Presentation   News Events   Archives    Links   Sections Submit a     paper Mail

FRENIS  zero 

 Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte  

  Home Frenis Zero

        

 

"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria". N.10, anno V, giugno 2008.

    "VOSTRO IL DELITTO, NOSTRO IL CASTIGO. Sradicati dall'Ararat, accolti nella culla mediterranea"

 

di Manuela Avakian

 

 Questo testo è stato presentato dall'autrice al convegno internazionale "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" (Lecce, 5 aprile 2008). Manuela Avakian è autice di "Una terra per Siran" (Prospettiva editrice, 2003).

Foto: Manuela Avakian presenta la sua relazione nella tavola rotonda "La Psicoanalisi e i disagi delle civiltà mediterranee" al convegno "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" (Lecce, 5 aprile 2008).

 

 

 

 


 

Ieri il tuo volto,

 oggi il tuo ricordo,

e domani, forse,

la mia saggezza

 Così saluto il caro Nonno Krikor, ispiratore del mio romanzo, “Una terra per Siran”.

Così saluto voi, tutti, e vi ringrazio di essere qui.

 

 

 

         
 

 

 

Ringrazio soprattutto il Dott. Leo per avermi onorata con questo invito, che mi lusinga, e mi disorienta. Mi ritrovo in mezzo ad illustri studiosi ed esperti di un argomento complesso: l’ID- entità, e mi chiedo il perché. Rifletto, e trovo una sola risposta: sono qui perché pur essendo italiana, sento forte la mia appartenenza ad un popolo che 93 anni fa rischiò di non esistere più. Una parte di me è, infatti, armena, poiché armena è mia madre, e lo è mia nonna. Lo era anche il caro nonno Krikor, superstite di un genocidio lungamente dimenticato, ancora troppo spesso negato .

E tutto ciò fa parte della mia identità.

Il '900 è stato un secolo di genocidi e il primo in ordine di tempo, tra la primavera del '15 e l’autunno del '16  ha avuto come vittime gli armeni  dell’impero ottomano.

Ma non siamo qui per una lezione di storia, o di politica, o per discutere  verità vere, distinguendole da verità ambigue prodotte dall’ormai indispensabile “politically correct”. Preferirei contribuire a questa giornata di studi con qualche testimonianza riguardo il passato tragico e il presente difficile di un  popolo dall’identità  martoriato e oggi in fase di ricostruzione. Un popolo che mi appartiene e al quale io appartengo.

Desidero, soprattutto, parlarvi di dolore, e di riscatto. Vorrei dirvi del dolore che scorgevo negli occhi di mio nonno Krikor le poche volte che accennava alla sua infanzia. E non trovo modo migliore se non leggendovi questa pagina:

Lettura N. 1 (I soldati turchi)

<<Vivevamo in una casa a due piani vicino a Adana. Avevo appena sette anni  e ricordo che non c’era recinto intorno al cortile che era sempre polveroso e cocente. Quella mattina Mairig, mia madre, stava facendo il bucato e ricordo ancora la grande bacinella nera che usava. Io mi divertivo ad imitare un giocoliere che avevo visto ad una fiera. Ashken, la mia sorellina, seduta su uno sgabello, strapazzava una bambola di pezza che Mairig le aveva cucito. Il giorno prima aveva compiuto tre anni.

Di colpo vidi due soldati turchi procedere verso di noi. Si fermarono a pochi metri di distanza e cominciarono ad osservarci. Ridevano e i miei occhi incrociarono quelli del soldato più giovane e io gli sorrisi, l'unico sorriso della mia vita che non mi perdonerò mai.

Non mi mossi, probabilmente perché Mairig non lo fece. La povera donna era rimasta immobile con entrambe le mani ancora nella bacinella e si era voltata verso i due giovani turchi con uno sguardo che solo più in là negli anni avrei cercato di decifrare: forse pregava i due turchi di non farlo, forse ha chiesto velocemente qualcosa al Signore, o forse era solo uno sguardo nel nulla, di nulla. Sentì uno dei due dire: "Ti dimostrerò che ho ragione. Questi proiettili uccidono lentamente, ma uccidono bene.'

Un attimo dopo prese la mira verso Ashken e 'bang'.

Mairig lanciò un urlo lungo e lancinante. Nei secondi che seguirono, o minuti forse, non riuscì a staccare gli occhi dal corpicino di Ashken che sobbalzava sulla terra polverosa come quello di una gallina appena sgozzata. Mairig, questa volta le mani alzate verso il cielo con acqua insaponata che scivolava giù verso i gomiti e poi per terra continuò a gridare con una voce che sembrava riempire il cielo intero>>.  

 

Dice Alketa Kosovo, autrice albanese <<Le cose scordate sono come quelle che non sono mai esistite>>. Questo libro ha l’intento di ricordare che il nonno Krikor è esistito, che il negazionismo turco, anche a distanza di quasi un secolo, avrà sempre con chi confrontarsi. L’ho scritto per i sopravvissuti del deserto di Der-es-zor e per gli innumerevoli fratelli, cugini, nipoti, figli di qualunque colore, o etnia , sparsi per il mondo, in cerca di quella pace che deriva solo dalla consapevolezza di essere, nel senso di possedere una ID-entità.

 

Passiamo ora alla tragedia dei superstiti del genocidio, dello strazio causato quando all’improvviso è avvenuto lo strappo dalle proprie radici; il dover lasciare, senza capire il perché, da un momento all’altro, la propria casa, tutte le cose, piccole e grandi, del proprio quotidiano, le cose solitamente date per scontate, il cibo, l’acqua da bere e per lavarsi, gli indumenti, un letto, un pettine.

Leggiamo:

<<La nonna Hripsime era una sopravvissuta del massacro. In giovane età era stata costretta ad abbandonare la sua terra per sfuggire, con tutta la famiglia, alla persecuzione dei turchi. Aveva camminato in gruppo, per mesi e mesi senza una meta, con addosso i brandelli dell’unico abito che le era stato concesso di portare con sé e del quale, strada facendo, era rimasto ben poco.

Aveva camminato così a lungo senza scarpe da perdere la sensibilità della pianta dei piedi, poiché centinaia di minuscole pietroline vi si erano infilate dentro diventando parte di questi ultimi>>.

 

Parliamo anche delle difficoltà e dei pericoli vissuti dai perseguitati costretti ad attraversare terre ostili, con il nemico sempre in agguato. Nei racconti tramandati a Siran dalla madre e dai nonni leggiamo che:

 

<<Spesso i soldati turchi, cavalcando i loro cavalli ben nutriti, raggiungevano il gruppo di profughi armeni divertendosi a decapitare chi, preso dal panico, correva verso una salvezza che il destino riteneva invece che non fosse suo>>.

 

So che non è facile, ma proviamo ad immaginare la condizione umana e psicologica di queste vittime dei cosiddetti Giovani turchi. Parliamo dei sopravvissuti denudati non solo di ogni avere ma anche della loro identità. Proviamo ad immaginare che cosa si prova a trovarsi…non si sa dove. Sforziamoci, insieme , a provare il dolore,  lo smarrimento, l’angoscia  di trovarsi, da un momento all’altro, alla mercè di chissà chi, senza sapere quale sarà l’accoglienza, quali le umiliazioni, quale il seguito. E leggiamo i versi che invadono la mente di Siran quando pensa alla nonna Hripsime, e al suo arrivo ad Addis Abeba, profuga:

 

<<“Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forze da ricordare

vuoti gli occhi e freddo il grembo

come una rana d’inverno…”

E’ indubbio. Primo Levi deve aver conosciuta anche la nonna Hripsime prima di scrivere questi versi>>.

 

Non a caso siamo ormai in tanti a pensare che questo primo genocidio del  secolo scorso sarebbe rimasto solo  un folle piano se le potenze di allora avessero agito diversamente. Forse oggi non avremmo  Auschwitz e la Shoah se le coscienze fossero state guidate più da quel senso umano che dovrebbe dimorare in ognuno di noi che da interessi di altro genere.

Forse a quel “Mai più” nato dopo la Shoah e tanto usato in questi ultimi anni specie nel mese di Gennaio qualcuno avrebbe potuto pensarci alcuni decenni prima.  Tant’è vero che Hitler  nel 1939 per giustificare  in anticipo i suoi piani criminali avrebbe dichiarato ai vertici militari: <<Insomma chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?>>.

 Forse la parola diaspora, madre di identità disperse e spesso perse non verrebbe usata con tanta frequenza.

Ma insisto. Lasciamo la storia agli storici, la politica , ahimé  ai politici, e torniamo a parlare di uomini, e di donne, che sono la vera Storia.

 

 Sicuramente è difficile immedesimarsi nelle sofferenze del perseguitato in fuga, ma forse lo è ancor più immaginare lo stato di sperdimento di chi viene strappato dal proprio quotidiano, dalle certezze che lo accompagnano nelle ventiquattro ore, nella veglia, nel sonno. Proviamo insieme ad immaginare lo stato di chi di colpo viene privato dei suoni, dei sapori, dei volti che gli appartenevano. Quando perfino le luci del giorno e il cielo delle notti non gli sono più riconoscibili. Proviamo a capire insieme come le cicatrici lasciate sull’identità di un popolo riappaiono sulla pelle delle sue generazioni successive.

 

 Dice Siran : <<Conoscevo un luogo sull’altopiano a 2500 metri sopra il livello del mare. Pensavo che per chiunque quello fosse il luogo più vicino al cielo ed ero convinta che le stelle fossero uguali ovunque. E invece così non è. Ricordo che lassù sembravano gemme in un lento movimento verso di noi e pareva che ci chiedessero di essere afferrate. Quaggiù, al livello del mare, sono scintille distanti, inafferrabili, spesso sul punto di svanire>>.

 

Siran, adolescente, affronta il problema della  disappartenenza ancorandosi alla cultura d’altri. Dice, in uno dei numerosi andirivieni della sua mente tormentata:

 

<< L’Europa, caro vecchio continente! Le montagne svizzere di Heidi, pittori lungo la Senna, le note di Theodorakis in un caffè di Atene, le gondole. Mandolini napoletani; una quarta moneta nella Fontana di una città Eterna. Madrid: toreri bellissimi, di quelli che muoiono nei film americani e forse solo allora meritevoli di lacrime. E poi ancora Socrate, Omero… Michelangelo, Marx e Chopin. Quello era il mio posto, cara Europa, culla del pensiero, della saggezza, della bellezza>>.

 

Il vecchio continente viene mitizzato, e noi sappiamo quanto giustamente e ingiustamente, occupando il posto di un’assenza altrimenti incolmabile. Anche perché nella terra dei suoi avi Siran non riesce a riconoscere un posto dove potersi costruire.

                                                                                                                                        

 << Non aveva mai pensato all’Armenia come la terra dove avrebbe potuto camminare, correre, giocare allegramente, dove avrebbe potuto innamorarsi, sposarsi ed essere felice. Quella era la terra dei suo nonni, e dei nonni dei suoi amici, tutti vecchi, tristi, le donne regolarmente vestite di nero, gli uomini con il volto pieno di profondi solchi di rabbia e comunque tutti ossessionati dai turchi>>.

 

 Ma più di ogni altra cosa, la storia di Siran ci insegna che non è possibile dimenticare i segni indelebili che la violenza dello sterminio lascia in chi lo ha vissuto sulla propria pelle. All’età di sette anni il padre di Siran assiste all’uccisione della sorellina di tre; non riesce ad elaborare l’orrore di quello che ha visto con i suoi occhi,  restando per tutta la vita prigioniero di una terrificante armatura di  dolore e rancore che lo ha snaturato e gli ha tolto il gusto della vita. Egli stesso lo confesserà nella lettera-testamento lasciata alla protagonista.

 

<< Adorata figlia mia,

Ho trascorso una vita intera incutendo terrore, credendo al contempo di conquistare rispetto, confondendo miseramente forza e prepotenza. Sentivo crescere il mio irrigidimento e me la prendevo con i Turchi, con gli Americani, con vostra madre. Vostra madre... povera donna. Tenera, dal volto dolce, la ragazzina che un giorno mi regalò una stecca di cioccolata.

Chissà quale gesto romantico credevo di compiere quando ho inchiodato il prezioso dono ad un pezzo di legno, dentro una cassetta, anziché gustarmelo. Era un gesto premonitore. Così ho tentato di fare anche con lei, inchiodarla al mio essere, al mio sentire, senza riuscire a viverla, a gustarla per la meravigliosa creatura che era.

Piangi, piccola mia, versa liberamente quel liquido incolore se non vuoi che, più in là, quando sarà troppo tardi, fuoriesca tinto di rosso, attraverso le crepe di un cuore stanco e invecchiato.

Piangi la tua tristezza, ma non ti affliggere.

Le cose che rimpiangi di non avermi detto, gli abbracci di cui ora credi di aver privato me e te stessa, gli ho avuti tutti in questi ultimi tempi. Con ogni "Vartan" che pronunci, si scioglie un altro pezzo di quella terrificante armatura che mi imprigionava da troppo tempo. Con ogni pacca che mi dai sulle spalle, amica mia, ritrovo il sorriso perso... non ricordo più quando. Ma ora so, so che quel vivere dolente l'ho voluto io. Tanto ero intento nel mio odio e nella rabbia contro i Turchi che avevano sopraffatto il mio popolo, la mia famiglia, me, tanto ero invaso da risentimenti e paure, non ho mai saputo godere le dolci distese, la quiete dell'altopiano che mi ha ospitato a lungo con il suo popolo saggio e sorridente, non ho saputo gustare un focolare predisposto a spensieratezze e potenziali gioie. Il nemico stava dentro di me e l’ho lasciato crescere a dismisura finchè non ha superato le mie stesse dimensioni.

Piangi, bambina mia, piangi finchè non ti sentirai liberata dal nemico, dal dolore, dai rimpianti, dai rimorsi. E poi, alzati e, a testa alta, cammina con un sorriso. Tua è questa terra>>.

 

Una cara amica nonché appassionata studiosa di persecuzioni e delle loro nefaste conseguenze ha presentato questo romanzo in molte città scegliendo di concludere il suo intervento con queste parole:

 <<Queste letture ci impongono una riflessione: riguarda il ruolo che tutti noi come singoli e come collettività, in quanto soggetti dotati di senso morale possiamo, dobbiamo giocare  se non vogliamo che in questo mondo sempre più globalizzato si continuino a perpetrare violenze contro uomini e donne colpevoli di essere minoranze e come tali destinate a scomparire   private delle loro terre, delle loro esistenze della loro lingua e cultura,  dopo averle respinte, rifiutate, negate nella loro diversità che al contrario reca a tutti luce e ricchezza >>.

 

Chiuderei ora con un pensiero della protagonista che trova, nel sogno, la speranza che io, oggi, vorrei condividere con voi:

 

<<Erano tante le cose che non aveva conosciuto in Africa. Tante erano quelle che non avrebbe mai più ritrovato in questa parte del mondo.

Un impulso forte le suggeriva di allargare le braccia per raccogliere i due mondi e stringerli in un'unica, perfetta fusione: stelle simili a gemme sopra lo Ionio, quattro stagioni ovunque, ma tutte clementi, e una sola mano a stringere forte mango e albicocche facendo scorrere in una coppa un distillato perfetto per qualunque palato.

No, Siran non aveva smesso di sognare…>>

 

E nemmeno noi dobbiamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

Copyright - Ce.Psi.Di. - Rivista "FRENIS ZERO" All rights reserved 2004-2005-2006-2007-2008