FRENIS zero | ||||||||||||
Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte | ||||||||||||
"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria". N.10, anno V, giugno 2008.
« Ho la vergogna » è un’espressione di gergo familiare dei giovani di « banlieue »[1] che in un certo modo si oppone a un’espressione più familiare come « sono vergognato » o, più semplicemente, « ho vergogna ». La clinica e le istituzioni di cura, come pure le strutture socio-culturali, possono aiutarci a capire meglio, distinguere, sormontare questo significato familiare.
Il sentimento di vergogna ha due versanti : psicologico e sociale. In effetti, « ho vergogna » testimonia di uno stato esterno condiviso, che si indossa, che si subisce, che vi abita malgrado voi, alla maniera di una malattia alla quale non si può sfuggire ! Si tratterebbe di una presa o un’impresa di cui si sarebbe prigioniero, ostaggio. Al contrario essere vergognato è un vissuto, un sentimento, la presa di coscienza di una situazione inconsolabile che ci è sfuggita, di cui paghiamo il prezzo e che richiede riparazione.
Presenterò alcune vignette cliniche per tentare di illustrare queste due dimensioni. Uno studente di 21 anni che ho conosciuto al momento di un attacco delirante durante il quale si prendeva per il diavolo, e aveva un’impressione di ostilità da parte dell'ambiente; uscito da questo stato sintomatico, è attualmente conscio di ciò che gli è successo. Si rende conto con lucidità e su un versante depressivo delle sue difficoltà, in particolare sul piano delle relazioni sociali. E’ giunto in uno stato catastrofico alla sua ultima seduta : « non comando più alla mia bocca che dice delle cose che mi sfuggono ». Questa presa di coscienza che l’ « id » parla malgrado lui, gli è molto sgradevole, e si dice vergognato. Ne approfitta per dirmi al telefono che, per ben tre volte, mi ha mentito l’ultimo anno, riconoscendo dolorosamente, in questa « confessione » la distorsione del suo rapporto con la verità.
Altra situazione. Una psicoterapia d’ispirazione psicoanalitica, vis à vis, si insabbia e gira a vuoto dandomi anche l’impressione di annoiarmi. Sento un blocco che fa ostacolo alla regola del « dire tutto ». Ne parlo con la mia paziente che fa lei stessa la medesima constatazione. Gli propongo allora, tenendo conto del suo rifiuto di stendersi, un « trucco » che mi ha insegnato Françoise Dolto per sbloccare una situazione immobilizzata. Domando allora alla mia paziente di girare la sua sedia per sfuggire al faccia a faccia inibitore. Cosa che fece. La paziente si accascia evocando delle molestie sessuali subite all’età di 10 anni da un amico della famiglia di cui lei si sente ancora, fino ad oggi, ora che è madre di tre figli, ferita, sporcata et vergognata. Questo vissuto, per una cattolica praticante, le avrebbe nascosto (« caché », o rovinato=gaché ?) la vita di coppia e l’accesso ad ogni piacere sessuale. Tutto succedeva, in questa situazione dolorosa, come se l’essere esposta allo sguardo dello psicoterapeuta senza protezione, rivelasse (svelava = double sens de dévoiler) la sua nudità come al tempo delle molestie sessuali. Da qui imbarazzo, goffaggine, inibizione, timidità, vergogna e umiliazione si mescolano. Il suo narcisismo ferito, così come la stima in se stessa, contribuiscono al sentimento di vergogna, di essere diversa, marcata da una tara indelebile.
Un susseguirsi di smacchi nelle sue relazioni amorose conducono Madame B. a consultarmi. Facendole osservare che i suoi numerosi partners sono sempre dei colleghi di lavoro, lei confessa in lacrime di essere stata abusata sessualmente da suo fratello e che non ha mai detto niente « per non provocargli un torto ». Continuava così ad essere prigioniera di un processo ripetitivo di una relazione incestuosa nel suo ambiente di lavoro. La sua vergogna masochista e la perdita della stima di sé, la portano a vivere con un collega di lavoro, che intrattiene, egli stesso, una relazione « platonica » con un’altra collega dello stesso ufficio.
Durante un primo colloquio con un uomo giovane, gli domando se può raccontarmi un sogno recente. Evoca allora un ascensore, senza dire di più. Gli domando allora ingenuamente cosa ne è delle sue relazioni con sua sorella ? Imbarazzato, arrossendo, non sapendo dove mettersi, lui dice che i legami sono rotti da quando adolescente aveva abusato di lei !
Un uomo di età matura mi consulta perché è violento con le sue collaboratrici di lavoro, così come con sua moglie, senza poter controllare i suoi impulsi aggressivi. Ciò resta al livello verbale, ma ha paura di un passaggio all’atto caratterizzato. Mi informa quindi di essere stato abbandonato da sua madre e adottato da una famiglia francese della metropoli, lui stesso essendo di origine di colore. Questa differenza di colore con i suoi genitori adottivi è sempre stato oggetto di imbarazzo, portandolo a volerne a sua madre per averlo abbandonato, e alla sua madre adottiva per averlo accolto. La differenza di pelle non potendo confermare la filiazione. Gli ho fatto notare che dopo tutto sua madre, che avrebbe potuto abortire, ha dovuto amarlo molto per portare a buon termine la sua gravidanza, che malgrado ciò probabilmente le è costato partorire un bimbo e farne dono a una famiglia che gli avrebbe dato probabilmente una vita migliore. La vergogna di essere stato « abbandonato » gli si incolla alla pelle, e diventa una cicatrice indelebile inconsciamente rimproverata a tutte le donne.
Si può, in comunità, confrontarsi col versante sociale della vergogna ? E’ possibile, in modo non conflittuale, essere psicoanalista quando si assumono le funzioni di psichiatra in una comunità dipendente dal servizio pubblico, avendo ugualmente una responsabilità nella prevenzione e nella promozione della salute mentale ? Abituato a lavorare con l’ « uno ad uno », il passaggio al collettivo non è sempre agevole. Tre esperienze mi aiuteranno a testimoniare nel quadro delle mie passate responsabilità in qualità di Capo del Servizio Psichiatrico nel settore degli Ospedali Pubblici di Seine Saint Denis (Francia). Situato nel Dipartimento del Nord di Parigi a grande tasso di immigrazione, settore che accumula gli handicaps sociali e culturali con il più forte tasso di disoccupazione, di assistiti, ma anche di insuccessi scolastici, di violenza dei giovani della regione detta d’Ile de France (la regione che circonda Parigi). Dinanzi alla rarefazione dei consultori ospedalieri destinati agli adolescenti, abbiamo intrapreso – appoggiandoci sul « potere di auto-guarigione » di cui parla Winnicot a tale proposito – di andare incontro a loro aprendo in centro città un luogo di accoglienza indifferenziato nelle ore del dopo scuola, cioè dalle sedici (16h) alle venti (20 h) per i giovani tra i dieci (10) e i venti (20) anni. Questo luogo si chiama Punto Accoglienza Giovani (PAG).
Noi ricevevamo fino ad una cinquantina di giovani al giorno, intorno ad una colazione o a merenda e soprattutto attorno ad attività che favoriscono l’accesso alla cultura. Contrariamente all’abitudine in questo tipo di strutture che dispongono di corsi imposti, le attività messe a disposizione lo erano in seguito alla loro domanda : musica, percussione, danza, teatro, informatica, scrittura…senza dimenticare che vi si potevano anche fare i compiti di scuola. Anche qui ci siamo ispirati a Winnicot che diceva, in « Gioco e realtà », che « sognare, giocare e accedere alla cultura sono le basi sulle quali riposa l’ esperienza culturale ». Foto: D.W. Winnicott Una posizione sociologica potrebbe considerare la popolazione accolta come costituita di « persone a rischio ». Notiamo che non v’è mai stata violenza. Certo ci poteva accadere di riaccompagnare colui che cominciava ad arrabbiarsi verso la porta, raccomandandogli di ritornare, calmatosi, l’indomani ; non essendo in condizione, quest’oggi, di essere accolto ! Abbiamo deliberatamente rinunciato ad adottare una posizione clinica, niente « consulenze » né colloqui individuali sul luogo, anche se il personale di inquadramento era costituito da psicoanalisti e psicologi. Non si trattava neanche di patologizzare o reperire i giovani più fragili sul piano della salute mentale, e neanche di « depistare » una qualsiasi malattia mentale. Un rapporto canadese « Analisi dell’ambiente di salute mentale : problematica e elementi di metodologia » insiste in maniera caricaturale sull’ « importanza dei problemi associati alla salute mentale : un indice di disperazione psicologica elevato (l’insieme di sintomi specifici, di problemi psicologici), circa l’otto per cento (8%) tra di loro hanno disturbi mentali e circa il quattro per cento (4%) hanno avuto idee suicide nel corso degli ultimi dodici (12) mesi. In effetti noi osservavamo dei « momenti » depressivi, ed anche psicotici, ma non l'indomani. Non avevamo neanche un approccio statistico che cercasse di dimostrare che « le persone molto sfavorite presentano un indice di disperazione psicologica due volte piu’ elevato delle persone più fortunate » (trenta per cento – 30% - contro sedici virgola due per cento – 16,2 % -, Lavoie, 1989). Noi non sapevamo niente di loro, se non solo ciò che loro volevano ben dirci, senza interrogarli, neanche sulla loro identità. Era solo dopo un lungo processo di messa in fiducia che si poteva parlare di questioni di maltrattamenti o di relazioni con i giudici dell’infanzia. Alcuni potevano arrischiarsi a confessare un più debole livello scolastico, un insuccesso in francese o in matematica, ed anche una grande, una molto grande povertà. Ciò che ci interessava era di incontrare non un problema, ma un soggetto nel gruppo, qualunque fossero stati i suoi problemi dei quali egli provava « vergogna », una relazione soggettiva che lo singolarizzava, dandogli l’impressione di « non essere come gli altri ». Anzi si trattava proprio di de-stigmatizzare, « de-fatalizzare » in maniera dinamica queste situazioni. Non si trattava della « povertà nella sua forma economica, culturale e sociale » (come intende Bourdieu, 1979) che ci interessava, fosse anche essa un potente fattore determinante per la salute psicologica. Non si trattava neanche di avere uno sguardo invalidante, squalificante su questi portatori di « tare sociali », cosa che non avrebbe fatto altro che accrescere la loro vergogna rispetto ad altri giovani di ambienti diversi. Paradossalmente, il sentimento soggettivo di inferiorità, una coscienza identitaria negativa, la sottovalutazione di se stessi e dei propri familiari, ci sembravano più in rapporto con un vissuto traumatico, provocando a volte un’inibizione intellettiva oppure anche un cortocircuito psicologico attraverso un acting out (passaggio all’atto). Al termine di una frequentazione di questo luogo - quasi quotidiana per alcuni – si constatavano dei cambiamenti di posizione individuale saldatisi con una vergogna d’aver avuto « vergogna di sè stessi », della propria famiglia e della colpevolezza che ne risultava. Questo perché non si identificavano i portatori di rischio in salute mentale, cosa che non avrebbe potuto che accrescere la loro disperazione psicologica. Il nostro obbiettivo era più semplicemente quello di trovar piacere nell' incontrarsi, nel chiacchierare e nel trascorrere un buon momento insieme. E’ interessante constatare che era solo dopo cinque o sei anni di funzionamento che alcuni giovani, superando la vergogna iniziale, osavano domandare per se stessi la possibilità di incontrare individualmente uno psicoterapeuta per un aiuto personalizzato, e che un consultorio è stato aperto in un locale contiguo, con un ingresso diverso. Migliorare la qualità di un tessuto sociale rispettoso del soggetto, mettere su delle reti di sostegno e di interaiuto « culturale », in breve, creare un legame sociale affidabile, appoggiarsi alla potenzialità delle solidarietà « ludiche » laddove ci si sente al sicuro, sono tutte cose che permettono l’accesso ad un aldilà della vergogna, la quale si apparenta – causa le condotte di evitamento che essa genera – a un meccanismo di tipo fobico. Così potrebbero essere superati gli effetti cumulativi dello « stress » e dei traumi in rapporto a condizioni di esistenza difficili, favorendo al contempo l’attitudine al cambiamento. « Contribuire al sentimento di sicurezza e di amore, dare all’individuo l’impressione di essere stimato è di un aiuto considerevole » (Kirch, 1983). In breve, il ruolo di sostegno sociale del gruppo è considerevole poiché esso interviene su molti aspetti alla volta, contribuendo alla costruzione della personalità : mantenimento della stima di sè, sentimento di controllo degli avvenimenti stressanti, sviluppo di modelli e di strategie d’adattamento alle circostanze ambientali. Il Punto Accoglienza Giovani (PAJ) manteneva un sentimento di appartenenza nei confronti di un ambiente di vita che sviluppava nuove solidarietà. Era interessante constatare che, quando i genitori venivano al PAJ, c’era una solidarietà adolescente che formava un gruppo contro gli adulti che sconfinavano sul loro territorio. Giostrare sulle determinanti non sanitari della salute , in questo caso psico-sociali, permetteva con un transfert massivo sull’istituzione di migliorare considerevolmente la loro salute mentale. Il « ho la vergogna » diveniva la base di una solidarietà che voleva dire : « ho la vergogna per l’altro », con una fierezza dell’implicazione che cio’ denotava. Offrire all’esterno del PAJ uno spettacolo culturale contribuiva a solidificare il sentimento di appartenenza ed a autorizzarsi a invitare altri giovani a parteciparvi. Il sostegno del gruppo permetteva dunque di superare la vergogna, per rafforzare la gioia di essere se stessi, con la stima per se stessi. Lasciare le rive della melancolia e della pulsione di morte incontrata nella « vergogna » permette al gruppo di ritrovare la sua energia combattiva.
Abbiamo constatato questo capovolgimento in due altre situazioni in apparenza dissimili eppure contigue, incontrate sul terreno : lo sganciamento scolastico e la depressione post-partum.
Lo sganciamento scolastico è frequente alle nostre latitudini. Si tratta di un evitamento scolastico che termina in rottura. A volte, alcuni anni dopo, un giovane di nuovo motivato, è pronto a completare una scolarità interrotta, a colmare le sue lacune per farsi un posto al sole. E’ così che è nata l’ « auto-scuola », una « scuola della seconda chance », un dispositivo di recupero scolastico che dura un anno, più raramente due anni, con l’ausilio delle nuove tecnologie, un recupero in piccoli gruppi con un insegnamento adattato ai bisogni degli studenti. Costoro, con i loro insegnanti, erano accolti al di fuori delle ore di apertura abituali del PAJ. Insegnanti e allievi partecipavano insieme a dei laboratori di creatività ; sottoposti alle stesse difficoltà e esigenze nel confronto con la realtà della materia. Questa prossimità riavvicinava ciascuno creando un legame supplementare che permetteva di superare la vergogna della situazione del ritorno a scuola all’età in cui la si lascia. La vergogna legata al dispiacere di questa situazione, il pudore e il senso dell’onore potevano essere allora superati. Non c’è più un maestro o un allievo, ma solo dei soggetti che cercano insieme come oltrepassare le difficoltà della creazione. L’attraversamento della vergogna non era più legato ad un immaginario ingombrante.
Dare la nascita a un bambino è certamente l’atto umano più commovente e che procura generalmente molte soddisfazioni. Purtroppo in certe situazioni, dal quindici (15) al venti (20) per cento (%) dei casi, partorire è totalmente sprovvisto di piacere. Al contrario, può anche gettare nello sconforto e nella sofferenza. Si può nelle nostre società assumersi la responsabilità - senza apparire contro natura, né sconvolgere le norme e le idee ricevute – di dire la propria pena in una tale situazione completamente sprovvista di ogni gioia ? Conviene qui ricordare che se la depressione del post partum si allevia anche se non si fa niente in dodici (12) o diciotto (18) mesi, i suoi effetti sul bambino rischiano di essere indelebili. Qui la vergogna tocca un tabù sociale, quello del generare, trasmettere la vita anche a rischio di essere una « cattiva madre » ! Non si può confessare pubblicamente una tale deficienza, una tale umiliazione, a coloro che si felicitano con voi e vi coprono di regali ! Rivelare un tale segreto, essere fuori norma, sentirsi colpevole contribuiscono all’umiliazione ! La vergogna tocca qui anche l’Ideale dell’Io e l’Io Ideale.
Siamo stati contattati dall’Unità Madre-Bambino degli ospedali di Saint Denis da un gruppo di « nuove madri » che, col favore della partenza per un congedo di maternità della psicologa che animava la protezione materna e infantile di prossimità, sono venute a trovarci per chiederci di essere ricevute nell’Ospedale diurno Mamma-Bambino, rifiutando comunque di incontrare un medico, come è la regola in ambiente ospedaliero ! Malgrado l’aspetto paradossale di una tale domanda, abbiamo accettato di invitarle a prendere il tè (open tea dei nostri colleghi inglesi), tutti i giovedì pomeriggio. La cura in istituzione riposa su due tempi : un tempo per accogliere un gruppo inquadrato dalle infermiere, puericultrici e psicologi, e un tempo per un colloquio individuale con uno psicoanalista. La vergogna di dover confessare il dolore di essere madre e di riconoscersi in una condizione di sofferenza, si manifestava con un rifiuto di incontrare un terapeuta. Ben inteso le psicopatologie incontrate in questo gruppo erano simili a quelle delle madri che il riconoscimento di questa sofferenza non umiliava !
In questo caso, come con gli adolescenti, si urta contro lo stesso rifiuto attivo di cure che si manifesta per mascherare una ferita narcisistica occasionata dalla vergogna di non essere sufficiente a se stesso. Il riconoscimento della sofferenza è vissuto come una umiliazione e quindi essa è vigorosamente rifiutata a queste età della vita ! In effetti adolescenza e post partum sono dei momenti di rimaneggiamento identitario, di passaggio, di separazione brutale e di lutto con gli oggetti del passato. Momenti di modifiche anatomiche e fisiologiche che partecipano alla trasformazione del sentimento di identità e d’identificazione. Da ciò l’importanza durante questa traversata di « contenenti », nel senso di Bion, da mettere in funzione per assorbire l’assalto pulsionale, cosi’ come le modifiche energetiche e strutturali. Foto: R. W. Bion La prossimità relazionale Mamma-Bambino e le manifestazioni di sofferenza dei protagonisti, dà una doppia entrata alla problematica, cosa che permette di moltiplicare le vie di approccio. E’ così che sono nate, nel quadro di questo Ospedale Diurno, al di là dei pomeriggi « casa verde » (maison verte) alla Françoise Dolto, diversi club e consulenze : « club bébé », « club nuove madri », « club nuovi genitori », all’interno del Servizio Psichiatria, nelle maternità, o anche al centro città. Diversi consultori sono nati : « psicosomatica dei neonati » dedicato ai sintomi e alle disfunzioni del sonno e dell’alimentazione ; « consultorio genitoriale » che tiene conto delle modifiche dell’appetito sessuale, mal vissuto dai padri che ne approfittano per rendersi assenti. Infine una « consulenza mediatizzata » da operatori sociali - meglio accettata dalle famiglie – che seguono delle situazioni di sconforto del post partum nei soggetti che rifiutano ogni accesso alle cure. L’offerta di accompagnamento, « l’aiuto a essere aiutante » proposto dagli operatori sociali come sostegno, permette di evitare degli acting out intempestivi, quali il ricovero in ospedale ad ogni costo, o la sottrazione del bambino ai genitori quando si ha l’impressione che egli sia in pericolo ! Una constatazione si impone: la frequente opposizione dei nuovi padri nell' accettare che la loro moglie sia « malata ». Opinione a volte condivisa dal medico di famiglia che razionalizza, quando non banalizza, gli stati di affaticamento, molto comprensibili, che seguono un parto. La « malattia » che sfugge al soggetto è vissuta come « estranea a se stesso » ; come un « esilio da/di se stesso » che non può essere riconosciuto. La vergogna, che traduce lo scacco del processo di riconoscimento, ne fa una situazione refrattaria al desiderio di cure, come anche alla riappropriazione della propria storia.
Vergogna, sentimento di inferiorità e perdita della stima di se stessi – tanto sul piano collettivo che individuale – ci fanno confrontare con gli alea del narcisismo infantile di ogni soggetto, col vissuto di castrazione che può intralciare le realizzazioni intellettuali e sociali, così come la rappresentazione di sé fino alla perdita della propria auto-stima. Cosa ne è allora quando questa fluttuazione immaginaria del sentimento di identità incontra, nel reale, delle condizioni esterne traumatiche, cumulative o inter-generazionali sfavorevoli, che possono comportare una regressione che disorganizza e che conduce alla perdita di se stessi ? La frequenza di questi conflitti di maturazione diventa un problema di salute pubblica, in particolare durante lo sviluppo adolescenziale e all’accesso della funzione materna.
Vi ringrazio.
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