FRENIS zero | |||||||||||||
Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte | |||||||||||||
"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria". N.10, anno V, giugno 2008.
Quando si pensa all’origine di qualcosa , di una qualsiasi cosa: storia , incontro, lavoro, libro, o film, c’è sempre un prima. La ricerca ha allora la necessità di fermarsi , di accettare la perdita , e di farsi carico dell’arbitrio di ciò che afferma: “da qui”. Così ho fatto per questo lavoro, stabilendone la nascita in un incontro con un paziente psicotico che così intensamente mi faceva pensare controtransferalmente a Freud. Ma molto a quel momento era già accaduto e molto è accaduto dopo. Farò allora da subito due premesse. La prima riguardo alla vicinanza nello sviluppo del mio pensiero al pensiero freudiano, la seconda alla scelta di uno studio e una scrittura sulla psicosi. Mi sono spesso chiesta che cosa mi appassionasse del pensiero freudiano in generale e in particolare in relazione alla psicosi e ora, che sono passati molti anni, e la passione si è rinnovata, ma è anche più libera dalla scontatezza del primo amore, direi che è appassionante l' atteggiamento curioso e irrinunciatario di Freud in ogni ambito, psicosi compresa, pur all’interno di un rigoroso rispetto dei limiti. Negli ultimi suoi scritti, come in "Analisi Terminabile e Interminabile", ma anche in altri precedenti, come nel caso Schreber, Freud si interroga, si anima e scommette: << Sarà l’avvenire a decidere se la mia teoria contiene più delirio di quanto io vorrei , o se il delirio di Schreber contiene più verità di quanto altri oggi non siano disposti a credere>> (1919, 403) . Foto: Daniel Paul Schreber E ancora nel "Compendio" suggerisce che un giorno forse con l’avanzamento della scienza (farmacologia) si potranno notare cose nuove , << E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che adesso non possiamo neppure sospettare..>> (1938, 609) e sempre nel caso Schreber diceva : << …e non disperiamo di individuare in seguito altri elementi che consentano di trovare il fondamento delle differenze che attengono alla forma e al decorso di queste due ultime affezioni in corrispondenti differenze nella fissazione libidica predisponente>> (1910, 388), riferendosi alla paranoia e alla dementia precox, come preferisce chiamarla secondo la classificazione fenomenologica Kraepelininana piuttosto che schizofrenia , come proposto da Bleuler. Ancora nel caso Schreber dà una guida ai posteri e si dichiara perfino disposto a far cadere le proprie ipotesi avanzate fino ad allora allo scopo di : ( 1910, 399-400) <<orientarci nel marasma degli oscuri processi psichici>>. E aggiunge : <<dalla esplorazione dei processi psichici morbosi ci ripromettiamo appunto di pervenire ad alcune conclusioni relative ai problemi che attengono alla teoria delle pulsioni>> e , potremmo aggiungere noi, all’innegabilità che i disturbi della libido possano ripercuotersi sugli investimenti dell’Io, come l’inverso, e alla reversibilità di alcune situazioni patologiche. E in "Nevrosi e Psicosi" del 1923 continua a interrogarsi in questo senso su come l’Io <<riesca a cavarsela da questi conflitti, che indubbiamente sono sempre presenti, senza ammalarsi>> (1923, 614) . Così Freud lascia in eredità questo testimone di domande aperte, di curiosità immaginativa irrinunciabile, all’interno di uno strumento ben collaudato, quello metapsicologico, ma allo stesso tempo mai sistematizzabile e incline invece al paradosso come Winnicott ci ha insegnato, una curiosità immaginativa propositrice di paradosso aggiungerei, e un pensiero creativo che fonda la metapsicologia come una costruzione teorica basata sulla possibilità immaginativa, e qui voglio citare Lucio Russo come autore, che nella sua originalità, coglie questo aspetto creativo del pensiero di Freud nel suo libro "Le illusioni del pensiero". Sempre con un paradosso creativo Freud definisce la “Normalità “ ( <<Perdita della realtà nella nevrosi e nella psicosi>>, 1924, 41) <<un comportamento che unisca determinati tratti di entrambe le reazioni – [nevrotica e psicotica, n.d.Autrice] – che al pari della nevrosi non rinneghi la realtà e che però poi, come la psicosi, cerchi di modificarla>> in modo alloplastico e non autoplastico comunque come nella psicosi avviene. Riguardo alla seconda premessa sulla scelta di uno studio sulla psicosi , vorrei dire che più che uno studio della psicosi è stato uno studio attraverso la psicosi. Partendo dalla psicosi, infatti, ho utilizzato gli elementi emergenti nel lavoro analitico che attingevano al passaggio presimbolico - simbolico e riconducevano alle funzioni dell’Io , funzioni compromesse dalla scissione , allucinazione e delirio. L’attenzione era quindi volta a osservare come queste funzioni si potessero articolare e disarticolare nel transfert. La psicosi dal mio punto di vista offre infatti allo studio alcune particolarità quali la dilatazione temporale fino alla perdita di una sua scansione, propone un rallentamento che raggiunge uno stato che potremmo paragonare a un fermo immagine. Questo sguardo dall’interno, dall’interno del soggetto che sperimenta la psicosi, uno sguardo che, come diceva anche Freud, nella maggioranza dei casi rimane conservato ( nel <<Compendio>>), integro anche nel corso della crisi psicotica, può essere riattraversato e riproposto nel percorso analitico, all’interno del transfert appoggiandosi sulla parola e, aggiungerei, agganciandosi ad essa una volta fuori dalla crisi. Ciò che è stato “ visto”, o almeno una sua gran parte, da uno spettatore vigile e muto, in un assetto ancora funzionante, ma "esiliato" da una possibilità di integrarsi con la realtà esterna e con la gran parte di quella psichica, ritorna nel transfert sull’oggetto e sulla parola, con una possibilità di rappresentazione e per una possibilità di rappresentazione1. Ed è su questa immagine vista che si colloca un ulteriore punto di inizio dello studio.
Riprenderò alcuni concetti di base, a tutti noti, solo per individuare il mio percorso nell’attraversare il pensiero freudiano. In <<Totem e Tabù>> (1912-13) Freud precisa che le percezioni interne, simili alle percezioni sensoriali, vengono proiettate verso l’esterno e utilizzate attraverso la messa in forma di un mondo esterno. Da qui deriva probabilmente la correlazione genetica con il fatto che la funzione dell’attenzione non è mai rivolta all’origine verso il mondo interno, ma verso gli stimoli affluenti dal mondo esterno, ricevendo dal processo endopsichico solo le informazioni sugli sviluppi del piacere e del dispiacere2. D’altra parte Freud ne "L’Inconscio" ( in "Metapsicologia", 1915), ritornando con maggiore precisione alle definizioni di rappresentazione e di coscienza, ricorda che la pulsione non può essere conosciuta dalla coscienza se non attraverso la rappresentazione che la rappresenta e di cui nell’inconscio residua la traccia mnestica. Quando il moto pulsionale è rimosso, l’affetto legato che non può essere rimosso, si attacca ad un’altra rappresentazione rendendo così il moto pulsionale irriconoscibile. Nella rappresentazione c’è quindi un aspetto quantitativo non misurabile che è l’affetto.
Come può dunque una rappresentazione divenire cosciente ? Attraverso il legame, nel preconscio, con la rappresentazione di parola . Tali rappresentazioni, in quanto resti mnestici , sono state un giorno espressioni di percezioni (in <<L’Io e l’Es>>, 1922), e come tutti i resti mnestici possono divenire coscienti. Per diventare coscienti devono essere ancora trasposte in percezioni esterne. I resti di parole sono i discendenti di percezioni acustiche e costituiscono una qualche sorta di origine sensoriale particolare del sistema preconscio. I costituenti visivi, delle rappresentazioni di parola, si possono considerare secondo Freud secondarie .
Freud, completando il suo pensiero in <<L’Io e l’Es>> (1922), fa diventare completamente chiaro il ruolo delle rappresentazioni di parola: è attraverso queste che i processi del pensiero interno sono divenuti percepibili. A conclusione di questo percorso sembra farsi strada una proposizione che affermi che tutto il sapere è basato sulla percezione. Al momento di un sovrainvestimento del pensiero, infatti, i pensieri sono percepiti effettivamente come se fossero provenienti dall’esterno e da ciò ritenuti veri.
Sempre in quest’ambito riguardo ai resti mnestici ottici, che Freud nomina come resti mnestici di cosa, dice che il divenire cosciente dei processi di pensiero, per ritorno di resti visivi, è possibile e presso molte persone sembra privilegiato. La gran parte del materiale concreto del pensiero derivante dai sogni e dalla fantasia, arriva al preconscio e diviene cosciente, ma per particolari relazioni che caratterizzano il pensiero, un’espressione visuale non può essere data. Il pensiero per immagini, dice Freud, dunque non è che un divenire cosciente molto imperfetto.
E’ a partire da questa definizione freudiana così netta che nasce l’abbozzo di un altro pensiero complementare, proprio a partire da ciò che la definizione esclude. Se il pensiero per immagini è un divenire alla coscienza in modo imperfetto, come utilizzare questi elementi di imperfezione, le immagini, quando si propongono, per raggiungere a partire da queste un pensiero che si possa congedare da esse? Come ipotizzare e costruire una riflessione su questo versante, riflessione che in Freud non pare affatto conclusa, seguendo un percorso metapsicologico che la guidi ? Quali condizioni comuni e quali condizioni patologiche potrebbero prestarsi maggiormente a queste considerazioni, per non perdere mai di vista il fatto che la clinica è il campo di applicazione della metapsicologia? Il percorso proposto, quindi, non è un approfondimento del ‘pensiero per immagini’, ma un’indagine che segue un profilo metapsicologico sul ‘pensiero a partire dalle immagini’ per raggiungere una possibilità di sganciamento da esse, e di aggancio successivo alla parola, a un livello più evoluto e più stabile.
Quando si parla di immagine è pertanto decisivo intendere che non si parla di un elemento percettivo di origine interna o esterna descrivibile in sé , ma di ‘qualche cosa’ di già rappresentato, nel senso che Freud dà alla rappresentazione, ma che non ritorna nella sua completezza.
Non potremmo avere la percezione-immagine ad esempio di ‘ bottiglia ‘ se non ci fosse una traccia mnestica rappresentativa della sua immagine. Un’ eventuale stimolazione neurologica, attraverso le vie sensoriali, di qualche cosa di non rappresentato, cadrebbe inevitabilmente in un bagaglio informativo che sta ‘fuori ‘, che non si lega, che non si può fissare, né tradurre in una informazione di pensiero, per quanto almeno lo strumento analitico possa rilevare, quindi non può fare parte di questo campo di studio3.
Il settore di osservazione in questo percorso riguarda allora l’ipotesi che vi sia una confluenza di stimoli percettivi interni o esterni su una rappresentazione di immagine che raggiunga il preconscio senza tuttavia potersi legare all’idea relativa all’immagine stessa per un difetto quindi nel legame con la rappresentazione di parola corrispondente (I livello).
Riprendendo il modello freudiano come fonte di origine e struttura plastica di ammodellamento di questo pensiero, si può dire che, poiché nel concetto di rappresentazione di Freud è ben distinta sempre una componente percettiva da una componente ideativa, sia per quanto riguarda la cosa che per quanto riguarda la parola, il difetto di legame qui proposto sarebbe da intendersi più fra la componente percettiva e quella ideativa che fra cosa e parola (II livello).
Lo scarto appena descritto sulla possibilità di realizzare un legame tra la componente percettiva e quella ideativa della rappresentazione è uno scarto tanto temporale quanto funzionale molto evidente nella psicosi e si può identificare, tra le qualità di funzionamento psichico, anche come uno scarto e una difficoltà di passaggio dal primario al secondario. Esso è tuttavia pensabile come uno spazio, un luogo di attraversamento obbligato, perché questo passaggio di qualità tra due moduli di funzionamento psichico avvenga o si crei l’occasione perché possa avvenire. Solo dal momento in cui avviene, infatti, è possibile la realizzazione degli affiancamenti associativi che costituiscono la possibilità e l’evoluzione del pensiero, poiché nel sistema psichico, come dice Laplanche, fanno da zavorra rallentando i percorsi energetici e favorendo così il mantenimento del passaggio da primario a secondario. Diventa necessario porre alcuni distinguo. La rappresentazione immaginativa, non immediatamente legata nel preconscio alla sua rappresentazione ideativa, si può ritrovare, al di fuori della psicosi, in alcune esperienze psichiche di separazione, dove la quota quantitativa dell’affetto è difficilmente determinabile, ma sicuramente presente in riguardevole entità; prima fra queste è l’esperienza del lutto, ma non escluderei l’esperienza estetica dove l’elemento contemplativo insieme con quello creativo attraversa inevitabilmente la separazione. Ma attraversando l’ipotesi che ciò avvenga secondo questa forbice ‘ immagine – idea‘, che trova il suo perno di giunzione nella rappresentazione, quali potrebbero essere i fattori che favoriscono la sua divaricazione? La quota affettiva libera, che prende origine dall’antinomia piacere - dispiacere, può essere considerata un fattore rilevante, ma tutto ciò che che favorisce una disorganizzazione energetica e funzionale può fare da coadiutore. Da un punto di vista economico l’energia libera, in movimento non trova i freni del processo secondario, non tende a fermarsi e non viene contenuta, tende invece alla scarica. L’immagine è il prodotto di questo percorso accelerato, la sua riattualizzazione può ripetersi, fino a quando il percorso non possa essere rallentato e una quota maggiore di energia possa essere imbrigliata. In definitiva, la prevalenza della rappresentazione percettiva dell’immagine e il suo conseguente effetto di rallentamento sullo sviluppo del pensiero sta anche ad indicare una difficoltà ad intraprendere un’esperienza di separazione e di perdita e una fuga in una “separazione contemplativa” con funzioni di compenso, mentre, su un piano strutturale, rappresenta una tendenza ad un utilizzo economico che attinge prevalentemente al primario per la facilità di scorrimento dell’energia insita in esso4. E’ necessario precisare che tutto questo campo di osservazione allargato prevede tuttavia un necessario distinguo tra situazioni all’interno di una piena interazione con la soggettività ed altre in cui la sua integrità è minacciabile o già compromessa.
Nella psicosi si realizza una situazione psichica nella quale la rappresentazione ha presso la coscienza una quasi totale rappresentanza percettiva sia visiva che acustica, ma non ideativa. Merita ricordare l’espressione di Freud negli studi sulle afasie a proposito della rappresentazione di parola, parla di ‘ immagine sonora ‘. Questa espressione paradossale potrebbe essere presa a prestito per indicare con più efficacia questa preponderante quota percettiva . Suoni e immagini riaffiorano come echi, riflessi e bagliori interni, raramente percepiti dentro, più frequentemente riferiti a un ‘ fuori ‘ realizzato principalmente attraverso la costituzione di un sistema proiettivo e quindi sostanzialmente virtuale. Ma questa costruzione così artificiosa, che interpretiamo come difensiva, è importante e regge con una certa efficacia il funzionamento complesso di tutto il sistema difensivo con il mondo esterno anche grazie alla scarsa demarcazione di confini strutturali: conscio - inconscio, interiorità -esteriorità, soggettività - alterità, realtà - fantasia ecc. La soggettività ‘subisce’, citando Piera Aulagnier, l’imposizione di elementi percettivi dell’altro. Foto: Piera Aulagnier
Un aspetto da non tralasciare è la perdita e il ruolo che potrebbe avere nella psicosi per la funzione dell’immagine. Alla base dello scollamento dalla realtà e dalla relazione con l’altro, c’è spesso una reiterata esperienza di non ascolto o di mancata risposta all’ascolto; esiste cioè una cosa detta o fatta, in successione alla domanda posta dal soggetto, che semplicemente lo ignora. La risposta quindi non c’è, è perduta, ma a lungo andare lo è anche la domanda. Questa perdita forse è molto precoce ed è vicina alle origini di quel soggetto, ed è pertanto ogni volta diversa. In alcune profonde crisi psicotiche il paziente instaura un dialogo tra personaggi, che gli appartengono, spesso ricostruiti visivamente si potrebbe dire5 . Il dialogo mima la realtà impossibile e pertanto esclusa. E’ il fallimento assoluto e “ creduto con fede “ della comunicazione. L’estrema rassicurazione che il paziente prova, e che potrà descrivere se un giorno riuscirà ad agganciarla ad un pensiero, in definitiva se riuscirà a sconfiggere questo fallimento, è che nella ricostruzione immaginata c’è una perdita sicura, che libera dall’angoscia che l’altro possa ancora non rispondere. L’altro infatti non c’è6.
Dall’altro lato, questa raffigurazione scenica supplisce immediatamente alla perdita proprio con l’immagine sostituita e che forse parla della sua possibile salvezza.
Si riapre a questo punto un’altra sequenza di interrogativi: è la perdita alla base di questa impossibilità esistenziale e di questa impossibilità di costituzione dell’identità, nella psicosi, oppure alla base c’è un elemento strutturale, intrinseco che rende intollerabile la perdita e devastante l’irruzione di stimoli secondo queste modalità? E’ ancora questa impossibilità a tollerare e a strutturare la perdita, che fa allora prediligere il percorso di stimoli quantitativi verso l’identità di percezione e la loro irruzione alla coscienza sotto forma di angoscia? Il lavoro analitico si basa, quando inizia ad essere possibile, quando cioè si è già potuto tracciare un accordo su un codice comunicativo, sull’attraversamento della perdita e sulle possibilità di tolleranza di questo attraversamento, prima ancora che sulle possibilità di significazione, anche se il prima e il dopo non sono mai così netti come nell’utilizzo linguistico . Ma quanto è esprimibile in senso astratto non è sempre così direttamente realizzabile nella storia analitica di una psicosi. Questa difficoltà trae origine da ragioni di fondo che rimandano innanzitutto ad un’ assialità temporale che, se anche viene sufficientemente ricomposta, mantiene un risultato incompleto, ma molti altri ancora sono i deficit che fanno scacco alla regolarità del processo. Utilizzando la metafora del restauro di un Gobelin danneggiato: è più il tempo dedicato a riprendere e a riparare l’ordito che quello dedicabile alla ricomposizione del disegno che ne racconta la storia.
Questa metafora ci è utile per introdurre un ulteriore aspetto trattato nel libro. L’ordito danneggiato rimanda infatti al grave danno subito dalle funzioni dell’Io, in particolare dalla funzione di sintesi. Di fronte allo smantellamento delle funzioni essenziali per la sua sopravvivenza, l’Io si trova a fare i conti con un eccesso di morte, la cui risposta difensiva secondo la mia ipotesi è l’esilio in una realtà psichica collocata in un altrove.
Da <<L'Io e l’Es>> traiamo l’idea che la percezione è il dispositivo psichico conoscitivo-costitutivo di entrambe le istanze ed è radicata nella realtà corporea che fa parte essa stessa del mondo esterno, poiché funge da mondo esterno per gli organi terminali della sensorialità. Essa diventa allora uno strumento di traduzione, che non è una semplice decodificazione se diamo forza alla radice Trans che è comune anche alla parola Trasformazione, poiché c’è una partecipazione attiva nella percezione derivata innanzitutto dal dispositivo psichico che le è intrinseco, un andare verso lo stimolo più che un subirlo.
Che cosa può voler dire dunque ciò che Freud ci segnala nel caso Schreber riguardo all’abolizione della percezione interna ? Si può pensare ad un venir meno di quel precipitato di memorie derivate dall’esperienza del mondo esterno che sono conoscenza e costituzione dell’Io. Ci dobbiamo a questo punto tuttavia anche domandare perché e da che cosa possa derivare una conseguenza così catastrofica. Possiamo a questo punto ipotizzare che tale abolizione sia l’esito di una grossa smentita da parte del mondo esterno, e quindi della percezione di esso, di tutta la quota di esperienza che fino ad allora si era depositata come base costitutiva della relazione Io – mondo esterno e quindi dell’Io stesso, una profonda e radicale smentita, un NO che, minacciando l’esperienza dell’Io sul piano della percezione, minaccia la costituzione dell’Io stesso e il senso di identità. Diventa possibile allora pensare che l’Io, per sopravvivere, risponda inizialmente con una controsmentita: “ non è vero” oppure più probabilmente con un rinnegamento dell’esperienza percettiva :“ questa smentita non è mai esistita “, perché non è mai stata percepita. Tale controsmentita si appoggia sulla rimozione per poi superarla e sostituirsi ad essa, poiché ciò che è rinnegato non può essere né memorizzato né rimosso7. Da qui la necessità dell’Io, così minacciato, di salvarsi, secondo la nostra ipotesi in un ‘altrove‘ che mantiene un’integrità soggettiva all’Io istanza ( Je e Moi si salvano con questa scansione).
L’ipotesi dell’esilio prevede che l’Io nella psicosi si protegga da un eccesso di morte, intrinseca alla realtà psichica del soggetto, questo eccesso diventerebbe manifesto nel confronto impari con l’altro. Ecco allora che l’esilio rappresenta l’espressione primaria della scissione dalla realtà, ma insieme anche il progetto di ritorno e la speranza, e quindi il senso di un percorso analitico. Vi è nel progetto la conservazione di qualcosa, perdendo e abbandonando pure molto, come nell’esilio avviene, anche se con delle perdite. In sintesi questo è il bagaglio nel viaggio proposto da alcuni psicotici per un percorso analitico: un viaggio di ritorno, che se è o se sarà possibile, sarà un “ritorno in un luogo nuovo” ( A.A.Semi).
L’analista, compagno di viaggio e guida, non è guida di speranza, ma solo testimone. L’Io esiliato dalla psicosi, nella psicosi, non è tuttavia un’esperienza generalizzabile. In molti casi viene espressa una scelta alternativa, quella del non ritorno, come se il soggetto scegliesse la deportazione e non l’esilio. Dal mio punto di vista anche questi casi, che sembrano imbattersi in un tentativo di cura più per caso che per volontà, in realtà scelgono e iniziano un percorso per testimoniare la loro scelta e pertanto per sentirsi soggetti di quella identità di deportati più che esuli, ma anche questa ha su di loro una funzione strutturante. Paradossalmente proprio nel momento in cui dichiarano la loro volontà di stare nella terra straniera della psicosi, dove ormai hanno familiarizzato, senza lasciare alcuno spazio all’idea di un ritorno, proprio in quel momento psicotici del tutto non lo sono, poiché riescono a trovare una relazione con il mondo esterno nel quale affermano una loro soggettività con un certo livello di consapevolezza. D’altra parte anche negli altri casi il ritorno non è mai definitivo, rimane solo una possibilità, un modulo di funzionamento, non psicotico, acquisito solo per loro scelta, eventualmente da utilizzare nei momenti in cui torni utile e vantaggioso. Nessuno ritorna da un esilio uguale a come è partito, e se la vita segna e trasforma, incide sulla storia e sulla struttura di un soggetto, non di meno, un evento di vita e una scelta di vita come queste, possono lasciare invariato il tessuto esistenziale del prima. Se questo è vero sempre, lo è a maggior ragione nelle psicosi.
Il “ desiderio” di cura è comunque incerto e ambivalente, ma soprattutto scisso come lo è ancora l’Io, è un desiderio paradossale in assenza di un soggetto desiderante integro ed è quindi un desiderio a rischio di proiezioni, anche quelle dell’analista. Il rischio è inoltre che si tratti di un desiderio falso, frutto di un’ identificazione o imitazione compiacente nell’oggetto, o un desiderio sottomesso a violente richieste tiranniche superegoiche, che reprimono proprio le spinte di un tentativo di esperienza di soggettivazione nascente.
L’oggetto di transfert si articola su alcuni punti fondamentali, come misurare la carica distruttiva che i continui rinvii all’originario portano con sé, in modo da proteggere se stessi e l’altro dalla deflagrazione nella quale questo tipo di contatto può finire, ma soprattutto calibrare l’attenzione verso alcuni passaggi dove primario e secondario sono altamente commistionati, in modo da consentire, a chi ne è portatore, un’espressività su tutti e due i registri. E’ importante a questo proposito avere presente che la possibilità di ricordare e dimenticare passa solo attraverso la possibilità di simbolizzare, ma questa, che pure è presente nella psicosi, spesso non riesce a rimanere come elemento stabile in un percorso di sostegno all’Io; frequentemente può invece sgretolarsi, ricadere e ritornare indietro, cosa che viene testimoniata dai frequenti fallimenti delle risignificazioni in aprés-coup. Ecco che allora vale la pena prestare attenzione alla costituzione di un sottile filtro sulle fasi intermedie della simbolizzazione, che passano attraverso l’immagine, la metafora e approdano nei casi fortunati ad una messa in scena fantasmatica che aggancia il soggetto, spettatore incluso nella scena, che diventa il luogo di mediazione per il processo di simbolizzazione. Penso che possiamo sostenere questa ipotesi soltanto condividendo alcune premesse. La prima riguarda la possibilità di pensare che il processo di soggettivazione si possa svolgere in un percorso evolutivo e non esclusivamente in un processo di sviluppo biologico con tappe irreversibili ad un unico senso vettoriale. La seconda riguarda la possibilità di poter stanziare nella discontinuità e nella parzialità di questi processi nascenti e nel fatto che ogni acquisizione, per quanto strutturante sia, non sarà definitiva. Si tratterà pertanto anche di stanziare a lungo in un’area “ transizionale” che non sempre ha un superamento e che comunque prevede un superamento non irreversibile. La possibilità è quella allora di stanziare in un presimbolico e talora in un asimbolico. Dopo questo studio mi sono imbattuta nel concetto di radioattività di Yolanda Gampel e di contaminazione di Lucio Russo. L’idea di contaminazione di Russo, espressa nel suo ultimo libro “Le Illusioni del Pensiero”, è un’idea duale che fornisce elementi sia al negativo, utilizzando l’espressione metaforica dell’infezione che invade e distrugge, ed altri al positivo come trasformazione , generazione e crescita, e riconosce le sue radici sia nel pensiero bioniano, riguardo alla trasformazione, che nel pensiero winnicottiano sulla creatività. Foto: D.W. Winnicott L’idea della Gampel, analista israeliana, è invece densa di elementi di irreversibilità e forse per questo, o solo per questo, mi ha rimandato al pensiero lacaniano. Entrambi mi hanno fatto riflettere su sensi ulteriori. Il termine radioattivo si riferisce a qualche cosa che non è individuabile né percepibile attraverso i nostri strumenti conoscitivi della realtà, che comunque esiste e insidiosamente opera in un processo di contaminazione dal quale non ci possiamo ritenere esenti se ne entriamo in contatto, e differentemente dall’infettivo, che ugualmente non è visibile, non dà nessuna percezione di sé, se la contaminazione è in basse dosi . Questo materiale, dal mio punto di vista è paragonabile a schegge di realtà che si potrebbero individuare in un materiale extra-psichico, un “fuori” in-conoscibile, collocabile in uno spazio siderale, equiparabile forse alla materia oscura e a quella in espansione che, pur costituendo il 70% di ciò che ci circonda, rimane ancora quasi totalmente ignota8. Qualche cosa che da subito rimane escluso al piccolo mondo della coscienza.
Non si può dimenticare ciò che non si può ricordare, ma solo rivivere. E senza la memoria del passato è difficile legarsi alla realtà e al futuro. Dice Galimberti: <<Memoria non è mai solamente ricordo del passato, ma è ricordo del passato per prefigurare il futuro e quindi per creare storia, perché non si dà storia là dove il futuro non si lega al passato, ma accade come assoluta novità>>.
L’esclusione di cui parlo non riguarda tanto il contatto con la psicosi, ma la domanda della società riguardo ad essa, la psicosi, una domanda che in parte mentisce la richiesta poiché la richiesta è sempre meno di cura e sempre più di controllo sociale, che viene inteso e frainteso come cura. Questa modalità diventa un paradosso se riconosciamo, e dobbiamo farlo, che nell’ultimo quarto di secolo, sono stati chiusi i luoghi di segregazione, quelli che amerei chiamare luoghi di deportazione senza speranza di ritorno e non di esilio. Ma la cura, quella che rispecchia il sociale, e su cui tutti quindi dobbiamo interrogarci, a meno di non volerci sentire esclusi con qualche conseguenza da questa realtà, non ha tenuto conto, dal mio punto di vista, del fantasma originario che abita l’individuo e la società di cui fa parte, di cui facciamo parte. Come analisti dobbiamo quindi cogliere la difficile interpretazione che ci riguarda di non essere i rappresentanti del sociale nell’offerta di cura, ma di non poterci sentire nemmeno di non rappresentarlo. Il fantasma originario è in-conoscibile e il fantasma inconscio o secondario deriva da esso secondo quanto possiamo attingere dal pensiero di Laplanche e di Pontalis. Il fantasma originario di desiderio e di divieto rimanda dal mio punto di vista tanto alla copertura quanto all’ostentazione, secondo la definizione di scena che li contiene entrambi. Pensare al fantasma come ad una scena è infatti la proposta che accompagna la definizione di fantasma da Freud in poi. La parola scena, che deriva dal termine skenè, che vuol dire luogo coperto, ha comunque varie estensioni di significato, da quello di parte in cui recitano gli attori, a quello di ostentazione dei sentimenti. E’ un termine pertanto che racchiude in sé copertura e ostentazione e quindi così rimanda al conflitto originario e alla rappresentazione del fantasma originario di desiderio e di divieto. Su ciò si basa la mia ipotesi che il segno originario sia insieme ostentato e coperto dalla possibilità di decodificazione. Tuttavia quello stesso segno dell’originario, solo traslitterato nell’inconscio e non tradotto per essere poi compreso ad un’elaborazione secondaria, rimarrebbe inscritto comunque in tale materiale e quindi visibile e angosciosamente non traducibile né interpretabile. Una volta individuato, dovremmo dire solo visto, è sufficiente a far sorgere in chi lo individua, anche se possiede un buon funzionamento, o forse dovremmo dire proprio per questo, un desiderio di segregazione attraverso la proiezione sull’altro. Più riduttivamente si potrebbe dire che è il segno originario del fantasma che induce il paradosso per cui la società che libera dalla segregazione, inevitabilmente la riproponga attraverso il controllo. A stanziare e pensare in questo paradosso siamo pertanto chiamati in prima persona come analisti del nostro tempo. Nella mia stanza d’analisi, mi sono spesso messa “ fuori” con i pazienti già collocati in un “fuori” dal sociale, ed è probabilmente questo potersi sentire “fuori”, che mi ha consentito di pensare che l’analisi, che non è l’unica terapia per le psicosi, sia pertanto una terapia unica. Li ho sentiti insomma compagni di viaggio più prossimi, esperienza questa che credo comunque condivisibile con molti analisti, nelle analisi che stanno volgendo a buon fine. Ecco che così mi sono trovata a pensare, dopo alcune esperienze di ricomposizione dell’Io, ad un Io che la psicosi non aveva fatto a pezzi, non aveva frantumato, ma l’esperienza di scissione era stata invece la salvezza, sotto la forma dell’esilio.
Ripensando al concetto di frantumazione dell’Io potrei allora dire che ciò che si osserva di frammentato nella psicosi sembra un prodotto invece di simulazione, di imitazione dei pezzi, copiati dalla realtà per compiacere i molti altri del gruppo, e disaggregati tra loro per un mancato processo di sintesi. Personalmente non credo alla potenziale funzione di colla della funzione analitica, penso invece che l’analisi e l’analista rappresentino il percorso di ritorno. Per usare una espressione a me cara : un “ritornare in un luogo nuovo”, come dice A.A.Semi. E penso che gli strumenti del ritorno attraversino funzioni della mente più primitive di quelle del pensiero, che attengono all’immagine e al visibile. Allora la funzione analitica atterrebbe a “ rendere visibile l’invisibile “, secondo un'espressione di Domenico Chianese, o più spesso a stanziare nell’invisibile . Riprendendo le schegge radioattive della realtà, queste colpiscono lo psicotico stanziandosi in un extrapsichico, che può essere contaminante, e alla fine non si può fare altro che interrogarsi su ciò che è analizzabile e su ciò che non lo è, su come stanziare con esso, l’inanalizzabile, e su come operare con la quota analizzabile, ma soprattutto su che senso dare a tutto questo, un senso obbligatoriamente concordato, a partire da quello che viene dato al linguaggio: la parola concordata è il segno di una soggettività riconoscibile da entrambe. All’interno di questo limite e di questa conoscenza viene ad abitare la possibilità di pensare, di continuare a pensare dell’analista, di trovare con ciò l’unico antidoto possibile alle schegge di realtà del sociale, che giungono attraverso il paziente, se pure in agonismo con lui e insieme in antagonismo. Ognuno di noi è rappresentante di quel sociale che così si ammala, esattamente come Freud sapeva di esserlo di quella società che ha incominciato a studiare in quel soffrire che veniva a lui offerto. Freud ha voluto che il suo pensiero non fosse originale, ma fruibile, utile, per questo è sceso fino all’inferno, per usare un’immagine di Assoun, per incontrare l’inconscio, elemento motore ed insieme oggetto del suo pensiero. L’umanità ha da sempre saputo che il nascere è una riconquista e una vittoria. Freud ha saputo cogliere tutta la fragilità della sua nascita, immemorizzabile e accumulabile nell’inconscio originario, e ricercarla, come in un viaggio di ritorno, in ciò che la società di essa gli proponeva: nevrosi ed isteria. Ecco allora che ritorna e trova senso l’idea dell’esilio, quello che Freud, durante la persecuzione nazista antisemitica, come Socrate, aveva voluto inizialmente rifiutare, forse perché non vedeva, nelle fasi finali della sua vita, la possibilità di una salvazione e di un ritorno per sé e per gli altri, e che ha invece finito per accettare nella proposta di M. Bonaparte, che è stata in questo modo analista del suo maestro, contrastando il principio di morte e prefigurando l’esilio.
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