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"Apeiron". Tra psicoanalisi e religiosità.

 

 

 

  IL GRANDE SILENZIO ("Die grosse Stille" 2006) di Groening

 

 

      

 Recensione di Ambra Cusin  

 

 

 Ambra Cusin è psicologa, psicoanalista , Membro Associato della Società Psicoanalitica Italiana e vive a Trieste. Ha creato un  Gruppo di lavoro nell'"ambulatorio per lo straniero" di Trieste, organizzando a Gorizia, nel novembre 2001, il Convegno "Vicissitudini dell'identità nell'incontro tra culture". Appassionata di cinema, a Gorizia ha organizzato insieme a Cristina Bertogna, a partire dal febbraio 2006, la seconda rassegna di psicoanalisi e cinema dal titolo "L'inquietante enigma che ci abita. L'identità tra verità e bugia".


                             

                     

 

"Mi hai sedotto Signore, ed io mi sono lasciato sedurre” (Geremia 20,7) recita una didascalia che appare a tutto schermo, ripetutamente, durante il film. E lentamente noi veniamo sedotti… e i monaci sembrano dirci, senza parole, ma con i loro semplici gesti, che per essere "sedotti" dal Signore si deve “sospendere ogni parola, rumore, suono…”.

“Die grosse Stille” (Il grande Silenzio) è uscito nelle sale cinematografiche italiane in primavera.

Un film, non documentario ma a suo modo descrittivo, che ha una capacità di coinvolgimento da superare, a mio avviso,  ogni aspettativa dello spettatore. Dura quasi due ore e tre quarti, e in questo tempo i dialoghi si riducono a una manciata di minuti in tutto. Il resto è appunto un “grande silenzio”.

Il film infatti sembra permettere allo spettatore un’esperienza di silenzio condiviso con quello dei monaci che facilita paradossalmente un incontro con se stessi. Ci si mette nelle mani del regista fidandosi di lui! Nulla apparentemente cambia nella vita del monastero tranne il ritmo delle stagioni.

Groening si era già recato nel 1984 presso un antico monastero di  monaci francesi  chiedendo loro il permesso di effettuare delle riprese per il suo progetto. I religiosi però gli negarono allora il permesso di filmare e descrivere la vita all'interno del convento motivando questa loro decisione con la semplice affermazione che i tempi non erano ancora maturi.

Viene da chiedersi: maturi per chi? Per i monaci o per noi che avremmo visto poi il film? Personalmente dopo aver visto Il grande Silenzio sono convinta che i tempi non erano maturi per noi, forse la nostra società doveva fare certe esperienze per potersi permettere due ore e mezza di silenzio al cinema!

 

“L'approccio verso la spiritualità di noi occidentali” dice il regista, “è spesso molto negativo in quanto vogliamo cercare di raggiungere la parte più profonda di noi stessi per mettere in moto un cambiamento radicale, in grado di renderci molto diversi da quello che siamo. Questo in parte è dovuto al fatto che comunque abbiamo un atteggiamento conflittuale con la nostra religione, mentre ad esempio non ho contrasti” continua il regista “con lo sciamanesimo e per questo non ho alcuna difficoltà ad accettare quello che viene proposto sullo schermo. Ma è importante rapportarsi con il sistema entro il quale si viene allevati”.

Credo anch’io che siamo più facilmente disponibili a tollerare, ed apprezzare, la visione di un monastero buddista, molto lontano da noi, piuttosto che confrontarci con dei certosini che provengono e sono cresciuti nella nostra cultura e lasciano il nostro mondo occidentale, con le sue seduzioni ma anche con i suoi piaceri e le sue comodità, per chiudersi in uno spazio fisicamente ristretto dove però incontrare spazi di interiorità forse ben più ampi dei nostri…

Il fascino apparentemente contradditorio di questo film, che sembra portarci in un mondo lontano, passato, senza tecnologia, è incontrare delle brevi sequenze che ci ricordano che questi monaci sono uomini del nostro tempo: c’è un aereo che vola e sappiamo che uno dei monaci deve viaggiare fino ad una città dell’Asia, c’è un’ autovettura che passa, c’è un computer (?) che il monaco ragioniere sembra utilizzare (e ci si chiede se usano internet…ma non lo si può sapere), ci sono dei giovani che chiacchierano allegramente in uno spazio aperto… c’è la nostra vita fuori dal monastero, ma c’è vita anche dentro…una vita diversa, con una logica diversa, che forse possiamo non condividere, ma che ha diritto di esistere poichè qualcuno l’ha liberamente desiderata e scelta.

 

Il film non è un documentario verità che cerca di  analizzare la personalità o i motivi che hanno spinto i monaci a scegliere questa vita. Ciò che il film mostra è  la semplicità della loro esistenza, i loro volti sereni, come sorpresi, come fossero dei bambini curiosi  di fronte alla macchina da presa. Non sentiamo i loro dialoghi, perché non ci sono praticamente dialoghi in questo stile di vita. Li sentiamo invece cantare e l'unico ad avere la parola è un anziano monaco non vedente che verso la fine del film afferma: "Non bisogna avere paura della morte. Più ci si avvicina a Dio, più si è felici".

Il regista ci propone un’osservazione, senza commenti, senza giudizi, lasciando a noi, alle nostre impressioni, alle nostre emozioni il piacere di mettere parole, se ci riusciamo, laddove c’è solo lo spazio/tempo di un pensiero.

Durante tutto il film, mai accompagnato da una colonna sonora, possiamo  apprezzare la semplicità dei suoni che caratterizzano l'operosa attività del convento: dalla salmodia alle forbici che tagliano la lana, da una pala che scava nella neve friabile ai passi dei monaci nel chiostro.

Il resto è un “grande silenzio”.

 

Il film è girato nel monastero  fondato da San Bruno di Colonia nel 1084, nei pressi di Grenoble (Francia) nella valle Chartreuse, una valle stretta e  quasi inaccessibile a 1200 mt. di altitudine.

 

Da mille anni dunque il monastero è abitato da monaci che conducono una vita solitaria, non cenobitica, caratterizzata dal silenzio e dalla preghiera.

Andare a vedere questo film è permettersi un’esperienza. Trovo infatti che si possa sperimentare nel silenzio della sala cinematografica, il silenzio, saturo del senso di ricerca di Dio, ma con i suoi inevitabili contenuti di angoscia e di noia, come anche di pace e serenità, che i monaci vivono, accompagnati dal ritmo e dalla ripetizione delle pratiche quotidiane e delle preghiere che a volte sono quasi ossessive e sconvolgenti.

Si ha la sensazione, anche corporea, durante la visione del film  di poter partecipare per  un attimo alla loro vita, dedicata tutta al Signore (al Dio in cui credono) per cercarlo nel silenzio, per trovarlo al fondo di se stessi e nella quotidianità delle piccole cose essenziali.

Questo film, che procede senza interruzioni e senza che lo spettatore se ne renda conto, appare come  una descrizione, molto rispettosa, di un'esperienza religiosa, una delle tante possibili, e ci dice qualcosa sulla religiosità (che deriva da relegere ovvero "raccogliere ordinatamente tutto ciò che si riferisce al culto degli dei", compreso ciò che riguarda la disciplina monastica - non solo cristiana ovviamente ma anche da religare ovvero legare strettamente , in questo caso attraverso la religione, un legame con gli dei). Una religiosità appunto che “lega” l’uomo alla divinità attraverso il linguaggio dell’interiorità.

Credo che in questo film si veda, o meglio si percepisca quasi sensorialmente (siamo costretti paradossalmente ad utilizzare l’udito per sentire l’assenza di suoni a cui siamo avezzi) questo potente legame che c'è tra i monaci e il loro dio. Un legame fatto di essenzialità, solitudine, preghiera, lavoro, lettura, riflessione, assenza di contatti con il mondo esterno (isolamento), forte contatto con la natura, valorizzazione dei piccoli gesti quotidiani e forse tanto altro ancora.

“La nostra principale occupazione, la nostra vocazione è di vivere nel silenzio e nella solitudine della cella; quest’ultima è necessaria alla nostra vita come l’acqua per i pesci” (dagli Statuti dell’Ordine dei Certosini, cap. XIV)

“La solitudine, che è un silenzio esteriore, favorisce lo sviluppo del silenzio interiore, che è indispensabile per la vita di contemplazione, e la vita contemplativa è prestare orecchio alla voce di Dio che parla nell’intimo del cuore” (parafrasi della descrizione della vita dei monaci certosini estratta dalla guida alla Certosa di Pavia).

 

Un consiglio: dopo aver visto il film concedetevi una visita alla Certosa di Pavia, visitate la splendida chiesa, ma soprattutto il grande  chiostro e le celle-abitazioni individuali dei monaci.

Prima di concludere: c’è da chiedersi come mai tante persone vadano  a vedere questo film.

Si tratta solo di curiosità?  Cosa si cerca in questa esperienza di assenza di parole? C’è oggi bisogno, ma contemporaneamente timore e angoscia, del silenzio?

Nella stanza d’analisi spesso c’è silenzio, proprio per permettere di avvicinarsi all’incontro con se stessi… come studiosi della mente forse questo è un film da vedere e da godere.

C’è tanto del nostro lavoro in quella quotidianità semplice dei monaci: nella ripetizione, nel ritmo… nel silenzio…

 

 

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

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Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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