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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria". N.10, anno V, giugno 2008.

    "HO LA VERGOGNA"

 

di Abram Coen

 

 Questo testo è stato presentato dall'autore al convegno internazionale "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" (Lecce, 5 aprile 2008). Abram Coen è psicoanalista e psichiatra del Centro "Octave e Maud Mannoni" di Parigi.

Foto: Abram Coen nel corso della sua relazione nell'ambito della tavola rotonda "La Honte/La Vergogna e il transfert" ( convegno "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" - Lecce, 5 aprile 2008).

 

 

 

 


 

 

 

 

         

 


 

« Ho la vergogna » è un’espressione di gergo familiare dei giovani di « banlieue »[1] che in un

 certo modo si oppone a un’espressione più familiare come « sono vergognato » o, più

semplicemente, « ho vergogna ». La clinica e le istituzioni di cura, come pure le strutture

socio-culturali, possono aiutarci a capire meglio, distinguere, sormontare questo significato

familiare.

 

        Il sentimento di vergogna ha due versanti : psicologico e sociale. In effetti, « ho vergogna »

testimonia di uno stato esterno condiviso, che si indossa, che si subisce, che vi abita

malgrado voi, alla maniera di una malattia alla quale non si può sfuggire ! Si tratterebbe di

una presa o un’impresa di cui si sarebbe prigioniero, ostaggio. Al contrario essere vergognato è

un vissuto, un sentimento, la presa di coscienza di una situazione inconsolabile che ci è

sfuggita, di cui paghiamo il prezzo e che richiede riparazione.

       

        Presenterò alcune vignette cliniche per tentare di illustrare queste due dimensioni.

        Uno studente di 21 anni che ho conosciuto al momento di un attacco delirante durante

 il quale si prendeva per il diavolo, e aveva un’impressione di ostilità da parte dell'ambiente;

uscito da questo stato sintomatico, è attualmente conscio di ciò che gli è successo. Si rende

conto con lucidità e su un versante depressivo delle sue difficoltà, in particolare sul piano delle

 relazioni sociali. E’ giunto in uno stato catastrofico alla sua ultima seduta : « non comando

più alla mia bocca che dice delle cose che mi sfuggono ».  Questa presa di coscienza che l’ 

« id » parla malgrado lui, gli è molto sgradevole, e si dice vergognato. Ne approfitta per dirmi

al telefono che, per ben tre volte, mi ha mentito l’ultimo anno, riconoscendo dolorosamente,

in questa « confessione » la distorsione del suo rapporto con la verità.

 

        Altra situazione. Una psicoterapia d’ispirazione psicoanalitica, vis à vis, si insabbia e

gira a vuoto dandomi anche l’impressione di annoiarmi. Sento un blocco che fa ostacolo alla

regola del « dire tutto ». Ne parlo con la mia paziente che fa lei stessa la medesima

constatazione. Gli propongo allora, tenendo conto del suo rifiuto di stendersi, un « trucco »

 che mi ha insegnato Françoise Dolto per sbloccare una situazione immobilizzata. Domando

allora alla mia paziente di girare la sua sedia per sfuggire al faccia a faccia inibitore. Cosa

 che fece. La paziente si accascia evocando delle molestie sessuali subite all’età di 10 anni da un

amico della famiglia di cui lei si sente ancora, fino ad oggi, ora che è madre di tre figli, ferita,

sporcata et vergognata. Questo vissuto, per una cattolica praticante, le avrebbe nascosto

(« caché », o rovinato=gaché ?) la vita di coppia e l’accesso ad ogni piacere sessuale. Tutto

succedeva, in questa situazione dolorosa, come se l’essere esposta allo sguardo dello

psicoterapeuta senza protezione, rivelasse (svelava = double sens de dévoiler) la sua nudità

come al tempo delle molestie sessuali. Da qui imbarazzo, goffaggine, inibizione, timidità,

vergogna e umiliazione si mescolano. Il suo narcisismo ferito, così come la stima in

se stessa, contribuiscono al sentimento di vergogna, di essere diversa, marcata da una tara

 indelebile.

 

                Un susseguirsi di smacchi nelle sue relazioni amorose conducono Madame B. a

consultarmi. Facendole osservare che i suoi numerosi partners sono sempre dei colleghi di

lavoro, lei confessa in lacrime di essere stata abusata sessualmente da suo fratello e che non ha

 mai detto niente « per non provocargli un torto ».  Continuava così ad essere prigioniera di

un processo ripetitivo di una relazione incestuosa nel suo ambiente di lavoro. La sua vergogna

masochista e la perdita della stima di sé, la portano a vivere con un collega di lavoro, che

 intrattiene, egli  stesso, una relazione « platonica » con un’altra collega dello stesso ufficio.

 

        Durante un primo colloquio con un uomo giovane, gli domando se può raccontarmi un

sogno recente. Evoca allora un ascensore, senza dire di più. Gli domando allora ingenuamente

 cosa ne è delle sue relazioni con sua sorella ? Imbarazzato, arrossendo, non sapendo dove

mettersi, lui dice che i legami sono rotti da quando adolescente aveva abusato di lei !

 

        Un uomo di età matura mi consulta perché è violento con le sue collaboratrici di lavoro, così

 come con sua moglie, senza poter controllare i suoi impulsi aggressivi. Ciò resta al livello

verbale, ma ha paura di un passaggio all’atto caratterizzato. Mi informa quindi di essere stato

abbandonato da sua madre e adottato da una famiglia francese della metropoli, lui stesso essendo

di origine di colore. Questa differenza di colore con i suoi genitori adottivi è sempre stato

oggetto di imbarazzo, portandolo a volerne a sua madre per averlo abbandonato, e alla sua

madre adottiva per averlo accolto. La differenza di pelle non potendo confermare la filiazione.

Gli ho fatto notare che dopo tutto sua madre, che avrebbe potuto abortire, ha dovuto amarlo

molto per portare a buon termine la sua gravidanza,  che malgrado ciò  probabilmente le è

costato  partorire  un bimbo e farne dono a una famiglia che gli avrebbe dato probabilmente

 una vita migliore. La vergogna di essere stato « abbandonato » gli si incolla alla pelle, e

diventa una cicatrice indelebile inconsciamente rimproverata a tutte le donne.

 

 Battersi con la vergogna

      

               

                Si può, in comunità, confrontarsi col versante sociale della vergogna ? E’ possibile, in

modo non conflittuale, essere psicoanalista quando si assumono le funzioni di psichiatra in una

comunità dipendente dal servizio pubblico, avendo ugualmente una responsabilità nella

prevenzione e nella promozione della salute mentale ? Abituato a lavorare con l’ « uno ad

 uno », il passaggio al collettivo non è sempre agevole. Tre esperienze mi aiuteranno a

testimoniare nel quadro delle mie passate responsabilità in qualità di Capo del Servizio

Psichiatrico nel settore degli Ospedali Pubblici di Seine Saint Denis (Francia). Situato nel

Dipartimento del Nord di Parigi a grande tasso di immigrazione, settore che accumula gli

handicaps sociali e culturali con il più forte tasso di disoccupazione, di assistiti, ma anche di

insuccessi scolastici, di violenza dei giovani della regione detta d’Ile de France (la regione che

 circonda Parigi).

        Dinanzi alla rarefazione dei consultori ospedalieri destinati agli adolescenti, abbiamo

intrapreso – appoggiandoci sul « potere di auto-guarigione » di cui parla Winnicot a tale

proposito – di andare  incontro a loro aprendo in centro città un luogo di accoglienza

indifferenziato nelle ore del dopo scuola, cioè dalle sedici (16h) alle venti (20 h) per i giovani tra

i dieci (10) e i venti (20) anni. Questo luogo si chiama Punto Accoglienza Giovani (PAG).

 

        Noi ricevevamo fino ad una cinquantina di giovani al giorno, intorno ad una colazione o a

merenda e soprattutto attorno ad attività che favoriscono l’accesso alla cultura.

Contrariamente all’abitudine in questo tipo di strutture che dispongono di corsi imposti, le

attività messe a disposizione lo erano in seguito alla loro domanda : musica, percussione,

danza, teatro, informatica, scrittura…senza dimenticare che vi si potevano anche fare i compiti

di scuola. Anche qui ci siamo ispirati a Winnicot che diceva, in « Gioco e realtà », che « sognare,

 giocare e accedere alla cultura sono le basi sulle quali riposa l’ esperienza culturale ».

  Foto: D.W. Winnicott

        Una posizione sociologica potrebbe considerare la popolazione accolta come costituita di

« persone a rischio ». Notiamo che non v’è mai stata violenza. Certo ci poteva accadere di

riaccompagnare colui che cominciava ad arrabbiarsi verso la porta, raccomandandogli di

ritornare, calmatosi, l’indomani ; non essendo in condizione, quest’oggi, di essere accolto !

        Abbiamo deliberatamente rinunciato ad adottare una posizione clinica, niente

« consulenze » né colloqui individuali sul luogo, anche se il personale di inquadramento era

costituito da psicoanalisti e psicologi. Non si trattava neanche di patologizzare o reperire i

giovani più fragili sul piano della salute mentale, e neanche di « depistare » una qualsiasi malattia

 mentale.

        Un rapporto canadese « Analisi dell’ambiente di salute mentale : problematica e

elementi di metodologia »  insiste in maniera caricaturale sull’ « importanza dei problemi

associati alla salute mentale : un indice di disperazione psicologica elevato (l’insieme di sintomi

specifici, di problemi psicologici), circa l’otto per cento (8%) tra di loro hanno disturbi mentali

 e circa il quattro per cento (4%) hanno avuto idee suicide nel corso degli ultimi dodici (12)

mesi. In effetti noi osservavamo dei « momenti » depressivi, ed anche psicotici, ma non

 l'indomani. Non avevamo neanche un approccio statistico che cercasse di dimostrare che

« le persone molto sfavorite presentano un indice di disperazione psicologica due volte piu’

elevato delle persone più fortunate » (trenta per cento – 30% -  contro sedici virgola due per

cento – 16,2 % -, Lavoie, 1989).

        Noi non sapevamo niente di loro, se non solo ciò che loro volevano ben dirci, senza

interrogarli, neanche sulla loro identità. Era solo dopo un lungo processo di messa in fiducia

che si poteva parlare di questioni di maltrattamenti o di relazioni con i giudici

dell’infanzia. Alcuni potevano arrischiarsi a confessare un più debole livello scolastico, un

insuccesso in francese o in matematica, ed anche una grande, una molto grande povertà.

Ciò che ci interessava era di incontrare non un problema, ma un soggetto nel gruppo, qualunque

 fossero stati i suoi problemi dei quali egli provava « vergogna », una relazione

soggettiva che lo singolarizzava,  dandogli l’impressione di « non essere come gli  altri ». Anzi

si trattava proprio di de-stigmatizzare, « de-fatalizzare » in maniera dinamica queste situazioni.

        Non si trattava della « povertà nella sua forma economica, culturale e sociale »

(come intende Bourdieu, 1979) che ci interessava, fosse anche essa un potente fattore

determinante per la salute psicologica. Non si trattava neanche di avere uno sguardo

invalidante, squalificante su questi portatori di « tare sociali », cosa che non avrebbe fatto altro

 che accrescere la loro vergogna rispetto ad altri giovani di ambienti diversi.

        Paradossalmente, il sentimento soggettivo di inferiorità, una coscienza identitaria

negativa, la sottovalutazione di se stessi e dei propri familiari, ci sembravano  più in rapporto con

un vissuto traumatico, provocando a volte un’inibizione intellettiva oppure anche un

cortocircuito psicologico attraverso un acting out (passaggio all’atto).

        Al termine di una frequentazione di questo luogo - quasi quotidiana per alcuni – si

constatavano dei cambiamenti di posizione individuale saldatisi con una vergogna d’aver avuto

« vergogna di sè stessi », della propria famiglia e della colpevolezza che ne risultava. Questo

perché non si identificavano i portatori di rischio in salute mentale, cosa che non avrebbe  potuto

 che accrescere la loro disperazione psicologica. Il nostro obbiettivo era più semplicemente

quello di trovar piacere nell' incontrarsi, nel chiacchierare e nel trascorrere un buon momento

insieme. E’ interessante  constatare che era solo dopo cinque o sei anni di funzionamento che

alcuni giovani, superando la vergogna iniziale, osavano domandare per se stessi la possibilità di

incontrare individualmente uno psicoterapeuta per un aiuto personalizzato, e che un

consultorio è stato aperto in un locale contiguo, con un ingresso diverso.

        Migliorare la qualità di un tessuto sociale rispettoso del soggetto, mettere su delle reti di

sostegno e di interaiuto « culturale », in breve, creare un legame sociale affidabile,

appoggiarsi alla potenzialità delle solidarietà « ludiche » laddove ci si sente al sicuro, sono

tutte cose che permettono l’accesso ad un aldilà della vergogna, la quale  si apparenta – causa

le condotte di evitamento che essa genera – a un meccanismo di tipo fobico. Così

 potrebbero essere superati gli effetti cumulativi dello « stress » e dei traumi in rapporto

a condizioni di esistenza difficili, favorendo al contempo l’attitudine al cambiamento.

« Contribuire al sentimento di sicurezza e di amore, dare all’individuo l’impressione di essere

stimato è di un aiuto considerevole » (Kirch, 1983). In breve, il ruolo di sostegno sociale del

 gruppo è considerevole poiché esso interviene su molti aspetti alla volta, contribuendo alla

costruzione della personalità : mantenimento della stima di sè, sentimento di controllo degli

avvenimenti stressanti, sviluppo di modelli e di strategie d’adattamento  alle circostanze

ambientali.

        Il Punto Accoglienza Giovani (PAJ) manteneva un sentimento di appartenenza nei confronti

di un ambiente di vita che sviluppava nuove solidarietà. Era interessante constatare che, quando

i genitori venivano al PAJ, c’era una solidarietà adolescente che formava un gruppo contro gli

adulti che  sconfinavano sul loro territorio.

        Giostrare sulle determinanti non sanitari della salute , in questo caso psico-sociali,

permetteva con un transfert massivo sull’istituzione di migliorare considerevolmente la loro salute

 mentale. Il « ho la vergogna » diveniva la base di una solidarietà che voleva dire : « ho la

vergogna per l’altro », con una fierezza dell’implicazione che cio’ denotava. Offrire all’esterno

del PAJ uno spettacolo culturale contribuiva a solidificare il sentimento di appartenenza ed a

autorizzarsi a invitare altri giovani a parteciparvi. Il sostegno del gruppo permetteva dunque di

superare la vergogna, per rafforzare la gioia di essere se stessi, con la stima per se stessi.

Lasciare le rive della melancolia e della pulsione di morte incontrata nella « vergogna »

permette al gruppo di ritrovare la sua energia combattiva.

 

 La vergogna in situazione

      

 

                Abbiamo constatato questo capovolgimento in due altre situazioni in apparenza

dissimili eppure contigue, incontrate sul terreno : lo sganciamento scolastico e la depressione

post-partum.

 

                Lo sganciamento scolastico è frequente alle nostre latitudini. Si tratta di un evitamento

 scolastico che  termina in rottura. A volte, alcuni anni dopo, un giovane di nuovo motivato, è

 pronto a completare una scolarità interrotta, a colmare le sue lacune per farsi un posto al sole.

E’ così che è nata l’ « auto-scuola », una « scuola della seconda chance », un dispositivo di

recupero scolastico che dura un anno, più raramente due anni, con l’ausilio delle nuove

tecnologie, un recupero in piccoli gruppi con un insegnamento adattato ai bisogni degli studenti.

        Costoro, con i loro insegnanti, erano accolti al di fuori delle ore di apertura abituali

 del PAJ. Insegnanti e allievi partecipavano insieme a dei laboratori di creatività ; sottoposti

alle stesse difficoltà e esigenze nel confronto con la realtà della materia. Questa prossimità

riavvicinava ciascuno creando un legame supplementare che permetteva di superare la

vergogna della situazione del ritorno a scuola all’età in cui la si lascia. La vergogna legata al

dispiacere di questa situazione, il pudore e il senso dell’onore potevano essere allora superati.

Non c’è più un maestro o un allievo, ma solo dei soggetti che cercano insieme come oltrepassare

le difficoltà della creazione. L’attraversamento della vergogna non era più legato ad un

immaginario ingombrante.

       

        Dare la nascita a un bambino è certamente l’atto umano  più commovente e che procura

generalmente molte soddisfazioni. Purtroppo in certe situazioni, dal quindici (15) al venti (20)

per cento (%) dei casi, partorire è totalmente sprovvisto di piacere. Al contrario, può anche

gettare nello sconforto e nella sofferenza. Si può nelle nostre società assumersi la responsabilità

 - senza apparire contro natura, né sconvolgere le norme e le idee ricevute –  di dire la propria

pena in una tale situazione completamente sprovvista di ogni gioia ?

        Conviene qui ricordare che se la depressione del post partum si allevia anche se non si

fa niente in dodici (12) o diciotto (18) mesi, i suoi effetti sul bambino rischiano di essere

indelebili. Qui la vergogna tocca  un tabù sociale, quello del generare, trasmettere la vita anche

a rischio di essere una « cattiva madre » ! Non si può confessare pubblicamente una tale

deficienza, una tale umiliazione, a coloro che si felicitano con voi e vi coprono di regali !

Rivelare un tale segreto, essere fuori norma, sentirsi colpevole contribuiscono all’umiliazione ! La

 vergogna tocca qui anche l’Ideale dell’Io e l’Io Ideale.

 

        Siamo stati contattati dall’Unità Madre-Bambino degli ospedali di Saint Denis da un

gruppo di « nuove madri » che, col favore della partenza per un congedo di maternità della

psicologa che animava la protezione materna e infantile di prossimità, sono venute a trovarci

per chiederci di essere ricevute nell’Ospedale diurno Mamma-Bambino, rifiutando

comunque di incontrare un medico, come è la regola in ambiente ospedaliero ! Malgrado

 l’aspetto paradossale di una tale domanda, abbiamo accettato di invitarle a prendere il tè

(open tea dei nostri colleghi inglesi), tutti i giovedì pomeriggio. La cura in istituzione riposa su

due tempi : un tempo per accogliere un gruppo inquadrato dalle infermiere, puericultrici e

psicologi, e un tempo per un colloquio individuale con uno psicoanalista. La vergogna di dover

confessare il dolore di essere madre e di riconoscersi in una condizione di sofferenza, si

manifestava con un rifiuto di incontrare un terapeuta. Ben inteso le psicopatologie incontrate

in questo gruppo erano simili a quelle delle madri che il riconoscimento di questa sofferenza non

umiliava !

 

        In questo caso, come con gli adolescenti,  si urta contro lo stesso rifiuto attivo di cure che

si manifesta per mascherare una ferita narcisistica occasionata dalla vergogna di non essere

sufficiente a se stesso. Il riconoscimento della sofferenza è vissuto come una umiliazione e

quindi essa è vigorosamente rifiutata a queste età della vita !

In effetti adolescenza e post partum sono dei momenti di rimaneggiamento identitario, di

passaggio, di separazione brutale e di lutto con gli oggetti del passato. Momenti di modifiche

anatomiche e fisiologiche che partecipano alla trasformazione del sentimento di identità e

d’identificazione. Da c l’importanza durante questa traversata di « contenenti », nel senso

di Bion, da mettere in funzione per assorbire l’assalto pulsionale, cosi’ come le modifiche

energetiche e strutturali.

  Foto: R. W. Bion

        La prossimità relazionale Mamma-Bambino e le manifestazioni di sofferenza dei

protagonisti, dà una doppia entrata alla problematica, cosa che permette di moltiplicare

 le vie di approccio.

        E’ così che sono nate, nel quadro di questo Ospedale Diurno, al di là dei pomeriggi

« casa verde » (maison verte) alla Françoise Dolto, diversi club e consulenze : « club bébé »,

« club nuove madri », « club nuovi genitori », all’interno del Servizio Psichiatria, nelle

maternità, o anche al centro città.

        Diversi consultori sono nati : « psicosomatica dei neonati » dedicato ai sintomi e alle

disfunzioni del sonno e dell’alimentazione ; « consultorio genitoriale » che tiene conto delle

 modifiche dell’appetito sessuale, mal vissuto dai padri che ne approfittano per rendersi assenti.

Infine una « consulenza mediatizzata » da operatori sociali - meglio accettata dalle famiglie –

che seguono delle situazioni di sconforto del post partum nei soggetti che rifiutano ogni accesso

alle cure. L’offerta di accompagnamento, « l’aiuto a essere aiutante » proposto dagli operatori

sociali come sostegno, permette di evitare degli acting out intempestivi, quali il ricovero in

ospedale ad ogni costo, o la sottrazione del bambino ai genitori quando si ha l’impressione che

egli sia in pericolo !

        Una constatazione si impone: la frequente opposizione dei nuovi padri nell' accettare

che la loro moglie sia « malata ». Opinione a volte condivisa dal medico di famiglia che

razionalizza, quando non banalizza, gli stati di affaticamento, molto comprensibili, che seguono un

parto. La « malattia » che sfugge al soggetto è vissuta come « estranea a se stesso » ; come un

« esilio da/di se stesso » che non può essere riconosciuto. La vergogna, che traduce lo scacco del

processo di riconoscimento, ne fa una situazione refrattaria al desiderio di cure, come

 anche alla riappropriazione della propria storia.

 

                Vergogna, sentimento di inferiorità e perdita della stima di se stessi – tanto sul piano

 collettivo che individuale – ci fanno confrontare con gli alea del narcisismo infantile di ogni

soggetto, col vissuto di castrazione che può intralciare le realizzazioni intellettuali e sociali,

così come la rappresentazione di sé fino alla perdita della propria auto-stima.

        Cosa ne è allora quando questa fluttuazione immaginaria del sentimento di identità incontra,

 nel reale, delle condizioni esterne traumatiche, cumulative o inter-generazionali sfavorevoli,

che possono comportare una regressione che disorganizza e che conduce alla perdita di se

 stessi ? La frequenza di questi conflitti di maturazione diventa un problema di salute

pubblica, in particolare durante lo sviluppo adolescenziale e all’accesso della funzione materna.

 

Vi ringrazio.


 

[1] « Banlieue », l’insieme dei centri abitati « extra muros » intorno a Parigi


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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