Presentation   News Editorial    board   Archives    Links   Events Submit a     paper Sections
contacts & mail

FRENIS  zero       

Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts

 

 Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica "Mauro Mancia"), via Lombardia, 18 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Direttore Editoriale: Nicole Janigro

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Marina Breccia (Pisa), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Massimo Maisetti (Milano), Livia Marigonda (Venezia), Predrag Matvejevic' (Zagabria), Franca Mazzei (Milano), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

Rivista iscritta al n. 978 Registro della Stampa del Tribunale di Lecce

ISSN: 2037-1853

Edizioni Frenis Zero

  Numero 14, anno VII, giugno 2010

"Cinema, autentica passion...!"

 

   DALL'APOCALISSE AL SETTIMO SIGILLO DI INGMAR BERGMAN

 

 

  di  Massimo Maisetti

 

   

 

Questo articolo è stato presentato dall'autore come relazione al convegno "Cinema e Psicoanalisi" che si è svolto a Milano nei giorni 20-21-22 novembre 2009 ed è stato dedicato a "Il numero". Si ringrazia l'autore per la gentile autorizzazione alla pubblicazione del suo testo su Frenis Zero.

Massimo Maisetti è giornalista, critico cinematografico, esperto di cinema di animazione. E’ nato nel 1934 a Milano dove risiede. E’ stato Preside della Scuola di Cinema e Televisione del Comune di Milano e Consigliere dell'Ente Max Massimino Garnier, organizzatore del Salone dei Comics e del Cinema d'Animazione di Lucca. Direttore dell'Istituto per lo studio e la diffusione del cinema di animazione - ISCA Presidente della Federazione Italiana dei Cineclub – Fedic. Ha pubblicato saggi su Ingmar Bergman, l'espressionismo tedesco, il cinema d'animazione russo, ungherese, svizzero e italiano.

 

 

 

 

"E quando l'agnello aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un silenzio di circa mezz'ora. E vidi i sette angeli che stavano dinanzi a Dio, e furono loro date sette trombe… E il primo angelo diede fiato alla tromba, e ne venne grandine e fuoco misto a sangue e furono gettati sopra la terra, e la terza parte della terra fu arsa, e la terza parte degli alberi fu arsa, e fu arsa tutta l'erba verdeggiante. E il secondo angelo diede fiato alla tromba e una specie di grande montagna di fuoco ardente fu gettata dal mare, e la terza parte del mare diventò sangue… E il terzo angelo diede fiato alla sua tromba. E dal cielo cadde una stella grande, ardente come la fiaccola… La stella si chiamava Assenzio…"

(Da l'Apocalisse di S.Giovanni)

 

 

 

 

 

 

L’APOCALISSE: NUMERI E SIMBOLI

  

La citazione dell'Apocalisse di Giovanni è tratta dal film “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Apocalisse è sinonimo di catastrofe, distruzione totale, fine del mondo. E’ un termine ricorrente per le opere che guardano al futuro incerto destino dell’umanità. L’Apocalisse attribuita all’apostolo è la rivelazione profetica scritta verso il 95 nell’esilio di Patos, un capolavoro di oscurità e di armonia, nei suoi simboli e nei suoi numeri, che la Chiesa ha inserito nel canone biblico..

I capitoli tra il prologo e l’epilogo possono dividersi in tre parti. Nella prima Cristo – tra 7 candelabri (le 7 chiese), nella destra 7 stelle (gli angeli delle sette chiese) - detta a Giovanni  le 7 lettere alle Chiese dell’Asia minore (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia , Laodicea).

Nella seconda lo rapisce in cielo fino al trono sul quale siede “uno nell’aspetto simile alla pietra di diaspro e di corniola”. Attorno al trono siedono 24 vegliardi (12 patriarchi e 12 apostoli, capi della chiesa trionfante), nel mezzo 4 animali.

Si succedono 5 serie di visioni simboliche: la lotta tra Cristo e il demonio, lo sterminio di Babilonia, la lotta con la bestia, la lotta con il falso profeta, la conclusiva vittoria di Cristo.

La terza parte celebra il giudizio finale, nuovi cieli e nuove terre, la celeste Gerusalemme, la gloria dei santi in Paradiso.

 

Ci fermiamo sulla parte centrale dell’opera per rileggere con attenzione la sequenza settenaria carica di simbolismo che descrive l’apertura del libro dei 7 sigilli, contenente i segreti del regno di Dio. Il libro consisteva in fogli di pergamena avvolti l'uno dopo l'altro intorno a un bastoncino e sigillati, per tenerli aderenti e impedirne la lettura.

Alla rottura dei primi quattro sigilli è connessa l’apparizione, evocata da ciascuno dei 4 animali (il leone, il vitello, “il terzo aveva la faccia come d’uomo”, l’aquila), di 4 cavalieri.

Il primo, su un cavallo bianco, è Cristo con arco e corona, che parte “vincitore per vincere”, simbolo della conquista. Il secondo, su un cavallo rosso, armato di spada, è il simbolo della guerra.

Il terzo, su un cavallo nero, porta la bilancia che raziona il cibo, simbolo della carestia. Il quarto “sopra un cavallo pallido si chiamava Morte, e gli teneva dietro l’inferno, e gli fu data potestà sopra le 4 parti della terra per uccidere con la spada, con la fame, con la mortalità e con le bestie feroci”. Il quinto sigillo rivela le anime dei martiri che reclamano giustizia e vendetta, e “fu data loro una veste bianca; pazientassero finché fosse compiuto il numero di quanti dovevano essere uccisi come loro”.

 

Il sesto sigillo segnala la ormai prossima fine del mondo con il terremoto, il sole nero, la luna color sangue; le stelle cadono sulla terra “come fichi acerbi dal fico scosso da gran vento”, il cielo si ritira “come un libro quando si ravvolge”, i monti spostati come le isole. Ma ai 4 Angeli che stanno ai quattro angoli della terra l’Angelo che viene dall’oriente ordina “di non devastare la terra né il mare né le piante finché non sia stato impresso il sigillo divino sulla fronte dei suoi servi”. I segnati saranno 12mila per ciascuna delle 12 tribù dei figli di Israele, per un totale di 144mila, un numero simbolico che ha per fattori il quadrato di 12  e 1000, inteso come moltitudine.  E’ “la folla immensa che nessuno poteva contare, d’ogni nazione, razza, popolo e lingua… L’Agnello li condurrà alle fonti delle acque della vita e Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

 

 

IL SETTIMO SIGILLO

 

      

 

Dal capitolo dedicato al settimo sigillo nasce l’affresco dell’omonimo film di Ingmar Bergman, tratto da un lavoro teatrale (Pittura su legno) scritto dallo stesso Bergman nel 1955. Certi riferimenti visivi sono ispirati dai dipinti che nelle chiese raffigurano la fede, la speranza, l’angoscia, il dolore.

All'inizio del film una voce fuori campo cita i versi dell'Apocalisse letti da "un Agnello con 7 corna e 7 occhi, che sono i 7 spiriti di Dio spediti per tutta la terra". L’Agnello è il Cristo, le corna sono il simbolo dell'onnipotenza, gli occhi dell'onniscienza, gli spiriti gli esecutori dei suoi ordini. "Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, si fece nel cielo un silenzio di circa mezz'ora".  Che senso ha questo silenzio? “L'uomo viene a conoscenza dei misteri della vita in questa mezz'ora? Allo stesso modo, il cavaliere che procrastina la morte sfidandola a scacchi per un'ultima azione che abbia un senso, riesce a dare un significato alla sua esistenza?"  (I. Bergman, Il settimo sigillo, trad. It. di Alberto Criscuolo, Milano, 1999, V ed., p. 87).  Il ricorso alla mortalità legata a una epidemia apocalittica risale in Svezia al 1349, quando la peste uccise un terzo della popolazione. Nella metà degli anni Cinquanta poteva trovare riferimenti certi nell’incubo atomico originato dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki, in tempi a noi più vicini dal disastro di Chernobyl, dove il nome russo è sinonimo di assenzio. Oggi le suggestioni si moltiplicano tra pandemie virali, terremoti, crisi economiche, attacchi terroristici, rapine e accoltellamenti che portano ansie e depressioni sia a chi li vive sia a chi li guarda in televisione. Il filosofo Zygmunt  Barman parla di “modernità liquida”, cioè di una vita “liquida” sempre più frenetica e senza certezze. Dietro tante paure c’è sempre la stessa di sempre: quella della morte e dell’infinito.  “Per quanto mi ricordo – scrive a questo proposito Bergman - avevo un dannato terrore della morte, che durante la pubertà e i primi venti anni poteva impennarsi sino a farsi intollerabile... Che poi io abbia preso all'improvviso il coraggio di raffigurare la Morte come un clown bianco, come un personaggio conversante, che giocava a scacchi e non deteneva alcun segreto, questo fu il mio primo passo nella lotta contro la paura della morte”. Di qui la ricerca del significato profondo del film, in quanto espressiva e convincente parabola delle vicende umane sul significato dell'esistenza, dove le tradizioni svedesi, i simboli, le allegorie, gli afflati lirici,  sono volti a costruire “una delle ultime espressioni di fede, delle idee che avevo ereditato da mio padre e che portavo con me  dalla Infanzia”.  Già nel corso del Novecento la situazione in cui versava l’umanità era per Bergman chiaramente definita. Tre i mali del secolo: una cultura incantata dalle grandi conquiste scientifiche e divenuta scettica e indifferente nei confronti della grande tradizione religiosa e umanistica europea, un clima di nevrosi e di isterismo  ereditato dal periodo bellico, un senso di disfacimento e dissoluzione nella coesione della compagine sociale. Né il protestantesimo

troppo rigido e soffocante, né il marxismo la cui impostazione comunitaria contrasta con l’individualismo occidentale, né alcuna delle filosofie contemporanee, spesso giochi e rimandi in codice riservati agli intellettuali, offrono vie d’uscita. E l’uomo, angosciato o annoiato, ma soprattutto disperatamente solo, quando accade che si renda conto di questa solitudine, si pone alla ricerca  di qualcosa che dia un perché al suo vivere e al suo affannarsi. Di fronte alla morte è necessariamente portato a esprimere una valutazione nei confronti di se stesso e della propria esistenza, e a comportarsi in conseguenza. L’analisi di questo comportamento è dunque il tema centrale del film, realizzato nel 1956, tuttora d’attualità. 

La vicenda è atemporale. La scelta di un Medioevo fatto di crociate, dogmi, paure, è  dovuta a quelle rimembranze di fanciullo che permettono composizioni plastiche vigorose e ispirate. Il Medioevo e la peste sono il periodo e la situazione più indicati ad accrescere il risalto di una allegoria sull’uomo, sulla sua ricerca di Dio, con l’unica certezza della morte.

Antonius Block, cavaliere reduce dalla Terra Santa dopo dieci anni di crociate, intraprende questa ricerca, di Dio e di una ragione di vita, negli intervalli di una partita a scacchi che si trova a giocare con la Morte stessa, unica dilazione ed ultimo respiro vitale concessigli per un’azione che valga qualcosa. Secondo la tradizione simbolica scandinava, quegli intervalli rappresentano i momenti dell’esistere in cui l’uomo può verificare la propria essenza morale. Il cavaliere ci prova e, avvicinandosi a un confessionale senza sapere che chi lo ascolta è la Morte, confida:

: “Vorrei confessarmi ma non ne sono capace perché il mio cuore è vuoto. E’ vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi leggo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei riconoscibili simili, vi scorgo immagini d’incubo nate dai miei sogni e dalle mie fantasie”.

E’ una constatazione sincera, sintomo di un’angoscia esistenziale nata dalla mancanza di fede. È la Morte a chiedergli: “Non credi che sarebbe meglio morire?” .

Raggiungere Dio coi propri mezzi in queste condizioni è assai arduo, e Antonius Block se ne rende conto. “L'ignoto mi atterrisce. Può darsi che sia impossibile sapere, ma perché non deve essere possibile cogliere Dio coi propri sensi? E per quale ragione si nasconde fra mille e mille promesse, preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché dovrei avere fede nella fede degli altri? Perché non posso uccidere Dio in me stesso, perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso ed umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? Perché, nonostante tutto, continua ad essere uno struggente richiamo dal quale non riesco a liberarmi?

Io voglio sapere, non credere, non supporre. Voglio che Dio mi tenda la mano, che mi sveli il suo volto, mi parli… Lo chiamo nelle tenebre, ma a volte è come se non esistesse". "Forse non esiste", suggerisce ancora la Morte. "Allora la vita è un assurdo errore. Nessuno può vivere con la Morte davanti agli occhi sapendo che tutto è nulla…  La mia vita è stata vuota, l'ho passata ad andare a caccia, a viaggiare, a parlare di cose insignificanti. Lo dico senza amarezza né rimorso, perché so che la vita della maggior parte della gente è così." Ma ora Antonius Block vuole compiere "un'ultima azione che abbia un senso", e se la gioca nella partita a scacchi.

 

I dubbi e i problemi di Bergman non sono espressi soltanto tramite il cavaliere. Lo scudiero si rifiuta di contrapporre quella che giudica una esasperata ricerca del soprannaturale, alla morte e alla paura che ne deriva: “Nelle tenebre dove probabilmente tutti noi siamo, non troverai nessuno che ascolti le tue grida o sia commosso dalle tue sofferenze. Asciuga le tue lacrime e specchiati nella tua stessa indifferenza”, che é indifferenza alla morte e a tutto ciò che è inconoscibile.

Al non esistere si può contrapporre soltanto l’esistere, al nulla che vaga sopra l’umanità la vita, che anche nella gioia o nell’angoscia o in un amaro sorriso forzato, resta pur sempre vita. “Sono lo scudiero Jöns che si beffa della morte e del Signore, ride di se stesso ma sorride alle ragazze. Ho un mondo che è soltanto mio, di cui tutti si burlano, io compreso”.  La morte può vincere ma non trionfare. Il trionfo è dell’uomo quando riesce a sentirsi vivo fino in fondo ed a provare fino all’ultimo minuto “la gioia smisurata di una mano che si muove o di un cuore che pulsa”.

 

Diverso e positivo è poi quanto emerge dalla descrizione della famiglia dei saltimbanchi. Qui la felicità della vita si accorda col ritmo della natura e con la possibilità di pervenire alla comprensione reciproca e alla conoscenza grazie all’amore e alla semplicità. Come la filosofia dello scudiero accanto all’inquietudine del cavaliere sembra acquistare nuovi significati, così l’affiorare di simboli e di allegorie conferisce alla presenza di Jof e Mia un’importanza particolare. Antonius Block lo rimarca con particolare emozione nell’intermezzo felice dell’incontro con loro: “Ricorderò questo momento, il silenzio del crepuscolo, il profumo delle fragole, la ciotola del latte, i vostri volti su cui scende la sera, e Mikael che dorme sul carro e Jof che suona la lira. Cercherò di ricordarmi quello che abbiamo detto e porterò questo ricordo con me, delicatamente, come fosse una coppa di latte appena munto che non si vuol versare. Sarà per me un conforto, qualcosa in cui credere”.

Ricorre il profumo delle fragole, simbolo di un semplicità non incrinata da timori superstiziosi, ed emergono valori suscettibili di dare conforto e fiducia: l’arte di sapersi accontentare e la continuità dell’uomo nei propri figli. Jof e Mia hanno trovato il giusto equilibrio tra la gioia di vivere dello scudiero e l’anelito al trascendente del cavaliere, grazie alla assenza d’ogni forma di indifferenza e di egoismo. Jof attinge alle vette dell’amore e della poesia, ed è quanto gli permette di sfuggire alla morte e di vedere Dio. Mia vive per il marito e per il figlio, e nella sua condizione di moglie e madre felice, in perfetta adesione alla spontanea bellezza dell’esistere, può ben comprendere il tormento di chi non dispone di quei beni e ne sente dolorosamente e confusamente la mancanza.

Quanto a Jof, è valida poeticamente, non certo razionalmente, la descrizione di ciò che ha creduto di vedere, e cioè Maria Vergine che “aveva una corona d’oro in testa, portava una veste azzurra a fiori d’oro, era scalza e aveva delle piccole mani scure con le quali teneva il Bambino e gli insegnava a camminare, poi mi ha visto che la stavo osservando e mi ha sorriso, gli occhi mi si sono riempiti di lacrime, e quando li ho asciugati era scomparsa”. Jof dà un’altra esplicita conferma delle sue facoltà di visionario nel corso dell’ultima fase della partita a scacchi, quando vede la Morte giocare con il cavaliere. E’ il momento in cui con Mia e Mikael si affretta ad allontanarsi, mentre Antonius Block finge una mossa sbagliata, perdendo la partita ma distraendo la Morte.

Ha avuto tempo sufficiente per consentire la fuga e la salvezza di coloro che gli hanno offerto un momento di serenità, la gioia di essere compreso, l’illusione di avere compiuto un’opera degna e quindi di avere ritrovato un rapporto di solidarietà col prossimo.  Ma non ha avuto una risposta al suo interrogativo.

 

“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Certo Dio non è col fanatismo dei cacciatori di streghe o con l’esaltazione dei flagellati o con il miserabile materialismo del fabbro Plog, della sua moglie infedele, di Skat, il saltimbanco con cui è fuggita per una notte. L’ignoto li attende. Skat, per salvarsi dall’ira del fabbro inferocito, ha finto il suicidio con un pugnale da scena e, una volta lasciato solo, si è arrampicato su un albero per riposarsi in pace. Risvegliato dal rumore, trova la Morte che sta segando il tronco per abbatterlo. Il suo tempo è scaduto.

Quanto al sacrilego Raval, la peste l’ha colto nella foresta, quasi un castigo venuto dal cielo.

 

Antonius Block raggiungerà il proprio castello e rivedrà la sua sposa dopo dieci anni. Il destino suo e di tutti si compie. Per alcuni, pur rapiti dalla morte, vi sarà la salvezza. Sarà salva la fanciulla che, straziata sul rogo destinato alle streghe, ha raccolto su di sé tutto l’odio e il male di cui gli uomini sono capaci. Si salveranno Karin, la moglie del cavaliere, e la ragazza che ha seguito lo scudiero, entrambe accettando la morte serenamente, come con serenità e fede istintiva hanno accolto e subìto la vita. La ragazza avverte per prima la presenza della morte, e per prima, inginocchiata, parla mentre le si distende il volto quasi in un sorriso: “L’ora è venuta”.

Karin accoglie la morte come un ospite d’onore: “Vi do il benvenuto,signore, nella mia casa”,

 

Le ultime parole del cavaliere non sono un atto di fede né una preghiera, piuttosto un estremo grido d’angoscia: ”Dall’oscurità che tutti ci attornia mi rivolgo a Te, Signore Iddio. Abbi misericordia, ché siamo inetti e sgomenti e ignari. Dio, tu che in qualche luogo esisti, che devi certamente esistere, abbi misericordia di noi”. E’ un grido perfettamente conforme a una affermazione fatta in precedenza: “Nella nostra paura formiamo una immagine, e questa immagine la chiamiamo Dio”.

Con Jöns e gli altri seguirà la Morte che li trascina verso l’ignoto, nella visione che Jof descrive a Mia come “una danza solenne verso le terre buie, mentre la pioggia lava loro la faccia e scioglie il sale delle lacrime sulle loro guance”. (1)

 

Jof e Mia,  sani e salvi, si risveglieranno alla luce del giorno sulla riva del mare. " Mikael diventerà un grande acrobata, o un giocoliere che riuscirà a fare il numero più incredibile – assicura Jof – come far rimanere una palla immobile in aria".

 

Ma il tempo di una partita a scacchi, o, per seguire l’allegoria, quel silenzio di circa mezz’ora seguito all’apertura del settimo sigillo, prima del finimondo, non sono serviti a dare ad Antonius Block la fede in quell’Uno “che è lì fuori, al buio, e non si mostra mai per quanto lo si invochi”.

Bergman, che si identifica nel  cavaliere, non ha trovato una soluzione.

 

Il problema sussiste, l’Apocalisse è ormai prossima, inutile dare i numeri.

 

 

Nota dell'Autore:

1)       La danza solenne della Morte verso le terre buie è una scena-cult della storia del cinema che ha raccolto tante acute osservazioni sulla perfezione della luce e sui fotogrammi in bianco e nero di Gunnar Fischer, direttore della fotografia, che sembrerebbero rifarsi ai dipinti delle chiese di cui si è scritto.

      Bergman ne svela la casualità: “La scena finale con la Morte che danza allontanandosi con i

      viandanti, fu girata negli atri del Cortile Reale. Dopo ché avevamo impacchettato ogni cosa per

      la sera, cominciò il maltempo. All'improvviso vidi una nube strana; Gunnar Fischer tirò su la

      cinepresa. Molti degli attori erano già tornati nei propri alloggi.

      Alcuni inservienti e turisti danzavano ai loro posti, senza avere idea di che cosa si trattasse.

      Quell'immagine, divenuta poi così famosa, fu improvvisata in pochi minuti”. 

      Anche questo è un bel numero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Editor sito web e responsabile editoriale: Giuseppe Leo

 

Copyright A.S.S.E.Psi. - Ce.Psi.Di.- Edizioni  "FRENIS ZERO" 2003-2004-2005-2006-2007-2008  -2009 - 2010

 

Copyright

Tutti i contenuti delle pagine web di questa rivista telematica  sono proprietà dei rispettivi autori. Ogni riproduzione, ri-pubblicazione, trasmissione, modificazione, distribuzione e download del materiale tratto da questo sito a fini commerciali deve essere preventivamente concordato con gli autori e con il responsabile editoriale Giuseppe Leo. E` consentito visionare, scaricare e stampare materiale da questo sito per uso personale, domestico e non commerciale.

Nota legale

 

Questo sito web non effettua trattamento di dati personali ai sensi della legge 196/2003