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Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della negazione

Numero 15, anno VIII, gennaio 2011

 

 

     "DALLA RIMOZIONE AL NEGAZIONISMO"

 

 

 

 di Manuela e Mary Avakian

 


Questo testo è una rielaborazione da parte delle autrici del loro intervento al convegno internazionale "Id-entità mediterranee.Psicoanalisi e luoghi della negazione"(Lecce, 30 ottobre 2010). Esso  verrà ulteriormente elaborato e pubblicato in un prossimo libro delle Edizioni Frenis Zero intitolato "Psicoanalisi e luoghi della negazione". Nella foto sopra: Mary Avakian.

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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EDIZIONI FRENIS ZERO

"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-2-8

Anno/Year: 2010

Pages: 520

Prezzo/Price: € 30,00

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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo 

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

Editore/Publisher: Astrolabio Ubaldini

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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini" 

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Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

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PREMESSA di Manuela Avakian

 

Ho ancora una volta l’onore di essere qui, tra di voi, per esprimermi su un argomento complesso e che mi tocca da molto vicino. Ringrazio innanzitutto il Dott. Leo per l’occasione offertami; ringrazio anche tutti i presenti, studiosi e non, per il loro contributo e per la partecipazione a questo convegno che significa tanto non soltanto per il popolo armeno, tristemente protagonista del negazionismo più sfacciato dei tempi, ma anche per altri popoli che hanno subito, o subiscono, la stessa sorte.

Premetto che le poche cose che ho da dire non sono frutto di studi approfonditi – non ho l’"expertise" per interventi del genere.

Di cosa stiamo parlando? Di negazionismo nella storia? Della storia? La storia del negazionismo? Il negazionismo storico? Ed ecco che ci troviamo su vari livelli, concorrenti e contrastanti, da studiare ed analizzare sul piano linguistico-culturale, sul piano storico e socioeconomico, sul piano etnico-religioso nonché etico, il tutto da prospettive diverse, visto da dentro, da fuori, prima, nel mentre e dopo. Intervento complesso.

Il mio piccolo contributo si concentra  su tutto ciò che ho accumulato a livello di “pelle”, a livello di tatto, di sentire e di sentore. Si basa su testimonianze dirette e tramandate, evolvendosi nei brevi o lunghi (dipende dai punti di vista) passaggi generazionali.

E’ per questo che nella prima parte del mio intervento vorrei leggere la testimonianza di mia madre, nipote e figlia di sopravvissuti del genocidio armeno, evento vittima del negazionismo turco.

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

Parte I : Rimozione e oblio: anticamere del negazionismo di Mary Avakian

 

 
 
 
 
   

 

Sono nata armena, per poi scoprirmi apolide, alla perenne ricerca della mia identità.

 

 

 

Strana infanzia, la mia – fatta di tanto, forse di troppo, per poter colmare un vuoto congenito, quello dell’identità.

“Non ti confondi mai?” mi sentivo domandare per le diverse lingue che conoscevo sin da quando mi ricordo.

No, nessuna confusione. Niente sovrapposizioni. Nessuna interconnessione. Ogni lingua aveva un suo ruolo, una sua posizione nella mente e nel corpo, una sua "raison d’ètre". Ogni lingua prendeva le proprie forme e colori a seconda di dove mi trovavo. Un perfetto caleidoscopio culturale.

Nella vita pubblica ero perfettamente anglofona: dovevo solo scegliere se volevo essere americana, inglese, un po’ di tutti e due. Era  "chic". Era la lingua non tanto di Sua Maestà quanto di Hollywood. Era la lingua di "The Voice", di Elvis, dei Beatles. Era la lingua di tutto ciò che il mondo amava ed imitava. A me non serviva imitare.

Così raccontata, sembrerebbe una favola e  per alcuni versi forse lo era.

Ma basta davvero impadronirsi di un sistema linguistico per assumersi un’identità? Bastava la mia conoscenza della lingua inglese per considerarmi (e farmi considerare) inglese, o americana? E ancora, perché tutto questo disagio? Perché non dichiarare semplicemente la propria identità di armena?

Perché quella identità nazionale, ovvero essere "Hay", era inestricabilmente collegata ad immagini che difficilmente potevano piacere ad un bimbo (o a un giovane) qualsiasi. L’immagine era quella di donne più o meno anziane, sempre vestite di lutto, sempre con gli occhi lucidi di lacrime alle quali non si dava mai sfogo. Era l’immagine di uomini duri, con il volto pieno di solchi che sapevano di sofferenza, di rabbia, di fatica.  E tutti parlavano sottovoce, e bisbigliavano parole misteriose del tipo “dagig” (turco), “ciart” (massacro), “airun arstunk”  (sangue e lacrime), e invocavano il silenzio con sguardi severi scambiati tra di loro non appena entrava in stanza un piccolo. E chi mai vorrebbe appartenere ad una identità così oscura, così sofferta, così …. incomprensibile?

La generazione di armeni che è scampata al genocidio, quella salva per miracolo e sparsa in tutto il mondo, si è negata il diritto di piangere, di urlare. Era un lutto troppo grande da elaborare per cui era meglio rimuovere. Era l’unico modo per emergere dall’oceano di dolori e di umiliazioni e per rinascere come altro, come altri.

Emergevano dalle tombe i deboli mormorii dei massacrati, voci da incubo che colmavano di ondate di rabbia e di rancore gli adulti, spiazzavano i giovani che, non volendo riconoscersi in quella pesante eredità di popolo annientato, scelsero di farsi assimilare dalle variegate famiglie di adozione.

Hanno rinnegato la lingua ("shh, non parlate in armeno, no sta bene") rischiando ciò che la glottodidattica chiama “morte linguistica”, hanno negato la propria appartenenza ad un popolo di perdenti, hanno mutilato i propri cognomi togliendoci il “marchio” …ian   (Aznavour, Arslan), esattamente come si fa con un arto in cancrena. Altri sono stati ancor più drastici nel processo di autonegazione: il grande pittore nato Vosdanig Manoug Adoian è morto Arshile Gorky , più di qualche Krikor Minassian è scomparso dietro la maschera di Gregory Richardson. Generazioni di armeni costretti a negarsi la propria identità e svanire nel limbo della non-identità, delle identità finte, quelle prese in prestito.

Hanno negato di esistere,lasciando il carnefice dormire sonni tranquilli. E’ così che i sopravvissuti di un popolo massacrato hanno negato la propria esistenza togliendo al massacratore l’onere di negare i propri misfatti per oltre settant’anni.

Ma sotto le ceneri di un popolo arso nel deserto di Deir-es-Zor, oggi riconosciuto come il più grande cimitero a cielo aperto, ardeva il fuoco di una civiltà dura a morire.

 

 

 

 

 

 

  Parte II: Il risveglio degli armeni e il negazionismo di Manuela Avakian

 

 
 

 

 

 

 

Sono nata italiana, per poi scoprirmi armena.

 

 

 

Siamo i bisnipoti di sopravvissuti. I nostri bisnonni non hanno potuto che lottare per la sopravvivenza in ogni angolo del mondo. Dovevano sfamarsi, coprirsi, non c’era né tempo né voglia di altro. Hanno dato ai loro figli, ovvero ai nostri nonni, i mezzi per un vivere dignitoso, umano. Questi, a loro volta, hanno dato ai nostri genitori tempo e mezzi per andare ben oltre la sopravvivenza.

Si, siamo i bisnipoti, la generazione che emerge con forza, tirandosi dietro i propri genitori, dalle macerie del genocidio degli armeni perpetrato da parte dei Giovani turchi dell’Impero Ottomano.

Siamo la generazione di giovani “normali”, nutriti, vestiti, istruiti, con tempo e voglia di pensare. Siamo genitori e figli, casalinghe e lavoratori, studenti, docenti, medici, scrittori, giornalisti, artigiani, commercianti, orafi, appartenenti a … A chi? A quale nazione? A quale razza? Siamo americani, ma decisamente non WASP. Siamo francesi, ma la “erre” non è mai abbastanza moscia. Siamo etiopi, ma ci tradisce il colore della pelle, siamo italiani, ma che cognome strano.

Chi siamo allora? Siamo a…, ar…., Armeni. Certo, abbiamo riguadagnato le nostre forze vitali, e lo possiamo gridare ai quattro venti, con orgoglio. Siamo armeni. E a chi ci chiede “Come? Cosa siete?”, raccontiamo la nostra storia, la nostra geografia.

Questo forse inaspettato risveglio del popolo armeno ha promosso una presa di coscienza da parte di molti, ha promosso nuove consapevolezze, ha incentivato indagini storiche e, soprattutto, ha svegliato il “can che dormiva”, vale a dire l’esigenza di un chiassoso quanto pericoloso processo di negazionismo da parte del governo turco.

“Rivangare il passato non serve a niente” si dice. Ma può un genocidio essere mai considerato passato? E ancora, può la conseguente diaspora di un popolo essere vista come evento del passato?E’ oggi che ci troviamo sparpagliati in ogni angolo del mondo. Siamo la generazione proiettata alla ricerca della terra che non c’è, … se non dentro ognuno di noi.

Oggi, ora.

Non ci piangiamo addosso. Siamo cittadini del mondo con ammirevoli capacità di adattamento e di integrazione. Anzi, siamo orgogliosamente andati oltre l’integrazione, diventando parte naturale dei nostri paesi ospitanti.

La nostra oggi non è sete di vendetta comprensibilmente consumata da Soghomon Tehlirian e pochi altri quando la ferita ancora sanguinava.

Il tempo placa la rabbia, insegna a razionalizzare, ma mai e poi mai ad ingoiare il negazionismo.

Il governo turco nega. E’ duro ammettere che i propri avi hanno commesso un tale crimine contro l’umanità. Nega forse perché teme delle rivendicazioni. Nega soprattutto perché ha le spalle rafforzate dall’appartenenza alla Nato, e dai tanti legami economici con imprenditori di molti paesi, l’Italia inclusa.

La Germania ha ammesso i propri errori, chiedendo scusa alle vittime dell’olocausto.

Ci vuole coraggio e umiltà, ci vuole amore per l’onestà perché i figli del carnefice possano dire “E’ vero, è stato un genocidio.”

Questo chiede il popolo offeso. 

 

CONCLUSIONE – La voce soffocata di una Turchia divisa

 

 

 

  Sono nata  turca,e turca morirò. Non mi serve altra identità. Eppure qualcosa turba la mia vecchiaia: negli ultimi anni sento raccontare cose terribili sul conto dei miei avi.
   

All’inizio mi arrabbiavo, negavo con tutte le mie forze. Poi ho ascoltato le voci dei miei fratelli, sempre più numerosi, 300 intellettuali qui, un famoso scrittore lì, una scrittrice perseguitata altrove, che sussurravano “E’ vero, i nostri nonni li hanno massacrati.”

Sono vecchia, tanto vecchia, e non mi resta molto tempo. Traballano le mie certezze, ma poco importa: non voglio morire di vergogna, ma di verità. Qualunque essa sia.

 

 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
   
   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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