Autobiografie dell'inconscio.
Numero 11, anno VI, gennaio 2009
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"IL
DOLORE ALL'ORIGINE DELLA COLPA, DELL'AMORE E DELLA PSICOTERAPIA" |
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di Gaetano Benedetti |
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Questo testo è tratto dal libro di Gaetano Benedetti "Riflessioni ed
esperienze religiose in psicoterapia" (Centro Scientifico Editore,
Torino, 2005). Si ringrazia vivamente l'editore per aver autorizzato
la sua riproduzione su Frenis Zero.
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Foto:
Gaetano Benedetti
A.S.S.E.Psi.
web site (History of Psychiatry and Psychoanalytic Psychotherapy )
Ce.Psi.Di.
(Centro di Psicoterapia Dinamica)
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Il problema del
dolore e della colpa mi si era già posto da bambino e da adolescente,
e mi aveva fatto dubitare del racconto biblico della creazione
dell'uomo. Com'era possibile che l'uomo, discendente da antenati rozzi
e animali (leggevo allora le scoperte scientifiche di Darwin), fosse,
prima della caduta, un essere perfetto? Non era la sua caduta già un
segno di non-libertà, di cecità spirituale? Com'era possibile
immaginare un regno animale senza procreazione e, perciò, anche senza
morte? Ma era solo all'età di 18 anni, all'inizio dei miei studi di
medicina, che il problema del dolore diveniva per me impellente: già
alla vista del cadavere umano e poi, negli anni successivi, della
malattia mortale.
Era però soltanto
dieci anni dopo, nell'incontro con la psichiatria e la follia, che
arrivavo alla piena scoperta del dolore universale, quale esso si
manifesta appieno in alcuni ed è in germe in noi tutti. Debbo dire che
nessun'altra esperienza esistenziale ha avuto per me una portata e una
profondità simile. Modificando il testo di Cartesio, "Cogito, ergo sum",
potrei dire: "Vedo la sofferenza umana, e perciò sono". La mia visione
è, come tutte le visioni esistenziali, parziale; ma è, nell'esperienza
più che cinquantennale che ne ho fatta, fondamentale.
Il dolore umano!
Come non percepirlo da psicoterapeuta, non solo nelle sale
psichiatriche, nei malati di mente e nelle loro famiglie, ma quasi in
ogni angolo della psiche umana che si svela a noi nel colloquio?
Riflettendo sul tormento di singoli pazienti, anche non clinicamente
gravi, mi domandavo se il dolore è distribuito fra gli uomini in
proporzione dei grandi cataclismi storici oppure in maniera ascosa e
invisibile. E accanto a questa fortissima e indelebile percezione
ritornava alla mente l'interrogativo della mia infanzia: "Perché ciò?"
La domanda di Buddha, la domanda, forse senza risposta, che tuttavia
ci tormenta.
Ripensando
all'inversione di causalità fatta dalla mia mente ancora infantile (il
dolore come causa e non come conseguenza della colpa), mi appariva
chiara la tesi seguente: mentre la colpa, anche se tragica, inconscia
o perfino necessaria, è comunque, in tutti i casi, una "zona oscura"
dell'esistenza, il dolore ha anzitutto un'eminente funzione difensiva.
Lo vediamo già nelle sorgenti biologiche. Esiste una malattia, la
siringomielia, che consiste nella distruzione delle strutture
midollari che altrimenti convogliano al cervello, e così alla
coscienza, l'esperienza del dolore fisico. Questi malati, che sono
dunque esenti da dolore fisico, urtano contro gli oggetti, si
feriscono, si bruciano, senza accorgersene; diventano dei mutilati.
E passiamo poi
dal dolore fisico a quello psichico. Cosa sarebbe della psiche umana
senza l'elaborazione dolorosa di quei traumi psichici di cui è fatta
la nostra esistenza? E come sarebbe possibile porre argini
all'ingiustizia sociale se questa non fosse sorgente di sdegno
doloroso?
Leggiamo adesso,
inerenti a questo discorso, le esclamazioni dei filosofi. Heinrich
Knittermeyer (1963) scrive per esempio:
<<Noi infatti non
viviamo in un tempo "quotidiano" in cui un uomo normale suole
raggiungere i suoi scopi con comportamenti quotidiani, bensì in un
tempo escatologico, ove ciascuno di noi può essere confrontato
improvvisamente con situazioni estreme, come le riscontrarono tutti
gli ebrei che, un giorno, furono strappati dalle loro case. Ovunque
volgiamo gli occhi in questo nostro mondo, incontriamo umani che hanno
dovuto affrontare il martirio...>>
Parole simili,
scritte negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono altrettanto
attuali nell'epoca presente e la vista dei malati mentali nel cortile
dell'ospedale psichiatrico di Catania mi richiamava il martirio, anche
senza Hitler e senza il "Male".
Tuttavia, anche
se è vero, da un lato, che il dolore ha una necessaria funzione
difensiva nell'organizzazione della vita, è pur vero, dall'altro, che
l'incapacità umana di sostenere, elaborare e sublimare il dolore
trasforma la necessaria difesa non solo in malattia, ma anche in una
violenza che è a sua volta la fonte ininterrotta del dolore, che
avvolge così le sue tragiche spirali in una storia umana ove tutti e
nessuno sono colpevoli; perché tutti sono, almeno nel pensiero, almeno
nell'inconscio (come mi mostrano i sogni degli innocenti), facitori di
male, e nessuno una vittima.
Ecco allora il
senso di un pensiero metafisico secondo cui Cristo, l'aspetto o la
persona di Dio particolarmente rivolta al dolore umano, esiste ab
initio e ancor prima di esso, quasi come la misericordia
prefiguratasi prima dell'inizio della storia. Un Dio di misericordia,
che non poteva essere la misericordia senza offrirsi anch'Egli al
dolore; un Dio che possiamo anche concepire come Creatore, se
aggiungiamo che il dolore faceva parte della creazione e non era
semplicemente la conseguenza del peccato. Dico "faceva parte"
poiché la creazione o nascita dell'individuo vivente significa anche
la nascita di un limite, e perciò anche della sofferenza imposta da
tale limite. Il dolore dell'uomo, in questa visione metafisica, è
anche il dolore di Dio prima della Sua croce, il dolore di dover
creare per poter amare. Perché l'amore non sarebbe veramente possibile
senza la pietà e la misericordia, né questa senza il dolore.
Queste
riflessioni stanno alla porta di ciò che io intendo come psicoterapia
della psicosi; ma, prima di parlare di ciò, desidero sottolineare come
esse aprano uno sbocco filosofico, prima insospettato, all'eterno
problema del Male. Problema gravissimo e da tanti visto come dilemma
insolubile: se Dio è onnipotente e tollera la presenza del Male, non
rappresenta la Bontà suprema; ma se Egli è tuttavia la Bontà suprema,
allora non è onnipotente.
In un discorso
successivo alla guerra mondiale del secolo scorso, il filosofo ebreo
Hans Jonas (1987) ebbe a dire, "con timore e tremore", che il concetto
di Dio dopo Auschwitz si trasforma: non è possibile, per ogni ebreo,
rinunziare alla fede in una Bontà assoluta; ma di fonte al silenzio di
Dio nell'inferno innocente di Auschwitz, bisogna rinunziare
all'attributo di "Signore della storia" dato dagli ebrei a Dio;
bisogna pervenire a conclusioni opposte a quelle del libro di Giobbe,
che sono un inno all'onnipotenza di Dio.
Scrivo queste
pagine ponendomi al di là del Credo, perché desidero essere con i miei
pazienti anche se essi non credono. Ma penso di trovare una risposta
al problema del Male indipendentemente da ciò: all'interno della fede
non è necessario il "timore e tremore" di cui parla Hans Jonas; basta
il pensiero che il Male è una conseguenza del dolore, che il dolore è
una dimensione tragica e costitutiva della creazione, e che esso è
perciò il dolore di Dio, il quale soffre in tutti i martiri di
Auschwitz, amandoli perciò immensamente, più di quanto essi possano
amarsi. Ma il mio pensiero secondo cui il dolore sta prima del Male è
significativo anche per chi non crede. Immaginiamo una natura cieca
che diviene cosciente di sé nel corso dell'evoluzione, attraverso la
nascita dell'uomo: è qui che la "volontà di vivere" si rende conto
della tragedia della sua esistenza, che consiste nel sacrificare gli
altri all'interesse dell'individuo e sacrificare l'individuo
all'interesse della sopravvivenza della specie - e assurge così alla
coscienza della colpa, al dolore, alla "pena di esser così" (Pirandello)
e, perciò, anche alla sua dignità esistenziale.
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LA PSICOTERAPIA E IL DOLORE
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Meditazione |
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Io mi imbatto sempre nei miei
limiti.
Spero che la mia morte altro
non sarà
che il superamento di questi
nell'unione con quelle anime
da cui nascono le mie radici.
L'individualità è il muro
insormontabile!
La prigione del mio vero
essere
che sarà mio solo quando
totalmente altrui.
Attraverso la psicoterapia ho
appreso l'amore per il sofferente.
Mi accorgo subito di chi fra
i miei colleghi è vero psicoterapeuta
essenzialmente dalla misura
del suo amore per il sofferente.
Naturalmente, esso è quasi
sempre silenzioso,
non parla mai di sé.
Parla del paziente
e del suo diritto a vivere.
In ogni dettaglio, dove gli
altri vedono e diagnosticano
la sua incapacità di vivere,
il terapeuta vede
possibilità, movimenti, speranze,
e si rallegra anche di
barlumi e di ombre.
Questa "passione per la vita
altrui", in molti terapeuti,
è per me la più bella
rivelazione del segreto dell'esistenza.
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Ascolto
sempre dalla bocca dei miei pazienti quei grandi episodi che fanno
la tragedia dell'uomo; come oggi, per esempio, quando ho sentito
il racconto del padre morente che nella sua scontrosità rifiutava
la tenerezza dell'abbraccio della figlia, ma che poi, entrato in
coma, ne cercava la mano e la teneva poi stretta nelle sue ultime
ore di vita, ormai libero da quella coscienza severa che gli
impediva di essere se stesso.
Com'è
grande questa umana tragedia! Cerchiamo sempre il Bene e non
riusciamo mai veramente ad attuarlo; cerchiamo la parola che aiuta
e non la troviamo nel silenzio che ci avvolge; cerchiamo la gioia
e siamo sempre dinanzi all'infelicità; vogliamo vivere per gli
altri, secondo il santo motto "vivere non est sibi, sed aliis
vivere"1 , e dobbiamo tuttavia far sempre i conti con
noi stessi. Talora mi arride il pensiero che questa tragedia sia
il senso stesso della vita e che questo stia nel percepirla, nello
scoprire come la grandezza dell'uomo si innesti necessariamente
nella sua miseria. E' possibile che vi sia una Trascendenza eterna
che tutti ci salva. Ma è anche possibile che questa conflittuale e
tormentata natura umana trascenda se stessa nella coscienza della
sua tragica inutilità e venga così superata dalla morte. E allora,
forse, è il nulla infinito che ci attende festosamente al
traguardo: ove muore il desiderio, si dissolve il pensiero e una
pace infinita risplende nell'occhio che sta per spegnersi.
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La risposta terapeutica |
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Il dolore confronta l'uomo con
un limite ineludibile della vita, dove essa viene scossa nelle
fondamenta stesse della sua volontà di vivere. Ogni malattia grave
s'impadronisce dell'uomo con terribile violenza, imponendo alla
libertà del suo spirito un limite tanto amaro quanto inesorabile.
Ci
riconosciamo in questa situazione, la comprendiamo immedesimandoci
in essa e riconoscendo la possibilità di un abisso senza fondo. Ma
nel contempo scopriamo un fondamento ultimo dell'umano. Succede,
infatti, che il malato trascenda se stesso e lasci nei suoi
prossimi un'impronta più indelebile di quanto avrebbe mai potuto
fare come soggetto attivo. E ciò può avvenire in modi
diversi: una persona sana di mente può, per esempio, essere
chiamata dalla sofferenza fisica a una testimonianza che trascende
le forze dell'essere umano, pur non situandosi al di là delle sue
possibilità. Dice Knittermeyer (1963, p.11): "Chi rimane sereno
nel dolore, chi addirittura assume un'attitudine che irradia amore
e perdona ogni ingiustizia sofferta, testimonia di una possibilità
umana che raramente trova l'occasione di esprimersi nella vita di
una persona sana".
Assai diversa è la situazione
del malato mentale: né il trascendimento di se stesso né l'amore
caratterizzano la sua umanità, bensì l'odio e il dissesto. Ci
chiediamo, sorpresi e sconvolti, come ciò sia divenuto possibile.
E' forse riuscita la natura a far ciò che le è negato nell'ambito
della sofferenza fisica, cioè distruggere l'intima fortezza della
libertà umana? Ciò rappresenterebbe per noi un obbligo morale a
intervenire. O si nasconde invece nell'estrema assenza di libertà
una segreta e ormai inconscia decisione dell'anima di tentare con
l'autodistruzione una rinascita alla luce? E' il malato mentale,
come dice Siirala, un vicario dei nostri errori e delle nostre
colpe? Cristo gli è nascosto? "Lo strazio fa ammutolire l'uomo e
solo Dio può svelare al sofferente il centro e l'essenza. Perciò
la sofferenza è più vicina alla trascendenza che il giuoco della
gioia" (Knittermeyer, 1963, p.11).
Ai miei occhi, il problema del
dolore deve, per essere vero, conoscere due direzioni: il rapporto
con Dio e il rapporto con gli altri.
Oso dire che
la seconda dimensione è ancora più essenziale di quella veramente
teologica. Ricordo qui un collega psichiatra, più anziano di me,
"coscientemente ateo", ma che non si dava pace per il dolore dei
bimbi del mondo; era un pedopsichiatra e, a oltre ottant'anni d'
età, continuava a girare il mondo, visitava orfanotrofi e asili
infantili, organizzava sempre qualcosa per loro, soffriva per loro
e con loro, tanto da sembrarmi più vicino a Dio di quanto io
stesso non lo fossi.
L'aspetto interpersonale del
dolore è fondante in una psichiatria rettamente intesa, come lo è
in qualsiasi forma di psicoterapia. Senza una vera percezione del
dolore altrui non esiste infatti alcuna psicoterapia. Qual è
l'essenza della psicoterapia? Qual è quel nesso misterioso che
lega insieme psicoterapie tanto diverse fra loro, "tecniche" che
si escludono l'un l'altra e che vanno dalla psicoanalisi alla
terapia a orientamento analitico, dalla corrente di Freud a quella
di Jung, di Adler e di tanti altri, dall'immaginazione attiva
all'ipnosi ecc.?
Mi permetto di rispondere a
questa domanda, che richiederebbe una trattazione più ampia, con
poche parole: l'identificazione parziale con il sofferente
è l'aspetto fondante di ogni terapia del dolore psichico. E per
identificazione parziale intendo un "movimento psichico"
che può essere avvertito dal suo autore come interesse,
attenzione, empatia, osservazione partecipe, compassione,
regressione terapeutica parziale, vicinanza alla sofferenza, e che
è insita nella capacità umana di porsi al posto dell'altro,
sentirlo dal di dentro, accedere ai nodi della sua esperienza.
Una parte della propria persona
sta allora per quella altrui, come ci mostrano in particolare i
sogni terapeutici, abbastanza frequenti nelle terapie delle
psicosi ma possibili in ogni terapia, in cui si rimane sorpresi
nel ritrovarsi con i vestiti del paziente, con il suo linguaggio,
nel mondo della sua soggettività. Questa stupenda facoltà umana,
che è presente potenzialmente in noi tutti e diviene nello
psicoterapeuta una passione esistenziale, dà luogo a fenomeni la
cui descrizione trascende questo scritto, come la simmetria
dell'Inconscio, il transfert e il controtransfert, la regressione
e la progressione.
Ripetiamo all'interno di noi
stessi il dolore dell'altro, lo interiorizziamo e, precisamente,
lo riproduciamo entro una cornice psichica diversa, aperta cioè ai
modi creativi di esperire che sono chiusi al paziente, cosicché
ciò che in lui è rimosso o dissociato, muto e incosciente, diventa
in noi coscienza, parola, dolore. Noi riusciamo a percepire quello
che il paziente non è in grado di cogliere se non nella strettoia
e nell'alienazione dei sintomi e allarghiamo così l'orizzonte
entro cui si stagliano i sintomi del dolore, ossia le sue distorte
percezioni, per comunicare a lui come noi lo viviamo. E così la
coscienza intellettuale del dolore occorre nel superamento
interpersonale di esso. |
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La motivazione dello
psicoterapeuta |
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Inizio con la parola risposta
per indicare che, in primo luogo, noi siamo i prossimi dei
sofferenti, il che vuol dire che non dobbiamo solo "trattarli" -
come ci esprimiamo nel linguaggio clinico -, ma anche "accoglierli
in noi", per poi essere accolti da loro e diventare, nel migliore
dei casi, "ospiti" attivi dei loro mondi. In questa prospettiva
ampia, l'incontro con il malato mentale grave può svilupparsi
secondo un'infinità di modi - come dimostra di volta in volta il
dialogo con parenti e amici dei malati.
D'altra
parte, il nostro intervento psicoterapeutico e psichiatrico si
situa specificamente nell'ambito della scienza: è orientato da una
conoscenza approfondita della natura della malattia psichica; si
origina dall'esperienza psicoterapeutica, che comprende anche le
ripetute esperienze dei nostri maestri e di altri terapeuti da noi
interiorizzate. Nascono dei metodi, si stabiliscono persino delle
regole, se possibile si formulano delle catamnesi; si parla
perfino di una "tecnica" del dialogo psicoterapeutico. Quest'ultimo
dovrebbe, a differenza del dialogo spirituale, costituire un
metodo clinicamente viabile e di un costo accettabile.
Ne nasce la
necessità di una formazione, a volte assai pesante, per lo
psichiatra che vuole diventare psicoterapeuta. Qual è allora la
sua motivazione?
Come già
detto, la motivazione parte dall'atto di percepire e accogliere in
sé la sofferenza, atto particolarmente efficace in quanto "i
modelli di sofferenza" incisi nel nostro inconscio collettivo, che
ci fanno sentire prossimi e compagni dei nostri malati, contengono
anche quelle figure e quei meccanismi attivi che
sono capaci di sormontare la sofferenza e che i nostri pazienti
hanno perduto. Come possono dunque la nostra attività, il nostro
agire, il nostro cosiddetto "trattare" e maneggiare, originati da
una percezione e accoglienza adeguata della sofferenza, rinforzare
e sviluppare pienamente la motivazione terapeutica iniziale?
Il modo in
cui i malati psicotici ci percepiscono, ci comprendono, elaborano
i nostri interventi e ci rispondono è a prima vista, nella
maggioranza dei casi, deludente. Più deludente che nella
psicoterapia di pazienti neurotici, in cui quando vi sia
un'indicazione positiva si mostrano in regola disposti ad
accettare un setting, un determinato metodo di procedere, e
persino di stringere un patto analitico. Imparano ad
ascoltare, ad associare, a sopportare frustrazioni; fanno parte
del nostro mondo razionale; ci riconoscono come guide. Nulla di
tutto ciò nei pazienti psicotici!
Non è necessario che io descriva
qui i loro comportamenti più frequenti. Dirò solo che questo è uno
dei principali fattori che mi hanno gravemente preoccupato nei
vari decenni di attività come docente clinico: dopo l'entusiasmo
iniziale che tale lavoro suscita, la delusione non si fa aspettare
e pochissimi sono perciò disposti, a lungo andare, a "trattare"
pazienti psicotici con metodi psicoterapeutici.
Ma questa delusione presenta
tuttavia un aspetto positivo: non viene suscitata nel medico
alcuna motivazione che non sia radicata inconsciamente nel suo
modo di comprendere l'uomo e il mondo, e che non venga addirittura
poi rinforzata, invece di esserne paralizzata, dalla resistenza
dei malati, delle loro famiglie, dell'istituzione psichiatrica,
della società. Ma com'è possibile?
Mi arrischio a ipotizzare che i
nostri pazienti, pur opponendo resistenza, ci aiutino con i loro
segnali spesso subliminali, al punto che non di rado ho
l'impressione che, per le vie dell'inconscio, mi "regalino"
ispirazioni che poi si avverano effettivamente capaci di
raggiungerli.
Il vuoto, talvolta desertico,
del dialogo con questi pazienti viene spesso compensato da loro
segnali indiretti, difficili da percepire, ma nel contempo
inequivocabili e che, nella mia esperienza, possono giungere quasi
alla soglia del miracolo.
Com'è per esempio possibile che
un paziente ambulante mi venga a trovare fuori dell'orario con la
preghiera di essere ascoltato anche solo qualche minuto? Mi prega
di non dire niente: vuole solo percepirmi come una persona che lo
ascolta.
Ancora, mi viene in mente una
paziente gravemente depressiva, che, in un'ora di profondissima
disperazione - in cui non riusciva a trovare risposte che
facessero penetrare nelle sue tenebre un raggio di speranza e men
che meno di gioia - mi disse a un tratto che ora riusciva a
sentirsi, dopo che, nell'assoluta impossibilità di sentire se
stessa, aveva pur percepito la mia mano.
E quanto sono sconvolgenti e
grandiosi quei nostri sogni in cui ci ritroviamo, magari
riluttanti, nel paesaggio, nei panni, nella pelle dei pazienti,
trasformando il loro mondo sconsolato una volta trovaticisi
all'interno.
Come siamo poi sorpresi, avendo
taciuto questi sogni per ragioni di prudenza, di apprendere per
bocca dei pazienti che anche in loro si è prodotto un cambiamento
essenziale!
O che, inversamente, i
sogni e le associazioni dei pazienti corrispondono esattamente a
ciò che, meditando con loro, avevamo pensato subito prima!
Quest'esperienza dimostra che
esiste un inconscio duale attivato e reso cosciente
dall'esperienza del dolore: ciò costituisce un fondamento della
motivazione psicoterapeutica e rappresenta forse un'essenziale,
quantunque parziale, risposta al problema del dolore, che dà il
titolo a questa prima parte. |
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Note dell'Autore:
(1) Vedi anche il motto che portavo nel berretto universitario da
studente: "Si vivere vis, vivas aliis, non tibi". |
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