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"Mnemosyne": psicoanalisti e memoria dei traumi collettivi

        

 "DOVE SI FERMA UTZ" 

di Rosalba Carollo

 

Foto: un quadro di Gevorg Bashinjagyan "L'isola di San Lazzaro di notte" (1892), Armenia's Picture Gallery, Yerevan

 

  

 

Rosalba Carollo è psicologa, psicoterapeuta  di Cremona , libera professionista. Da circa 10 anni si occupa di Psicoanalisi e Musica . Ha organizzato tre Convegni a Cremona con i massimi esperti italiani del settore e da questi Convegni sono stati pubblicati tre volumi . I primi due con Moretti&Vitali , l'ultimo con Cremonabooks . 

Il libro "Ridendo e scherzando" del 2004  ha visto la raccolta di scritti di Fausto Petrella, di Antonio Di Benedetto , di Denis Gaita , di Jacopo Incisa della Rocchetta e numerosi altri .

Questo contributo di Rosalba Carollo è un racconto inedito , quasi un gioco a scatole cinesi , in cui  in un tessuto rigidamente analitico - una seduta portata ad un ( forse ) immaginario supervisore - prevale l'aspetto narrativo . Il protagonista-paziente è un grande collezionista armeno - il protagonista di " Utz " di Bruce Chatwin era ebreo - , che utilizza la nevrosi per sopravvivere al grande trauma dello sradicamento . La sua famiglia si è rifugiata negli Stati Uniti , ma mentre il padre si tormenta fino a giungere al suicidio , il paziente sviluppa una forma di nevrosi , il collezionismo coatto di oggetti preziosi indistruttibili come pietre marmi e metalli , metafora di un bisogno di stabilità infranto.

Ma è consapevole che non può vivere pietrificandosi e cerca in Venezia , culla della sua gente, e nell'aiuto di un'analista  la possibilità di sciogliere la corazza e di ricominciare a sentire .

   

“I libri erano stanchi di stare immobili negli scaffali; pian piano la sera presero coraggio e i caratteri della stampa, mantenendo un preciso ordine, e ciascuno ricordando la propria pagina di appartenenza, cominciarono a scivolar giù sino al pavimento. Dettero voce ai personaggi di cui narravano, sinché questi, dalle continue ripetizioni delle loro storie, cominciarono a prendere corpo e furono possibili incontri imprevedibili, vi furono passioni, tradimenti, lotte, ma queste storie non era possibile scriverle (conoscerle) poiché ogni notte alla fine, i caratteri dovevano tornare nei libri così come ne erano usciti e tutti continuavano a credere alle storie narrate dai libri, che non corrispondevano più con quanto accadeva la notte, in una realtà che il rispetto dell’ordine impediva emergesse” (Antonino Ferro)

                                             

Pietro mi telefona per una terapia.

Una voce atona, con un leggero accento straniero indefinibile, un po’ aspra e gutturale, qualcosa di arabo forse.

È una telefonata laconica e essenziale che mi permette di cominciare a fantasticare su di lui, per crearmi un luogo mentale dove poterlo accogliere. Ancora una volta, pur presentendo la stanchezza che comporterà, prevale l’eccitante attesa dell’eterna liturgia in cui le sedute, una settimana dopo l’altra, un mese dopo l’altro prenderanno a dipanarsi nel tempo terminabile-interminabile dell’analisi. Mi chiedo in che modo questi destini che iniziano ad incrociarsi, questi sentieri che si biforcano all’infinito, si apriranno ad una nuova possibile storia.

 

Saprò di lui che ha 52 anni, che non ha legami familiari, tranne due sorelle che vivono con le famiglie in differenti località degli Stati Uniti, che si è appena trasferito qui a Venezia “vicino” a Palazzo Sceriman ai Gesuiti e che è bloccato in una forte depressione. Scoprirò ben presto che non sta restaurando un appartamento “vicino” a palazzo Sceriman, ma l’intero palazzo Sceriman, che Pietro pronuncia all’antica, come i suoi avi, “Seriman”, perché Pietro è armeno ed è un uomo ricco ,  ricco proprio come nelle fiabe .

Lo vedo 3 volte alla settimana, dopo due sedute in 'vis à vis', usiamo il lettino.

 

Diluvia, al primo incontro.

La pioggia dilava i banchi della verdura del mercato sotto casa e il vento fa sbattere i teli di plastica che coprono le merci.

I pazienti della mattina allagano la mia anticamera, chi di malumore per il tempaccio, chi eccitato dalle raffiche di bora nera, ma Pietro non ha una goccia sull’impermeabile immacolato. Un motoscafo l’ha depositato davanti al mio studio, al traghetto di Santa Sofia e, come mi capita di osservare dalla finestra, un omino vestito di scuro, un po’ in affanno, l’ha accompagnato fino al mio portone.

Mi appare astrale incorporeo con uno sguardo appannato.

Osservandolo, mi si presentano aggettivi come fragile rallentato assente convalescente che contrastano col corpo magro ma muscoloso e la sgargiante camicia americana.

“Non mi basto, dottoressa. Ho bisogno di guardare con altri occhi o forse di essere guardato da lei”. Sono le sue prime parole, voce aspra e occhi verdi liquidi troppo dolci semicelati da ciglia folte e femminee.

Non so come, ma sono contenta delle ciglia e degli occhiali sottili cerchiati d’oro. Una diga, una barriera, non sono pronta a vedere, a raccogliere il dolore che può penetrare l’anima come una lama. Abbiamo tempo.

E il paziente inizia a raccontarsi.

 

Pietro è armeno. Nato ad Isfahan, in una famiglia legata allo Scià da legami di amicizia e di lavoro. Studia in Italia, dove si mantiene con un piccolo commercio di tappeti persiani, ma si trasferisce negli Usa con i genitori e le sorelle alla caduta di Reza Palhevi. Definisce la mamma una fragilissima statuina di porcellana, bella vuota e fredda, le sorelle assai più giovani, quasi di un’altra generazione, perfettamente a loro agio nell’ambiente 'soap' di Beverly Hills.

Ma il padre vive rovinosamente il distacco dalla vita precedente in Iran, entra in una profonda depressione, tenta più volte il suicidio, angosciando i familiari che assistono impotenti, finché non ci riesce, tagliandosi le vene.

Pietro diventa capofamiglia e dopo aver continuato a commerciare in tappeti per qualche anno, sfrutta il 'trend' positivo di Borsa e muovendosi con abilità e frenesia , diventa incommensurabilmente  ricco.

 

Perché ti presento questo caso, Professore?

Tu ci racconti quanto i nostri pazienti appartengano ad un piccolo mondo fatto di frustrazioni, atti mancati, peccati veniali che l’analisi incolla e ripara in una tessitura narrativa che rammenta il lavoro di un 'ghost writer', colui che dà pazientemente voce ad un racconto inesprimibile coi propri mezzi. Hai scritto dell’interesse dell’analista per la storia del paziente, dell’autentica passione verso il suo mondo, il suo linguaggio, le sue azioni cieche. Solo questo riconoscimento e questa attenzione può ridar vita mentale a persone che si sentono niente, inesistenti.

Forse è per questo che io ho sempre amato le piccole cose da collezionare, i piccoli oggetti di vetro che Venezia ad ogni passo propone ammiccando, forse l’espressione più sincera della sua seducente anima levantina, l’appassionante e ingannevole trasparenza del vetro.

È per questo che facciamo gli analisti? Per recuperare oggetti opacizzati dall’incuria e renderli trasparenti, belli? Solo noi sappiamo quanto l’analisi sia una “cura di bellezza”, gli occhi comincino a risplendere, l’incarnato a prendere colore, si inizia una dieta, si va dall’estetista, nei sogni l’analista viene spesso confuso col parrucchiere, quello che fa “bella” la testa.

Siamo dei supponenti presuntuosi luciferini collezionisti di anime?

 

Ma Pietro mi confonde in un gioco di specchi, è lui stesso un collezionista, un grande collezionista e mi chiede con consapevolezza di essere collezionato.

La ricchezza gli permette di sviluppare e raffinare la sua grande passione, quella che lo ha accompagnato fin dai tempi in cui studente povero o almeno, fingendosi tale, si aggirava per la provincia di Pisa cercando di piazzare i suoi tappeti: raccogliere tutto ciò che gli capitava tra le mani che appartenesse al passato, alla storia.

 

“Perché lo facevo? Non ne ero assolutamente consapevole, ma mi dava piacere, un’eccitazione quasi sessuale cogliere in case, magazzini, mercati in piazza o retrobottega di rigattieri, un oggetto che mi sembrava mi fissasse, come a dirmi ‘Prendimi, portami via, fammi tuo. Toglimi dalla polvere, torna a farmi risplendere, lavami, incerami, accarezzami’.

So che anche Freud quando trovava un nuovo oggetto per la sua collezione d’arte antica talvolta se lo portava a tavola, mettendoselo davanti mentre mangiava, si dice ‘mangiarselo con gli occhi’, vero?

Mi piaceva pensare che se prendevo quell’oggetto per me, era per sempre, per sempre sottratto non solo all’incuria ma anche all’ignobile destino di far parte della collezione di qualcun altro piuttosto che della mia.

Si formava così la mia personale 'Wunderkammer' dove, ci penso solo ora, ho accumulato di tutto, ma sempre di materiali duri, intangibili, proprio come la pietra da cui prendo il nome. Sono padrone di cammei romani, monete mesopotamiche, 'katane' giapponesi, urne etrusche, ossa di mammuth russe, naturalmente i denti di narvalo e poi gioielli di corallo napoletano, reliquiari medioevali francesi, cornici d’oro peruviane, pugnali druidici, talismani tibetani in argento, fregi 'gandara' pakistani e ancora statue di bronzo d’ogni epoca e poi marmi, marmi, marmi. Rocce, pietre, metalli... e poi e poi su tutto pietre preziose, di cui le risparmio gli elenchi.

L’oggetto più amato, accarezzato, rigirato fra le mani? Non saprei... forse, ma non mi dica niente, è troppo facile, una culla in filigrana d’oro, perle e diamanti, in cui il bambino è un’enorme perla scaramazza.

Viaggiavo molto per lavoro, ma viaggiare è fare acquisti, per me era fare bottino. Non si può avere tutto, ma ci provavo ed ho avuto molto, in eccesso, a profusione.

Sa cosa mi affascinava? La “Saliera “ del Cellini.

Sono andato varie volte a Vienna per guardarla, prima che la rubassero.

Mi angosciava che non fosse mia. Mi incantavano i piedi intrecciati, il tempio ionico per il pepe e la navicella per il sale, il mare e la terra uniti che si guardano negli occhi e la piccola figura umana e le figurine della base che si possono distinguere solo avendola in mano”.

Sorride per la prima volta – “ E se fossi stato io a sottrarla? Potrei fidarmi di lei?”

 

Gli rispondo che forse è proprio quello che sta cercando, la possibilità di lasciar andare qualcosa, di liberarsi, smettere di caricarsi di tutto, far defluire non vuol dire necessariamente sentirsi depredato o dissanguato.

 

Mi porta un sogno.

“Stanotte ho fatto un sogno. Ero con mio nonno Zaccaria e mangiavamo il 'darin', la torta dove la nonna aveva nascosto la moneta d’oro della fortuna. Sapevo che l’avrebbe trovata lui, non io, e questo mi riempiva di angoscia”.

 

Penso – e non comunico – quanta preoccupazione c’è in Pietro nella vicinanza con me, forse è l’altro che ci guadagna, non lui.

Gli rimando solo che deve essere triste per un bambino iniziare l’anno sentendosi sfortunato.

 

“Mio nonno ha vissuto il genocidio, aveva 15 anni, ma è riuscito a inserirsi ad Isfahan dove viveva già parte della famiglia, facevano i mercanti di indaco.

È mio padre che non ce l’ha fatta, si è chiuso alla realtà e si è lasciato morire. Ma lei sa perché sono venuto a Venezia?”

 

L’analista può intuire, ma sa aspettare e sta ad ascoltare.

 

“Sono venuto a Venezia per le stesse ragioni per cui sono qui da lei che abita, lo sapeva?, in un palazzo che è stato di proprietà dei padri Mechitaristi di San Lazzaro, anche loro, ha visto che collezioni stupefacenti? Forse sono venuto ad assaggiare la loro marmellata di rose fatta coi petali raccolti all’alba perché bagnati di rugiada, oppure a camminare in calle Giuffa, Giuffa come Giulfa, l’ennesimo fantasma della storia della mia gente, abbandonata nel giro di tre giorni e gli abitanti deportati nella lontanissima Isfahan. Sono qui a cercare gli odori della cucina di mia nonna, oppure a toccare le pietre della chiesa di San Martino, a Burano, dove si dice fosse un gigantesco 'vishapagorg', uno dei tappeti tradizionali che lasciano intravedere un drago leggendario, e naturalmente anche di questa opera si sono perse le tracce.

Già i tappeti, ovunque mi giro sono circondato da fantasmi, mi pare di sgretolarmi o sfilacciarmi e di me non rimanere nulla.

Sa che nei tappeti armeni si contano milioni di nodi? Ne posseggo alcuni anche con ottanta milioni di nodi.

I tappeti sono fragili, non sono le pietre che attraversano i millenni e poi, come si dice, ogni nodo, un pensiero, c’è memoria, ma troppa, la memoria della mia gente scomparsa, mi è intollerabile, mi smarrisco in un labirinto di lamenti. I tappeti li conosco, li scovo, so trattarli, so far l’indifferente, esaminare altro, far finta di uscire dal negozio con aria incurante e poi pagare il giusto. Ma mi immalinconiscono, come se riuscissi a percepire troppe vite troncate, troppi canti interrotti, a leggervi troppe lacrime che si intessono nei fili.

Pietro colleziona pietre. Colleziono, dunque sono, costruisco la mia eredità”.

 

Mi intrometto vivacemente: “Ma forse questo progetto non regge, forse elencare, raccogliere, registrare è un modo che dà un illusorio controllo sulla realtà, se è pietrificata, poi... Dov’è in realtà l’emozione se non quella dell’eccitazione e dell’avidità dell’accumulo? Mi sembra che lei usi una specie di Prozac, ma non si può vivere di antidepressivi. Lo sa bene anche lei, non sarebbe qui altrimenti”.

 

Sono stata troppo diretta, vero Professore? Infatti si chiude come un riccio o meglio, come un sarcofago di marmo.

 

“Lei non può capire, il segno di riconoscimento dell’Armenia è stata da sempre il 'khatchkar', la croce di pietra, le migliaia di croci incise nel tufo che cospargono il territorio del nostro paese come un immenso cimitero”.

Silenzio carico di angoscia.

 

Mi viene in mente, non so da dove, un episodio narrato da Garcia Marquez nella sua autobiografia  "Vivere per raccontarla", in cui a lui, disperatamente fumatore, uno psichiatra lancia: “Perché smettere di fumare sarebbe per te come uccidere una persona amata”, convincendolo quasi per incantesimo in un istante ad abbandonare definitivamente le sigarette.

Gli comunico questa mia associazione e, a sua volta, rapidamente, Pietro associa: “Vuol dire che tutte queste pietre devono tener sepolto il drago violento, il mio 'vishap', la rabbia inghiottita, la furia di intere generazioni?

O raccolgo e colleziono, amando ogni singolo oggetto più della mia vita e che dalla mia vita dipende per continuare a vivere oppure mi faccio sommergere dalla voglia di distruggere, la coazione a ripetere la chiamate voi analisti, l’olocausto, che mi liberi dall’impossibilità di pensare ad altro, un olocausto che liberi dal pensiero dell’olocausto, non è paradossale?

Forse è per questo che Chatwin mette in bocca ad Utz: ‘Le cose sono meno fragili delle persone. Le cose sono lo specchio immutabile in cui osserviamo la nostra disgregazione. Nulla ci invecchia più di una collezione di opere d’arte’”.

 

Pietro chiude gli occhi e tace, profondamente emozionato. Ma il silenzio nello studio dura un momento. “Castraùre, castraùre, 20 castraùre 5 euro”: urla una voce. E il brusio sonnolento del mercato e l’onda del vaporetto che si infrange alla riva e il “pling plong, next stop Rialto” e lo stridere dei gabbiani che planano ad un metro dalla finestra e su tutto la campana di San Polo di bronzo pieno ricco e solenne, da città imperatrice. Venezia viva.

 

Lentamente Pietro ricomincia a parlare.

“Sono cresciuto nel silenzio. Per mio nonno bisognava tacere, nascondere, evitare. Non ha mai parlato di sé, di ciò che aveva visto.

La bellezza, la perfezione, l’integrità di cui mi sono voluto circondare è stato forse solo un modo per coprire il fango, l’orrore della storia.

Ho privilegiato la memoria su tutto, ma la memoria di altro da me, il mondo dietro la lente di un cannocchiale capovolto, il mondo visto ad una distanza di sicurezza e questo era rassicurante.

Ha presente i condannati della caverna di Platone che confondono il teatro d’ombre con la vera vita? Io non ho fantasie, ho oggetti e concretezza e di questi sono prigioniero.

Ho sempre pensato che fosse importante usare la propria mente, non conoscerla . Coerente al mio nome, mi sono alla fine pietrificato”. E sorprendente, al 'calembour', un guizzo ironico gli muove lo sguardo, la materia inorganica inizia a prendere vita.

 

Cosa è accaduto, allora, Professore ? Venezia, l’analisi, può rappresentare il ponte fra un passato troppo deprimente per essere ricordato e la modalità eccitatoria difensiva che Pietro, pietrificandosi, ha usato finora?

Tu ridi pensando al lavoro di analisi come a una specie di ponte di Rialto fra la riva del Carbon, cupa e minacciosa e la riva del Vin, con tutte le promesse di ebbrezza e di oblio. Forse sarà comico, ma è un modo più poetico che definire me stessa l’attivatore della funzione alfa o un enzima che trasformi in buon cibo qualcosa altrimenti indigeribile o l’abusato contenitore  per contenuti che non hanno trovato ancora la possibilità di essere trasformati in pensieri... Ci sono tanti modi per narrare la possibilità di rimettersi a pensare. È il nostro lavoro addomesticare pensieri che senza pensatore rimangono selvatici.

Certo è inquietante quella madre di porcellana troppo fragile e fredda e la perla barocca, un po’ deforme , mostruosa, nella culla e l’assenza di donne, di amori, nella sua storia : come prenderanno a gemmare questi semi gettati qua e là nel racconto? Arriverà il momento in cui il drago aggressivo potrà mostrarsi senza essere negato?

Ma la mia casa è piena di specchi e in certe ore l’acqua del Canal Grande , il nostro Canalasso , vi si riflette cominciando a correre sulle pareti, trasformandole in segni luminosi in movimento e ogni cosa perde la sua immutabilità e acquista forma cangiante, ogni volta la stessa cosa è un’altra cosa, l’immagine si compone e si disgrega danzando sugli oggetti sulle persone raccolte a conversare, il riflesso si impasticcia con le parole, si mescola coi pensieri, fluttua dall’uno all’altro, dal dentro al fuori . E allora finalmente i monologhi suoneranno stonati e le emozioni , disfacendosi , componendosi e ricomponendosi nell’oscillazione caleidoscopica del dialogo , potranno essere condivise.

 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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