Pietro
mi telefona per una terapia.
Una
voce atona, con un leggero accento straniero indefinibile, un po’
aspra e gutturale, qualcosa di arabo forse.
È
una telefonata laconica e essenziale che mi permette di cominciare a
fantasticare su di lui, per crearmi un luogo mentale dove poterlo
accogliere. Ancora una volta, pur presentendo la stanchezza che
comporterà, prevale l’eccitante attesa dell’eterna liturgia in
cui le sedute, una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro
prenderanno a dipanarsi nel tempo terminabile-interminabile
dell’analisi. Mi chiedo in che modo questi destini che iniziano ad
incrociarsi, questi sentieri che si biforcano all’infinito, si
apriranno ad una nuova possibile storia.
Saprò
di lui che ha 52 anni, che non ha legami familiari, tranne due
sorelle che vivono con le famiglie in differenti località degli
Stati Uniti, che si è appena trasferito qui a Venezia “vicino”
a Palazzo Sceriman ai Gesuiti e che è bloccato in una forte
depressione. Scoprirò ben presto che non sta restaurando un
appartamento “vicino” a palazzo Sceriman, ma l’intero palazzo
Sceriman, che Pietro pronuncia all’antica, come i suoi avi, “Seriman”,
perché Pietro è armeno ed è un uomo ricco ,
ricco proprio come nelle fiabe .
Lo
vedo 3 volte alla settimana, dopo due sedute in 'vis à vis', usiamo il
lettino.
Diluvia,
al primo incontro.
La
pioggia dilava i banchi della verdura del mercato sotto casa e il
vento fa sbattere i teli di plastica che coprono le merci.
I
pazienti della mattina allagano la mia anticamera, chi di malumore
per il tempaccio, chi eccitato dalle raffiche di bora nera, ma
Pietro non ha una goccia sull’impermeabile immacolato. Un
motoscafo l’ha depositato davanti al mio studio, al traghetto di
Santa Sofia e, come mi capita di osservare dalla finestra, un omino
vestito di scuro, un po’ in affanno, l’ha accompagnato fino al
mio portone.
Mi
appare astrale incorporeo con uno sguardo appannato.
Osservandolo,
mi si presentano aggettivi come fragile rallentato assente
convalescente che contrastano col corpo magro ma muscoloso e la
sgargiante camicia americana.
“Non
mi basto, dottoressa. Ho bisogno di guardare con altri occhi o forse
di essere guardato da lei”. Sono le sue prime parole, voce aspra e
occhi verdi liquidi troppo dolci semicelati da ciglia folte e
femminee.
Non
so come, ma sono contenta delle ciglia e degli occhiali sottili
cerchiati d’oro. Una diga, una barriera, non sono pronta a vedere,
a raccogliere il dolore che può penetrare l’anima come una lama.
Abbiamo tempo.
E
il paziente inizia a raccontarsi.
Pietro
è armeno. Nato ad Isfahan, in una famiglia legata allo Scià da
legami di amicizia e di lavoro. Studia in Italia, dove si mantiene
con un piccolo commercio di tappeti persiani, ma si trasferisce
negli Usa con i genitori e le sorelle alla caduta di Reza Palhevi.
Definisce la mamma una fragilissima statuina di porcellana, bella
vuota e fredda, le sorelle assai più giovani, quasi di un’altra
generazione, perfettamente a loro agio nell’ambiente 'soap' di
Beverly Hills.
Ma
il padre vive rovinosamente il distacco dalla vita precedente in
Iran, entra in una profonda depressione, tenta più volte il
suicidio, angosciando i familiari che assistono impotenti, finché
non ci riesce, tagliandosi le vene.
Pietro
diventa capofamiglia e dopo aver continuato a commerciare in tappeti
per qualche anno, sfrutta il 'trend' positivo di Borsa e muovendosi
con abilità e frenesia , diventa incommensurabilmente
ricco.
Perché
ti presento questo caso, Professore?
Tu
ci racconti quanto i nostri pazienti appartengano ad un piccolo
mondo fatto di frustrazioni, atti mancati, peccati veniali che
l’analisi incolla e ripara in una tessitura narrativa che rammenta
il lavoro di un 'ghost writer', colui che dà pazientemente voce ad un
racconto inesprimibile coi propri mezzi. Hai scritto
dell’interesse dell’analista per la storia del paziente,
dell’autentica passione verso il suo mondo, il suo linguaggio, le
sue azioni cieche. Solo questo riconoscimento e questa attenzione può
ridar vita mentale a persone che si sentono niente, inesistenti.
Forse
è per questo che io ho sempre amato le piccole cose da
collezionare, i piccoli oggetti di vetro che Venezia ad ogni passo
propone ammiccando, forse l’espressione più sincera della sua
seducente anima levantina, l’appassionante e ingannevole
trasparenza del vetro.
È
per questo che facciamo gli analisti? Per recuperare oggetti
opacizzati dall’incuria e renderli trasparenti, belli? Solo noi
sappiamo quanto l’analisi sia una “cura di bellezza”, gli
occhi comincino a risplendere, l’incarnato a prendere colore, si
inizia una dieta, si va dall’estetista, nei sogni l’analista
viene spesso confuso col parrucchiere, quello che fa “bella” la
testa.
Siamo
dei supponenti presuntuosi luciferini collezionisti di anime?
Ma
Pietro mi confonde in un gioco di specchi, è lui stesso un
collezionista, un grande collezionista e mi chiede con
consapevolezza di essere collezionato.
La
ricchezza gli permette di sviluppare e raffinare la sua grande
passione, quella che lo ha accompagnato fin dai tempi in cui
studente povero o almeno, fingendosi tale, si aggirava per la
provincia di Pisa cercando di piazzare i suoi tappeti: raccogliere
tutto ciò che gli capitava tra le mani che appartenesse al passato,
alla storia.
“Perché
lo facevo? Non ne ero assolutamente consapevole, ma mi dava piacere,
un’eccitazione quasi sessuale cogliere in case, magazzini, mercati
in piazza o retrobottega di rigattieri, un oggetto che mi sembrava
mi fissasse, come a dirmi ‘Prendimi, portami via, fammi tuo.
Toglimi dalla polvere, torna a farmi risplendere, lavami, incerami,
accarezzami’.
So
che anche Freud quando trovava un nuovo oggetto per la sua
collezione d’arte antica talvolta se lo portava a tavola,
mettendoselo davanti mentre mangiava, si dice ‘mangiarselo con gli
occhi’, vero?
Mi
piaceva pensare che se prendevo quell’oggetto per me, era per
sempre, per sempre sottratto non solo all’incuria ma anche
all’ignobile destino di far parte della collezione di qualcun
altro piuttosto che della mia.
Si
formava così la mia personale 'Wunderkammer' dove, ci penso solo ora,
ho accumulato di tutto, ma sempre di materiali duri, intangibili,
proprio come la pietra da cui prendo il nome. Sono padrone di cammei
romani, monete mesopotamiche, 'katane' giapponesi, urne etrusche, ossa
di mammuth russe, naturalmente i denti di narvalo e poi gioielli di
corallo napoletano, reliquiari medioevali francesi, cornici d’oro
peruviane, pugnali druidici, talismani tibetani in argento, fregi
'gandara' pakistani e ancora statue di bronzo d’ogni epoca e poi
marmi, marmi, marmi. Rocce, pietre, metalli... e poi e poi su tutto
pietre preziose, di cui le risparmio gli elenchi.
L’oggetto
più amato, accarezzato, rigirato fra le mani? Non saprei... forse,
ma non mi dica niente, è troppo facile, una culla in filigrana
d’oro, perle e diamanti, in cui il bambino è un’enorme perla
scaramazza.
Viaggiavo
molto per lavoro, ma viaggiare è fare acquisti, per me era fare
bottino. Non si può avere tutto, ma ci provavo ed ho avuto molto,
in eccesso, a profusione.
Sa
cosa mi affascinava? La “Saliera “ del Cellini.
Sono
andato varie volte a Vienna per guardarla, prima che la rubassero.
Mi
angosciava che non fosse mia. Mi incantavano i piedi intrecciati, il
tempio ionico per il pepe e la navicella per il sale, il mare e la
terra uniti che si guardano negli occhi e la piccola figura umana e
le figurine della base che si possono distinguere solo avendola in
mano”.
Sorride
per la prima volta – “ E se fossi stato io a sottrarla? Potrei
fidarmi di lei?”
Gli
rispondo che forse è proprio quello che sta cercando, la possibilità
di lasciar andare qualcosa, di liberarsi, smettere di caricarsi di
tutto, far defluire non vuol dire necessariamente sentirsi depredato
o dissanguato.
Mi
porta un sogno.
“Stanotte
ho fatto un sogno. Ero con mio nonno Zaccaria e mangiavamo il 'darin',
la torta dove la nonna aveva nascosto la moneta d’oro della
fortuna. Sapevo che l’avrebbe trovata lui, non io, e questo mi
riempiva di angoscia”.
Penso
– e non comunico – quanta preoccupazione c’è in Pietro nella
vicinanza con me, forse è l’altro che ci guadagna, non lui.
Gli
rimando solo che deve essere triste per un bambino iniziare l’anno
sentendosi sfortunato.
“Mio
nonno ha vissuto il genocidio, aveva 15 anni, ma è riuscito a
inserirsi ad Isfahan dove viveva già parte della famiglia, facevano
i mercanti di indaco.
È
mio padre che non ce l’ha fatta, si è chiuso alla realtà e si è
lasciato morire. Ma lei sa perché sono venuto a Venezia?”
L’analista
può intuire, ma sa aspettare e sta ad ascoltare.
“Sono
venuto a Venezia per le stesse ragioni per cui sono qui da lei che
abita, lo sapeva?, in un palazzo che è stato di proprietà dei
padri Mechitaristi di San Lazzaro, anche loro, ha visto che
collezioni stupefacenti? Forse sono venuto ad assaggiare la loro
marmellata di rose fatta coi petali raccolti all’alba perché
bagnati di rugiada, oppure a camminare in calle Giuffa, Giuffa come
Giulfa, l’ennesimo fantasma della storia della mia gente,
abbandonata nel giro di tre giorni e gli abitanti deportati nella
lontanissima Isfahan. Sono qui a cercare gli odori della cucina di
mia nonna, oppure a toccare le pietre della chiesa di San Martino, a
Burano, dove si dice fosse un gigantesco 'vishapagorg', uno dei
tappeti tradizionali che lasciano intravedere un drago leggendario,
e naturalmente anche di questa opera si sono perse le tracce.
Già
i tappeti, ovunque mi giro sono circondato da fantasmi, mi pare di
sgretolarmi o sfilacciarmi e di me non rimanere nulla.
Sa
che nei tappeti armeni si contano milioni di nodi? Ne posseggo
alcuni anche con ottanta milioni di nodi.
I
tappeti sono fragili, non sono le pietre che attraversano i millenni
e poi, come si dice, ogni nodo, un pensiero, c’è memoria, ma
troppa, la memoria della mia gente scomparsa, mi è intollerabile,
mi smarrisco in un labirinto di lamenti. I tappeti li conosco, li
scovo, so trattarli, so far l’indifferente, esaminare altro, far
finta di uscire dal negozio con aria incurante e poi pagare il
giusto. Ma mi immalinconiscono, come se riuscissi a percepire troppe
vite troncate, troppi canti interrotti, a leggervi troppe lacrime
che si intessono nei fili.
Pietro
colleziona pietre. Colleziono, dunque sono, costruisco la mia eredità”.
Mi
intrometto vivacemente: “Ma forse questo progetto non regge, forse
elencare, raccogliere, registrare è un modo che dà un illusorio
controllo sulla realtà, se è pietrificata, poi... Dov’è in
realtà l’emozione se non quella dell’eccitazione e
dell’avidità dell’accumulo? Mi sembra che lei usi una specie di
Prozac, ma non si può vivere di antidepressivi. Lo sa bene anche
lei, non sarebbe qui altrimenti”.
Sono
stata troppo diretta, vero Professore? Infatti si chiude come un
riccio o meglio, come un sarcofago di marmo.
“Lei
non può capire, il segno di riconoscimento dell’Armenia è stata
da sempre il 'khatchkar', la croce di pietra, le migliaia di croci
incise nel tufo che cospargono il territorio del nostro paese come
un immenso cimitero”.
Silenzio
carico di angoscia.
Mi
viene in mente, non so da dove, un episodio narrato da Garcia
Marquez nella sua autobiografia
"Vivere per raccontarla",
in cui a lui, disperatamente fumatore, uno psichiatra lancia:
“Perché smettere di fumare sarebbe per te come uccidere una
persona amata”, convincendolo quasi per incantesimo in un istante
ad abbandonare definitivamente le sigarette.
Gli
comunico questa mia associazione e, a sua volta, rapidamente, Pietro
associa: “Vuol dire che tutte queste pietre devono tener sepolto
il drago violento, il mio 'vishap', la rabbia inghiottita, la furia di
intere generazioni?
O
raccolgo e colleziono, amando ogni singolo oggetto più della mia
vita e che dalla mia vita dipende per continuare a vivere oppure mi
faccio sommergere dalla voglia di distruggere, la coazione a
ripetere la chiamate voi analisti, l’olocausto, che mi liberi
dall’impossibilità di pensare ad altro, un olocausto che liberi
dal pensiero dell’olocausto, non è paradossale?
Forse
è per questo che Chatwin mette in bocca ad Utz: ‘Le cose sono
meno fragili delle persone. Le cose sono lo specchio immutabile in
cui osserviamo la nostra disgregazione. Nulla ci invecchia più di
una collezione di opere d’arte’”.
Pietro
chiude gli occhi e tace, profondamente emozionato. Ma il silenzio
nello studio dura un momento. “Castraùre, castraùre, 20 castraùre
5 euro”: urla una voce. E il brusio sonnolento del mercato e
l’onda del vaporetto che si infrange alla riva e il “pling plong,
next stop Rialto” e lo stridere dei gabbiani che planano ad un
metro dalla finestra e su tutto la campana di San Polo di bronzo
pieno ricco e solenne, da città imperatrice. Venezia viva.
Lentamente
Pietro ricomincia a parlare.
“Sono
cresciuto nel silenzio. Per mio nonno bisognava tacere, nascondere,
evitare. Non ha mai parlato di sé, di ciò che aveva visto.
La
bellezza, la perfezione, l’integrità di cui mi sono voluto
circondare è stato forse solo un modo per coprire il fango,
l’orrore della storia.
Ho
privilegiato la memoria su tutto, ma la memoria di altro da me, il
mondo dietro la lente di un cannocchiale capovolto, il mondo visto
ad una distanza di sicurezza e questo era rassicurante.
Ha
presente i condannati della caverna di Platone che confondono il
teatro d’ombre con la vera vita? Io non ho fantasie, ho oggetti e
concretezza e di questi sono prigioniero.
Ho
sempre pensato che fosse importante usare la propria mente, non
conoscerla . Coerente al mio nome, mi sono alla fine
pietrificato”. E sorprendente, al 'calembour', un guizzo ironico gli
muove lo sguardo, la materia inorganica inizia a prendere vita.
Cosa
è accaduto, allora, Professore ? Venezia, l’analisi, può
rappresentare il ponte fra un passato troppo deprimente per essere
ricordato e la modalità eccitatoria difensiva che Pietro,
pietrificandosi, ha usato finora?
Tu
ridi pensando al lavoro di analisi come a una specie di ponte di
Rialto fra la riva del Carbon, cupa e minacciosa e la riva del Vin,
con tutte le promesse di ebbrezza e di oblio. Forse sarà comico, ma
è un modo più poetico che definire me stessa l’attivatore della
funzione alfa o un enzima che trasformi in buon cibo qualcosa
altrimenti indigeribile o l’abusato contenitore
per contenuti che non hanno trovato ancora la possibilità di
essere trasformati in pensieri... Ci sono tanti modi per narrare la
possibilità di rimettersi a pensare. È il nostro lavoro
addomesticare pensieri che senza pensatore rimangono selvatici.
Certo
è inquietante quella madre di porcellana troppo fragile e fredda e
la perla barocca, un po’ deforme , mostruosa, nella culla e
l’assenza di donne, di amori, nella sua storia : come prenderanno
a gemmare questi semi gettati qua e là nel racconto? Arriverà il
momento in cui il drago aggressivo potrà mostrarsi senza essere
negato?
Ma
la mia casa è piena di specchi e in certe ore l’acqua del Canal
Grande , il nostro Canalasso , vi si riflette cominciando a correre
sulle pareti, trasformandole in segni luminosi in movimento e ogni
cosa perde la sua immutabilità e acquista forma cangiante, ogni
volta la stessa cosa è un’altra cosa, l’immagine si compone e
si disgrega danzando sugli oggetti sulle persone raccolte a
conversare, il riflesso si impasticcia con le parole, si mescola coi
pensieri, fluttua dall’uno all’altro, dal dentro al fuori . E
allora finalmente i monologhi suoneranno stonati e le emozioni ,
disfacendosi , componendosi e ricomponendosi nell’oscillazione
caleidoscopica del dialogo , potranno essere condivise.
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