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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Autobiografie dell'inconscio.

Numero 11, anno VI, gennaio 2009

 

 

     "IL DOLORE ALL'ORIGINE DELLA COLPA, DELL'AMORE E DELLA PSICOTERAPIA"

 

 di Gaetano Benedetti

 


Questo testo è tratto dal libro di Gaetano Benedetti "Riflessioni ed esperienze religiose in psicoterapia" (Centro Scientifico Editore, Torino, 2005). Si ringrazia vivamente l'editore per aver autorizzato la sua riproduzione su Frenis Zero.


            

 

 

  Foto: Gaetano Benedetti

 
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"Vite soffiate. I vinti della psicoanalisi" di Giuseppe Leo

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

ISBN: 978-88-903710-0-4

Anno/Year: 2008

Prezzo/Price: € 18,00

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"La Psicoanalisi. Intrecci Paesaggi Confini"

Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

Price: € 15,00

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Il problema del dolore e della colpa mi si era già posto da bambino e da adolescente, e mi aveva fatto dubitare del racconto biblico della creazione dell'uomo. Com'era possibile che l'uomo, discendente da antenati rozzi e animali (leggevo allora le scoperte scientifiche di Darwin), fosse, prima della caduta, un essere perfetto? Non era la sua caduta già un segno di non-libertà, di cecità spirituale? Com'era possibile immaginare un regno animale senza procreazione e, perciò, anche senza morte? Ma era solo all'età di 18 anni, all'inizio dei miei studi di medicina, che il problema del dolore diveniva per me impellente: già alla vista del cadavere umano e poi, negli anni successivi, della malattia mortale.

Era però soltanto dieci anni dopo, nell'incontro con la psichiatria e la follia, che arrivavo alla piena scoperta del dolore universale, quale esso si manifesta appieno in alcuni ed è in germe in noi tutti. Debbo dire che nessun'altra esperienza esistenziale ha avuto per me una portata e una profondità simile. Modificando il testo di Cartesio, "Cogito, ergo sum", potrei dire: "Vedo la sofferenza umana, e perciò sono". La mia visione è, come tutte le visioni esistenziali, parziale; ma è, nell'esperienza più che cinquantennale che ne ho fatta, fondamentale.

Il dolore umano! Come non percepirlo da psicoterapeuta, non solo nelle sale psichiatriche, nei malati di mente e nelle loro famiglie, ma quasi in ogni angolo della psiche umana che si svela a noi nel colloquio? Riflettendo sul tormento di singoli pazienti, anche non clinicamente gravi, mi domandavo se il dolore è distribuito fra gli uomini in proporzione dei grandi cataclismi storici oppure in maniera ascosa e invisibile. E accanto a questa fortissima e indelebile percezione ritornava alla mente l'interrogativo della mia infanzia: "Perché ciò?" La domanda di Buddha, la domanda, forse senza risposta, che tuttavia ci tormenta.

Ripensando all'inversione di causalità fatta dalla mia mente ancora infantile (il dolore come causa e non come conseguenza della colpa), mi appariva chiara la tesi seguente: mentre la colpa, anche se tragica, inconscia o perfino necessaria, è comunque, in tutti i casi, una "zona oscura" dell'esistenza, il dolore ha anzitutto un'eminente funzione difensiva. Lo vediamo già nelle sorgenti biologiche. Esiste una malattia, la siringomielia, che consiste nella distruzione delle strutture midollari che altrimenti convogliano al cervello, e così alla coscienza, l'esperienza del dolore fisico. Questi malati, che sono dunque esenti da dolore fisico, urtano contro gli oggetti, si feriscono, si bruciano, senza accorgersene; diventano dei mutilati.

E passiamo poi dal dolore fisico a quello psichico. Cosa sarebbe della psiche umana senza l'elaborazione dolorosa di quei traumi psichici di cui è fatta la nostra esistenza? E come sarebbe possibile porre argini all'ingiustizia sociale se questa non fosse sorgente di sdegno doloroso?

Leggiamo adesso, inerenti a questo discorso, le esclamazioni dei filosofi. Heinrich Knittermeyer (1963) scrive per esempio:

<<Noi infatti non viviamo in un tempo "quotidiano" in cui un uomo normale suole raggiungere i suoi scopi con comportamenti quotidiani, bensì in un tempo escatologico, ove ciascuno di noi può essere confrontato improvvisamente con situazioni estreme, come le riscontrarono tutti gli ebrei che, un giorno, furono strappati dalle loro case. Ovunque volgiamo gli occhi in questo nostro mondo, incontriamo umani che hanno dovuto affrontare il martirio...>>

Parole simili, scritte negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono altrettanto attuali nell'epoca presente e la vista dei malati mentali nel cortile dell'ospedale psichiatrico di Catania mi richiamava il martirio, anche senza Hitler e senza il "Male".

Tuttavia, anche se è vero, da un lato, che il dolore ha una necessaria funzione difensiva nell'organizzazione della vita, è pur vero, dall'altro, che l'incapacità umana di sostenere, elaborare e sublimare il dolore trasforma la necessaria difesa non solo in malattia, ma anche in una violenza che è a sua volta la fonte ininterrotta del dolore, che avvolge così le sue tragiche spirali in una storia umana ove tutti e nessuno sono colpevoli; perché tutti sono, almeno nel pensiero, almeno nell'inconscio (come mi mostrano i sogni degli innocenti), facitori di male, e nessuno una vittima.

Ecco allora il senso di un pensiero metafisico secondo cui Cristo, l'aspetto o la persona di Dio particolarmente rivolta al dolore umano, esiste ab initio e ancor prima di esso, quasi come la misericordia prefiguratasi prima dell'inizio della storia. Un Dio di misericordia, che non poteva essere la misericordia senza offrirsi anch'Egli al dolore; un Dio che possiamo anche concepire come Creatore, se aggiungiamo che il dolore faceva parte della creazione e non era semplicemente la conseguenza del peccato. Dico  "faceva parte" poiché la creazione o nascita dell'individuo vivente significa anche la nascita di un limite, e perciò anche della sofferenza imposta da tale limite. Il dolore dell'uomo, in questa visione metafisica, è anche il dolore di Dio prima della Sua croce, il dolore di dover creare per poter amare. Perché l'amore non sarebbe veramente possibile senza la pietà e la misericordia, né questa senza il dolore.

Queste riflessioni stanno alla porta di ciò che io intendo come psicoterapia della psicosi; ma, prima di parlare di ciò, desidero sottolineare come esse aprano uno sbocco filosofico, prima insospettato, all'eterno problema del Male. Problema gravissimo e da tanti visto come dilemma insolubile: se Dio è onnipotente e tollera la presenza del Male, non rappresenta la Bontà suprema; ma se Egli è tuttavia la Bontà suprema, allora non è onnipotente.

In un discorso successivo alla guerra mondiale del secolo scorso, il filosofo ebreo Hans Jonas (1987) ebbe a dire, "con timore e tremore", che il concetto di Dio dopo Auschwitz si trasforma: non è possibile, per ogni ebreo, rinunziare alla fede in una Bontà assoluta; ma di fonte al silenzio di Dio nell'inferno innocente di Auschwitz, bisogna rinunziare all'attributo di "Signore della storia" dato dagli ebrei a Dio; bisogna pervenire a conclusioni opposte a quelle del libro di Giobbe, che sono un inno all'onnipotenza di Dio.

Scrivo queste pagine ponendomi al di là del Credo, perché desidero essere con i miei pazienti anche se essi non credono. Ma penso di trovare una risposta al problema del Male indipendentemente da ciò: all'interno della fede non è necessario il "timore e tremore" di cui parla Hans Jonas; basta il pensiero che il Male è una conseguenza del dolore, che il dolore è una dimensione tragica e costitutiva della creazione, e che esso è perciò il dolore di Dio, il quale soffre in tutti i martiri di Auschwitz, amandoli perciò immensamente, più di quanto essi possano amarsi. Ma il mio pensiero secondo cui il dolore sta prima del Male è significativo anche per chi non crede. Immaginiamo una natura cieca che diviene cosciente di sé nel corso dell'evoluzione, attraverso la nascita dell'uomo: è qui che la "volontà di vivere" si rende conto della tragedia della sua esistenza, che consiste nel sacrificare gli altri all'interesse dell'individuo e sacrificare l'individuo all'interesse della sopravvivenza della specie - e assurge così alla coscienza della colpa, al dolore, alla "pena di esser così" (Pirandello) e, perciò, anche alla sua dignità esistenziale.

 

 

 

 

 

   

 

 
 
 
 
   

 

 

LA PSICOTERAPIA E IL DOLORE

 

   

Meditazione

 
 

 

Io mi imbatto sempre nei miei limiti.

Spero che la mia morte altro non sarà

che il superamento di questi

nell'unione con quelle anime

da cui nascono le mie radici.

L'individualità è il muro insormontabile!

La prigione del mio vero essere

che sarà mio solo quando

totalmente altrui.

Attraverso la psicoterapia ho appreso l'amore per il sofferente.

Mi accorgo subito di chi fra i miei colleghi è vero psicoterapeuta

essenzialmente dalla misura del suo amore per il sofferente.

Naturalmente, esso è quasi sempre silenzioso,

non parla mai di sé.

Parla del paziente

e del suo diritto a vivere.

In ogni dettaglio, dove gli altri vedono e diagnosticano

la sua incapacità di vivere,

il terapeuta vede possibilità, movimenti, speranze,

e si rallegra anche di barlumi e di ombre.

Questa "passione per la vita altrui", in molti terapeuti,

è per me la più bella rivelazione del segreto dell'esistenza.

 

 

   

 

 

 

Ascolto sempre dalla bocca dei miei pazienti quei grandi episodi che fanno la tragedia dell'uomo; come oggi, per esempio, quando ho sentito il racconto del padre morente che nella sua scontrosità rifiutava la tenerezza dell'abbraccio della figlia, ma che poi, entrato in coma, ne cercava la mano e la teneva poi stretta nelle sue ultime ore di vita, ormai libero da quella coscienza severa che gli impediva di essere se stesso.

Com'è grande questa umana tragedia! Cerchiamo sempre il Bene e non riusciamo mai veramente ad attuarlo; cerchiamo la parola che aiuta e non la troviamo nel silenzio che ci avvolge; cerchiamo la gioia e siamo sempre dinanzi all'infelicità; vogliamo vivere per gli altri, secondo il santo motto "vivere non est sibi, sed aliis vivere"1 , e dobbiamo tuttavia far sempre i conti con noi stessi. Talora mi arride il pensiero che questa tragedia sia il senso stesso della vita e che questo stia nel percepirla, nello scoprire come la grandezza dell'uomo si innesti necessariamente nella sua miseria. E' possibile che vi sia una Trascendenza eterna che tutti ci salva. Ma è anche possibile che questa conflittuale e tormentata natura umana trascenda se stessa nella coscienza della sua tragica inutilità e venga così superata dalla morte. E allora, forse, è il nulla infinito che ci attende festosamente al traguardo: ove muore il desiderio, si dissolve il pensiero e una pace infinita risplende nell'occhio che sta per spegnersi.

 

La risposta terapeutica

   

Il dolore confronta l'uomo con un limite ineludibile della vita, dove essa viene scossa nelle fondamenta stesse della sua volontà di vivere. Ogni malattia grave s'impadronisce dell'uomo con terribile violenza, imponendo alla libertà del suo spirito un limite tanto amaro quanto inesorabile.

Ci riconosciamo in questa situazione, la comprendiamo immedesimandoci in essa e riconoscendo la possibilità di un abisso senza fondo. Ma nel contempo scopriamo un fondamento ultimo dell'umano. Succede, infatti, che il malato trascenda se stesso e lasci nei suoi prossimi un'impronta più indelebile di quanto avrebbe mai potuto fare come soggetto attivo.  E ciò può avvenire in modi diversi: una persona sana di mente può, per esempio, essere chiamata dalla sofferenza fisica a una testimonianza che trascende le forze dell'essere umano, pur non situandosi al di là delle sue possibilità. Dice Knittermeyer (1963, p.11): "Chi rimane sereno nel dolore, chi addirittura assume un'attitudine che irradia amore e perdona ogni ingiustizia sofferta, testimonia di una possibilità umana che raramente trova l'occasione di esprimersi nella vita di una persona sana".

Assai diversa è la situazione del malato mentale: né il trascendimento di se stesso né l'amore caratterizzano la sua umanità, bensì l'odio e il dissesto. Ci chiediamo, sorpresi e sconvolti, come ciò sia divenuto possibile. E' forse riuscita la natura a far ciò che le è negato nell'ambito della sofferenza fisica, cioè distruggere l'intima fortezza della libertà umana? Ciò rappresenterebbe per noi un obbligo morale a intervenire. O si nasconde invece nell'estrema assenza di libertà una segreta e ormai inconscia decisione dell'anima di tentare con l'autodistruzione una rinascita alla luce? E' il malato mentale, come dice Siirala, un vicario dei nostri errori e delle nostre colpe? Cristo gli è nascosto? "Lo strazio fa ammutolire l'uomo e solo Dio può svelare al sofferente il centro e l'essenza. Perciò la sofferenza è più vicina alla trascendenza che il giuoco della gioia" (Knittermeyer, 1963, p.11).

Ai miei occhi, il problema del dolore deve, per essere vero, conoscere due direzioni: il rapporto con Dio e il rapporto con gli altri.

Oso dire che la seconda dimensione è ancora più essenziale di quella veramente teologica. Ricordo qui un collega psichiatra, più anziano di me, "coscientemente ateo", ma che non si dava pace per il dolore dei bimbi del mondo; era un pedopsichiatra e, a oltre ottant'anni d' età, continuava a girare il mondo, visitava orfanotrofi e asili infantili, organizzava sempre qualcosa per loro, soffriva per loro e con loro, tanto da sembrarmi più vicino a Dio di quanto io stesso non lo fossi.

L'aspetto interpersonale del dolore è fondante in una psichiatria rettamente intesa, come lo è in qualsiasi forma di psicoterapia. Senza una vera percezione del dolore altrui non esiste infatti alcuna psicoterapia. Qual è l'essenza della psicoterapia? Qual è quel nesso misterioso che lega insieme psicoterapie tanto diverse fra loro, "tecniche" che si escludono l'un l'altra e che vanno dalla psicoanalisi alla terapia a orientamento analitico, dalla corrente di Freud a quella di Jung, di Adler e di tanti altri, dall'immaginazione attiva all'ipnosi ecc.?

Mi permetto di rispondere a questa domanda, che richiederebbe una trattazione più ampia, con poche parole: l'identificazione parziale con il sofferente è l'aspetto fondante di ogni terapia del dolore psichico. E per identificazione parziale intendo un "movimento psichico" che può essere avvertito dal suo autore come interesse, attenzione, empatia, osservazione partecipe, compassione, regressione terapeutica parziale, vicinanza alla sofferenza, e che è insita nella capacità umana di porsi al posto dell'altro, sentirlo dal di dentro, accedere ai nodi della sua esperienza.

Una parte della propria persona sta allora per quella altrui, come ci mostrano in particolare i sogni terapeutici, abbastanza frequenti nelle terapie delle psicosi ma possibili in ogni terapia, in cui si rimane sorpresi nel ritrovarsi con i vestiti del paziente, con il suo linguaggio, nel mondo della sua soggettività. Questa stupenda facoltà umana, che è presente potenzialmente in noi tutti e diviene nello psicoterapeuta una passione esistenziale, dà luogo a fenomeni la cui descrizione trascende questo scritto, come la simmetria dell'Inconscio, il transfert e il controtransfert, la regressione e la progressione.

Ripetiamo all'interno di noi stessi il dolore dell'altro, lo interiorizziamo e, precisamente, lo riproduciamo entro una cornice psichica diversa, aperta cioè ai modi creativi di esperire che sono chiusi al paziente, cosicché ciò che in lui è rimosso o dissociato, muto e incosciente, diventa in noi coscienza, parola, dolore. Noi riusciamo a percepire quello che il paziente non è in grado di cogliere se non nella strettoia e nell'alienazione dei sintomi e allarghiamo così l'orizzonte entro cui si stagliano i sintomi del dolore, ossia le sue distorte percezioni, per comunicare a lui come noi lo viviamo. E così la coscienza intellettuale del dolore occorre nel superamento interpersonale di esso. 

 

  La motivazione dello psicoterapeuta
   

Inizio con la parola risposta per indicare che, in primo luogo, noi siamo i prossimi dei sofferenti, il che vuol dire che non dobbiamo solo "trattarli" - come ci esprimiamo nel linguaggio clinico -, ma anche "accoglierli in noi", per poi essere accolti da loro e diventare, nel migliore dei casi, "ospiti" attivi dei loro mondi. In questa prospettiva ampia, l'incontro con il malato mentale grave può svilupparsi secondo un'infinità di modi - come dimostra di volta in volta il dialogo con parenti e amici dei malati.

D'altra parte, il nostro intervento psicoterapeutico e psichiatrico si situa specificamente nell'ambito della scienza: è orientato da una conoscenza approfondita della natura della malattia psichica; si origina dall'esperienza psicoterapeutica, che comprende anche le ripetute esperienze dei nostri maestri e di altri terapeuti da noi interiorizzate. Nascono dei metodi, si stabiliscono persino delle regole, se possibile si formulano delle catamnesi; si parla perfino di una "tecnica" del dialogo psicoterapeutico. Quest'ultimo dovrebbe, a differenza del dialogo spirituale, costituire un metodo clinicamente viabile e di un costo accettabile.

Ne nasce la necessità di una formazione, a volte assai pesante, per lo psichiatra che vuole diventare psicoterapeuta. Qual è allora la sua motivazione?

Come già detto, la motivazione parte dall'atto di percepire e accogliere in sé la sofferenza, atto particolarmente efficace in quanto "i modelli di sofferenza" incisi nel nostro inconscio collettivo, che ci fanno sentire prossimi e compagni dei nostri malati, contengono anche quelle figure e quei meccanismi attivi che sono capaci di sormontare la sofferenza e che i nostri pazienti hanno perduto. Come possono dunque la nostra attività, il nostro agire, il nostro cosiddetto "trattare" e maneggiare, originati da una percezione e accoglienza adeguata della sofferenza, rinforzare e sviluppare pienamente la motivazione terapeutica iniziale?

Il modo in cui i malati psicotici ci percepiscono, ci comprendono, elaborano i nostri interventi e ci rispondono è a prima vista, nella maggioranza dei casi, deludente. Più deludente che nella psicoterapia di pazienti neurotici, in cui quando vi sia un'indicazione positiva si mostrano in regola disposti ad accettare un setting, un determinato metodo di procedere, e persino di stringere un patto analitico. Imparano ad ascoltare, ad associare, a sopportare frustrazioni; fanno parte del nostro mondo razionale; ci riconoscono come guide. Nulla di tutto ciò nei pazienti psicotici!

Non è necessario che io descriva qui i loro comportamenti più frequenti. Dirò solo che questo è uno dei principali fattori che mi hanno gravemente preoccupato nei vari decenni di attività come docente clinico: dopo l'entusiasmo iniziale che tale lavoro suscita, la delusione non si fa aspettare e pochissimi sono perciò disposti, a lungo andare, a "trattare" pazienti psicotici con metodi psicoterapeutici.

Ma questa delusione presenta tuttavia un aspetto positivo: non viene suscitata nel medico alcuna motivazione che non sia radicata inconsciamente nel suo modo di comprendere l'uomo e il mondo, e che non venga addirittura poi rinforzata, invece di esserne paralizzata, dalla resistenza dei malati, delle loro famiglie, dell'istituzione psichiatrica, della società. Ma com'è possibile?

Mi arrischio a ipotizzare che i nostri pazienti, pur opponendo resistenza, ci aiutino con i loro segnali spesso subliminali, al punto che non di rado ho l'impressione che, per le vie dell'inconscio, mi "regalino" ispirazioni che poi si avverano effettivamente capaci di raggiungerli.

Il vuoto, talvolta desertico, del dialogo con questi pazienti viene spesso compensato da loro segnali indiretti, difficili da percepire, ma nel contempo inequivocabili e che, nella mia esperienza, possono giungere quasi alla soglia del miracolo.

Com'è per esempio possibile che un paziente ambulante mi venga a trovare fuori dell'orario con la preghiera di essere ascoltato anche solo qualche minuto? Mi prega di non dire niente: vuole solo percepirmi come una persona che lo ascolta.

Ancora, mi viene in mente una paziente gravemente depressiva, che, in un'ora di profondissima disperazione - in cui non riusciva a trovare risposte che facessero penetrare nelle sue tenebre un raggio di speranza e men che meno di gioia - mi disse a un tratto che ora riusciva a sentirsi, dopo che, nell'assoluta impossibilità di sentire se stessa, aveva pur percepito la mia mano.

E quanto sono sconvolgenti e grandiosi quei nostri sogni in cui ci ritroviamo, magari riluttanti, nel paesaggio, nei panni, nella pelle dei pazienti, trasformando il loro mondo sconsolato una volta trovaticisi all'interno.

Come siamo poi sorpresi, avendo taciuto questi sogni per ragioni di prudenza, di apprendere per bocca dei pazienti che anche in loro si è prodotto un cambiamento essenziale!

 O che, inversamente, i sogni e le associazioni dei pazienti corrispondono esattamente a ciò che, meditando con loro, avevamo pensato subito prima!

Quest'esperienza dimostra che esiste un inconscio duale attivato e reso cosciente dall'esperienza del dolore: ciò costituisce un fondamento della motivazione psicoterapeutica e rappresenta forse un'essenziale, quantunque parziale, risposta al problema del dolore, che dà il titolo a questa prima parte.

 

 

 

   
   
 

 

   
   
   
 

 

   
   
  Note dell'Autore:

(1) Vedi anche il motto che portavo nel berretto universitario da studente: "Si vivere vis, vivas aliis, non tibi".

   
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
   
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

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