti dell'angoscia, questo seno non può in effetti che divenire un seno che fa degli oggetti per vivere, laddove regna il ricordo della morte, dunque un seno che, in mancanza di offrire in esso accoglienza, crea, in una qualche forma di delega, degli oggetti accoglienti. Nelle conclusioni di Winnicott:

<<O la madre ha un seno che è, cosa che permette  anche al bebè di essere, oppure la madre è incapace di apportare questo contributo nel qual caso il bebé deve svilupparsi senza la capacità di essere (...)richiedendo l'identità iniziale (...) un seno che è e non un seno che fa >> (Winnicott D. W., 1975, 114)19  ,

si potrebbe forse aggiungere un terzo termine in alternativa: <<o la madre, incapace di apportare questo contributo, organizza, nella sua resistenza al crollo, dei sostituti del seno, insomma dei <<nidi>> di paglia e di transizione, affinché l'uccellino, come nel racconto precedente, possa raccogliere il nutrimento di un'altra madre. E' per questo, d'altronde, che, nonostante l'usurpazione20  che egli patisce crudelmente, il bambino resterà sempre in debito verso questo seno che, malinconico o operativo, <<faceva>> senza mai poter <<essere>>.

Per ciò che concerne l'impossibilità dell'essere per la tenerezza e per la parola, tranne che il poter vivere lo scarto di un'alterità, conviene ricordare che quando degli esseri sono sopravvissuti per un pelo a scene terrificanti di un annientamento di massa, l'impronta del terrore li mantiene spesso nella necessità, a cui furono ridotti, di rinsaldarsi di fronte alla persecuzione, non potendo essere l'altro per essi che un persecutore.

Il far fronte psichicamente e culturalmente all'alterità richiede un fondamento narcisistico che in loro le tracce incistate del terrore, dell'insicurezza profonda e dell'essere ghermiti durante la persecuzione di tutti hanno minato. I processi di differenziazione, sessuale così come generazionale , si trovano intralciati e ciò che predomina all'interno delle relazioni familiari, assoggettate ai bisogni più elementari, sono troppo spesso i rapporti di influenza sia nella modalità fusionale sia, al contrario, in quella dell'esclusione e del rifiuto.

A tal proposito ci si può stupire di vedere per quale scappatoia di salvaguardia - come se il desiderio di conoscere e di amare si fosse spostato dagli uomini alle cose - il rispetto dei limiti tra sé e l'altro ossia il consenso alla castrazione nell'accettazione dell'alterità, totalmente in scacco nella relazione rispetto agli esseri, si manifesti invece sotto forma di operatore onnipresente ed ingegnoso nella relazione creatrice nei confronti dei materiali protettori della vita. Dei genitori che non  si sono investiti in modo narcisistico, spesso loro stessi orfani disorientati e la cui genitorialità non può che essere deficitaria, investono in effetti di rado nei loro bambini degli oggetti per se stessi ed autorizzano poco l'espressione di conflittualità edipiche strutturanti, autonomizzanti. Essi investono essenzialmente in essi i loro testimoni, le prove della loro miracolosa, angosciante sopravvivenza.

Come la madre potrebbe ancora contenere e <<sognare>> quando i due genitori strappati alla loro matrice territoriale e psichica, sono attaccati a questo solo compito: fabbricare giustamente tra se stessi e l'orrore del passato,  che è indicibile ma che li occupa, qualche bene protettore, qualche bambino che riempie o ripara lo sradicamento di cui si suppone egli sia il frutto21  ? L'intersoggettività tra madre e bambino è in un vicolo cieco. Come parlare al bambino in quanto altro quando, per la madre, il fantasma del <<ritorno>> non parla più? Non poter ritornare più col pensiero a sé, perché si verrebbe sterminati, induce un tabù del contatto con se stessi e priva in qualche modo delle basi territoriali riguardanti la tenerezza nei confronti dei neonati venuti al mondo  da questa parte.

Si arriva al punto che i valori, le dolcezze dell'esistenza, divenuti per lei irrimediabilmente inaccessibili, non arrivano alla rappresentazione se non negati aggressivamente e che, in questa impresa disperata di sopravvivenza, essi non si trasmettono al bambino - che non saprebbe pertanto ingannarsi - se non, per così dire , <<di contrabbando>> (Hassoun J., 1994), sotto forma di condotte di resistenza, sotto le forme di oggetti protettori, nella clandestinità di una simbolizzazione in sofferenza. Se il bambino arriva a sopravvivere a questo isolamento, questo esilio che costituisce l'impossibile rappresentazione dei suoi bisogni psichici, è malgrado tutto in questa percezione di un amore mutilato delle sue possibilità di affetti e di espressioni, ma industrioso nell'organizzazione di un terreno di vita, che egli trova le tracce, diventate sacre, di un'etica di resistenza ciecamente trasmessa.

Le cure portate agli oggetti che condizionano la sopravvivenza interpongono così una sorta di interfaccia che rimette in tensione la realtà materiale con quella psichica, esse diventano i sostituti di un 'holding' impossibile. Se esse mettono, nonostante tutto, solidamente radici in un'impronta corporea in cui s'inscriveva una verità violenta, il bambino intuisce certamente che, all'inizio della sua genealogia, c'è un luogo vietato alla rappresentazione perché assassino o estinto, ma egli trova, all'arrivo, delle tecniche di salvataggio e di costruzione, dei modelli di identificazione di comportamento che gli servono di puntellatura per affrontare il suo destino. Ricordandoci l'insegnamento del racconto secondo Benjamin: <<combinare l'astuzia con la sfrontatezza>>, pensiamo a questo racconto di Grimm in cui l'ingiunzione di un padre a suo figlio di apprendere a <<fare>> qualche cosa per guadagnarsi il pane, dà luogo al racconto iniziatico della <<Storia di uno che se ne andò per apprendere ad avere paura>>!

 

 

(fine della prima parte - la seconda parte dell'articolo verrà pubblicata in versione italiana in un prossimo numero di Frenis Zero)
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 Note dell'autrice:

 

1) Questo film di Atom Egoyan, uscito nel settembre 2002, tenta di rievocare gli ostacoli della trasmissione del genocidio armeno del 1915 nelle giovani generazioni di Armeni dispersi in tutto il mondo. Queste sono impersonate dal giovane Raffi la cui madre, storica dell'arte, lavora sull'opera e la vita del pittore Arshile Gorky. Nel corso del film ella commenta il celebre quadro in cui il pittore ha riprodotto la scena della fotografia che lo rappresenta ragazzino in piedi vicino a sua madre le cui mani sono <<incompiute>>. Cfr. Masson (2002) e Rollet (2004).

2) Alla domanda: <<Ha sempre pensato di terminare il film con il primo piano della madre che cuce il bottone?>> Atom Egoyan risponde in un'intervista con Michel Ciment: <<Mi piace questa immagine perché rimanda a un'idea che si ritrova nel mondo della cultura ebraica: per guarire il mondo, cominciate con un gesto semplice. Il bottone mancante conduce la mano a questo gesto importante che si vede nell'inquadratura>> (Ciment, 2002, p. 12) Avendo scritto il mio testo ben prima di aver avuto conoscenza di queste parole del cineasta, non ho potuto evitare di constatare come le stesse impronte della memoria possano talora abitare negli eredi di una stessa Storia (Atom Egoyan è il nipote di una nonna che sopravvisse orfana al genocidio armeno).

3) Omero, Odissea, Canto II: 57/137, si veda anche la nota 7.

4) Eroina della raccolta di racconti arabi, Le Mille e una Notte, la quale, affascinando con i suoi racconti il re persiano Shahriyar, finisce per distorglierlo dal suo progetto omicida.

5) Lo studio lessicale dettagliato delle due citazioni di Benjamin si trova in appendice alla fine di questo articolo. Per le finalità dell'argomentazione ho tradotto il testo di Benjamin in maniera più letterale, mettendo per mia iniziativa le radici o le parole da sottolineare, nel contesto dell'articolo, in grassetto corsivo.

6) Si veda in Freud bearbeiten, verarbeiten corrispondono a <<elaborare>>, durcharbeiten a <<perlaborare>>, umarbeiten a <<rimaneggiare>>, 'Stoff ' in 'Märchenstoffe' a 'materiali dei racconti', 'zurückgreifen' a <<risalire>> (ad es. <<risalire al tempo dell'infanzia>>). Ho tentato (cfr. Altounian J. 2003) un approccio della lingua di Freud come quello caratterizzato dalle questioni che pone l'impossibile fedeltà di una traduzione dei significanti che contraddistinguono l'originale.

7) Bisogna qui fare riferimento alle elaborazioni di Jean Laplanche che mostrano come, attraverso la sua radice greca, <<analizzare>> significa <<disfare, dis-tessere>>:

<<il verbo greco (...) è esattamente il tedesco lösen, <<slegare>> <<risolvere>> (...). A partire da esso, la lingua tedesca sviluppa una serie di derivati: lösen, auflösen, ablösen, erlösen. (...) Analuein in ogni caso è esattamente auf/lösen, dissolvere, ana/lizzare: si tratta di una risoluzione che si pera <<risalendo indietro>> (auf ana), cioè avvicinandosi all'elementare o all'originario. La psico-analisi avrebbe potuto essere chiamata da Freud, se non avesse voluto scegliere un termine greco, Seelen-Auflösung : scioglimento, dissoluzione o risoluzione delle anime>>.

Devo d'altronde riferire che, nel consultare questo passaggio che avevo notato e sottolineato da molto tempo (l'esposizione di Jean Laplanche era stata pronunciata nel giugno 1990), ho constatato con un sentimento di <<inquietante familiarità>> che l'autore sosteneva il suo commento linguistico sulla base del testo omerico precedentemente citato - cosa che avevo completamente <<dimenticato>> quando vi ho fatto riferimento io stessa; bell'esempio di <<après-coup>> (concetto studiato d'altronde nell'articolo in questione)!

Il mio interesse di germanista coincise tutto a un tratto con lo scopo del presente lavoro sulla <<testimonianza delle mani>> quando, durante questa rilettura, <<scoprii>> la traduzione che Jean Laplanche dava di questo stesso passaggio: <<Avete riconosciuto Penelope. Conoscete la sua astuzia, quella della famosa tela. Lasciamoci, a nostra volta, condurre dall'astuzia di qualche parola: <<[citazione dei versi greci Od., II, 104-105, 109] Di giorno tesseva un grande tessuto/ E di notte, l'analizzava (...)/ e la trovammo in procinto di analizzare il suo risplendente tessuto>>. D'altronde, questo richiamo etimologico che si inserisce in uno studio dei rapporti tra temporalità e elaborazione del lutto, l'ho scoperto anche in questa annotazione:

<<Non ci si può meravigliare di vedere Freud, che non fa in alcun modo allusione a Penelope, avvicinarsi alla stessa immagine per l'elaborazione del lutto (...) Ancora di più colpisce l'altra intuizione di Freud, portandolo a riferire alla donna l'invenzione dell'arte della tessitura (....). A partire da ciò si aprono numerose piste: (...) - Un domandarsi sul rapporto privilegiato della donna allo stesso tempo con il tessere-disfare, con il lutto e con la melancolia>> (Laplanche J., 1990, 376-378).

8) OCF/P, IV, pp. 567/568. Die Traumdeutung, G.W., II/III pp. 519/520: « Wenn mir der Bericht eines Traums zuerst schwer verständlich erscheint, so bitte ich den Erzähler, ihn zu wiederholen. Das geschieht dann selten mit den nämlichen Worten. Die Stellen aber, an denen er den Ausdruck verändert hat, die sind mir als die schwachen Stellen kenntlich gemacht worden, die dienen mir wie Hagen das gestickte Zeichen an Siegfieds Gewand. Dort kann die Traumdeutung ansetzen. Der Erzähler...schützt also rasch, unter dem Drange des Widerstands, die schwachen Stellen der Traumverkleidung, indem er einen verräterischen Ausdruck durch einen ferner abliegenden ersetzt... Aus der Mühe, mit der die Traumlösung verteidigt wird, darf ich auch die Sorgfalt schließen, die dem Traum sein Gewand gewebt hat. »

9) OCF/P, IV, p. 282. - Die Traumdeutung, G.W., II/III p. 249 : « Der Kaiser geht mit diesem unsichtbaren Gewand bekleidet aus », « zwei Betrüger, die für [ihn]... weben... Der Betrüger ist der Traum, der Kaiser der Träumer selbst. »

10) Avendo fornito una testimonianza in una raccolta di inchieste realizzata da Nadine Vasseur (2000), opera che ho letto con emozione e piacere per i ricordi di infanzia a cui mi rinviava, citerò questo breve estratto di testimonianza di René Frydman (p. 386) poiché egli restituisce, nel suo stesso enunciato (le sottolineature sono mie), l'argomentare della presente esposizione: <<Tra i miei genitori e me c'è stato un processo di ascesa sociale, ma è sugli stessi meccanismi che si basano le nostre vite: sul lavoro, e su questa convinzione che le cose non sono regalate. Bisogna conquistarsele con la forza del pugno. Quando ci si dà da fare (in francese <<mettre la main à la pate) se ne può uscire...

- E la specializzazione in ostetricia, le questioni della procreazione, anche questo è legato a tutto ciò?

- Al Sentiero? No, non lo penso. Ma alla storia ebraica, certamente. Poiché ogni vita guadagnata è un po' una vittoria contro la morte...>>

11) Si veda ad es. come il titolo stesso della raccolta :<< Apritemi solo le strade d'Armenia>>, basato su Corneille (Nicomède, 1713), offra per così dire una pietra tombale decente per ricoprire il reale del sottotitolo: <<Un genocidio nei deserti dell'inconscio>>. Ricorrere per questo titolo alla poesia di un grande classico della letteratura francese rileva una strategia in partenza inconscia. La mia preoccupazione era stata semplicemente di rivestire un disastro interno col piacere salvifico verso la letteratura che mi aveva fatto conoscere la scuola, oppure di mettere la tragedia di un padre sotto la protezione di un Padre adottivo civilizzatore e garante.

12) Titolo della premessa di Altounian J. (1990).

13) Titolo di un poema didattico di Esiodo (VIII-VII secolo).

14) Questi quattro paragrafi riprendono con poche modifiche brani di Altounian J. (1990, 1, 5-7) e Altounian J. (2000, 10-11).

15) Su questo tema si veda anche: René Kaes (1996).

16) L'autore qui gioca con le parole 'Mut' (coraggio), 'Untermut' (neologismo, letteralmente: coraggio sotterraneo, astuzia), 'Übermut' (sfrontatezza, letteralmente coraggio in eccesso).

17) Questo 'Diario' <<Tutto ciò che ho sopportato dal 1915 al 1919>> di Vahram Altounian è stato pubblicato nella sua interezza con il titolo di <<Terrorismo di un genocidio>> nel febbraio 1982 in 'Temps Modernes' e ripreso in Altounian J. (1990, da pag. 85 a 115) e commentato da me (l'autrice, N.d.T) - 23 anni dopo la sua prima pubblicazione! - in Altounian J. (2005). Il manoscritto è stato tradotto, annotato e corredato di postfazione da Krikor Beledian, scrittore di lingua armena, 'maitre de Conférences' all' INALCO, del quale bisogna leggere le note e la postfazione che sono illuminanti per situare queste pagine intollerabili nel loro contesto storico, geografico ed informarsi sulle particolarità della sua lingua rispetto alle altre testimonianze <<grezze>> scritte alla stessa epoca.

18) Il padre dell'autore possedeva dei campi coltivati a rose da cui si estraeva quest'olio utilizzato come prodotto dermatologico o cosmetico. Haig è suo figlio cadetto, fratello del narratore.

19) Ecco l'insieme del passaggio ripreso sopra di <<La creatività e le sue origini>>: <<Nessun sentimento di sé si può costruire senza appoggiarsi sul sentimento d'ESSERE>> scrive Winnicott <<(...) Ciò che è in gioco qui è una continuità reale di generazioni, ossia ciò che nel neonato (...) è trasmesso da una generazione all'altra grazie alla mediazione dell'elemento femminile nell'uomo e nella donna, (...). L'elemento femminile (...) è (....) Non è la frustrazione che è [qui] in causa, ma la mutilazione (...) O la madre ha un seno che è, cos che permette anche al bebé di essere, oppure la madre è incapace di apportare questo contributo, nel qual caso il bebé deve svilupparsi senza la capacità di essere (...) richiedendo l'identità iniziale un seno che è e non un seno che fa >>.

20) nel senso definito da Winnicott D.W. ad esempio in (1969, 192).

21) Questi aspetti sono stati studiati in modo più ampio in Altounian J. (1990 e 2000).

 

 

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   Ternon).

Raymond Kévorkian, Le génocide des Arméniens, Odile Jacob/Histoire, 2006.

 

 

 

 

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