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Arnaldo
Rascovsky (1973), uno dei pionieri del movimento psicoanalitico
latino- americano, ha scritto più di trent'anni fa un libro
stimolante, il cui titolo é Il figlicidio.
Analizzando
il fenomeno della guerra, l'autore sostiene che una delle sue
componenti è quella di
far combattere tra di loro le nuove generazioni.
I
giovani sono considerati delinquenti se tentano di disertare,
ma sono onorati se si identificano con le direttive dei padri e
uccidono altri giovani.
La
decisione di andare in guerra non è mai presa dalle generazioni che
vi partecipano, ma da menti senili che sono al
potere.
Per
Rascovsky non è
possibile negare che la guerra costituisce l'espressione ciclica di un
rito d’iniziazione che esige il sacrificio della generazione che
cresce. Tale morte riceve una forte connotazione morale che si
accompagna al mantenimento dell'innocenza della gerontocrazia che l'ha
decretata.
Gli
anziani che avviano alla morte si nascondono dietro un'astrazione
simbolica chiamata patria, che richiede la donazione volontaria della
vita. I padri nascondono la loro distruttività e spingono i
figli all'idealizzazione di sé che serve a negare la vera natura del
figlicidio.
Nell'epoca
attuale del terrorismo, il figlicidio è diventato così palese da non
richiedere più il mascheramento tradizionale.
I
padri chiedono apertamente ai figli di immolarsi. (De Masi, p.15)
Il
caso di cui ho parlato al Convegno di Lecce non riguarda un paese in
guerra, non una persona che ha rischiato atrocità simili a quelle di
cui parla Rascovsky, ma comunque ha a che fare con una persona giovane
che ha ‘abbandonato’ una madre-patria indifferente ai propri figli
per emigrare in Italia.
Sappiamo
come per Freud la struttura psichica del bambino si formi combinando
le sue disposizioni personali ereditate, con gli avvenimenti della
prima infanzia.
Mi
chiedo cosa accade quando, in una persona giovane,
tutto questo si intreccia con un evento forte, quale la
migrazione, da un paese attraversato da violente trasformazioni quale
l’Albania degli anni ’90, verso un paese come l’ Italia,
apparentemente in un contesto stabile e democratico, ma al fondo in
una situazione di incertezza e di precarietà dovuta proprio
all’arrivo, da paesi estremamente diversi, di genti le più varie.
Cosa
accade con l’evento migratorio quando il medesimo si somma ad una
storia personale intrapsichica densa di eventi non pensabili?
“Antiche
quanto l’uomo, le emigrazioni sono state affrontate da molti punti
di vista… sorprende pertanto che questo tema sia stato poco
analizzato dal punto di vista psicoanalitico; nonostante (o forse
proprio per questo) molti tra i pionieri della psicoanalisi abbiano
vissuto in prima persona esperienze migratorie” (Grinberg, 1982,15)
E’
ormai assodato come l’esperienza migratoria abbia implicito un
aspetto traumatico dovuto ad una separazione significativa, non solo
dagli affetti, ma anche da odori, colori, suoni a cui si è abituati e
grazie ai quali la propria mente si è strutturata. Tutto questo con
la migrazione è costretto a mutare significativamente. Del resto in
molti abbiamo fatto l’esperienza di quanto sia comunque traumatico
anche un semplice trasloco da una casa ad un'altra o un viaggio aereo
per paesi lontani dove, al nostro arrivo, viviamo una sorta di lieve
disorientamento nell’adattarci a una realtà diversa (forse la
sindrome del "jet lag" potrebbe essere intesa come un
correlato fisico di questo disorientamento).
Con
la storia di una persona
di origini extracomunitarie, ho tentato al convegno di esplorare
questi intrecci, a mio parere interessanti, per stabilire alcune
ipotesi di collegamento, e potenziamento, con gli eventuali traumi
precedenti.
Freud
aveva consigliato, per la cura delle nevrosi, negli Studi
sull’isteria (1895) l’elaborazione
psichica delle esperienze traumatiche del passato e aveva stabilito
anche che le cause del trauma dovevano ricercarsi
o nelle condizioni psicologiche specifiche del soggetto al
momento del fatto, o in un conflitto psichico che impediva
l’integrazione psichica dell’evento o, ancora, in una situazione
affettiva che ostacolava una reazione adeguata. E’ nel 1920 che
Freud in Al di là del principio
di piacere, stabilisce che traumatico è quando un fatto, per un
eccesso di eccitazione esterna, supera la barriera protettiva creando
nell’Io disturbi che sono destinati a durare. E’ da ciò che Freud
inizia a considerare il trauma come una sorta di “nevrosi
traumatica”.
Sarà
nel 1926, in Inibizione,
sintomo, angoscia, che affermerà come l’Io possa essere
assalito sia da dentro, dal suo interno dunque, che dall’esterno.
I Grinberg (1982) sostengono che questo avviene frequentemente
nei migranti che usano sintomi fobici o manifestazioni d’ansia,
quali per es. l’insonnia o gli incubi, come modalità controllate di
‘angoscia-segnale’ (quindi come attacchi interni)
per proteggersi dall’invasione dell’angoscia catastrofica.
Inoltre
possiamo considerare la migrazione come un insieme cumulativo di
micro-traumi, o trauma cumulativo, cui lo stesso Freud aveva accennato
già nel 1895.
Sono
proprio i Grinberg a segnalare come l’aspetto traumatico
dell’evento migratorio non si manifesti immediatamente all’inizio
del processo medesimo. Se e quando il trauma si manifesterà dipende
dalla personalità del migrante e da molteplici altre circostanze. A
volte in mezzo può esserci un periodo di latenza. “Crediamo quindi
che l’emigrazione, in quanto esperienza traumatica, possa essere
compresa nella categoria dei cosiddetti traumi ‘accumulativi’ e da
‘tensione’, con reazioni non sempre esplosive e manifeste, ma
dagli effetti profondi e duraturi…” a volte è possibile osservare
“ciò che è stato definito con il termine di ‘lutti rinviati’.(Grinberg,
1982, 27)
Sempre
i Grinberg sostengono come il consolidamento dell’identità dipenda
dalla interiorizzazione di relazioni oggettuali assimilate dall’Io
attraverso un processo di identificazioni introiettive autentiche e
non con l’uso di
identificazioni proiettive maniacali. Perciò la migrazione può
trasformarsi in un fattore carico di pericoli per il sentimento di
identità. Per sopravvivere l’immigrato ha bisogno di aggrapparsi ad
elementi del suo ambiente nativo e lo fa grazie per es. alla musica, a
racconti della sua terra, a ricordi e sogni in cui risorgono in modo
manifesto aspetti del paese di origine così da mantenere viva
l’esperienza del sentirsi se stesso. (ib. 1982,133)
In
alcune persone di origine straniera tutto questo inizia ad apparire,
in maniera significativa, solo con l’analisi.
<<Gli albanesi non si sentono balcanici, ma un popolo a sé, isolati, sia
per motivi politici, ovvero per i 50 anni di dittatura, ma anche per
il modo di essere. Non ci sentiamo né slavi, né greci. Nonostante
sia piccola, la popolazione è molto eterogenea sia come usanze che
come dialetti. Tra nord e sud c’è molta diversità. Il "Kanun" lo si segue solo al nord.
Tirana è più acculturata. Un
detto albanese suona così: “con il sapere sei libero, ma
disgraziato”. Il mio è un popolo che viene educato a non
difendersi, a non alzare le mani per proteggersi dalle possibili botte
dei genitori. Gli albanesi non hanno la consuetudine di descrivere i
sentimenti verso se stessi. La nostra è una popolazione giovane, la
mentalità è quella di sposarsi e fare figli. Non fare figli è quasi
una vergogna. Al nord
bisognava fare almeno un maschio. Quando ero piccola e nasceva un
bambino, con un tessuto lungo, il "kukurec",
si avvolgevano le gambe diritte affinché non crescano storte. Era un
tessuto di panno. Il bambino era tutto duro. Lo hanno fatto anche a
me. Oggi però non lo si fa più. Era una tecnica il saper stringere,
ma non troppo, il bambino doveva stare bello duro. Solo verso l’anno
viene
slegato. Pensare che ce l’avevano tutti gli albanesi. Mi dà la
sensazione di poca libertà. Nella mia memoria sensoriale ci devono
essere queste gambe tenute rigide, che non si possono muovere>>.
Un
migrante può ritrovarsi
davanti ad angosce sempre negate in una sorta di cancellazione dei
suoi ricordi, delle sue
potenzialità e della sua vitalità. Mi chiedo
con Amati Mehler et al. (2003,134) se è possibile per queste
persone “‘dimenticare’ in una lingua e ‘ricordare’ in
un’altra”. Infatti, suggeriscono gli autori, si deve considerare
che non tutto ciò che è stato dimenticato è frutto della rimozione,
alcuni contenuti possono essere tenuti lontani, soprattutto nei loro
vissuti, con l’isolamento, la scissione, la negazione. Penso che può
accadere che il passato si frapponga continuamente tra il presente e
il futuro impedendo di fatto ogni progetto di vita, ogni speranza
per il futuro.
Freud
distingue, in Inibizione,
Sintomo e angoscia, l’angoscia verso qualcosa di sconosciuto
(caratterizzata da indeterminatezza e da mancanza di oggetto) dalla
paura di qualcosa di conosciuto intesa come angoscia con un oggetto
riconoscibile.
In
un precedente lavoro (Amione, Cusin, "Incontrarsi a Babele")
avevamo esplorato come in inglese esista
una distinzione, che non
troviamo nella lingua italiana con la medesima intensità, tra "waiting
for" e "waiting what". Con "waiting
for" si intende aspettare qualcosa di cui si ha già
conoscenza, ciò che è già stato possibile rappresentarsi, anche se
non ancora presente; con "waiting what" si intende
invece un aspettare qualcosa di indefinito, non ancora rappresentato,
ignoto alla "cogitation", quindi passibile di vivere
di sole proiezioni.
Mi sono chiesta quanto dunque il fatto che
i migranti non riescano a progettarsi
(che tra l’altro è un anagramma di ‘proteggersi’),
abbia a che fare con un’angoscia, non una paura, le cui
origini possono essere sconosciute, verso qualcosa di indefinito
appunto, che la persona si aspetta, ma che è pieno solo
di sue proiezioni, frutto di eventi passati sconosciuti. Per
questo può essere interessante proporre un’analisi. Per
trovare un oggetto all’angoscia. Quanto l’analisi può promuovere
un processo di rappresentazione al posto di un’ansia persecutoria
verso il futuro che blocca tutte le legittime aspettative?
Troviamo
in Freud stesso, in una lettera a Eitingon riportata dai Grinberg
(1990, 216), il vissuto di una incertezza simile nei confronti del
futuro, ben più comprensibile per un uomo della sua età, costretto a
migrare, a fuggire, ma in cui mi è parso di ritrovare delle sfumature
simili:
<<Non
è un caso se finora mi sono attenuto ai fatti. È difficile dominare
le condizioni affettive di queste giornate, quasi impossibile
descriverle. Il senso di trionfo della liberazione si mescola troppo
con il cordoglio, perché abbiamo pure sempre amato la prigione da cui
ci hanno lasciato fuggire. All’incanto per il nuovo ambiente… si
aggiunge, come elemento perturbatore, il disagio delle piccole
peculiarità dell’ambiente estraneo; le liete speranze di una vita
nuova sono bloccate dall’incertezza su quanto ancora un cuore stanco
riuscirà a lavorare, e, sotto l’impressione della malattia al piano
di sopra… la sofferenza di cuore si alterna con una evidente
depressione…>>
Mi
pongo diverse domande in merito a questo: quando un paziente straniero
per es. ci parla della
‘rabbia’ o di una caratteristica di un familiare significativo, è
costretto a tradurre un’emozione sperimentata da bambino quando
conosceva solo la sua lingua, in parole (utilizzando una
rappresentazione di parola italiana) come appunto ‘rabbia’, che
non è detto che corrispondano esattamente alla stessa
rappresentazione di cosa (il vissuto della rabbia sperimentate
nell’infanzia).
Posso,
per spiegarmi meglio, ricorrere ad un esempio con la lingua slovena
(mi è più facile perché a Trieste ho molti pazienti di madrelingua
slovena e quindi ho fatto più esperienza in tal senso). Una paziente
mi parla della fiducia e dice che in sloveno si dice "zaupanje",
ma in questa parola è contenuta "upanje",
che vuole dire speranza. Ecco che nella lingua slovena, a differenza
dell’italiano, questa parola è fortemente vincolata alla speranza,
mentre in italiano questo legame è frutto di un processo più
razionale e logico, piuttosto che frutto di una immediatezza
linguistico- emotiva.
Stengel
(1939 - citato in Amati Mehler et al.,138) sottolinea che
nell’apprendere una nuova lingua siano implicati dei processi di
cambiamento interiore. Egli sostiene come le singole parole che usiamo
evochino immagini visive che inevitabilmente vengono alterate
nell’acquisizione di una nuova lingua. E questo avviene soprattutto
in un nuovo contesto come quello della migrazione. E’ per questo
che, dice Stengel, parole con lo stesso significato possono suscitare
nel soggetto immagini differenti nella lingua materna dell’infanzia
e nella lingua che si apprende successivamente. Stengel propone di
considerare che <<il rapporto libidico con un oggetto denominato
da una parola straniera è diverso dal nostro rapporto con lo stesso
oggetto, denotato invece dalla parola nella lingua natìa. In ogni
caso è interessante che il cambio transitorio nella relazione
libidica con l’oggetto coincida con un cambio nei processi
immaginativi>>.
Nel
corso dell’analisi le narrazioni possono subire delle
trasformazioni: ci saranno alcune storie che i pazienti (e questo vale
per qualsiasi paziente) non solo possono raccontarci e che prima
tenevano celate, ma che possono ricordare, recuperare nella loro
memoria o soprattutto possono narrarci dei fatti di cui avevano
accennato, ma tra cui pian
piano possono stabilire dei legami, dei rapporti che daranno nuovo
significato ai fatti stessi. Talvolta mi accorgo come non siano i
fatti in se stessi, e le emozioni correlate, ad essere rimossi, ma i
legami tra i medesimi. Tutto appare parcellizzato, spezzettato e a
volte il paziente salta da una cosa all’altra come a sancire una
assoluta indipendenza tra le medesime. Né io stessa, mentre ascolto
sono in grado di collegare le cose, come se io stessa venissi
coinvolta dal paziente in una sorta di “assunto omertoso” (Romano,
2006, ma anche cfr. gli studi in merito di Zajde, 1993) per il quale
certi legami tra rappresentazioni non devono essere fatti! Perlomeno
fin tanto che il paziente non è pronto a farli. Romano parla di
assunto di omertà relativamente ai gruppi, mi sento però di
esportare questo modello alla relazione duale della coppia analitica,
in quanto ho la percezione che comunque anche il lavoro individuale
con il paziente abbia a che fare con un gruppo e
fondamentalmente con il gruppo interno del paziente che
interviene sempre a portare un qualche contributo nella relazione con
l’analista (come analisti si deve prendere coscienza dei personaggi
che il paziente porta in seduta e che alternativamente proietta su di
noi oppure recita lui stesso invadendo così il campo transferale).
Ebbene, credo che l’assunto di omertà, anche con certi pazienti
stranieri, che provengono da paesi gravemente danneggiati da guerre o
trasformazioni politiche, abbia a che fare con “una condizione
emotiva, uno stato d’animo diffuso che non ha a che fare con
l’esistenza di un oggetto segreto preciso…. La motivazione è
inconscia: il segreto è scisso dalla coscienza… non c’è
richiesta di collusione (con l’analista)
… la condizione di assunto di base di Omertà è quella di celare
qualcosa anche se non si sa che cosa” (Romano, 2006).
Lo
stesso Freud aveva intuito che
la rimozione agiva spezzando i legami associativi e, aggiungono Amati
Mehler et al. (p.136), può essere interessante cercare di capire cosa
accade quando la <<rappresentazione
di parola è più d’una in relazione ad ogni singola cosa, e come
questi nessi associativi – che costituiscono il tessuto tra conscio,
inconscio e preconscio – si organizzano nei legami, o nella rottura di
legami, tra rappresentazioni di cosa e rappresentazioni di parola>>.
Il paziente straniero deve far entrare nel suo patrimonio associativo,
che in genere è già organizzato, un nuovo codice linguistico, una
serie di rappresentazioni di parole che devono fare i conti con i
sistemi preesistenti.
Trovo
anche, molto interessante il fatto che, a volte, io stessa vengo
coinvolta in questa incapacità di stabilire legami. Anzi in una sorta
di “false apparenze”, come le chiamano Amati Mehler et.al. (142)
che rappresentano una specie di rimaneggiamento successivo dei
ricordi, esperienziale, che causa una distorsione, ma che è proprio
con queste distorsioni che nel lavoro analitico può evidenziarsi un
percorso evolutivo nella sua interazione con le difese e su come
e perché la memoria di un evento abbia assunto altre vesti.
E’
Freud stesso a scrivere, nella lettera a Fliess n. 112 del carteggio
(1896), che le tracce mnestiche sono sottoposte a nuove sistemazioni
per cui uno stesso ricordo può avere tante versioni e forse anche
tante traduzioni linguistiche diverse. Allora, continuano Amati Mehler
et. Al. (149), il ricordo nella sua versione finale (ma io mi chiedo
se questa esista realmente o nel tempo si strutturano infinite altre
“versioni finali”) dipenderà
da una serie di variabili che collaborano a scegliere le componenti
che strutturano il ricordo medesimo. Variabili che possono avere a che
fare con il passato e il presente, ma anche con il futuro, in quanto
bisogna fare i conti con il desiderio che è un vettore, dice Freud,
di potenziali trasformazioni dell’identità.
Credo
che questo fatto del non riuscire a ricordare, ma soprattutto di
essere impossibilitati a stabilire legami tra i ricordi e coinvolgere
in questo l’analista, può trovare molti approfondimenti negli studi
dei colleghi Amati Sas, Corrente, Puget, Zerbino et al. in cui si
evidenzia come ciò abbia a che fare sia con un freno messo dal
paziente stesso, inconsciamente, per rallentare le sue associazioni
così da proteggere entrambi, paziente e analista, da una specie di
accecamento per troppa luce, che dalla protezione messa in atto
dall’analista nei confronti del paziente, affinché venga in
contatto con esperienze del passato molto dolorose, il più
gradualmente possibile. In questo caso mi sento di dire che come
analista ho fornito il nutrimento per conquistare la forza
indispensabile a “vedere” piuttosto che dare interpretazioni per
evidenziare al paziente le cose. A volte può accadere che con questa
forza, molti anni dopo la fine dell’analisi il paziente possa
conquistare spazi di pensabilità che prima, anche semplicemente
durante l’analisi, gli erano impossibili. E’ molto lentamente che
il processo analitico riesce a stabilire dei collegamenti per cui la
storia, la narrazione “conquista”
coloriture e sfumature diverse. Cosicché, paradossalmente si
passa da una bidimensionalità fatta di colori sgargianti ad una
tridimensionalità di un bianco e nero ricco di profondità e
sfumature. Credo sia importante traghettare la coppia analitica dallo
stallo in un possibile e rassicurante assunto omertoso allo sviluppo
di una maggiore, e più dolorosa pensabilità, attraverso
l’accoglimento del materiale soprattutto onirico, ma anche di
fantasie intrecciate a racconti, agli accadimenti del transfert e
controtransfert.
Rispetto
alla capacità di fare collegamenti un paziente straniero, con un
sogno mi segnala che: “nel sogno mi sentivo pensare ‘ io mi sento bravo’ in lingua (la
sua lingua madre)”, ma poi
aggiunge:“ gli avverbi e i
collegamenti tra i pensieri invece li potevo fare solo in italiano”.
Sembra dire forse che solo ora, solo in Italia, solo in analisi, può
permettersi dei collegamenti. Così penso che <<talvolta
avvicinarsi agli aspetti più specifici di una lingua significa
addentrarsi in certi costrutti idiomatici quali proverbi, scherzi,
metafore, doppi sensi o espressioni vicine al linguaggio onirico, che
comportano regressione e ravvicinamento al processo primario, alle
fantasie e al mondo inconscio…>>(Amati Mehler et. Al. 139-140)
e a come sia interessante ricordare quanto <<sia più facile
imparare una lingua in situazioni che inducono spontaneamente dei
movimenti regressivi, quali un rapporto d’amore o di analisi>>…!
(Amati Mehler et. Al. 139-140)
Molto
spesso pazienti immigrati utilizzano lo spazio analitico per
raccontarsi, quasi a sfogarsi, ad evacuare contenuti “troppo”. Si
può vedere come questo “troppo” sia una sorta di "fil
rouge" che tiene in sé le loro storie. Tutti i primi anni
sono caratterizzati da evacuazioni, senza una vera e propria capacità
di “nutrirsi” in analisi. Sembrano quasi non poter prendere il mio
cibo perché è troppo il bisogno di dire, da sovrastare il bisogno di
ricevere. Il “nutrimento” che prendono da me consiste
essenzialmente nel venire regolarmente alle sedute e vedermi
all’entrata e all’uscita delle medesime. I primi anni di analisi
sono orientati al passaggio da un lavoro evacuativo ad un lavoro
basato sulla nutrizione ed assorbimento del cibo, quindi ad
un’operazione di digestione. Ma prima è indispensabile svuotare…
Sono intasati dalle loro storie (spesso però questo accade anche con
pazienti italiani…)
Ho
riscontrato come alcuni pazienti di origini straniere fossero molto
“affezionati”, molto ossequiosi, “obbedienti” capaci di
adattarsi a qualunque richiesta. Come se piacesse loro accontentarmi,
soddisfarmi.
<<…questa
posizione si accompagna a un’idealizzazione dell’analista, da
mantenere intatta e insieme da sedurre, per suscitare il suo interesse
e la sua ammirazione>> (Green, 1980, 289) che si accompagna <<a
una grande ricchezza di rappresentazioni, a una capacità di
auto-interpretazione veramente notevole, che contrasta con il suo
scarso effetto sulla vita del paziente, che si modifica ben poco,
soprattutto nella sfera affettiva. Il linguaggio dell’analizzato
spesso… adotta… lo stile narrativo. Il suo scopo è di commuovere
l’analista, di coinvolgerlo, di farlo testimone nella
rappresentazione dei conflitti incontrati nel mondo esterno>>
(Green, 1980, 289)
In
effetti, come dice Green, qualcuno di questi evita di abbandonarsi
all’affetto della reviviscenza preferendo la reminescenza, i
ricordi, ma assolutamente slegati tra loro.
Solo dopo molti anni si possono esplorare elementi importanti
della loro storia che prima non era stato possibile vedere. E allora,
quando riescono oltre che a ricordare, anche a vivere, grazie ai
collegamenti fatti in analisi, le emozioni finora cancellate e negate,
viene messa a nudo la loro disperazione (Green, 1980, 289).
C’è un aspetto che mi sembra
importante e che si intreccia in modo particolare con la vita
personale intrapsichica del migrante: l’allontanamento dalla
‘madre patria’. Apparentemente questo può avvenire senza
particolari traumi, ma nel tempo dell’analisi
accade che mostri tutto il suo carico di dolore.
Mi
sono accorta che il contenimento dato dall’analisi e da un rapporto
con me molto vivo, permette di prendere alcune decisioni che rimettono
in moto aspetti vitali. Movimento questo fondamentale per avere quella
tranquillità “esterna” che lasciando “vuota” la mente da
intasamenti obliteranti permette di approfondire il lavoro analitico.
Sono convinta che quando i nostri pazienti, nei racconti fatti in
analisi, vengono totalmente risucchiati dalla
concretezza dell’esterno, sia indispensabile ricondurre
questo al transfert e riportare il paziente a guardare dentro, in
maniera tridimensionale, piuttosto che limitarsi ad una visione
bidimensionale tutta orientata alla realtà esterna. Fornire al
paziente la possibilità di una visione binoculare (e dunque
tridimensionale) mette in moto un processo di coscientizzazione, ma
soprattutto attiva dei vissuti emotivi, molto intensi e proficui.
Personalmente
penso che ogni migrazione smuova aspetti poco elaborati legati a lutti
e separazioni e che per questo contenga risvolti traumatici che non
sempre il migrante è in grado di indagare autonomamente e che possono
stare alla base di un difficile e disturbato processo di integrazione.
Devo ammettere che non amo la parola integrazione perché mi dà la
sensazione che aspetti originari e aspetti attuali se integrati si
confondano tra loro, si mescolino
in una soluzione nuova. Penso piuttosto che
i migranti necessariamente debbano creare dei “miscugli”, dei
mescolamenti in cui però i diversi aspetti rimangano separabili anche
se ben armonizzati al resto. Piuttosto
che un processo di integrazione sarebbe necessario parlare di
“armonizzazione” in cui ammettere e apprezzare anche la musica
dodecafonica di certe contaminazioni! Questa differenziazione interna,
al bisogno, permette il recupero delle proprie origini che altrimenti
rischia di venir perduto. Gli aspetti di assimilazione infatti tendono
ad avere la meglio sull’integrazione e il migrante rischia di
mimetizzarsi, di veder sparire i suoi tratti originari (o di esibirli
sfacciatamente che al fondo è la medesima cosa perché
l’esibizione, in questo caso, è
una sorta di azione che sostituisce un pensiero) a favore di un
confuso essere “come tutti”. Ricordo
come i Grinberg sottolineino come con la <<rafforzata
ammirazione del nuovo e non noto, si tende a negare l’angoscia e la
colpa, sentimenti… quasi inevitabili in ogni esperienza migratoria>>(1982,23).
Ricordo anche come Romano (2006,11)
affermi che <<l’esibizionismo o il mostrare senza dire è un
sintomo di omertà… … secondo le leggi dell’omertà, per tenere
la bocca chiusa e non
dire nulla si deve parlare molto; allo stesso modo per tenere gli
occhi chiusi e non vedere e non far vedere nulla, bisogna mostrare
molto>>. Ci si deve chiedere quindi cosa, in questi, casi
l’analista non debba vedere.
In
questi anni, nel lavorare in analisi con pazienti migranti, ho evitato
di fare domande nonostante molte delle narrazioni fossero confuse.
Sento come il tollerare questa confusione sia molto importante per
loro. Non metto fretta. Non esigo che i loro racconti si adagino su
una “logica asimmetrica”, ma anzi apprezzo la “logica
simmetrica” (Matte Blanco,1975) che esprimono perché posso così
accogliere aspetti inconsci in maniera silenziosa e coinvolgente.
Molti
di loro sono persone con una vitalità positiva che nell’evento
della migrazione però si è confusa con una sorta di maniacalità,
utilizzata per proteggere sé stessi dalla depressione. Mi chiedo
quanto questa loro
“madre-patria” lontana, poco attenta ai propri figli e ai loro
bisogni, distratta da ideologie fallite o da figlicidi perpetrati con
guerre fatte per il potere di pochi, o peggio per le esigenze
di estranei al territorio, li abbia fatti crescere con un’
identità confusa o, peggio, fasulla. Mi chiedo quanto questi migranti
carichino se stessi del disagio del loro popolo, per alleggerire e
salvare così dalla distruzione la “madre-patria”, annullando però
se stessi e le loro legittime aspettative. Una “madre-patria” che,
come dice Green, nel famoso lavoro sul complesso della madre morta, è
per loro morta psichicamente. Per questo forse solo i più forti
possono partire e lasciare la loro terra.
<<Il
complesso della madre morta è una rivelazione del transfert (Green,
1980, 273). Quando il soggetto si presenta per la prima volta dall’analista, i sintomi di cui si
lamenta non sono… di tipo depressivo.. riflettono lo scacco di una
vita affettiva sia per quello che riguarda l’amore…sia per … la
professione: questi sintomi sottendono conflitti … con gli oggetti.
Non è infrequente che il paziente racconti spontaneamente una storia
personale …>> per cui si pensa che <<avrebbe potuto
comparire una depressione infantile, che il soggetto non menziona…
ma che esploderà… nel transfert…>>
Quanto
le madri concrete di queste persone straniere, hanno vissuto veramente
lutti, miserie e fallimenti, quanto la loro mente è stata obnubilata
da realtà atroci e perciò incapace di accogliere nuovi figli nella
dedizione e nell’affetto? Sono conseguenze della guerra, di economie
ingiuste, di prevaricazioni di potere anche queste!
Quanto
la riconoscenza verso di noi, paese ospitante, si intreccia con
l’invidia, quanto scatena rabbia, quanto l’esibizione della nostra
presunta ricchezza fa credere loro di non avere nulla dentro di sé da
dare, con cui ricambiare.
Con
il viaggio in Italia molti hanno l’illusione di fare ciò che
vogliono, ma si rendono conto, in analisi, di aver al fondo
soddisfatto il desiderio dei genitori di mandare loro in avanscoperta
a gettare le basi per un trasferimento di tutta la famiglia nel paese
della speranza.
I
più forti avranno fatto da apripista. Ma a quale prezzo? Ben più
alto di quello sborsato per il viaggio, magari tragico….
Penso
inoltre che, come dice Green, se è vero che il bambino disinvestito
dalla madre muore psichicamente e il risultato è la formazione di un
“buco” nella trama delle relazioni di oggetto (Green, 1980, 276),
allora cosa accade quando una nazione tutta non investe sui propri
figli, li dimentica, li lascia partire, li elimina con guerre sempre
inutili o, peggio con atti di violenza ideologica estremamente
distruttivi (si pensi al terrorismo)? Cosa significa per loro
dover affrontare una vita senza avere concretamente vicina,
dentro di sé, la rappresentazione di
una “madre patria” presente
e attenta, interessata allo sviluppo dei propri giovani? Quanto
la loro rabbia può al fondo coprire il “buco” affettivo in cui
altrimenti precipiterebbero?
In
modo ancora più inquietante mi sto chiedendo: quanto i nostri giovani
italiani stanno precipitando in una situazione di questo genere?
E
avere una “madre patria” dura, rigida impedisce alla vitalità di
esprimersi. Tutto collassa nella corruzione, nell’arrivismo,
nell’apparenza, nell’arrangiarsi… quanto è attuale per noi
questo?
Un
giorno così esordisce una paziente:
Paz.
: << ‘La vergine giurata’ è il libro di un albanese sul "Kanun" e sulle donne che rinunciano per sempre alla loro
femminilità comportandosi da maschi, pur di avere la libertà di
uscire da casa… Ha scritto in italiano, perché vive da molto qui e
pensa in italiano, la sua Albania si è spezzata. La lingua italiana
è meno dura e permette più leggerezza. Quando si è cittadini di due
mondi, come me, si è come una mela tagliata a metà, nello spazio. Si
pensa sempre che si migra per un arricchimento materiale, che la
ricchezza sia una questione di soldi, ma io penso che è qualcosa di
più, si tratta di un arricchimento che non è fatto solo di cose
concrete…
Noi non siamo il prodotto della nostra dittatura, ma quello di una terra
che va oltre. Mi chiedo se le emozioni hanno una loro lingua…
l’albanese è una lingua più essenziale, meno articolata
dell’italiano, eppure ci sono persone che in albanese scrivono cose
bellissime, come Ardit Gjebrea ha
scritto questa canzone, ha queste parole……………..>>
Linde ne nje te deshperuar
Nascesti in un tempo disperato
Me dhimbje, Jon
con dolore, Jon
Kur anijet si fantasma
Quando le navi fantasma
Neper det me aventura
nel mare di avventure
Klithnin: libertà!
Urlavano: libertà
Dhe syte i kish aty gjithe Shqiperia,
E l’Albania aveva gli occhi là,
Ajo dinte si duronte
come faceva a sopportare
Po I shkuleshin filza
stava perdendo i germogli
Deti u be mal me njerez
e il mare diventò una montagna di uomini,
E toka det me lot
e la terra un mare di lacrime
Dhe yy per ere te pare te puthre drita
E a te per la prima volta la luce ti baciò
Ti linde, Jon
sei nato, Jon
Nuk e dije cish gezimi
non sai cos’è la gioia
As dhimbja as mjerimi
né il dolore, la povertà
Qe flake, godet e rrudh nje toke
che brucia, colpisce inaridisce una terra
Sot me gjithe foshnjet ne bote
ti je njesoj
Oggi sei uguale a tutti i neonati del mondo
Si ata ti qesh e luan
come loro tu giochi e ridi
Kjo eshte vetem nisja juaj
questa è solo la vostra partenza
Por do rritesh do kuptosh
ma crescerai e capirai
Se fatet sjane njesoj
che le sorti non sono uguali
Bekimin merr nga mua
Prendi la mia benedizione
O shpirt i patrazuar
o anima pura
Nje fjale te thene ma degjo
però sentila da me una parola
Zinxhire te praruar ty kane per te ofruar
catene d’oro ti offriranno
Por prape do jesh skllaveri
ma rimarrai nella schiavitù
Jon, ky emer marre nga deti
Jon, questo nome preso dal mare
Jon, me kenge vale tund djepin
Jon, muove la culla con suoni d’onde
Jon, dhe ti e ndjeve aromen
Jon, anche tu sentivi il profumo
Te kesh per jete me vete
lo avrai con te a vita.
Jon, pot e lundrosh me kete emer
Jon, se navigherai con questo nome
Jon, dhe te takohesh me vellezer
Jon, e ti incontrerai con fratelli
Jon, do te mjaftojne dy
duar
Jon, basteranno due mani
Te thuash se je, ti je, je Jon
per dire che sei, tu sei, sei Jon
Bekimin merr nga mua
Prendi la mia benedizione
O shpirt i patrazuar
o anima intatta
Nje fjale te thene ma degjo
una parola però fammela dire
Zinxhire te praruar ty kane per te ofruar
catene d’oro ti offriranno
Por prape do jesh skllaveri
ma rimarrai nella schiavitù
Ne skllav jo nuk te dua
uno schiavo, da te stesso negato
no,
non ti voglio
Nga vetja i mohuar,
Jon, Jon.”
Jon, Jon.
Non
voglio dire nulla di più, voglio lasciare alle parole dette in
albanese da questa giovane donna (e che ho capito perché me ne ha
fornito poi la traduzione) la loro forza dirompente, la forza dei
suoni linguistici di un popolo con una propria storia e dignità e mi
accorgo che, come ha detto Resnik, sto vivendo le “peripezie emotive
del transfert”, e per questo, assieme a lei, quando finisce la
seduta, ho gli occhi pieni di lacrime. Forse ‘stiamo’ uscendo
dalla glaciazione…(Resnik, 2001).
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