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"Apeiron". Tra psicoanalisi e religiosità.

DI UNA RINUNCIA AL PADRE.

 

 di Fethi Benslama

 

Questo saggio è comparso in versione francese in "Dialoguer avec l'Islam. La psyché entre radicalisme et laicité", a cura di Lidia Tarantini, Rivista di Psicologia Analitica, 2004. Si ringrazia sentitamente la curatrice e la direzione della rivista per aver accordato l'autorizzazione alla pubblicazione del contributo in versione italiana su "Frenis Zero". La traduzione in italiano è di Giuseppe Leo.

                              Fethi Benslama, di origine tunisina, è psicoanalista, insegna Psicoanalisi e Psicopatologia all'Università di Parigi VII. Ha  fondato nel 1990 ed è Direttore della prestigiosa rivista Intersignes. Tra le sue numerose opere ricordiamo: La nuit brisée (Ramsay, 1988), Une fiction troublante (Editiond de l'Aube, 1994), La psychanalyse à l'épreuve de l'Islam (Aubier, 1997).

Parole chiave: islam, padre, Dio, creazione, procreazione, metafora, impossibile, rinuncia, monoteismo.  
Riassunto:

L'islam ha tentato di produrre nel suo edificio spirituale una rinuncia al padre per costituire la fede in Dio? Il presente studio propone una lettura della costruzione simbolica islamica a partire da tale domanda. Partendo dall'imperativo che separa Dio da ogni metafora paterna e da ogni idea di procreazione, la nostra ricerca ha cercato di interrogare il testo coranico nel suo rapporto con il testo biblico, per determinare le ragioni di una divergenza di  fondo tra l'islam ed i due altri monoteismi. Abbiamo mostrato che il problema trova la sua radice nella Genesi in cui il fondatore dell'islam ha tolto l'articolazione genealogica ad Abramo per inscrivere la sua fondazione a partire dal grande racconto della paternità e dell'alleanza. Ma tale racconto l'ha costretto ad un'interpretazione che distingue la metafora paterna da Dio. Le conseguenze di questa congettura sono numerose, tanto dal punto di vista etico, quanto a livello della teoria del monoteismo.

 

 

 

L'Islam avrebbe tentato di produrre, all'interno del suo edificio spirituale, una riduzione della nostalgia del padre, una rinuncia alla sua figura per costituire la fede in Dio? Pongo questa questione al termine di una ricerca che mi ha portato ad un'esplorazione dei testi e delle costruzioni simboliche della religione islamica, secondo le ipotesi della psicoanalisi1.

A prima vista, questa formulazione sembra contraddire la tesi costante di Freud di pensare la Sehnsucht del padre2 alla radice della creazione degli dei e delle formazioni religiose. Ma la ricerca psicoanalitica sulla cultura si deve accontentare di applicare, con la fedeltà dell'icona, la lettura freudiana, quando i fatti vengono a complicare l'estensione comprensiva delle istanze della psicologia individuale verso la vita collettiva? Dato che, nelle sue esposizioni sul monoteismo, Freud aveva lasciato da parte il caso dell'Islam, che egli menziona molto rapidamente nel capitolo "delle difficoltà" ne L'uomo Mosé e la religione monoteista3, per proporre un'interpretazione del suo sistema spirituale attorno alla questione del padre, che si rivela molto problematica ad un esame minuzioso4.

Si ricorda che in Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, Freud cita la bella frase di Leonardo: " Chi s'appoggia nella controversia sull'autorità, non lavora con lo spirito ma con la memoria"5, per commentarla assai estesamente e proporre l'ipotesi secondo cui una delle fonti della libertà di cui testimonia l'opera di Leonardo, rispetto alla sua epoca, sta nel fatto che egli abbia "appreso a rinunciare al padre" sin dall'infanzia, e che non  abbia avuto più bisogno per tutta la vita di appoggiarsi sulla trasfigurazione del padre in Dio, per condurre le sue ricerche coraggiose, fino ad allontanarsi "dalla concezione cristiana dell'universo". Freud non trasforma pertanto Leonardo in un personaggio senza fede, poiché egli sottolinea quanto "egli non manchi di esprimere la sua ammirazione per il Creatore, causa prima di tutti questi meravigliosi misteri (...)"6. Egli indica, tuttavia, che la rinuncia al padre ha aperto uno spazio di "gioco" e "di scarti" per la sua immaginazione (le parole sono di Freud) che porta lo spirito a fare della natura il luogo della propria ricerca, e termina il suo studio attribuendo a questo tratto del carattere di Leonardo la menzione - nei suoi manoscritti milanesi - di un'adozione della religione mussulmana.

Non si tratta di pretendere che l'edificio spirituale dell'Islam faccia a meno della questione del padre, né di attribuire ad esso una capacità di libertà di cui la storia reale ci mostra i limiti, seguendo l'esempio di tutte le religioni e delle costruzioni dogmatiche. L'ipotesi che mi auguro di dimostrare consiste piuttosto nell'esporre una congiuntura attraverso la quale si mostra che il fondatore dell'Islam (VI secolo), avendo visto il trattamento che l'ebraismo - e particolarmente il cristianesimo - aveva riservato al rapporto tra Dio ed il padre, tentò un superamento che lo condusse a produrre un imperativo insostenibile, in un senso comparabile a quello dell'amore cristiano per il prossimo, un comandamento la cui sublimità lo rendeva insostenibile per la psiche umana. Insomma, la separazione radicale tra il padre e Dio avrebbe il carattere "antipsicologico" che ritorna a chiedere all'uomo di attenersi all'impossibile. Ma non ci sarebbe su questo confine un ordine simbolico che racchiude la possibilità di una libertà spirituale suscettibile di generare dei momenti e delle opere di sublimazione nella civiltà? Al contrario, ci si può chiedere se la destinazione all'impossibile, sotto certe condizioni storiche,  specie quando le forze ermeneutiche mancano, non comporti un vortice di disperazione.

La figura del padre non entra nelle costruzioni dogmatiche dell'Islam. Sin dalle origini, il Corano si preoccupa in modo particolare di allontanare il riferimento a Dio della rappresentazione della paternità, persino a titolo metaforico o allusivo. Le proclamazioni dell'unicità di Dio mettono radicalmente al bando qualsiasi nozione di generazione divina. Nella sura detta del Culto puro, la natura divina è proclamata in questi rudi termini:

"Dì: Egli Dio l'Uno. Dio della pienezza. Non genera. Non è generato. Niente è uguale a Lui"7.

I commentatori presentano questo passaggio come un rifiuto del Dio-Padre del cristianesimo. La parola "pienezza", che fu anticamente il titolo di questa sura, mira a escludere Dio dall'ordine del sesso e della generazione. Si tratta della traduzione del termine "çamad" che designa ciò che è pieno e completo, ma anche "l'impenetrabile". Quest'ultimo significato ha prevalso attraverso le numerose traduzioni8 . La compiutezza divina si oppone in effetti, tassativamente, alla natura aperta dell'uomo, aperta perché sessuata, sessuata perché spaccata, dato che il sesso è il "Farj" che è un buco, un interstizio, una mancanza9 .      

 

Certe  versioni del mito della creazione fanno del sesso l'elemento inaugurale della creazione dell'uomo: "Ciò che Dio ha creato per primo nell'uomo - scrive Qortobi, - fu il suo sesso (Farj), e dice: 'questo è il mio deposito, ve lo affido', poiché il sesso è un deposito (Amanatun)10. Il deposito riveste il senso di un oggetto inestimabile che contrassegna la straordinaria dignità dell'uomo. Il termine arabo ha la stessa radice dell'Amen ebreo; esso designa un "sì", un "così sia" primo e correlativo della ricezione della mancanza originaria nella conformazione umana. Ma questa amenità costituisce allo stesso tempo la fonte del problema etico centrale dell'uomo, che il Corano indica in questi termini: "Abbiamo proposto il deposito (Amanata) ai cieli, alla terra ed alle montagne, si sono rifiutati di prenderlo e si sono spaventati, ad eccezione dell'uomo che lo ha accettato, dato che egli è ingiusto ed ignorante"11. Così, il "sì" originario alla sessualità cela una presunzione senza eguali.

  Esistono altre versioni di questo mito, che rappresentano il corpo primordiale dell'uomo come un corpo bucato, abbandonato attraverso i suoi orifizi alla circolazione demoniaca, in quanto essere di fuoco: "Quando Dio creò l'uomo d'argilla, nell'attesa che gli insufflasse un'anima, Satana si prendeva gioco di lui giocando a penetrare per la sua bocca, ad uscire per il suo ano e viceversa. Egli imboccava allo stesso modo gli altri orifizi: le orecchie, il naso, ecc."12. Evidentemente, questo frammento mette in scena un'ironia pulsionale consustanziale alla topica del buco come sessualità originaria, per cui spetterà all'anima o alla psiche di raggirarla, ricoprendola attraverso le sue tre funzioni fondamentali: la percezione, l'immaginazione e la comprensione intellettuale attraverso la ragione. Tutti i trattati sulla psiche, come in Avicenna13, si muovono all'interno di questo paradigma, indipendentemente dalle sottigliezze filosofiche che apportano nel corso dei secoli. Il sesso appare come il punto cieco (una delle metafore del sesso in arabo) dell'incontro con la psiche.

La separazione è quindi radicale: da un lato Dio è estraneo al sesso, estraneo alla generazione; dall'altro, l'umanità modellata attorno al buco è sull'orlo di un abisso che è il contrassegno della trascendenza in essa. Essa maneggia l'immaginazione e la ragione per ridurne i pericoli ed instaurare il godimento sessuale legale (Nikah). L'intera spiritualità dell'islam si va a mantenere il più possibile vicina a questa separazione. Essa pone che laddove c'è Dio, non c'è né paternità, né maternità, né generazione, né rapporto sessuale. Nessuna metafora può oltrepassare questa impossibilità.

Nella sua traduzione del Corano, Jacques Berque ha avvicinato il passaggio del Culto puro citato in precedenza, con una delle prime definizioni di dio Uno, nel Poema di Parmenide. La traduzione di Marcel Conche del frammento 8 mostra, in effetti, una prossimità inquietante con il versetto in questione: "[...] che essendo non generato, è anche immortale, intero, unico, imperituro e senza fine. Non era una volta, né  sarà, poiché egli è ora, tutto intero insieme, un continuo"14.

    Il commento di Marcel Conche indica in cosa la compiutezza di questo dio Uno 'ingenerato' stabilisce l'idea di un dio radicalmente differente da tutto, essendo un dio che è "essere" al quale non si può né togliere né aggiungere. Saturato, esso è impossibile.

Qualunque sia il risultato delle ricerche sulle fonti greche del Corano, che forse permetteranno un giorno di meglio precisare la natura esatta delle trasmissioni e delle traduzioni, è nondimeno vero che l'ultima religione monoteista, nata nel VI secolo, si presenta di colpo come un'obiezione alla teologia della paternità divina, mettendo un deserto genealogico tra l'uomo e Dio. Le conseguenze sono molteplici ed a tutti i livelli. Sul piano dello sviluppo storico, come prima cosa, ci si ricorda della tesi di Hegel che attribuisce la rapidità con la quale l'islam diviene "un impero universale" all'elevato grado di "astrazione del suo principio" ed alla "più alta intuizione dell'Uno" nella sua coscienza15. Sul piano filosofico,  Christian Jambet ha mostrato come questo contenuto della fede porterà alla nascita di un'ontologia che stabilisce un'equazione tra Dio ed essere, tra l'Uno e l'identità del reale16.  Quanto alla questione del soggetto, la nostra ricerca comincia appena ad intravvedere certe implicazioni della fede in un Dio che è essere e reale.

Nelle circostanze su cui non posso dilungarmi, accennando appena alla possibilità della paternità adottiva che esisteva tra gli Arabi prima dell'islam, il Corano esclude anche il fondatore dell'islam dallo statuto di padre: "Maometto non è il padre di nessun uomo tra voi"17. Se la mediazione profetica non riveste affatto gli attributi paterni, pertanto il primo dei mussulmani viene d'emblée posto in posizione di figlio e di orfano, poiché uno dei primi appellativi che Dio ha indirizzato al profeta è quello con cui egli si chiama: "l'orfano". La relazione di Dio con l'uomo non passerà dunque attraverso la mediazione di un profeta paterno. La paternità non sarà mai, come nel giudaismo, al centro dell'alleanza con Yahvé, in quanto Dio dei padri.

In generale, non esiste nell'Islam la sacralizzazione del padre, né al tempo della fondazione della nuova religione, né nella storia esegetica della sua trasmissione. Per di più, il padre è l'oggetto di un distanziamento, di una critica insistente di cui è testimonianza lo stesso testo coranico. Innanzitutto, non si incontra che qualche rara occasione (sette volte) in cui il Corano evoca in maniera favorevole coloro che esso chiama "i primi padri" (al-aba' al-'awwalin). Molti commentatori hanno notato giustamente che il Corano e la parola del profeta (hadith) non usano il termine 'padre' al singolare, ma sempre al plurale, come se non ci fosse Il padre come principio o come essenza. Si tratta principalmente di Abramo - in secondo luogo di Ismaele, di Isacco e di Giacobbe - la cui invocazione come "padri" è messa sulla bocca di un personaggio biblico, piuttosto che attraverso un nominare direttamente. Nella stragrande maggioranza dei casi, il plurale "padri" rinvia a dei fatti, a delle figure o a dei giudizi negativi. I padri sono nell'errore, nell'irragionevolezza, essi soccombono alla tentazione, sono idolatri e senza memoria; sono interpellati, denunciati, chiamati a credere nel Dio unico e talora perdonati per le loro colpe.

Del resto, Abramo - che è la figura centrale della paternità per l'islam - è presentato come l'esempio stesso della fondazione del monoteismo a partire dalla disobbedienza al padre, poiché Abramo rifiuterà il culto politeista di suo padre Terah e lo abbandonerà per compiere un viaggio spirituale. Esso riveste il senso di una liberazione dalla legge del padre, del suo clan e del suo costume; in modo tale che lo spirito del monoteismo per l'islam attiene ad un esilio attraverso cui il figlio incontra l'Uno fuori dal padre.

Pertanto, lo stesso Abramo, la cui rinuncia al sacrificio del figlio è commemorata ogni anno dai Mussulmani, non è esente da errori connessi alla figura del padre. Poiché il testo coranico presenta una versione della tentazione di Abramo di sacrificare uno dei suoi figli (senza definire se si trattava di Isacco o di Ismaele) che si differenzia da quella del giudaismo e del cristianesimo, e che si inscrive nell'ottica che è stata appena delineata, facendo dell'errore del padre una risorsa spirituale maggiore.

In effetti, nella versione coranica di questo episodio, Abramo non decide di condurre suo figlio al sacrificio attraverso un atto premeditato; non è nemmeno Dio che gli suggerisce o gli ordina di immolarlo. Il desiderio sacrificale del padre è localizzato nel sogno, ed è sotto l'effetto del suo sogno che Abramo si rivolge a suo figlio in questi termini: "Mio caro figlio, mi vedo in sogno, mentre sto per immolarti...". Il testo mette allora in scena un figlio che si sottomette al desiderio del padre: "Mio caro padre>> risponde <<fai ciò che ti è ordinato..."; poi, quando il padre si appresta a commettere l'infanticidio: "Dopo che entrambi si furono sottomessi e dopo che egli ebbe posto il bambino con la fronte contro la terra..." ; quando Dio interrompe in extremis l'atto: "Noi lo creammo: 'O Abramo! tu hai creduto al tuo sogno!'"18.

Nel grido di Dio che ferma l'infanticidio si intende una riprovazione che riguarda il fatto che Abramo ha aderito alle immagini del suo sogno. Appoggiandosi a questa interpellanza, Ibn Arabi, una delle più grandi figure spirituali dell'islam (del XIII secolo), ha proposto una teoria molto elaborata dell'interpretazione del sogno e del sacrificio, che ci dà la possibilità di pensare in una maniera decisiva le risorse spirituali della questione del padre nella versione islamica del monoteismo. Questo autore rileva, in effetti, che la riprovazione da parte di Dio non può avere altro significato se non quello dell'errore di interpretazione del sogno da parte di Abramo. E' a causa del fatto che il padre commette l'errore di non interpretare il suo sogno, che egli finisce per voler uccidere il figlio, e che Dio interviene per sostituire a lui il montone19. Il sacrificio avrebbe dunque la funzione di sopperire ad una interpretazione mancante da parte del padre.

  Foto: un'incisione raffigurante Ibn Arabi

Ma qual è la causa dell'errore di interpretazione del padre? Ibn Arabi avanza la seguente spiegazione: "Il bambino è l'essenza del suo generatore. Quando Abramo vede nel sogno che egli immolava suo figlio, si trattava in realtà di sacrificare se stesso"20. Così, se si considera che l'essenza ('Ayn) contiene tutte le possibilità di essere, come precisa Ibn Arabi, si comprende come Abramo abbia eluso l'interpretazione del suo sogno per sottrarsi alla limitazione della sua onnipotenza. Il sogno del padre di uccidere il figlio cela il desiderio di sacrificare l'essenza generatrice con cui egli restava confuso. Ora, sacrificare l'essenza, è accettare "l'odore dell'esistenza" (Ra'ihatou al-Wujud), o meglio, consentire alla determinazione dell'essenza in un luogo (Hulul), secondo i termini di Ibn Arabi. Cessare di occupare tutti i luoghi possibili, questo sarebbe il divenire padre. Non c'è padre che in quanto esistente (Mawjud), poiché il generatore dipende dall'essenza che è l'essere, l'Uno, Dio stesso. Si può trarre qui una triplice conclusione: da una parte, il concetto di essenza equivale a quello di godimento, nel senso del godimento assoluto. D'altra parte, l'interpretazione avrebbe la funzione di far venire all'esistenza ciò che il sogno nel suo contenuto manifesto nasconde, e cioè che il desiderio è il desiderio di uscire dall'essenza. Infine, ciò che si chiama "padre" è un esistente che si differenzia dal generatore, dal creatore (khalq) o dall'essere.

In quest'ottica, il padre è un procreatore che non può coincidere con il Dio creatore , se non nel fantasma di onnipotenza del padre. Ibn Arabi scrive:

 

"Il sogno dipende dalla presenza immaginativa che Abramo non ha interpretato. Era in realtà un montone che apparve in sogno sotto la forma del figlio di Abramo. Così Dio riscattò il bambino del fantasma (Wahm) di Abramo mediante la  grande immolazione del montone, ciò che era l'interpretazione divina del sogno, di cui Abramo non è stato cosciente (La Yach'ur)".21  

 

Insomma, il fantasma di infanticidio nel padre, dissimula il desiderio di uccidere il padre dell'onnipotenza, ma poiché il padre ne fallisce l'interpretazione, è Dio che la ristabilisce attraverso la sostituzione del montone. Si constata qui che Ibn Arabi propone una teoria molto vicina all'interpretazione freudiana dell'animale del sacrificio, che J. Lacan ha ripreso sottolineando che  il montone è una figura del padre del godimento assoluto.22

   Foto: J. Lacan

Il processo dello smarrimento del padre sarebbe dunque il seguente: il padre desidera essere l'essenza, in quanto egli resta confuso con il figlio, ma quando cerca la separazione, non ne riconosce il valore simbolico e vuole darla a se stesso infliggendosi l'uccisione reale del figlio. Seguendo Ibn Arabi, l'islam pensa il padre a partire da Dio e non l'inverso. Quest'ultimo appare come un Dio che ripara l'errore immaginario del padre sull'alterità, attraverso il ristabilire un'ermeneutica del sogno che fa nascere il simbolo mancante nella realtà. E' in questo senso, che egli è creatore e protettore del figlio, rispetto all'onnipotenza di suo padre procreatore. Poiché per Ibn Arabi, il padre procreatore è, per la sua natura originaria, un animale; o più esattamente, dal punto di vista della logica della procreazione, il padre dell'uomo è l'animale. E' per questo che, in mancanza di interpretazione, il sacrificio permette la separazione di questa origine, cioè l'avvento all'odore dell'esistenza grazie all'immolazione dell'animale. Tale percorso avrà permesso di rispondere alla domanda che pose Ibn Arabi all'inizio del suo testo: "Come dunque il belare del montone e la parola umana fanno ad equivalersi?"23 Possiamo ora fare questa scorciatoia: è nella morte che la voce del montone diviene parola.

Questa ricerca sul padre è stata stimolata da una delle rare riflessioni di Freud a proposito dell'islam, che viene sotto la sua penna in Mosé e la religione monoteista, così come l'abbiamo ricordato all'inizio. Egli scrive:

"Il recupero (Wiedergewinnung) dell'unico e grande Padre-originario (Urvater) produce negli Arabi una straordinaria elevazione della coscienza di sé, che conduce a dei grandi successi temporali, ma che si esaurì anche in essi. Allah si mostrò molto più riconoscente rispetto al suo popolo eletto di quanto lo fosse stato Yahvé riguardo al suo. Ma lo sviluppo interno della nuova religione ben presto si immobilizzò, forse perché mancava l'approfondimento che produce, nel caso ebraico, l'uccisione perpetrata sul fondatore della religione".

 

 
 

 Non ritornerei qui sui dettagli della discussione che ho iniziato con questa proposizione24, se non per sottolineare che i precedenti sviluppi sembrano contraddire l'ipotesi sul " recupero (Wiederdewinnung) dell'unico e grande Padre-originario (Urvater)...". La separazione tra un Dio creatore ed un padre procreatore, tra quest'ultimo, esposto alla figura del padre del godimento assoluto, ed il primo in posizione di un Dio ermeneuta, garante della funzione simbolica smarrita dal padre, indica piuttosto che l'islam pensa la spiritualità a partire da una divinità che è in disparte dal padre immaginario dell'origine.

Se l'islam è una religione del figlio, lo è in quanto il figlio è salvato dal proprio padre il quale non arriva a separarsi  da un padre animale di cui il sogno è portatore. Certo, il sogno contiene anche il desiderio di affrancarsi dal desiderio animale. Da questo punto di vista, esso condensa due desideri: uno dal lato dell'animale, l'altro da quello di una liberazione terribile, poiché essa consiste nel tagliare nella carne del figlio. Il Dio dell'islam appare come una critica del padre, come interpretazione del suo desiderio, al fine di liberare il figlio. Egli acconsente all'uccisione dell'animale nel padre; o meglio, egli propone  l'uccisione del padre del godimento simbolizzandolo grazie al montone, il quale non è dunque il sostituto del figlio, come si dice spesso, ma quello del padre. Grazie al sacrificio dell'animale, il padre accede alla verità simbolica del suo desiderio. Egli si sopprime come origine. Penso alla frase di Hegel: "i genitori sono per il bambino l'origine che si sopprime"25. In quest'ottica, l'essere del simbolo non è né dalla parte del padre, né da quella del figlio, anche se  salva quest'ultimo dalla crudeltà del primo. Esso è capacità di trasposizione: che il montone possa essere l'animale ed il padre primitivo, il simbolo e la cosa sanguinante, il sogno (d'Abramo) e la sua interpretazione (divina), tra immagine, parola e cosa.

Ciò che qui chiamo trasposizione, Ibn Arabi ha tentato di farne una teoria della creatività delle forme come proprietà intrinseca dell'essere o di Dio. Mentre quest'ultimo è cosciente delle molteplici forme che può prendere in ogni cosa, l'uomo ha una coscienza ristretta della trans-formazione. "Non possiamo vedere nemmeno la nostra forma spirituale"26, egli scrive. E' in questo senso che Abramo, in quanto profeta, non vede la forma spirituale del padre, e deve passare attraverso tanti metaboliti. La ragione fondamentale per Ibn Arabi è la seguente: "Poiché Dio non è mai incosciente (bi la Chu'ur) di nulla, mentre il soggetto è necessariamente incosciente di tale cosa in rapporto a talaltra"27. Così, il soggetto umano è sempre sorpreso di vedere la trasposizione delle cose in altre cose, compreso lui stesso.

Così è brevemente esposta la teoria di Ibn Arabi del padre, che lo separa radicalmente da Dio, il quale è pensato come un'energia di trasposizione delle forme alla quale l'uomo non ha accesso pienamente, per il fatto che egli ha un inconscio.  L'incosciente di Ibn Arabi non è l'inconscio freudiano, sebbene lo sfiori spesso, esso è la condizione dell'occultamento e dello svelamento spirituale delle molteplici forme dell'uomo.

Ibn Arabi non ha inventato questa teoria a partire dal nulla. Egli l'ha dedotta dal testo coranico e dal discorso del fondatore dell'islam. L'ipotesi che ho proposto nella ricerca precedentemente citata28, è che il fondatore dell'islam eredita una situazione genealogica esposta nella Genesi, in cui appare come la filiazione di Abramo attraverso Ismaele è il frutto di una fecondazione naturale di Agar, mentre per Isacco Dio dovette intervenire nella procreazione, dato che Sara aveva più di settant'anni. E' questa stessa operazione che si va a ripetere con Maria per generare Gesù. Il padre reale per l'islam è dunque Abramo, mentre il Dio creatore resta lontano dalla procreazione. Nel giudaismo e nel cristianesimo, Dio è allo stesso tempo creatore e procreatore, mentre Abramo come Giuseppe sono dei padri simbolici. Questa collocazione genealogica nella prima scrittura del padre del monoteismo spiega, a mio avviso, il fatto che il Dio dell'islam non è un padre. Curiosamente, gli studi comparati del monoteismo non hanno mai rilevato questo aspetto essenziale. L'altro fatto importante del racconto biblico è che Abramo manda via suo figlio Ismaele e sua madre nel deserto, esponendoli alla morte, non era l'intervento divino per salvarli. La figura del padre è quindi contrassegnata all'interno dell'islam dalla questione dell'abbandono, che aumenta la tentazione del sacrificio del figlio, anche se il testo coranico mette in scena una riconciliazione tra Ismaele e suo padre, al tempo della ricostruzione del tempio della Mecca. Mi sembra che questa situazione ha portato il fondatore dell'islam a rinunciare all'idealizzazione del padre, per cogliere tutt'a un tratto la concezione di un Dio che è essere, fonte di una funzione simbolica separata e separatrice del padre e del figlio.

Se Dio ristabilisce la metafora paterna, egli sfugge all'ontologia metaforica del padre, non solo perché è vietato chiamarlo 'padre', ma poiché è impossibile  nominarlo del tutto. In effetti, Allah non è un nome come Yahvé e Gesù. Si tratta, in lingua araba, della contrazione dell'articolo indefinito Al  e di Ilah che significa dio. Allah designa Il dio. E' questo che ha fatto scrivere a Joseph Chelhod in Les structures du sacré chez les Arabes: "Se gli ebrei hanno finito per dare al loro dio supremo un nome che non lo è (Yahvé, colui che è), gli Arabi hanno lasciato il loro praticamente senza nome"29. La teologia negativa che si è costituita all'interno dell'islam, a partire dal IX secolo, si fonda su tale impossibilità di nominare Dio, e va fino a considerare il testo coranico come un tessuto metaforico che non è l'opera di una rivelazione di Dio, come precisa il dogma dell'islam, ma di un'ispirazione divina scritta da mani umane.

Riassumendo: L'islam ha tentato di produrre nel suo edificio spirituale una rinuncia al padre per costituire la fede in Dio? Il presente studio propone una lettura della costruzione simbolica islamica a partire da tale domanda. Partendo dall'imperativo che separa Dio da ogni metafora paterna e da ogni idea di procreazione, la nostra ricerca ha cercato di interrogare il testo coranico nel suo rapporto con il testo biblico, per determinare le ragioni di una divergenza di  fondo tra l'islam ed i due altri monoteismi. Abbiamo mostrato che il problema trova la sua radice nella Genesi in cui il fondatore dell'islam ha tolto l'articolazione genealogica ad Abramo per inscrivere la sua fondazione a partire dal grande racconto della paternità e dell'alleanza. Ma tale racconto l'ha costretto ad un'interpretazione che distingue la metafora paterna da Dio. Le conseguenze di questa congettura sono numerose, tanto dal punto di vista etico, quanto a livello della teoria del monoteismo.

 

Note:

1. Fethi Benslama, La psychanalyse à l'épreuve de l'Islam, Paris, Aubier, 2002.

2. Traducibile in "desiderio (nostalgico) del padre", in S. Freud, Totem e tabù, (1912-1913).

3. S. Freud, L'uomo Mosé e la religione monoteista, (1934-1938).

4. Cfr. la discussione della formulazione di Freud,  in Benslama, op. cit., pagg. 115-120.

5. S. Freud, "Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci" (1910).

6. Op. cit.pag. 127.

7. Corano, CXII.

8.Per esempio nella traduzione di Denise Masson, Coran, Gallimard, Paris, 1967.

9. Fethi Benslama, "Le sexe absolu", Cahiers Intersignes, n°2, Paris, 1991, pp. 105-124.

10. Al-Qortubi, Al-jama' li 'ahkam al-qur'an, éditions Al-Kutub Al-masryya, Le Caire, 1954, t XVI, p.254.

11. Corano, VXXI, 33.

12. Ibn Ayyas Al-Hanafi, Bada'i' az-zuhur fi wqa'i' ad-duhur, Tunis, éditions du Manar, s.d., pp. 38-39.

13. Ibn Sina (Avicenna), An-nafs, (De anima), a cura di I. Madkour, Il Cairo, 1975.

14. Parmenide, Le Poème: Fragments. trad. M. Conche, PUF, 1996, p.127.

15. G.W.F. Hegel, La raison dans l'histoire, 10/18, 1965, p. 293.

16. Christian Jambet, L'acte d'etre, Paris, Fayard, 2003.

17. Corano, XXXIII, 40.

18. Corano, XXXVII, 101-112.

19. Ibn Arabi, La sagesse des prophètes, trad. T. Burckhardt, Albin Michel, 1974, pp. 67-73.

20. Op. cit., p. 67.

21. Op. cit. pp. 87-88.

22. J. Lacan, Séminaire XI, inédit, séance du 20 novembre 1963.

23. Op. Cit., p.85.

24. Fethi Benslama, Op. cit., pp. 115-120.

25. G.W.F. Hegel, La Phénoménologie de l'esprit, trad. Jean Hyppolite, Aubier, 1941, t. 2, p. 24.

26. Op. cit., p.92.

27. Op. cit. p. 97.

28. Op. cit. pp. 139-147.

29. Joseph Chelhod, Les structures du sacré chez les Arabes, Maisonneuve & Larose, 1964, p. 7.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

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