L'Islam
avrebbe tentato di produrre, all'interno del suo edificio spirituale, una
riduzione della nostalgia del padre, una rinuncia alla sua figura per
costituire la fede in Dio? Pongo questa questione al termine di una
ricerca che mi ha portato ad un'esplorazione dei testi e delle costruzioni
simboliche della religione islamica, secondo le ipotesi della psicoanalisi1.
A prima vista,
questa formulazione sembra contraddire la tesi costante di Freud di
pensare la Sehnsucht del padre2 alla radice della
creazione degli dei e delle formazioni religiose. Ma la ricerca
psicoanalitica sulla cultura si deve accontentare di applicare, con la
fedeltà dell'icona, la lettura freudiana, quando i fatti vengono a
complicare l'estensione comprensiva delle istanze della psicologia
individuale verso la vita collettiva? Dato che, nelle sue esposizioni sul
monoteismo, Freud aveva lasciato da parte il caso dell'Islam, che egli
menziona molto rapidamente nel capitolo "delle difficoltà" ne L'uomo
Mosé e la religione monoteista3, per proporre
un'interpretazione del suo sistema spirituale attorno alla questione del
padre, che si rivela molto problematica ad un esame minuzioso4.
Si ricorda che
in Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci, Freud cita la bella
frase di Leonardo: " Chi s'appoggia nella controversia sull'autorità, non
lavora con lo spirito ma con la memoria"5, per
commentarla assai estesamente e proporre l'ipotesi secondo cui una delle
fonti della libertà di cui testimonia l'opera di Leonardo, rispetto alla
sua epoca, sta nel fatto che egli abbia "appreso a rinunciare al padre"
sin dall'infanzia, e che non abbia avuto più bisogno per tutta la
vita di appoggiarsi sulla trasfigurazione del padre in Dio, per condurre
le sue ricerche coraggiose, fino ad allontanarsi "dalla concezione
cristiana dell'universo". Freud non trasforma pertanto Leonardo in un
personaggio senza fede, poiché egli sottolinea quanto "egli non manchi di
esprimere la sua ammirazione per il Creatore, causa prima di tutti questi
meravigliosi misteri (...)"6. Egli indica, tuttavia, che la
rinuncia al padre ha aperto uno spazio di "gioco" e "di
scarti" per la sua
immaginazione (le parole sono di Freud) che porta lo spirito a fare della
natura il luogo della propria ricerca, e termina il suo studio attribuendo
a questo tratto del carattere di Leonardo la menzione - nei suoi
manoscritti milanesi - di un'adozione della religione mussulmana.
Non si tratta
di pretendere che l'edificio spirituale dell'Islam faccia a meno della
questione del padre, né di attribuire ad esso una capacità di libertà di
cui la storia reale ci mostra i limiti, seguendo l'esempio di tutte le
religioni e delle costruzioni dogmatiche. L'ipotesi che mi auguro di
dimostrare consiste piuttosto nell'esporre una congiuntura attraverso la
quale si mostra che il fondatore dell'Islam (VI secolo), avendo visto il
trattamento che l'ebraismo - e particolarmente il cristianesimo - aveva
riservato al rapporto tra Dio ed il padre, tentò un superamento che lo
condusse a produrre un imperativo insostenibile, in un senso comparabile a
quello dell'amore cristiano per il prossimo, un comandamento la cui
sublimità lo rendeva insostenibile per la psiche umana. Insomma, la
separazione radicale tra il padre e Dio avrebbe il carattere
"antipsicologico" che ritorna a chiedere all'uomo di attenersi
all'impossibile. Ma non ci sarebbe su questo confine un ordine simbolico
che racchiude la possibilità di una libertà spirituale suscettibile di
generare dei momenti e delle opere di sublimazione nella civiltà? Al
contrario, ci si può chiedere se la destinazione all'impossibile, sotto
certe condizioni storiche, specie quando le forze ermeneutiche
mancano, non comporti un vortice di disperazione.
La figura del
padre non entra nelle costruzioni dogmatiche dell'Islam. Sin dalle
origini, il Corano si preoccupa in modo particolare di allontanare il
riferimento a Dio della rappresentazione della paternità, persino a titolo
metaforico o allusivo. Le proclamazioni dell'unicità di Dio mettono
radicalmente al bando qualsiasi nozione di generazione divina. Nella sura
detta del Culto puro, la natura divina è proclamata in questi rudi
termini:
"Dì: Egli
Dio l'Uno. Dio della pienezza. Non genera. Non è generato. Niente è uguale
a Lui"7.
I commentatori
presentano questo passaggio come un rifiuto del Dio-Padre del
cristianesimo. La parola "pienezza", che fu anticamente il titolo di
questa sura, mira a escludere Dio dall'ordine del sesso e della
generazione. Si tratta della traduzione del termine "çamad" che designa
ciò che è pieno e completo, ma anche "l'impenetrabile". Quest'ultimo
significato ha prevalso attraverso le numerose traduzioni8 .
La compiutezza divina si oppone in effetti, tassativamente, alla natura
aperta dell'uomo, aperta perché sessuata, sessuata perché spaccata, dato
che il sesso è il "Farj" che è un buco, un interstizio, una mancanza9
.
|
Certe versioni del mito della creazione fanno del sesso
l'elemento inaugurale della creazione dell'uomo: "Ciò che Dio ha
creato per primo nell'uomo - scrive Qortobi, - fu il suo sesso (Farj),
e dice: 'questo è il mio deposito, ve lo affido', poiché il
sesso è un deposito (Amanatun)10. Il deposito
riveste il senso di un oggetto inestimabile che contrassegna la
straordinaria dignità dell'uomo. Il termine arabo ha la stessa
radice dell'Amen ebreo; esso designa un "sì", un "così
sia" primo e correlativo della ricezione della mancanza
originaria nella conformazione umana. Ma questa amenità
costituisce allo stesso tempo la fonte del problema etico
centrale dell'uomo, che il Corano indica in questi
termini: "Abbiamo proposto il deposito (Amanata) ai
cieli, alla terra ed alle montagne, si sono rifiutati di
prenderlo e si sono spaventati, ad eccezione dell'uomo che lo ha
accettato, dato che egli è ingiusto ed ignorante"11.
Così, il "sì" originario alla sessualità cela una presunzione
senza eguali. |
Esistono
altre versioni di questo mito, che rappresentano il corpo primordiale
dell'uomo come un corpo bucato, abbandonato attraverso i suoi orifizi alla
circolazione demoniaca, in quanto essere di fuoco: "Quando Dio creò l'uomo
d'argilla, nell'attesa che gli insufflasse un'anima, Satana si prendeva
gioco di lui giocando a penetrare per la sua bocca, ad uscire per il suo
ano e viceversa. Egli imboccava allo stesso modo gli altri orifizi: le
orecchie, il naso, ecc."12. Evidentemente, questo frammento
mette in scena un'ironia pulsionale consustanziale alla topica del buco
come sessualità originaria, per cui spetterà all'anima o alla psiche di
raggirarla, ricoprendola attraverso le sue tre funzioni fondamentali:
la percezione, l'immaginazione e la comprensione intellettuale attraverso
la ragione. Tutti i trattati sulla psiche, come in Avicenna13,
si muovono all'interno di questo paradigma, indipendentemente dalle
sottigliezze filosofiche che apportano nel corso dei secoli. Il sesso
appare come il punto cieco (una delle metafore del sesso in arabo)
dell'incontro con la psiche.
La separazione è
quindi radicale:
da un lato Dio è estraneo al sesso, estraneo alla generazione; dall'altro,
l'umanità modellata attorno al buco è sull'orlo di un abisso che è il
contrassegno della trascendenza in essa. Essa maneggia l'immaginazione e
la ragione per ridurne i pericoli ed instaurare il godimento sessuale
legale (Nikah). L'intera spiritualità dell'islam si va a mantenere
il più possibile vicina a questa separazione. Essa pone che laddove c'è
Dio, non c'è né paternità, né maternità, né generazione, né rapporto
sessuale. Nessuna metafora può oltrepassare questa impossibilità.
Nella sua traduzione
del Corano, Jacques Berque ha avvicinato il passaggio del Culto
puro citato in precedenza, con una delle prime definizioni di dio
Uno, nel Poema di Parmenide. La traduzione di Marcel Conche del
frammento 8 mostra, in effetti, una prossimità inquietante con il versetto
in questione: "[...] che essendo non generato, è anche
immortale, intero, unico, imperituro e senza fine. Non era una volta, né
sarà, poiché egli è ora, tutto intero insieme, un continuo"14.
Il commento di Marcel Conche indica in cosa la compiutezza di questo dio
Uno 'ingenerato' stabilisce l'idea di un dio radicalmente differente
da tutto, essendo un dio che è "essere" al quale non si può né togliere né
aggiungere. Saturato, esso è impossibile.
Qualunque sia il
risultato delle ricerche sulle fonti greche del Corano, che forse
permetteranno un giorno di meglio precisare la natura esatta delle
trasmissioni e delle traduzioni, è nondimeno vero che l'ultima religione
monoteista, nata nel VI secolo, si presenta di colpo come un'obiezione
alla teologia della paternità divina, mettendo un deserto genealogico tra
l'uomo e Dio. Le conseguenze sono molteplici ed a tutti i livelli. Sul
piano dello sviluppo storico, come prima cosa, ci si ricorda della tesi di
Hegel che attribuisce la rapidità con la quale l'islam diviene "un impero
universale" all'elevato grado di "astrazione del suo principio" ed alla
"più alta intuizione dell'Uno" nella sua coscienza15. Sul piano
filosofico, Christian Jambet ha mostrato come questo contenuto della
fede porterà alla nascita di un'ontologia che stabilisce un'equazione tra
Dio ed essere, tra l'Uno e l'identità del
reale16. Quanto alla questione del soggetto, la
nostra ricerca comincia appena ad intravvedere certe implicazioni della
fede in un Dio che è essere e reale.
Nelle circostanze su
cui non posso dilungarmi, accennando appena alla possibilità della
paternità adottiva che esisteva tra gli Arabi prima dell'islam, il Corano
esclude anche il fondatore dell'islam dallo statuto di padre: "Maometto
non è il padre di nessun uomo tra voi"17. Se la mediazione
profetica non riveste affatto gli attributi paterni, pertanto il primo dei
mussulmani viene d'emblée posto in posizione di figlio e di orfano,
poiché uno dei primi appellativi che Dio ha indirizzato al profeta è
quello con cui egli si chiama: "l'orfano". La relazione di Dio con l'uomo
non passerà dunque attraverso la mediazione di un profeta paterno. La
paternità non sarà mai, come nel giudaismo, al centro dell'alleanza con
Yahvé, in quanto Dio dei padri.
In generale, non
esiste nell'Islam la sacralizzazione del padre, né al tempo della
fondazione della nuova religione, né nella storia esegetica della sua
trasmissione. Per di più, il padre è l'oggetto di un distanziamento, di
una critica insistente di cui è testimonianza lo stesso testo coranico.
Innanzitutto, non si incontra che qualche rara occasione (sette volte) in
cui il Corano evoca in maniera favorevole coloro che esso chiama "i primi
padri" (al-aba' al-'awwalin). Molti commentatori hanno notato giustamente
che il Corano e la parola del profeta (hadith) non usano il termine
'padre' al singolare, ma sempre al plurale, come se non ci fosse Il
padre come principio o come essenza. Si tratta principalmente di Abramo -
in secondo luogo di Ismaele, di Isacco e di Giacobbe - la cui invocazione
come "padri" è messa sulla bocca di un personaggio biblico, piuttosto che
attraverso un nominare direttamente. Nella stragrande maggioranza dei
casi, il plurale "padri" rinvia a dei fatti, a delle figure o a dei
giudizi negativi. I padri sono nell'errore, nell'irragionevolezza, essi
soccombono alla tentazione, sono idolatri e senza memoria; sono
interpellati, denunciati, chiamati a credere nel Dio unico e talora
perdonati per le loro colpe.
Del resto, Abramo -
che è la figura centrale della paternità per l'islam - è presentato come
l'esempio stesso della fondazione del monoteismo a partire dalla
disobbedienza al padre, poiché Abramo rifiuterà il culto politeista di suo
padre Terah e lo abbandonerà per compiere un viaggio spirituale. Esso
riveste il senso di una liberazione dalla legge del padre, del suo clan e
del suo costume; in modo tale che lo spirito del monoteismo per l'islam
attiene ad un esilio attraverso cui il figlio incontra l'Uno fuori
dal padre.
Pertanto, lo stesso
Abramo, la cui rinuncia al sacrificio del figlio è commemorata ogni anno
dai Mussulmani, non è esente da errori connessi alla figura del padre.
Poiché il testo coranico presenta una versione della tentazione di Abramo
di sacrificare uno dei suoi figli (senza definire se si trattava di Isacco
o di Ismaele) che si differenzia da quella del giudaismo e del
cristianesimo, e che si inscrive nell'ottica che è stata appena delineata,
facendo dell'errore del padre una risorsa spirituale maggiore.
In effetti, nella
versione coranica di questo episodio, Abramo non decide di condurre suo
figlio al sacrificio attraverso un atto premeditato; non è nemmeno Dio che
gli suggerisce o gli ordina di immolarlo. Il desiderio sacrificale del
padre è localizzato nel sogno, ed è sotto l'effetto del suo sogno che
Abramo si rivolge a suo figlio in questi termini: "Mio caro figlio, mi
vedo in sogno, mentre sto per immolarti...". Il testo mette allora in
scena un figlio che si sottomette al desiderio del padre: "Mio caro
padre>> risponde <<fai ciò che ti è ordinato..."; poi, quando
il padre si appresta a commettere l'infanticidio: "Dopo che entrambi si
furono sottomessi e dopo che egli ebbe posto il bambino con la fronte
contro la terra..." ; quando Dio interrompe in extremis l'atto: "Noi
lo creammo: 'O Abramo! tu hai creduto al tuo sogno!'"18.
Nel grido di Dio che
ferma l'infanticidio si intende una riprovazione che riguarda il fatto che
Abramo ha aderito alle immagini del suo sogno. Appoggiandosi a questa
interpellanza, Ibn Arabi, una delle più grandi figure spirituali
dell'islam (del XIII secolo), ha proposto una teoria molto elaborata
dell'interpretazione del sogno e del sacrificio, che ci dà la possibilità
di pensare in una maniera decisiva le risorse spirituali della questione
del padre nella versione islamica del monoteismo. Questo autore rileva, in
effetti, che la riprovazione da parte di Dio non può avere altro
significato se non quello dell'errore di interpretazione del sogno da
parte di Abramo. E' a causa del fatto che il padre commette l'errore di
non interpretare il suo sogno, che egli finisce per voler uccidere il
figlio, e che Dio interviene per sostituire a lui il montone19.
Il sacrificio avrebbe dunque la funzione di sopperire ad una
interpretazione mancante da parte del padre.
Foto:
un'incisione raffigurante Ibn Arabi
Ma qual è la causa
dell'errore di interpretazione del padre? Ibn Arabi avanza la seguente
spiegazione: "Il bambino è l'essenza del suo generatore. Quando Abramo
vede nel sogno che egli immolava suo figlio, si trattava in realtà di
sacrificare se stesso"20. Così, se si considera che
l'essenza ('Ayn) contiene tutte le possibilità di essere, come
precisa Ibn Arabi, si comprende come Abramo abbia eluso l'interpretazione
del suo sogno per sottrarsi alla limitazione della sua onnipotenza. Il
sogno del padre di uccidere il figlio cela il desiderio di sacrificare
l'essenza generatrice con cui egli restava confuso. Ora, sacrificare
l'essenza, è accettare "l'odore dell'esistenza" (Ra'ihatou al-Wujud),
o meglio, consentire alla determinazione dell'essenza in un luogo (Hulul),
secondo i termini di Ibn Arabi. Cessare di occupare tutti i luoghi
possibili, questo sarebbe il divenire padre. Non c'è padre che in quanto
esistente (Mawjud), poiché il generatore dipende dall'essenza che è
l'essere, l'Uno, Dio stesso. Si può trarre qui una triplice conclusione:
da una parte, il concetto di essenza equivale a quello di godimento, nel
senso del godimento assoluto. D'altra parte, l'interpretazione avrebbe la
funzione di far venire all'esistenza ciò che il sogno nel suo contenuto
manifesto nasconde, e cioè che il desiderio è il desiderio di uscire
dall'essenza. Infine, ciò che si chiama "padre" è un esistente che si
differenzia dal generatore, dal creatore (khalq) o dall'essere.
In quest'ottica, il
padre è un procreatore che non può coincidere con il Dio
creatore , se non nel fantasma di onnipotenza del padre. Ibn Arabi
scrive:
"Il sogno dipende dalla presenza immaginativa che Abramo non ha
interpretato. Era in realtà un montone che apparve in sogno sotto la
forma del figlio di Abramo. Così Dio riscattò il bambino del fantasma
(Wahm) di Abramo mediante la grande immolazione del montone, ciò
che era l'interpretazione divina del sogno, di cui Abramo non è stato
cosciente (La Yach'ur)".21 |
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Insomma, il
fantasma di infanticidio nel padre, dissimula il desiderio di
uccidere il padre dell'onnipotenza, ma poiché il padre ne fallisce
l'interpretazione, è Dio che la ristabilisce attraverso la
sostituzione del montone. Si constata qui che Ibn Arabi propone una
teoria molto vicina all'interpretazione freudiana dell'animale del
sacrificio, che J. Lacan ha ripreso sottolineando che il
montone è una figura del padre del godimento assoluto.22
Foto: J. Lacan
Il processo
dello smarrimento del padre sarebbe dunque il seguente: il padre
desidera essere l'essenza, in quanto egli resta confuso con il
figlio, ma quando cerca la separazione, non ne riconosce il valore
simbolico e vuole darla a se stesso infliggendosi l'uccisione reale
del figlio. Seguendo Ibn Arabi, l'islam pensa il padre a partire da
Dio e non l'inverso. Quest'ultimo appare come un Dio che ripara
l'errore immaginario del padre sull'alterità, attraverso il
ristabilire un'ermeneutica del sogno che fa nascere il simbolo
mancante nella realtà. E' in questo senso, che egli è creatore e
protettore del figlio, rispetto all'onnipotenza di suo padre
procreatore. Poiché per Ibn Arabi, il padre procreatore è, per la
sua natura originaria, un animale; o più esattamente, dal punto di
vista della logica della procreazione, il padre dell'uomo è
l'animale. E' per questo che, in mancanza di interpretazione, il
sacrificio permette la separazione di questa origine, cioè l'avvento
all'odore dell'esistenza grazie all'immolazione dell'animale. Tale
percorso avrà permesso di rispondere alla domanda che pose Ibn Arabi
all'inizio del suo testo: "Come dunque il belare del montone e la
parola umana fanno ad equivalersi?"23 Possiamo ora
fare questa scorciatoia: è nella morte che la voce del montone
diviene parola.
Questa ricerca
sul padre è stata stimolata da una delle rare riflessioni di Freud a
proposito dell'islam, che viene sotto la sua penna in Mosé e la
religione monoteista, così come l'abbiamo ricordato all'inizio.
Egli scrive:
"Il recupero (Wiedergewinnung) dell'unico e
grande Padre-originario (Urvater) produce negli Arabi una
straordinaria elevazione della coscienza di sé, che conduce a
dei grandi successi temporali, ma che si esaurì anche in essi.
Allah si mostrò molto più riconoscente rispetto al suo popolo
eletto di quanto lo fosse stato Yahvé riguardo al suo. Ma lo
sviluppo interno della nuova religione ben presto si
immobilizzò, forse perché mancava l'approfondimento che produce,
nel caso ebraico, l'uccisione perpetrata sul fondatore della
religione". |
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Non
ritornerei qui sui dettagli della discussione che ho iniziato con
questa proposizione24, se non per sottolineare che i
precedenti sviluppi sembrano contraddire l'ipotesi sul " recupero
(Wiederdewinnung) dell'unico e grande Padre-originario (Urvater)...".
La separazione tra un Dio creatore ed un padre procreatore, tra
quest'ultimo, esposto alla figura del padre del godimento assoluto,
ed il primo in posizione di un Dio ermeneuta, garante della
funzione simbolica smarrita dal padre, indica piuttosto che l'islam
pensa la spiritualità a partire da una divinità che è in disparte
dal padre immaginario dell'origine.
Se l'islam è
una religione del figlio, lo è in quanto il figlio è salvato dal
proprio padre il quale non arriva a separarsi da un padre
animale di cui il sogno è portatore. Certo, il sogno contiene anche
il desiderio di affrancarsi dal desiderio animale. Da questo punto
di vista, esso condensa due desideri: uno dal lato dell'animale,
l'altro da quello di una liberazione terribile, poiché essa consiste
nel tagliare nella carne del figlio. Il Dio dell'islam appare come
una critica del padre, come interpretazione del suo desiderio, al
fine di liberare il figlio. Egli acconsente all'uccisione
dell'animale nel padre; o meglio, egli propone l'uccisione del
padre del godimento simbolizzandolo grazie al montone, il quale non
è dunque il sostituto del figlio, come si dice spesso, ma quello del
padre. Grazie al sacrificio dell'animale, il padre accede alla
verità simbolica del suo desiderio. Egli si sopprime come origine.
Penso alla frase di Hegel: "i genitori sono per il bambino
l'origine che si sopprime"25. In quest'ottica,
l'essere del simbolo non è né dalla parte del padre, né da quella
del figlio, anche se salva quest'ultimo dalla crudeltà del
primo. Esso è capacità di trasposizione: che il montone possa
essere l'animale ed il padre primitivo, il simbolo e la cosa
sanguinante, il sogno (d'Abramo) e la sua interpretazione (divina),
tra immagine, parola e cosa.
Ciò che qui
chiamo trasposizione, Ibn Arabi ha tentato di farne una
teoria della creatività delle forme come proprietà intrinseca
dell'essere o di Dio. Mentre quest'ultimo è cosciente delle
molteplici forme che può prendere in ogni cosa, l'uomo ha una
coscienza ristretta della trans-formazione. "Non possiamo
vedere nemmeno la nostra forma spirituale"26, egli
scrive. E' in questo senso che Abramo, in quanto profeta, non vede
la forma spirituale del padre, e deve passare attraverso tanti
metaboliti. La ragione fondamentale per Ibn Arabi è la seguente: "Poiché
Dio non è mai incosciente (bi la Chu'ur) di nulla, mentre il
soggetto è necessariamente incosciente di tale cosa in rapporto a
talaltra"27. Così, il soggetto umano è sempre
sorpreso di vedere la trasposizione delle cose in altre cose,
compreso lui stesso.
Così è
brevemente esposta la teoria di Ibn Arabi del padre, che lo separa
radicalmente da Dio, il quale è pensato come un'energia di
trasposizione delle forme alla quale l'uomo non ha accesso
pienamente, per il fatto che egli ha un inconscio.
L'incosciente di Ibn Arabi non è l'inconscio freudiano, sebbene lo
sfiori spesso, esso è la condizione dell'occultamento e dello
svelamento spirituale delle molteplici forme dell'uomo.
Ibn Arabi non
ha inventato questa teoria a partire dal nulla. Egli l'ha dedotta
dal testo coranico e dal discorso del fondatore dell'islam.
L'ipotesi che ho proposto nella ricerca precedentemente citata28,
è che il fondatore dell'islam eredita una situazione genealogica
esposta nella Genesi, in cui appare come la filiazione di
Abramo attraverso Ismaele è il frutto di una fecondazione naturale
di Agar, mentre per Isacco Dio dovette intervenire nella
procreazione, dato che Sara aveva più di settant'anni. E' questa
stessa operazione che si va a ripetere con Maria per generare Gesù.
Il padre reale per l'islam è dunque Abramo, mentre il Dio creatore
resta lontano dalla procreazione. Nel giudaismo e nel cristianesimo,
Dio è allo stesso tempo creatore e procreatore, mentre Abramo come
Giuseppe sono dei padri simbolici. Questa collocazione genealogica
nella prima scrittura del padre del monoteismo spiega, a mio avviso,
il fatto che il Dio dell'islam non è un padre. Curiosamente, gli
studi comparati del monoteismo non hanno mai rilevato questo aspetto
essenziale. L'altro fatto importante del racconto biblico è che
Abramo manda via suo figlio Ismaele e sua madre nel deserto,
esponendoli alla morte, non era l'intervento divino per salvarli. La
figura del padre è quindi contrassegnata all'interno dell'islam
dalla questione dell'abbandono, che aumenta la tentazione del
sacrificio del figlio, anche se il testo coranico mette in scena una
riconciliazione tra Ismaele e suo padre, al tempo della
ricostruzione del tempio della Mecca. Mi sembra che questa
situazione ha portato il fondatore dell'islam a rinunciare
all'idealizzazione del padre, per cogliere tutt'a un tratto la
concezione di un Dio che è essere, fonte di una funzione
simbolica separata e separatrice del padre e del figlio.
Se Dio
ristabilisce la metafora paterna, egli sfugge all'ontologia
metaforica del padre, non solo perché è vietato chiamarlo 'padre',
ma poiché è impossibile nominarlo del tutto. In effetti,
Allah non è un nome come Yahvé e Gesù. Si tratta,
in lingua araba, della contrazione dell'articolo indefinito Al
e di Ilah che significa dio. Allah designa
Il dio. E' questo che ha fatto scrivere a Joseph Chelhod in
Les structures du sacré chez les Arabes: "Se gli ebrei hanno finito
per dare al loro dio supremo un nome che non lo è (Yahvé, colui
che è), gli Arabi hanno lasciato il loro praticamente senza nome"29.
La teologia negativa che si è costituita all'interno dell'islam, a
partire dal IX secolo, si fonda su tale impossibilità di nominare
Dio, e va fino a considerare il testo coranico come un tessuto
metaforico che non è l'opera di una rivelazione di Dio, come precisa
il dogma dell'islam, ma di un'ispirazione divina scritta da mani
umane.
Riassumendo: L'islam
ha tentato di produrre nel suo edificio spirituale una rinuncia al
padre per costituire la fede in Dio? Il presente studio propone una
lettura della costruzione simbolica islamica a partire da tale
domanda. Partendo dall'imperativo che separa Dio da ogni metafora
paterna e da ogni idea di procreazione, la nostra ricerca ha cercato
di interrogare il testo coranico nel suo rapporto con il testo
biblico, per determinare le ragioni di una divergenza di fondo
tra l'islam ed i due altri monoteismi. Abbiamo mostrato che il
problema trova la sua radice nella Genesi in cui il fondatore
dell'islam ha tolto l'articolazione genealogica ad Abramo per
inscrivere la sua fondazione a partire dal grande racconto della
paternità e dell'alleanza. Ma tale racconto l'ha costretto ad
un'interpretazione che distingue la metafora paterna da Dio. Le
conseguenze di questa congettura sono numerose, tanto dal punto di
vista etico, quanto a livello della teoria del monoteismo.
Note: 1. Fethi Benslama, La psychanalyse à l'épreuve
de l'Islam, Paris, Aubier, 2002.
2. Traducibile in "desiderio (nostalgico) del padre", in S.
Freud, Totem e tabù, (1912-1913).
3. S. Freud, L'uomo Mosé e la religione monoteista,
(1934-1938).
4. Cfr. la discussione della formulazione di Freud,
in Benslama, op. cit., pagg. 115-120.
5. S. Freud, "Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci"
(1910).
6. Op. cit.pag. 127.
7. Corano, CXII.
8.Per esempio nella traduzione di Denise Masson, Coran,
Gallimard, Paris, 1967.
9. Fethi Benslama, "Le sexe absolu", Cahiers Intersignes,
n°2, Paris, 1991, pp. 105-124.
10. Al-Qortubi, Al-jama' li 'ahkam al-qur'an,
éditions Al-Kutub Al-masryya, Le Caire, 1954, t XVI, p.254.
11. Corano, VXXI, 33.
12. Ibn Ayyas Al-Hanafi, Bada'i' az-zuhur fi wqa'i'
ad-duhur, Tunis, éditions du Manar, s.d., pp. 38-39.
13. Ibn Sina (Avicenna), An-nafs, (De anima), a cura
di I. Madkour, Il Cairo, 1975.
14. Parmenide, Le Poème: Fragments. trad. M. Conche,
PUF, 1996, p.127.
15. G.W.F. Hegel, La raison dans l'histoire, 10/18, 1965,
p. 293.
16. Christian Jambet, L'acte d'etre, Paris, Fayard,
2003.
17. Corano, XXXIII, 40.
18. Corano, XXXVII, 101-112.
19. Ibn Arabi, La sagesse des prophètes, trad. T.
Burckhardt, Albin Michel, 1974, pp. 67-73.
20. Op. cit., p. 67.
21. Op. cit. pp. 87-88.
22. J. Lacan, Séminaire XI, inédit, séance du 20 novembre
1963.
23. Op. Cit., p.85.
24. Fethi Benslama, Op. cit., pp. 115-120.
25. G.W.F. Hegel, La Phénoménologie de l'esprit,
trad. Jean Hyppolite, Aubier, 1941, t. 2, p. 24.
26. Op. cit., p.92.
27. Op. cit. p. 97.
28. Op. cit. pp. 139-147.
29. Joseph Chelhod, Les structures du sacré chez les
Arabes, Maisonneuve & Larose, 1964, p. 7.
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