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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte
Psychoanalysis applied to Medicine, Pedagogy, Sociology, Literature and Arts 

   Sede redazionale: Ce.Psi.Di. (Centro Psicoterapia Dinamica), viale Gallipoli, 29 - 73100 Lecce   tel. (0039)3386129995 fax  (0039)0832933507

Direttore Responsabile: Giuseppe Leo

Board scientifico: Leonardo Ancona (Roma), Brenno Boccadoro (Ginevra), Mario Colucci (Trieste), Lidia De Rita (Bari), Santa Fizzarotti Selvaggi (Carbonara di Bari), Patrizia Guarnieri (Firenze), Livia Marigonda (Venezia), Salomon Resnik (Paris), Mario Rossi Monti (Firenze), Mario Scarcella (Messina).

 
 Numero 9, anno V, gennaio 2008

"Psicoanalisi e Neuroscienze"

Numero speciale in memoria di Mauro Mancia

 

Editoriale

 
Foto."Impronta bianca su sabbia" (1959) di Toti Scialoja

 

Identificazione proiettiva e alterazione della coscienza.

               Un ponte tra psicoanalisi e neuroscienze ?

di Cristiana Cimino e Antonello Correale

"Memoria, inconscio e funzioni terapeutiche: la psicoanalisi in dialogo con le neuroscienze"  di Mauro Mancia Cristiana Cimino è psicoanalista associata S.P.I. ( Centro Psicoanalitico di Roma).

Antonello Correale è Membro Ordinario con funzioni di training della S.P.I..

 Si ringrazia, oltre che gli autori, l'editor dell'International Journal of Psychoanalysis (Dana Birksted-Breen) per aver concesso l'autorizzazione alla pubblicazione in versione italiana di questo articolo apparso su quella rivista nel 2005 (Int.J.Psychoanal. 2005; 86: 51-60).

 "Dopo il pluralismo: verso un nuovo, integrato paradigma psicoanalitico" di Juan Pablo Jiménez  
 
 

 

 

"Per un dialogo tra la psicoanalisi e le neuroscienze" di Franco Scalzone

 

   

 

Introduzione

 
 
 
 

Il concetto di identificazione proiettiva (IP), nel corso della storia della psicoanalisi, è stato usato per descrivere e spiegare un insieme di fenomeni sempre più vasto e molteplice. Da meccanismo di difesa, orientato a preservare il soggetto da vissuti troppo impregnati di odio e di violenza, che vengono a tale scopo collocati nell’altro (Klein 1946,  Rosenfeld 1952, 1954, Segal 1963), gradualmente l’IP è sempre più stata concepita come una modalità comunicativa (Bion 1962, Ferro 1987, Grinberg 1958, Grotstein 1981, Heimann 1950, Rosenfeld 1987), con ampie zone di sovrapposizione tra l’una e l’altra accezione (Bion 1961, 1967, Ogden 1982, Rosenfeld 1987, Sandler 1987).

Tuttavia, l’eccessivo ampliamento del concetto ne ha parzialmente snaturato il valore fino a fare si che, come estrema conseguenza, l’IP venga riferita ad una modalità normale e sempre presente di comunicazione. Tutto questo ha ridotto la potenza del concetto stesso e l’utilità del suo valore euristico (Migone 1995).

 

 

In questo lavoro riconsidereremo l’IP per proporne una versione più ristretta e definita. Essa rimane essenzialmente concepibile come meccanismo di difesa provvisto, tuttavia, di una potente valenza comunicativa, che, se colta, può consentire al terapeuta l’accesso a livelli molto primitivi della mente del paziente. Sottolineando l’alterazione della coscienza dell’analista come polo ricevente della IP (Meares 2000), il concetto stesso di IP diviene più riconoscibile e chiaro. Questa sottolineatura ci permette di affacciare delle ipotesi su un possibile collegamento tra IP e memoria “non-dichiarativa”, con particolare riferimento alle memorie di eventi traumatici, che hanno potentemente la capacità di indurre alterazioni dello stato di coscienza (Meares 2000). Rispetto ad esso, nel corso dell’analisi sono distinguibili almeno due ordini di eventi: un flusso continuo in cui i movimenti empatici e identificativi dell’analista tendono a favorire nel paziente attività narrative, esperenziali e autorappresentative; un secondo ordine, discontinuo e discreto, che interrompe questo flusso ordinato e fluido producendo un clima di coercizione e di enigmaticità in cui l’IP è all’opera sotto forma della irruzione imprevista e incontrollabile di vissuti dotati di potere di costrizione e ineluttabilità. Questo modo di concepire l’IP comporta una serie di conseguenze importanti per la prassi analitica, funzionali alla decodifica ed alla restituzione, nell’ambito della coppia analitica o terapeutica, dei contenuti manifestatesi sotto forma, appunto, di IP.

La separazione operata tra i due poli, paziente e terapeuta, è del tutto artificiosa ed ha soltanto lo scopo di rendere più agevole la illustrazione di alcune ipotesi.

 

 

 

 

 

 

L’IP dalla parte dell’analizzando

 

Dalla parte del paziente, cioè del polo emittente, la IP consiste in una particolare modalità di azione del soggetto stesso. Per modalità di azione intendiamo qualcosa che, attingendo evidentemente a contenuti inconsci,  passa attraverso le comunicazioni del paziente, e, attendibilmente,  attraverso il tramite della parola come azione, concetto, questo, simile a quello utilizzato da Kernberg (Kernberg 1987). Contrariamente a quanto spesso è stato affermato nell’ambito della letteratura psicoanalitica, pensiamo che l’IP non consista in una “semplice” fantasia. Secondo il nostro punto di vista, infatti, la caratteristica più saliente dei fenomeni di IP è di non restare nella mente del paziente come meri contenuti inconsci, ma di tendere sempre a prendere corpo, a prendere forma, a incarnarsi in una modalità attiva. Crediamo che in questo modo, un vissuto inconscio del soggetto stesso, potentemente investito e non dotato di accesso alla rappresentabilità, eserciti sull’altro soggetto -proprio per il concorso di questi fattori- una forte pressione emozionale che permette la sua ricezione, con gli effetti che cercheremo di descrivere.

Una seconda caratteristica essenziale dell’IP è il suo carattere inconscio. Il soggetto dell’IP (l’analizzando) è del tutto inconsapevole del messaggio che sta mandando e dell’effetto che il suo modo di essere esercita sull’altro soggetto presente (l’analista). Potremmo ipotizzare che l’IP abbia qualcosa a che vedere con la trasmissione diretta di contenuti di esperienza da inconscio a inconscio (Freud 1913).

Una terza caratteristica riguarda l’automaticità. Intendiamo per automaticità una modalità ripetitiva e conforme, per cui, un certo vissuto, una certa sensazione, una certa caratteristica esperenziale, tendono a ripetersi, nell’ambito della relazione, ogni volta con le stesse modalità.

Un’ultima caratteristica dell’IP è il suo carattere di fenomeno discreto e non continuo. Quello che intendiamo dire è che quando si verifica in seduta un fenomeno di IP, la sensazione da parte del terapeuta è che qualcosa irrompa sulla scena trasformandola e interrompendo l’abituale flusso, potremmo dire empatico, della seduta. Quando ciò si verifica, nel terapeuta si attuano eventi specifici di grande portata, la cui comparsa tende a stagliarsi sul resto del flusso delle sedute e dei movimenti di relazione, per lasciare il ricordo di qualcosa di più riconoscibile e al tempo stesso più indefinito.

 

 

 

 

 

 

 

L’IP dalla parte del terapeuta

 

Il terapeuta avverte, improvvisamente e inaspettatamente, un brusco cambiamento del proprio stato complessivo. Egli non sperimenta una singola e definita emozione, ma piuttosto una modificazione del proprio stato emozionale globale e spesso anche di quello fisico. Possono verificarsi potenti attivazioni-alterazioni delle sensopercezioni, in forma di illusioni, vissuti di modificazione somatica, più raramente allucinazioni. Possono anche presentarsi immagini o contenuti ideativi semplici a carattere coercitivo e persino persecutorio. Tale potente sollecitazione, lungi dall’essere una “rottura della comunicazione”, consente invece, non solo di trovare finalmente una collocazione a ciò che viene comunicato, ma fornisce la misura e la portata del vissuto che è potuto emergere. Pensiamo comunque che si tratti di un passaggio obbligato nell’ambito del trattamento di pazienti gravi, ma non solo.

I dati clinici permettono di indicare alcune caratteristiche di questo stato che si presentano con maggiore costanza:

1) Una prima caratteristica che può essere definita turbolenza emotiva rimanda sia al carattere discreto del fenomeno che al suo essere estremamente disturbante, prendendo la forma di uno stato di allarme angoscioso, di percezione che qualcosa di inarrestabile e di perturbante stia accadendo.

2) Un secondo elemento importante riguarda una condizione di passività e coercizione. Questo aspetto è stato ripetutamente ed energicamente sottolineato da Bion, che ha insistito sul fatto che l’IP comporta – nel soggetto ricevente – una precisa esperienza di perdita della libertà, “come se” il terapeuta sentisse che qualcosa lo sta investendo da fuori e lui non può in alcun modo sottrarsi alla forza di questo evento.

3) Il terzo elemento riguarda l’alterazione della coscienza. Per alterazione della coscienza intendiamo sia il restringimento delle capacità di osservazione, che la estrema difficoltà ad operare associazioni, una sorta di “paralisi cognitiva” in cui il senso di sé, la tranquilla percezione di una continuità nel flusso ininterrotto della propria identità sia momentaneamente sottoposta a una cesura. In molti casi, questa alterazione della coscienza può spingersi fino al punto di far sperimentare al terapeuta una vera e propria depersonalizzazione, con l’ingresso in uno stato di rapporto con la realtà di tipo enigmatico e inquietante.

 

 

L’alterazione della coscienza

 

 

Nel corso del trattamento possono verificarsi nel terapeuta brusche ed improvvise alterazioni dello stato di coscienza, accompagnate da turbolenza emotiva, senso di coercizione, lieve o grave confusione, modificazioni della cenestesi e delle sensopercezioni. Tali modificazioni, come abbiamo già detto, sono innescate da modalità attive del paziente, inconsapevoli ed automatiche, che prendono le mosse da livelli inconsci sprovvisti di capacità rappresentativa, che si presentano con carattere di imprevedibilità.

In psicoanalisi ed in genere nelle relazioni psicoterapeutiche, possiamo riconoscere almeno tre gradi di alterazione della coscienza corrispondenti in chiave psicologica a differenti modalità di funzionamento mentale.

Il primo grado di alterazione della coscienza si verifica nelle relazioni caratterizzate da rigidità e compulsione, per esempio in una coppia con una modalità sadomasochista di relazione. In questi casi, basta una parola, un  gesto, una frase per innescare una sequenza relazionale ben nota e sempre uguale. In questi casi i due soggetti sono identificati ognuno con un oggetto della loro storia e si limitano a ripetere il copione già noto. È possibile ipotizzare, come dice Modell (Modell 1989) e riprende Meares (Meares 2000), che in questi casi la coscienza operi a un livello unidimensionale e non bidimensionale. Ciò che avviene è la perdita della duplicità del Sé. Il soggetto perde la dimensione auto-osservativa, ossia la capacità di dialogare con se stesso, e diventa trascinato dal suo essere solo oggetto e non più soggetto e oggetto in dialettica di rapporto. Modell parla di “metafora congelata” per indicare la perdita in vario grado della mente metaforica, e cita Coleridge che definisce “immaginazione” la capacità di entrare e uscire dall’oggetto posto di fronte a noi. È probabile che il cognitivismo intenda qualcosa del genere quando parla di perdita della funzione metacognitiva (Fonagy & Target 1997). Nel primo grado di alterazione della coscienza, si ha quindi solo la perdita, parziale o totale, della funzione immaginativa o metacognitiva dell’Io dialogante con sé stesso. In questo caso l’analista si sente forzato in un ruolo e si sente intrappolato in una simmetria di posizioni non scelta da lui, ma vissuta come imposta.

Nel secondo  grado, oltre alla perdita dell’Io osservante, il soggetto si accorge solo di una parte di ciò che ha davanti, come se osservasse un palcoscenico che è illuminato dai riflettori soltanto in una sua parte e non nella sua interezza. Si assiste cioè a un restringimento del campo percettivo, che può essere trasmesso dal paziente al terapeuta e che può implicare, oltre al restringimento dell’attenzione, una parziale successiva perdita di memoria degli avvenimenti.

Nel terzo grado, oltre alla perdita dell’Io osservante ed al restringimento del campo di coscienza, si perde anche, in varia misura, il sentimento di sé. In terapeuta avverte una cesura nella sua continuità, vive un’angoscia depersonalizzativa di cui ignora la causa e sente, penosamente, che sta entrando in uno stato di confusione.

La psicologia dello sviluppo e buona parte della psichiatria definiscono dissociazione l’alterazione della coscienza di cui stiamo parlando e ne descrive in modo simile gradi e livelli (Meares 2000), per cui sarebbe opportuna una ricerca sistematica in questo campo per confrontare i due costrutti.

Il termine di IP, secondo il nostro punto di vista, è da riservare a quei casi in cui il terapeuta, nell’ambito di uno scenario relazionale che si verifica con le caratteristiche descritte, subisce un’improvvisa, brusca alterazione dello stato di coscienza riferibile essenzialmente alle ultime due varianti descritte, in genere come mescolanza fra le stesse, con prevalenza relativa dell’una sull’altra.

 

Identificazione proiettiva e memoria traumatica

 

Vorremmo a questo punto proporre l’ipotesi che la comunicazione veicolata attraverso l’IP e che dà luogo ai complessi fenomeni che abbiamo cercato di descrivere, si riferisca a contenuti traumatici di esperienza che provengono dalla memoria “non dichiarativa”.

Come memoria “non-dichiarativa” si intende quella memoria (Squire 1994), che esercita la sua influenza sul comportamento e sull’esperienza al di fuori di contenuti simbolici o rappresentazionali (Schacter e Tulving 1994). Tale influenza, che si eserciterebbe maggiormente sulla esperienza e sulle modalità relazionali (Stern 1985, Davis 2001), si colloca al di fuori della consapevolezza, ma non è considerata essere rimossa o dinamicamente inconscia (Fonagy & Target 1997, Stern 1998, Davis 2001). Clyman (Clyman 1991) ha parlato delle varie forme di memoria “non-dichiarativa” come di “non-consce”. Potremmo forse ipotizzare che la memoria “non-dichiarativa” attinga a livelli di un inconscio che è altro rispetto a quello dinamico o “rimosso”, ed ha invece a che fare con quei “processi fisici o somatici concomitanti allo psichico….che costituiscono lo psichico vero e proprio” (Freud 1938).

 Riteniamo, comunque, che il contenuto di esperienza che viene comunicato attraverso l’IP abbia a che fare con registri mentali presimbolici o prerappresentazionali, ossia con un bagaglio di esperienze che il paziente porta dentro di sé, collocato, come abbiamo già detto, al di fuori della possibilità di simbolizzare, e di quella stessa di “ricordare”. Queste isole discontinue di vissuto sono come frammenti di vita rimasti pezzi di materia inerte, sprovvisti di valenza psichica, dove per valenza psichica intendiamo “il segno” di un contenuto mentale inconscio che possa avere accesso alla simbolizzazione ed essere inserito in un tessuto psichico più ampio e significativo. Frammenti di vita rimasti isolati come iceberg che galleggiano nel mare, scollegati dal resto della vita psichica. Non si tratterebbe, insomma, di contenuti inconsci da disvelare ma piuttosto di una scrittura da compiere. Le tappe della comunicazione veicolate dall’IP sono passi verso la possibilità di accedere a poco a poco ad una dimensione di rappresentabilità di questi frammenti. In questo senso, ciò che avviene nell’ambito del trattamento non ha la caratteristica di una condivisione di esperienze ma quella di una funzione assai più specifica esercitata dal terapeuta, che è quella di pre-rappresentare all’interno della propria mente i contenuti che vengono veicolati con l’IP. Partiamo infatti dal presupposto che tale funzione, fisiologicamente esercitata dall’oggetto primario e poi introiettata e fatta propria dal soggetto, sia necessaria alla costituzione di oggetti psichici. Intendiamo per oggetto psichico un elemento della realtà interna od esterna che sia stato preliminarmente trasformato -“segnato”- dall’attività materna, e precisamente dal suo processo secondario, per essere poi metabolizzato dal bambino ed avere accesso ad una rappresentazione (Aulagnier 1975, Bion 1962, Lacan 1966). Pensiamo che nelle situazioni in cui si è verificato il fenomeno dell’IP così come lo andiamo delineando, tale funzione sia stata esercitata in modo insufficiente o inappropriato ed è quindi in questa direzione che deve svilupparsi il trattamento.

La comparsa di queste isole di vissuto inconscio avulse da un contesto -che, crediamo, solo in questo modo hanno possibilità di vedere finalmente la luce- è una potentissima richiesta di venire provviste di senso e di collocazione psichica, che ha l’effetto di trascinare il terapeuta che se ne lasci permeare in uno stato di alterazione di coscienza. Egli ha l’occasione di funzionare come mente vicaria del paziente, operando dentro di sé quella trasformazione preliminare necessaria di cui abbiamo parlato.

Pensiamo effettivamente che il fenomeno è reso così potente – la pressione cioè sul terapeuta ne risulta così incredibilmente accresciuta – per tre motivi.

Il primo riguarda il fatto che queste “isole di memoria non-dichiarativa” furono vissute  -a suo tempo-  come eventi relazionali e si propongono quindi, adesso, come potenti comunicazioni, anche se ancora indecifrabili. Sono cioè, sia pure in modo insolito e anomalo, forme di aspettativa nei confronti del terapeuta.

Il secondo riguarda il fatto che esse sono profondamente decontestualizzate, sono cioè non scisse, ma isolate, non connesse, apparentemente apocalittiche, cadute dal cielo. La sensazione di decontestualizzazione è data dal fatto che non sono circondate e avvolte da fattori significanti e vengono quindi percepite come enigmatiche e inafferrabili. L’accostamento al concetto di priming facilita la comprensione di quanto stiamo dicendo.

Il terzo fattore riguarda il terapeuta. L’IP così concepita ha effetto su alcuni terapeuti e non su altri: in altri termini, in base alla propria storia personale ed alla propria organizzazione interna, ogni terapeuta sarà più o meno permeabile alle comunicazioni veicolate dall’IP.

La potente decontestualizzazione, la prevalente componente concreto-sensoriale e la recettività specifica di ciascun terapeuta spiegano la potenza del fenomeno e la difficoltà di coglierlo. In conclusione, possiamo riproporre l’ipotesi, anche se essa merita ancora numerose conferme, sia sperimentali che cliniche, che esista un collegamento tra fenomeni di IP e la memoria non dichiarativa, in particolare quella implicata nel trauma.

La memoria di eventi traumatici è in effetti caratterizzata dall’alterazione dello stato di coscienza che l’ evento traumatico ha il potere di  indurre.

Si può pensare perciò che in certi momenti della relazione terapeutica si venga a contatto con frammenti di memoria non-dichiarativa, espressione di traumi pregressi, in forma altamente decontestualizzata, e che questi frammenti di memoria traumatica effettuino, a loro volta, un’azione  traumatica su un terapeuta predisposto a ricevere quel particolare tipo di stimolazione.

 

La restituzione

 

Il termine restituzione è mutuato da Ogden (Ogden 1982) e si riferisce alla possibilità di reintrodurre in un contesto rappresentazionale e autobiografico le comunicazioni veicolate attraverso l’IP.

Con Ogden, pensiamo che la prima e fondamentale fase del lavoro di restituzione avvenga all’interno della mente del terapeuta in forma di riconoscimento che qualcosa è avvenuto, e di successiva e progressiva decodifica, processo che di per sé richiede tempo. Può pure essere necessario l’intervento di un terzo esterno (supervisore, gruppo) che ristabilisca una distanza adeguata, anche temporale, perché tale operazione possa avvenire e perché il terapeuta ristabilisca la sua capacità di operare connessioni. Questa “interpretazione silenziosa” (Spotnitz 1969) richiede in genere tempo, anche molto, per poter essere restituita e formulata verbalmente al paziente. Inoltre essa segue il criterio del “goccia a goccia”, ossia necessita spesso di una sorta di diluizione nell’ambito più esteso delle comunicazioni tra paziente e terapeuta. Come se essa dovesse a poco a poco venire inserita, per quanto possibile, in un tessuto psichico e relazionale da costruire, rispetto al quale la variabile tempo gioca un ruolo fondamentale. Tempo nel corso del quale i contenuti comunicati acquistano sempre più significato e forma nella mente del terapeuta, potendo poi essere restituiti al paziente in una forma che ne consenta l’ulteriore elaborazione.

È necessario porre la massima attenzione al livello in cui si trova l’Io del paziente in ogni momento del trattamento, per rendersi conto di quello che è in grado di recepire e di metabolizzare di ciò che gli viene comunicato, e per valutare la forma della comunicazione. Questo per non incorrere nel rischio che il paziente semplicemente aderisca all’interpretazione senza potersene appropriare, operando così una scissione e un ulteriore arroccamento difensivo (Ogden 1982). Ciò avrebbe  sul paziente l’effetto di una ripetizione traumatica, intesa non solo come fallimento nella restituzione del significato della comunicazione, ma anche come misconoscimento della aspettativa che, come abbiamo visto, è parte integrante dei fenomeni di IP. Pensiamo inoltre che lo sforzo che caratterizza la decodifica dell’IP  e quello stesso di “sostenere” un fenomeno che spesso compromette in modo così significativo i processi mentali del terapeuta vengano percepiti dal paziente e costituiscano di per sé un fattore terapeutico.

Come sottolinea Davis (2001), il misconoscimento da parte del terapeuta degli accadimenti legati ai processi di memoria non-dichiarativa fa sì che egli incorra nel rischio di agirli insieme al paziente, anziché prenderne coscienza. I fenomeni di IP, così come abbiamo cercato di descriverli, con particolare attenzione all’alterazione della coscienza, potrebbero costituire un accesso a livelli e modalità molto primitive della mente del paziente, che necessitano di essere trattate nell’ambito del loro proprio linguaggio per non commettere l’errore di considerarli, nella classica prospettiva psicoanalitica, semplicemente come forme di “resistenza” (Davis 2001).

 

 

 

 

 

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