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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria". N.10, anno V, giugno 2008.

    "INVISIBILITA' DI UN DISAGIO"

 

di Ambra Cusin

 

 Questo testo è stato presentato dall'autrice al convegno internazionale "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" (Lecce, 5 aprile 2008). Ambra Cusin è psicoanalista associato della Società Psicoanalitica Italiana e risiede a Trieste.

Foto: Ambra Cusin nel corso della sua relazione nell'ambito della tavola rotonda "La Psicoanalisi e i disagi delle civiltà mediterranee" che ha visto la partecipazione anche di Nicole Janigro e di Manuela Avakian ( convegno "Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" - Lecce, 5 aprile 2008).

 

 

 

 


 

 

 

 

         

Innanzitutto voglio ringraziare Giuseppe Leo per avermi invitata a questo convegno e avermi offerta così la possibilità di visitare, almeno per un attimo, la vostra bella città che non conoscevo. Lui si è fidato di me e spero di potervi interessare con alcune riflessioni che l’anno scorso avrebbero voluto concentrarsi su alcune tematiche e che poi nel tempo, grazie anche ad avvenimenti di non poco conto, si sono modificate nella mia mente. Per cui perdonatemi se il mio intervento sarà diverso da quello che l’abstract prometteva!

 

<<Un dio nella sua mira ci ha condotto in altre terre, fra altre genti; ciò che da noi era giusto, qui lo si ritiene ingiusto, ciò che era lecito lo si punisce con rancore.>> (1994, 35)

Parla così la Medea di Grillparzer, scrittore viennese vissuto nell’800 e tradotto da Claudio Magris, famoso germanista e mio stimato concittadino.

Ascoltiamole le parole di Medea, mitica figura, emblema della donna straniera negletta e perseguitata, portatrice di una cultura temibile perché barbara, sconosciuta e dunque paurosa. Chi ha visto il film di Pasolini con la splendida Callas quasi muta, ricorderà con orrore la scena in cui Medea viene spogliata dalle sue vesti scure come la sua Colchide per essere vestita dagli abiti della bella e civile Corinto.

Parlare oggi di migranti significa spesso parlare di disagio economico, di sicurezza, di instabilità sociale. Significa ascoltare servizi, sempre uguali, su persone  che vive o morte, approdano sulle nostre coste meridionali o guardare, senza che nessuno lo scriva sui giornali, le scarpe e gli abiti abbandonati sui sentieri nascosti del Carso triestino dai poveracci che, di notte, accompagnati da passeur senza scrupoli, arrivavano fino a qualche mese fa, nella mia terra, affamati, infreddoliti e spaventati per aggirarsi poi per le vie cittadine chiedendo l’elemosina o, i più fortunati accedendo alla mensa della Caritas o ai tanti generosi servizi e sportelli cittadini.

 

 

Nessuno ci parla di quell’ angoscia che attanaglia un gruppo consistente di persone de-umanizzate, schiavizzate, private, per motivi geopolitici ed economici, della loro patria. Nessuno affronta un disagio che potremmo definire invisibile, che non possiamo codificare banalmente con i nostri manuali, che non ha a che fare con l’infanzia e i suoi traumi, così come siamo abituati a pensare, né con strutturazioni della mente che si sono frantumate dando origine a svariate patologie dai nomi roboanti. C’è un dolore che è fatto di traumi per noi, italiani del 2000, impensabile. Vi leggo due righe di Chiara Ingrao estratte dal libro “Il resto è silenzio”  in cui accenna ad un’amica che vive a Gerusalemme:

<<Prova a immaginare, ha detto. Cosa? Di esserci tu, su quell’autobus in cui si nasconde una cintura. O piuttosto: di non sapere mai se ci sei o no. Se lui salirà proprio sul tuo bus, proprio oggi. O su quello prima, o su quello dopo. Prova a immaginarlo, ha ripetuto. E quell’invito a immaginare, così insidioso e insistente, non ha mai più smesso di tormentarmi, da quel giorno: ogni volta che salgo su un autobus. Anche oggi. Anche ora… Guardati intorno, e pensaci. Quella signora laggiù, per esempio: sempre truccata, sempre sorridente… Ogni giorno, posi su di lei uno sguardo inquieto. Ogni giorno lei ricambia, come una complice. Non è lei, ti dici. E lei pensa lo stesso di te: non è lei. Non lei, né l’impiegato  stempiato, carico di carte. Né lo studente brufoloso, dallo sguardo imbronciato….: piccoli segnali reciproci, di una quotidianità immutabile e rassicurante.

Finché un giorno, l’impiegato si china di scatto ad aprire una borsa. O è lo studente che porta un giaccone più largo del solito. O la signora, molto banalmente, si è tagliata i capelli. Non sembra più tanto signora, adesso. Ha uno sguardo giovane. E determinato, per la prima volta. Così tu, una mattina, incroci quello sguardo: e sobbalzi… Basta quel pensiero… Basta pensarlo una volta.>> (2007, 15-16)

E poi c’è un dolore che non è fatto solo di traumi subiti lì e allora, causato da guerre e indigenza, ma che è oggi traumatico, è oggi frutto di torture che noi stessi continuiamo a perpetrare nella nostra incapacità, forse a volte innocente, più spesso socialmente e politicamente colpevole, a saper accogliere e ascoltare.

 

<<… i medici… non hanno rimedi contro l’esilio, contro la solitudine… Bisogna dire che la nostra è una solitudine speciale, è pesante e straniera…>> scrive Tahar Ben Jelloun. (1975,90)

La relazione con lo straniero è difficile anche per noi, conoscitori presunti delle profondità della mente, di quegli  strumenti inventati nel nostro contesto culturale per sondare il dolore dell’essere umano, strumenti spesso assolutamente inutili per avvicinare la tristezza a noi sconosciuta di corpi, occhi, mani, cuori che hanno visto ciò che per noi è impensabile: guerre, miseria vera, devastazioni, fame, mancanza assoluta di progettualità, persecuzioni, umiliazioni, stupri, violenza fine a se stessa o, peggio, politicamente organizzata e agita.

<<… quando ci chiudiamo in quei bar tristi per bere, non è per dimenticare ma per avere noi stessi l’impressione di esistere almeno un po’. Ecco cos’è la tristezza, compagno. Dei corpi che si fessurano. Corpi pieni di cenere. In fondo, ma proprio in fondo, c’è del fuoco…>> (Ben Jelluon, 1975,39)

Vorrei che questo fuoco potesse riscaldarci e invece temo che ci incendierà, come è avvenuto nelle banlieu parigine.

Mi sento assolutamente sprovvista di strumenti “tecnico-metodologici” per affrontare questa disperazione e trovo che questa mia impotenza, questa incapacità, se assunta umilmente possa divenire l’unica speranza per entrare in contatto, per porsi in ascolto in semplicità di queste persone.
Ci manca anche la possibilità di assumerci il carico di trasformare i molti linguaggi della terra che oggi ci interrogano nella quotidianità e per farvi comprendere cosa intendo mi piace riportare un breve passaggio del libro della Avakian “Una terra per Siran” qui presente: <<Una volta Siran aveva chiesto alla madre quale fosse l’equivalente di questo famoso principe (azzurro)
[1] in armeno. Malgrado la ricerca capillare nella ricca biblioteca di casa Hagopian, la risposta non fu mai trovata: c’erano “il figlio del re”, “il principe reggente” ma quello “azzurro”, quello sognato e atteso da tutte le donne del mondo non c’era: d’altronde, anche la storia di un popolo contribuisce ad arricchire o impoverire la sua lingua e quella degli Armeni  forse non aveva concesso spazio a questo sogno al femminile>> (2003,16-17).

La lingua dunque degli Armeni non concede spazio al sogno femminile del principe azzurro!

Non è una stupidaggine. Certi concetti, un determinato modo di pensare si struttura al nostro interno attraverso anche queste immagini che essendo intraducibili vengono a costituire dei vuoti incolmabili. Faccio un’ulteriore digressione per mostrarvi come solo gli artisti riescono a farci capire con le loro belle immagini, certi argomenti difficilmente descrivibili. Per esempio: tempo e spazio. La Avakian sempre nel suo libro in poche battute ci fornisce il senso di una diversità, in questo caso rispetto al concetto di tempo[2], di cui tenere conto. Una diversità che è ricchezza per tutti perché permette di pensare, riflettere invece che lasciarci vivere totalmente autocentranti, convinti che il nostro sia l’unico vertice di osservazione possibile. In queste brevi righe, riportate nella nota, viene racchiuso e sintetizzato quello che io vi descriverei noiosamente in tre pagine!

 

Trieste, “la città più mediterranea del nord Italia” come la definisce il National Geographic nel recente lungo articolo del novembre 2007, è una città da sempre multietnica: ci sono molte chiese di diverse fedi religiose tra le quali la più grande sinagoga d’Europa. La ricchezza a cui Trieste ha avuto accesso nell’800 e nei primi anni del ‘900 ha origine dall’incontro fecondo tra popoli, culture, religioni diverse. Da sempre nella mia città i dialetti e le lingue si mescolano e forse è anche per questo che è la prima città italiana in cui è arrivata la psicoanalisi. Perché è stata una città aperta al nuovo e che oggi, a fatica, tenta di recuperare questa sua vocazione. Per esempio a Trieste da 25 anni c’è una sede del Collegio del Mondo Unito che raccoglie giovani provenienti dai diversi paesi della terra  e che è stato fondato sulle idee dell’educatore tedesco Kurt Hahn, che dinanzi alla carneficina della Grande Guerra maturò l’idea di una scuola dove i giovani potessero essere educati alla comprensione ed al rispetto[3], unico modo — a suo avviso — per evitare che simili follie andassero a ripetersi.

  Foto: una veduta di Trieste

<<Una città che meglio di tutte racchiude in sé l’esilio e l’estraneità, la solitudine e la diversità…>> dice  Jan Morris (pag. 58) un’autrice gallese dei libri di viaggio più belli della letteratura anglosassone <<una città in cui rimpianti, speranze e splendidi ricordi si fondono…>>

Oggi come un tempo sloveni, croati, serbi, bosniaci, kossovari, albanesi, ebrei, romeni, ungheresi, cechi, slovacchi, austriaci, tedeschi, armeni, greci, macedoni, montenegrini si incontrano e lavorano fianco a fianco nei settori che gli sono propri. Da sempre per esempio a Trieste nell’edilizia sono molto stimati i lavoratori serbi.

 

Eppure, nonostante la nostra storia, continuiamo ad aver paura di Medea…

Quello che io oggi vorrei condividervi è un punto di vista particolare per guardare alle diverse identità mediterranee, è lo sguardo di una psicoanalista che utilizza questo vertice osservativo non solo nella stanza di analisi, ma cerca di sfruttarne le potenzialità al di là del lettino.

 

Come ho accennato prima, provengo da una terra di confine, anzi un luogo in cui il confine è un topos rilevante, un luogo che non è solo uno spazio esterno, ma è un luogo della mente pieno di ricordi, di rappresentazioni.

 

 

In quest’anno si sta festeggiando l’entrata della Slovenia in Europa. Al 20 dicembre 2007 la frontiera tra Italia e Slovenia è caduta fornendo alla nostra terra spazi notevolmente più ampi e quindi, in quanto “assenza”, il confine sta permettendo la nascita di ulteriori pensieri e rappresentazioni.

 

 

<<Gli esseri umani creano dei confini per spiegare ciò che percepiscono, ma anche per difendersi dall’angoscia del terrore di vivere in un mondo infinito e senza limiti>> dice Lawrence (1988,17)

Vi ho fatto  vedere sullo sfondo una breve immagine di com’era indicato, fino a qualche mese fa, il confine su qualsiasi strada o sentiero del Carso triestino. Noi eravamo abituati ad arrivare sul margine tra i due stati per guardare oltre senza poterlo oltrepassare. Quand’ero bambina oltre il confine c’erano dei militari nascosti, i così detti “graniciari”,  che intimavano l’alt a chiunque osasse attraversare. Fino a qualche mese fa, di notte, gruppuscoli di immigrati lo oltrepassavano guidati dai passeurs. Strade che oggi sono luogo di incontro per gli amanti delle passeggiate, erano un tempo importanti strade di collegamento tra l’entroterra e il porto di Trieste, per portare le merci in città e per raggiungere Vienna dal mare.  Con i confini stabiliti dopo gli eventi della  2 guerra mondiale, ovunque si trovavano dei cippi che segnavano il margine tra Italia e Jugoslavia un tempo, Slovenia oggi.

Più volte mi sono chiesta cosa succederà nella nostra cultura, nel nostro modo di pensare con la caduta di questo confine[4]. Certo la facilità di passaggio che oggi ci è data e che per la verità abbiamo già sperimentato in questi ultimi anni, la permeabilità tra luoghi e culture diverse sta entrando nel nostro immaginario.

Le tradizioni di diverse culture hanno, in una terra di confine, un luogo intermedio di sperimentazione continua, di miscugli creativi, di profumi e sapori/saperi che si sposano e configgono assieme. Tutto il nostro dialetto è infarcito di Mitteleuropea, di Alpeadria come si preferisce dire oggi. Tra gnocchi de gries e jota, tra presnitz e putize, minestra de bobici, ghibanize e kren[5], si incontrano e si scontrano suoni impronunciabili per persone che qui non sono nate e cresciute.

Guardando ai confini esterni e ai drammi che su quella linea, oggi eliminata, si sono svolti, viene a me, in quanto psicoanalista, da pensare ai confini interni alla personalità, a ciò che distingue le emozioni tra loro, a ciò che permette di differenziare e, a volte purtroppo, di isolare, di chiudere, segregare, in zone inavvicinabili, insondabili, gli affetti, le emozioni e i sentimenti.

In particolare voglio proporvi una riflessione sotto forma di quesito, per il quale non ho una risposta, ma che voglio tenere sospeso nella mia mente per vedere cosa produce nell’incontro tra me e voi.

La caduta di un confine geografico rappresenta in genere un momento di gioia e di speranza per le popolazioni.

 

Si pensi alla nostra Europa in cui non ci sono confini, nella quale i giovani e tutti noi possiamo scorazzare liberamente per motivi di studio, di lavoro, di svago utilizzando una stessa moneta.

La caduta di una frontiera è un momento di incontro, di confronto, di stimolo tra culture e storie diverse. Un’opportunità per dar vita a maggiori solidarietà e spunti di collaborazione. In merito ho portato qui per chi fosse interessato un’intervista al mio concittadino Boris Pahor, conosciuto per l’intervista fattagli da Fazio qualche settimana fa e soprattutto per il libro "Necropoli".

Foto: Boris Pahor

L’eliminazione di un confine segnala il miglioramento  della comunicazione, la caduta di barriere e differenze. Ma comporta anche dei disorientamenti, degli squilibri, quella rottura dello stereotipo di cui parla Bleger (1966), di quelle “rigidità” ormai assodate su cui fondiamo una sicurezza fasulla. In merito si pensi alle opportunità e alle conseguenze politiche, soprattutto in Europa,ma anche ai conflitti, avvenuti in seguito alla caduta di quel muro di Berlino, simbolo di un confine rigido e invalicabile.

Esistono però anche i confini interiori, interni alla mente, dove la mente è un organo che però, a differenza di un polmone, non possiamo vedere e toccare. La nostra identità è delineata da un confine che le conferisce forma e come la pelle contiene il corpo così, questo confine contiene l’identità; che nel tempo si amplia, si sviluppa o si restringe, si struttura o destruttura, si compatta o si frammenta. Il confine, come dice Bertogna[6], << ha un ruolo dinamico, è un’entità viva che si crea e si trasforma nel tempo>>.

 

Chiediamoci: cosa accade se a cadere è un confine interno alla persona, un confine che segna un limite, una differenziazione tra i diversi aspetti della personalità, tra l’odio e l’amore, tra le parti vitali e quelle distruttive del Sé, tra il principio del piacere e il principio di realtà, tra ciò che appartiene alla persona e ciò che si percepisce appartenere all’altro da sé, tra ciò che è mio e ciò che è tuo?

Conosciamo bene come sia tragica la vita delle tante così dette personalità borderline (dove questo termine indica proprio una patologia del confine), come l’incapacità a differenziare riporti il soggetto ad uno stato di ambiguità - ne parla ampiamente Bleger, uno psicoanalista argentino, in "Simbiosi e ambiguità" - dove tutto è confuso, indifferenziato appunto, caotico e non c’è più la capacità di distinguere banalmente il bene dal male, tutto convive assieme senza distinzioni. Se anche l’ultima barriera cade, la persona è come se fosse senza pelle in quanto la pelle è in definitiva un confine tra interno ed esterno. La pelle come topos differenziante il dentro e il fuori.

Dunque, mi viene da pensare che la caduta dei confini, per l’interiorità dell’individuo può essere, come avviene per un confine esterno, contemporaneamente sia un’opportunità che una tragedia. Il lavoro analitico serve sia ad abbattere che a ri-costituire confini, a strutturarli. Confini però non rigidi, non nella forma di barriere sullo stile di muri invalicabili per stati autarchici, ma confini permeabili, con porte che esistono e che quindi possono essere aperte o, all’occorrenza chiuse. Porte sulla cui soglia c’è una sorta di guardiano amorevole, non sadico, che esercita un controllo armonico ai bisogni dell’Io.

Avrebbe dovuto essere presente oggi qui il mio analista di gruppo, il prof. Resnik a cui devo molto. Ricordo che nella sua vecchia casa all’ultimo piano di Rio Terrà ai Saloni a Venezia, aveva un quadro, a parere del nostro gruppo, significativo: c’era una stradina che conduceva alla porta di un castello. Davanti alla porta c’era un soldato con una lancia. Un soldato che ci guardava e scrutava, pronto a lasciarci passare o a dire alto là!

Anche sul confine con la ex Jugoslavia c’erano i soldati di frontiera che se passavi ti gridavano “stoj!” e si rischiava la prigione di Capodistria per qualche giorno…

Internamente cosa succede se cade il confine? Se non ci sono più segni e segnali che indicano un luogo di passaggio da un mondo ad un altro. Se non ci sono porte, ponti o guardiani che ci segnalano dove siamo, dove stiamo andando e a chi appartiene quel dato territorio. Da un lato ci sono possibilità di ampliamenti della pensabilità, di scoperta di cose nuove prima ignote, di un contatto con lo straniero che ci abita, l’inconscio, dall’altro non c’è più alcun chi va là, alcun stoj… tutto può passare indistintamente e la persona senza frontiere rischia di precipitare nel caos. Non c’è pace e convivenza, ma confusione e sopraffazione.

 

Ma un ulteriore  problema che voglio porre è il seguente: cosa accade alle popolazioni confinanti laddove cada un confine che nel tempo è stato così importante, un confine sul quale si è sparso sangue innocente, che è costato la vita di tante persone, che per decenni ha diviso rigidamente due nazioni. Anzi due organizzazioni politiche, quella italiana e quella jugoslava, fondate su antitetiche filosofie e stili di vita? E quando dico cosa accade alle popolazioni confinanti, non vado con il pensiero ad un ragionamento geopolitico, sociologico, economico, di cui non sono esperta, quanto piuttosto ad un chiedermi cosa accade nel mondo interno non solo delle persone singole, probabilmente in grado di assorbire il cambiamento, ma nel mondo interno, nella mentalità di gruppo (secondo l’accezione di Bion), in quell’inconscio gruppale che funziona con una logica diversa dal quella della coscienza. Quale prezzo il gruppo sociale deve pagare per tollerare questa vicinanza, questo “obbligo” di condividere cultura, tradizioni, linguaggi, diversi.

Jabes ci ricorda  che <<ogni ‘interno’ anche se non recintabile, ha un ‘esterno’ attraverso il quale l’universo può penetrare e con esso il seme più umile da macinare o da gettare agli uccelli…>>(1991,27)

Che dinamica c’è tra un confine interno e uno esterno? Cosa accade se uno dei due si modifica? Cosa succede alle compartimentazioni interne se a cadere è un confine esterno ai singoli individui, anzi ad un gruppo ben definito di individui?

Alcune persone appartenenti alla minoranza locale slovena di Trieste mi segnalano in questi mesi un disagio non facile da esprimere e delineare dovuto alla recente caduta del confine tra Italia e Slovenia.

 

Nel passato quella frontiera garantiva alla minoranza un corrispettivo persecutorio che si concretizzava in una linea formale con un al di qua e un al di là: una linea formale che separava dai legittimi fratelli sloveni. Gli sloveni della minoranza nel passato si erano sentiti, e lo erano stati veramente, a Trieste, fragili e vulnerabili, passibili delle ingiustizie di una maggioranza italiana preponderante e spesso distratta, e  a volte, soprattutto tempo fa, aggressiva rispetto ai bisogni di una fetta significativa di popolazione locale. L’italianità mirava a fagocitarli e assimilarli costringendoli, per mantenere l’identità  a rinserrare le fila e a strutturarsi  attorno ad una lingua, una traduzione e una cultura, che molto ci ha dato rispetto alle nostre peculiarità locali, ma che è stata costretta spesso a giocarsi “contro” piuttosto che in collaborazione. Come anche reazione ad un’epoca, la dittatura fascista in cui gli sloveni per esempio non potevano parlare la loro lingua, dovevano cambiare i loro cognomi e sopportare tante forme di quotidiana violenza come essere considerati  solo dei contadini ignoranti e grezzi.

Non essendoci più frontiere sembra venire a mancare un oggetto strutturante, un contenitore che dà forma, tanto da far temere, alla comunità di minoranza slovena, il dissolvimento costringendola a reinventare nuove, e speriamo creative, modalità di sopravvivenza. Da ciò l’idea di un disagio invisibile dovuto ad un confine di fatto comunque esistente, ma che nella realtà concreta si è fatto impercettibile e rimanda ad una sofferenza che non può più essere espressa apertamente, ma deve essere  trasformata per non rischiare di essere rimossa o negata.

La traduzione in italiano, del libro di Boris Pahor, "Necropoli", è stata possibile solo oggi, sebbene il libro sia stato scritto nel ‘67 e sia stato tradotto in molte lingue. Prima di oggi la sua traduzione in italiano era impensabile, perché avrebbe smosso memorie che dovevano restare a lungo rimosse, ma oggi mi sembra rappresentare un esempio positivo delle potenzialità di questa caduta delle frontiere.

Foto: Boris Pahor

E’ stata proprio la caduta di una barriera a generare una pensabilità volta a recuperare un rimosso.

 

Nelle diverse parti del mondo mentre gli stati europei si uniscono e abbattono i confini, si creano staterelli con poche migliaia di abitanti, bisognosi di differenziarsi, di salvaguardare la propria identità.

A Padova si costruiscono muri attorno ai rioni in cui vivono gli immigrati. Come nell’inquietante film “Fame chimica” dove la recinzione che viene costruita per proteggere i bambini, che giocano nella piazza di un rione, dagli immigrati, vissuti come pericolosi, ladri e spacciatori di droga, finisce per chiuderli (chi? i bambini o gli immigrati?) in una gabbia e non si capisce più chi è dentro e chi è fuori

In una civiltà che abbatte i confini noi eleviamo muri più o meno concreti con cui ci proteggiamo, da noi stessi prima ancora che dagli altri, dalle nostre fantasie e dalle nostre pulsioni. Le nostre difese sono paradossalmente sempre più rigide o contemporaneamente assenti. Dietro un’apparente libertà di fare ciò che si vuole, si cela un’incapacità a scegliere, un vivere nell’ambiguità e nell’indifferenziazione e un bisogno, difensivo e antievolutivo, di confini rigidi che restituiscano sicurezza. 

Lo straniero che arriva oggi in questo nostro contesto così confuso, diviene quindi la cartina di tornasole che permette l’emergere del nostro disagio. Ci obbliga a vedere il nostro malessere. Ed è per questo forse che preferiamo cacciarlo, emarginarlo, utilizzandolo per le nostre proiezioni e non solo per i lavori più umilianti.

 

 

 

Abbiamo dunque visto cosa accade con i confini interni, con i vissuti relativi alla caduta di confini, ma prima di concludere vorrei portare anche il vissuto della caduta del confine tra noi e l’ignoto che a mio parere è rappresentato dalle forti emozioni che come popolazione occidentale stiamo vivendo nell’impatto con l’arrivo, nelle nostre terre, di grandi gruppi di persone bisognose che, per diversi motivi e con diverse modalità lasciano la loro terra, la loro lingua, le loro tradizioni, per mescolarsi, e a volte integrarsi a noi intrecciando le loro storie, i loro colori, sapori e saperi con i nostri. E per dire cosa intendo per integrazione mi rifaccio alla splendida definizione sempre di Avakian:… << una sola mano a stringere forte mango e albicocche facendo scorrere in una coppa un distillato perfetto per qualunque palato>> (2003, 56)

 

L’Italia è ormai un paese senza confini. Escludendo la Svizzera, l’ultimo fragile baluardo sembra essere il mare.

Dal mare, come uno tsunami, arriva l’ignoto, il perturbante che oltrepassa le spiagge per invadere le nostre fragili e complesse città.

Freud (1919), nel suo famoso articolo su questo tema ci dice che perturbante in arabo ed ebraico coincide con orrendo e demoniaco. Trovo che nel nostro lavoro dovremo sempre più spesso rinunciare ai nostri presunti saperi, alle teorie anche importanti che nel tempo abbiamo costruito per sentirci in-sicuri e in-capaci di leggere la realtà dell’altro, per incontrare umilmente una relazione che non sappiamo come interpretare, che per la nostra mente e il nostro status di professionisti della psiche è perturbante, demoniaca.

Mi sono occupata di questi temi in due occasioni: quando alcuni anni fa ho coordinato un gruppo di giovani rifugiati politici[7] e quando ho avviato il progetto “Il ponte”, consistente in un centro di ascolto psicologico per migranti, in cui lavoravano un gruppo di giovani psicologi,  presso un ambulatorio medico per stranieri dell’ASS triestina[8]. In queste situazioni mi sono trovata come nuda, senza strumenti e ho vissuto una ristrutturazione interiore  dolorosa e persecutoria. Ho percepito sulla mia pelle in minima parte, eppure con grande intensità, quale possa essere il vissuto di un migrante. Nell’ambulatorio gli psicologi che io supervisionavo non sono stati riconosciuti, pur essendo stati richiesti dagli stessi medici, per le loro competenze. Più volte negli incontri di supervisione emergeva paranoia, sospetto e pregiudizio. Tutti vissuti che il migrante sperimenta. Riuscire a trovare un linguaggio comune con cui comunicare con i medici è stato il primo e grosso lavoro. Perciò questo lavoro si è intitolato “Lo sbarco con il gommone”. Ci eravamo tutti sentiti infatti come dei poveretti che sbarcavano in un ambulatorio medico per lavorare, senza essere pagati, (operavamo infatti come volontari) parlando una lingua, quella della psicologia, incomprensibile non solo ai medici che volevano gli psicologi per curare ciò che loro avevano saputo riconoscere non essere di loro competenza, ma anche agli stessi pazienti. Per i sudamericani eravamo potenziali torturatori, per le persone provenienti dai paesi dell’est temibili sperimentatori, per gli africani degli incomprensibili e inefficaci stregoni.

Tra noi stessi ci siamo scoperti pieni di pregiudizi etnici soprattutto nei confronti dei medici. Nelle supervisioni venivano portati giudizi tranchants, i miei giovani allievi difendevano un presunto sapere teorico psicologico come un migrante difende la propria cultura considerandola l’unica vera e superiore alle altre. Mettendo in competizione (contro), invece che in collaborazione dei saperi teorici, dei modelli di intervento. Rifiutando di ascoltare le ragioni dell’altro per comprenderlo.

Riparlandone a voi oggi una volta di più mi rendo conto della nostra fragilità che ha necessitato di un anno e mezzo di intenso lavoro per essere elaborata, tollerata e accettata per divenire finalmente uno strumento di lavoro, un’opportunità di comprensione. A chi di voi si occupa di migranti vorrei quindi donare lo strumento dell’ignoranza, unico motore per avvicinarsi ad un ignoto perturbante. In un atteggiamento di attesa, di silenzio accogliente, di paziente fiducia verso l’altro da noi.

 

Il tempo concessomi è finito e so che devo fermarmi per lasciare lo spazio per altri interessanti vertici osservativi. Vi ringrazio.

 

 

 

 

NOTE:
 

[1] N.d.a.

[2]<<La loro concezione del tempo era alquanto diversa da quella di altri. Non c’era dicotomia tra la vita e il tempo: quest’ultimo era contenuto indivisibilmente nella prima, non si trovava su orologi e pagine di calendari così come avviene nel mondo occidentale. Un concetto impossibile da afferrare per chi è irrimediabilmente  legato ad un vivere fatto di orari, minuti da spaccare; appuntamenti, scadenze da rispettare… per chi è ossessionato dalla brevità della vita da egli stesso inventata. Per chi vive nel terrore perenne che “non c’è abbastanza tempo” e vive correndo e scappando, inconsapevole che così facendo non è contro il tempo che scappa, ma dalla vita stessa>> (Avakian, "Una terra per Siran", pagg. 83-84)

[3] Qualcosa di simile è stato fondato da Mons. Sudar a Sarajevo dopo la guerra nella ex Jugoslavia. Si chiama “Scuola per l’Europa”.

[4] Penso che non sia del tutto casuale che contemporaneamente alla caduta del confine con la Slovenia, in Italia, e nel Friuli Venezia Giulia in particolare, una forza politica che chiede di separare l’Italia del Nord da quella del Sud, ipotizzando di fatto una sorta di “confine”, ottenga alle elezioni un successo consistente. Ad una caduta di confine sembra dunque corrispondere il bisogno della costruzione di un altro confine da un’altra parte.

[5] "Gnocchi de gries" sono gnocchi di semolino che vengono gustati in brodo, la "jota" è una minestra a base di fagioli, patate e cappucci acidi, "presnitz" e "putizze" sono caratteristici dolci pasquali a base di noci, mandorle, uva passa e arancio candito,  la minestra di bobici è una minestra di mais, la "ghibaniza" è un dolce del Goriziano (si pronuncia gubanizza) a base di ricotta e noci, il "kren" è il rafano, una radice molto piccante con cui si accompagna in modo particolare il prosciutto cotto caldo, specialità triestina che si può gustare soprattutto da "Pepi" in via Cassa di Risparmio.

[6] Comunicazione personale della psicoterapeuta, dott.ssa Cristina Bertogna di Gorizia.

[7] In merito si veda l’articolo di Amione, Cusin “Incontrarsi a Babele” in corso di pubblicazione (vedi bibliografia).

[8] In merito si può consultare l’articolo di Cusin “Lo sbarco con il gommone” pubblicato sulla Rivista di Psicoanalisi (vedi bibliografia).

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Franca AMIONE, Ambra CUSIN, in corso di pubblicazione, "Incontrarsi a Babele", in Il gruppo monotematico o  specializzato, a cura di Mirella Curi Novelli.

Manuela AVAKIAN (2003), "Una terra per Siran", Prospettiva ed., Roma

Josè BLEGER (1966),"Psicoigene e psicologia istituzionale", Libreria Lauretana ed., Loreto, 1989

Josè BLEGER (1967), "Simbiosi e ambiguità", Libreria Lauretana ed., Loreto, 1992

Ambra CUSIN (2007), "Lo sbarco con il gommone", in Riv. di psicoanalisi, n. 1/07, ed. Borla, Roma

Sigmund FREUD (1919),  "Il perturbante", O.S.F., 9

Franz GRILLPARZER (1820), "Medea", Marsilio ed., Venezia, 1994

Chiara INGRAO (2007), "Il resto è silenzio", Baldini e Castaldi ed., Milano

Edmond JABES (1991),  "Il libro dell’ospitalità", Raffaello Cortina ed., Milano, 1991

Tahar Ben JELLOUN (1976), "Le pareti della solitudine", Einaudi ed., Torino, 1990

W. Gordon LAWRENCE (1988), "Social dreaming", Borla ed. , Roma, 2001

National Geographic, nov. 2007 vol. 20, pagg. 44-59

Boris PAHOR (1967), "Necropoli", Fazi Editore, Roma, 2008

 

 

 

 

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