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Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della negazione

Numero 15, anno VIII, gennaio 2011

 

 

     "QUANDO IL MARE SI RIEMPI' DI MONTAGNE DI UOMINI..."

 

 

  di Ambra Cusin

 


Questo testo è una rielaborazione da parte dell'autrice del suo intervento al convegno internazionale "Id-entità mediterranee.Psicoanalisi e luoghi della negazione"(Lecce, 30 ottobre 2010). Esso  verrà ulteriormente elaborato e pubblicato in un prossimo libro delle Edizioni Frenis Zero intitolato "Psicoanalisi e luoghi della negazione".

            

 

 

  

 

Rivista "Frenis Zero" - ISSN: 2037-1853

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"Id-entità mediterranee. Psicoanalisi e luoghi della memoria" a cura di Giuseppe Leo (editor)

Writings by: J. Altounian, S. Amati Sas, M. Avakian, W. Bohleber, M. Breccia, A. Coen, A. Cusin, G. Dana, J. Deutsch, S. Fizzarotti Selvaggi, Y. Gampel, H. Halberstadt-Freud, N. Janigro, R. Kaës, G. Leo, M. Maisetti, F. Mazzei, M. Ritter, C. Trono, S. Varvin e H.-J. Wirth

Editore/Publisher: Edizioni Frenis Zero

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"La Psicoanalisi e i suoi confini" edited by Giuseppe Leo

Writings by: J. Altounian, P. Fonagy, G.O. Gabbard, J.S. Grotstein, R.D. Hinshelwood, J.P. Jiménez, O.F. Kernberg, S. Resnik

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Edited by S. Fizzarotti Selvaggi, G.Leo.

Writings by: Salomon Resnik, Mauro Mancia, Andreas Giannakoulas, Mario Rossi Monti, Santa Fizzarotti Selvaggi, Giuseppe Leo.

Publisher: Schena Editore

ISBN 88-8229-567-2

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L'odio, fa parte dell'uomo; è un sentimento umano.

Invece l'indifferenza, l'assenza di emozioni

 è  la  forma più pericolosa di distruttività,

 non l'odio per quanto possa essere pervicace e pericoloso

 (Franco De Masi, "Stati traumatici e processi di de-umanizzazione")

 

Il vuoto

che sento ora

è la voce

di quello

che non ho ascoltato

prima.

(Giulia Zaccariotto)

 

Quando si è cittadini di due mondi

Si è come una mela tagliata a metà.

Nello spazio in mezzo c’è la mancanza.

(Anankeseida)

 

Piccola fogliolina

Morta

Ma attaccata ad un ramo,

non vuoi cadere,

stai aggrappata ad una vita che non hai più.

Presto verrai cacciata

Dalla tiepida primavera,

da un nuovo germoglio

che potrà ciò

che il gelido vento invernale

non ha osato.

(Anonimo)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Arnaldo Rascovsky (1973), uno dei pionieri del movimento psicoanalitico latino- americano, ha scritto più di trent'anni fa un libro stimolante, il cui titolo é Il figlicidio.

Analizzando il fenomeno della guerra, l'autore sostiene che una delle sue componenti  è quella di far combattere tra di loro le nuove generazioni.

I giovani sono considerati delinquenti se tentano di disertare,  ma sono onorati se si identificano con le direttive dei padri e uccidono altri giovani.

La decisione di andare in guerra non è mai presa dalle generazioni che vi partecipano, ma da menti senili che sono al  potere.

Per Rascovsky  non è possibile negare che la guerra costituisce l'espressione ciclica di un rito d’iniziazione che esige il sacrificio della generazione che cresce. Tale morte riceve una forte connotazione morale che si accompagna al mantenimento dell'innocenza della gerontocrazia che l'ha decretata.

Gli anziani che avviano alla morte si nascondono dietro un'astrazione simbolica chiamata patria, che richiede la donazione volontaria della  vita. I padri nascondono la loro distruttività e spingono i figli all'idealizzazione di sé che serve a negare la vera natura del figlicidio.

Nell'epoca attuale del terrorismo, il figlicidio è diventato così palese da non richiedere più il mascheramento tradizionale. 

I padri chiedono apertamente ai figli di immolarsi. (De Masi, p.15)

Il caso di cui ho parlato al Convegno di Lecce non riguarda un paese in guerra, non una persona che ha rischiato atrocità simili a quelle di cui parla Rascovsky, ma comunque ha a che fare con una persona giovane che ha ‘abbandonato’ una madre-patria indifferente ai propri figli per emigrare in Italia.

 

Sappiamo come per Freud la struttura psichica del bambino si formi combinando le sue disposizioni personali ereditate, con gli avvenimenti della prima infanzia.

Mi chiedo cosa accade quando, in una persona giovane,  tutto questo si intreccia con un evento forte, quale la migrazione, da un paese attraversato da violente trasformazioni quale l’Albania degli anni ’90, verso un paese come l’ Italia, apparentemente in un contesto stabile e democratico, ma al fondo in una situazione di incertezza e di precarietà dovuta proprio all’arrivo, da paesi estremamente diversi, di genti le più varie.

Cosa accade con l’evento migratorio quando il medesimo si somma ad una storia personale intrapsichica densa di eventi non pensabili?

“Antiche quanto l’uomo, le emigrazioni sono state affrontate da molti punti di vista… sorprende pertanto che questo tema sia stato poco analizzato dal punto di vista psicoanalitico; nonostante (o forse proprio per questo) molti tra i pionieri della psicoanalisi abbiano vissuto in prima persona esperienze migratorie” (Grinberg, 1982,15)

E’ ormai assodato come l’esperienza migratoria abbia implicito un aspetto traumatico dovuto ad una separazione significativa, non solo dagli affetti, ma anche da odori, colori, suoni a cui si è abituati e grazie ai quali la propria mente si è strutturata. Tutto questo con la migrazione è costretto a mutare significativamente. Del resto in molti abbiamo fatto l’esperienza di quanto sia comunque traumatico anche un semplice trasloco da una casa ad un'altra o un viaggio aereo per paesi lontani dove, al nostro arrivo, viviamo una sorta di lieve disorientamento nell’adattarci a una realtà diversa (forse la sindrome del "jet lag" potrebbe essere intesa come un correlato fisico di questo disorientamento).

 

Con la storia di  una persona di origini extracomunitarie, ho tentato al convegno di esplorare questi intrecci, a mio parere interessanti, per stabilire alcune ipotesi di collegamento, e potenziamento, con gli eventuali traumi precedenti.

 

Freud aveva consigliato, per la cura delle nevrosi, negli Studi sull’isteria (1895)  l’elaborazione psichica delle esperienze traumatiche del passato e aveva stabilito anche che le cause del trauma dovevano ricercarsi  o nelle condizioni psicologiche specifiche del soggetto al momento del fatto, o in un conflitto psichico che impediva l’integrazione psichica dell’evento o, ancora, in una situazione affettiva che ostacolava una reazione adeguata. E’ nel 1920 che Freud in Al di là del principio di piacere, stabilisce che traumatico è quando un fatto, per un eccesso di eccitazione esterna, supera la barriera protettiva creando nell’Io disturbi che sono destinati a durare. E’ da ciò che Freud inizia a considerare il trauma come una sorta di “nevrosi traumatica”.

Sarà nel 1926, in Inibizione, sintomo, angoscia, che affermerà come l’Io possa essere assalito sia da dentro, dal suo interno dunque, che dall’esterno.  I Grinberg (1982) sostengono che questo avviene frequentemente nei migranti che usano sintomi fobici o manifestazioni d’ansia, quali per es. l’insonnia o gli incubi, come modalità controllate di ‘angoscia-segnale’ (quindi come attacchi interni)  per proteggersi dall’invasione dell’angoscia catastrofica.

Inoltre possiamo considerare la migrazione come un insieme cumulativo di micro-traumi, o trauma cumulativo, cui lo stesso Freud aveva accennato già nel 1895.

 

Sono proprio i Grinberg a segnalare come l’aspetto traumatico dell’evento migratorio non si manifesti immediatamente all’inizio del processo medesimo. Se e quando il trauma si manifesterà dipende dalla personalità del migrante e da molteplici altre circostanze. A volte in mezzo può esserci un periodo di latenza. “Crediamo quindi che l’emigrazione, in quanto esperienza traumatica, possa essere compresa nella categoria dei cosiddetti traumi ‘accumulativi’ e da ‘tensione’, con reazioni non sempre esplosive e manifeste, ma dagli effetti profondi e duraturi…” a volte è possibile osservare “ciò che è stato definito con il termine di ‘lutti rinviati’.(Grinberg, 1982, 27)

 

Sempre i Grinberg sostengono come il consolidamento dell’identità dipenda dalla interiorizzazione di relazioni oggettuali assimilate dall’Io attraverso un processo di identificazioni introiettive autentiche e non con  l’uso di identificazioni proiettive maniacali. Perciò la migrazione può trasformarsi in un fattore carico di pericoli per il sentimento di identità. Per sopravvivere l’immigrato ha bisogno di aggrapparsi ad elementi del suo ambiente nativo e lo fa grazie per es. alla musica, a racconti della sua terra, a ricordi e sogni in cui risorgono in modo manifesto aspetti del paese di origine così da mantenere viva l’esperienza del sentirsi se stesso. (ib. 1982,133)

In alcune persone di origine straniera tutto questo inizia ad apparire, in maniera significativa, solo con l’analisi.

 

                <<Gli albanesi non si sentono balcanici, ma un popolo a sé, isolati, sia per motivi politici, ovvero per i 50 anni di dittatura, ma anche per il modo di essere. Non ci sentiamo né slavi, né greci. Nonostante sia piccola, la popolazione è molto eterogenea sia come usanze che come dialetti. Tra nord e sud c’è molta diversità. Il "Kanun"[1] lo si segue solo al nord. Tirana è più acculturata.  Un detto albanese suona così: “con il sapere sei libero, ma disgraziato”. Il mio è un popolo che viene educato a non difendersi, a non alzare le mani per proteggersi dalle possibili botte dei genitori. Gli albanesi non hanno la consuetudine di descrivere i sentimenti verso se stessi. La nostra è una popolazione giovane, la mentalità è quella di sposarsi e fare figli. Non fare figli è quasi una vergogna.  Al nord bisognava fare almeno un maschio. Quando ero piccola e nasceva un bambino, con un tessuto lungo, il "kukurec"[2], si avvolgevano le gambe diritte affinché non crescano storte. Era un tessuto di panno. Il bambino era tutto duro. Lo hanno fatto anche a me. Oggi però non lo si fa più. Era una tecnica il saper stringere, ma non troppo, il bambino doveva stare bello duro. Solo verso l’anno viene[3] slegato. Pensare che ce l’avevano tutti gli albanesi. Mi dà la sensazione di poca libertà. Nella mia memoria sensoriale ci devono essere queste gambe tenute rigide, che non si possono muovere>>.

 

Un migrante può ritrovarsi davanti ad angosce sempre negate in una sorta di cancellazione dei suoi ricordi,  delle sue potenzialità e della sua vitalità. Mi chiedo  con Amati Mehler et al. (2003,134) se è possibile per queste persone “‘dimenticare’ in una lingua e ‘ricordare’ in un’altra”. Infatti, suggeriscono gli autori, si deve considerare che non tutto ciò che è stato dimenticato è frutto della rimozione, alcuni contenuti possono essere tenuti lontani, soprattutto nei loro vissuti, con l’isolamento, la scissione, la negazione. Penso che può accadere che il passato si frapponga continuamente tra il presente e il futuro impedendo di fatto ogni progetto di vita, ogni speranza  per il futuro.

 

Freud distingue, in Inibizione, Sintomo e angoscia, l’angoscia verso qualcosa di sconosciuto (caratterizzata da indeterminatezza e da mancanza di oggetto) dalla paura di qualcosa di conosciuto intesa come angoscia con un oggetto riconoscibile.

In un precedente lavoro (Amione, Cusin, "Incontrarsi a Babele") avevamo esplorato come in inglese esista una distinzione,  che non troviamo nella lingua italiana con la medesima intensità, tra "waiting for" e "waiting what". Con "waiting for" si intende aspettare qualcosa di cui si ha già conoscenza, ciò che è già stato possibile rappresentarsi, anche se non ancora presente; con "waiting what" si intende invece un aspettare qualcosa di indefinito, non ancora rappresentato, ignoto alla "cogitation", quindi passibile di vivere di sole proiezioni.

Mi sono chiesta quanto dunque il fatto che i migranti non riescano a progettarsi  (che tra l’altro è un anagramma di ‘proteggersi’),  abbia a che fare con un’angoscia, non una paura, le cui origini possono essere sconosciute, verso qualcosa di indefinito appunto, che la persona si aspetta, ma che è pieno solo  di sue proiezioni, frutto di eventi passati sconosciuti. Per  questo può essere interessante proporre un’analisi. Per trovare un oggetto all’angoscia. Quanto l’analisi può promuovere un processo di rappresentazione al posto di un’ansia persecutoria verso il futuro che blocca tutte le legittime aspettative?

 

 Troviamo in Freud stesso, in una lettera a Eitingon riportata dai Grinberg (1990, 216), il vissuto di una incertezza simile nei confronti del futuro, ben più comprensibile per un uomo della sua età, costretto a migrare, a fuggire, ma in cui mi è parso di ritrovare delle sfumature simili:

 

<<Non è un caso se finora mi sono attenuto ai fatti. È difficile dominare le condizioni affettive di queste giornate, quasi impossibile descriverle. Il senso di trionfo della liberazione si mescola troppo con il cordoglio, perché abbiamo pure sempre amato la prigione da cui ci hanno lasciato fuggire. All’incanto per il nuovo ambiente… si aggiunge, come elemento perturbatore, il disagio delle piccole peculiarità dell’ambiente estraneo; le liete speranze di una vita nuova sono bloccate dall’incertezza su quanto ancora un cuore stanco riuscirà a lavorare, e, sotto l’impressione della malattia al piano di sopra… la sofferenza di cuore si alterna con una evidente depressione…>>

 

Mi pongo diverse domande in merito a questo: quando un paziente straniero per es. ci  parla della ‘rabbia’ o di una caratteristica di un familiare significativo, è costretto a tradurre un’emozione sperimentata da bambino quando conosceva solo la sua lingua, in parole (utilizzando una rappresentazione di parola italiana) come appunto ‘rabbia’, che non è detto che corrispondano esattamente alla stessa rappresentazione di cosa (il vissuto della rabbia sperimentate nell’infanzia).

Posso, per spiegarmi meglio, ricorrere ad un esempio con la lingua slovena (mi è più facile perché a Trieste ho molti pazienti di madrelingua slovena e quindi ho fatto più esperienza in tal senso). Una paziente mi parla della fiducia e dice che in sloveno si dice "zaupanje", ma in questa parola è contenuta "upanje", che vuole dire speranza. Ecco che nella lingua slovena, a differenza dell’italiano, questa parola è fortemente vincolata alla speranza, mentre in italiano questo legame è frutto di un processo più razionale e logico, piuttosto che frutto di una immediatezza linguistico- emotiva.

Stengel (1939 - citato in Amati Mehler et al.,138) sottolinea che nell’apprendere una nuova lingua siano implicati dei processi di cambiamento interiore. Egli sostiene come le singole parole che usiamo evochino immagini visive che inevitabilmente vengono alterate nell’acquisizione di una nuova lingua. E questo avviene soprattutto in un nuovo contesto come quello della migrazione. E’ per questo che, dice Stengel, parole con lo stesso significato possono suscitare nel soggetto immagini differenti nella lingua materna dell’infanzia e nella lingua che si apprende successivamente. Stengel propone di considerare che <<il rapporto libidico con un oggetto denominato da una parola straniera è diverso dal nostro rapporto con lo stesso oggetto, denotato invece dalla parola nella lingua natìa. In ogni caso è interessante che il cambio transitorio nella relazione libidica con l’oggetto coincida con un cambio nei processi immaginativi>>.

 

Nel corso dell’analisi le narrazioni possono subire delle trasformazioni: ci saranno alcune storie che i pazienti (e questo vale per qualsiasi paziente) non solo possono raccontarci e che prima tenevano celate, ma che possono ricordare, recuperare nella loro memoria o soprattutto possono narrarci dei fatti di cui avevano accennato, ma tra cui  pian piano possono stabilire dei legami, dei rapporti che daranno nuovo significato ai fatti stessi. Talvolta mi accorgo come non siano i fatti in se stessi, e le emozioni correlate, ad essere rimossi, ma i legami tra i medesimi. Tutto appare parcellizzato, spezzettato e a volte il paziente salta da una cosa all’altra come a sancire una assoluta indipendenza tra le medesime. Né io stessa, mentre ascolto sono in grado di collegare le cose, come se io stessa venissi coinvolta dal paziente in una sorta di “assunto omertoso” (Romano, 2006, ma anche cfr. gli studi in merito di Zajde, 1993) per il quale certi legami tra rappresentazioni non devono essere fatti! Perlomeno fin tanto che il paziente non è pronto a farli. Romano parla di assunto di omertà relativamente ai gruppi, mi sento però di esportare questo modello alla relazione duale della coppia analitica, in quanto ho la percezione che comunque anche il lavoro individuale con il paziente abbia a che fare con un gruppo e  fondamentalmente con il gruppo interno del paziente che interviene sempre a portare un qualche contributo nella relazione con l’analista (come analisti si deve prendere coscienza dei personaggi che il paziente porta in seduta e che alternativamente proietta su di noi oppure recita lui stesso invadendo così il campo transferale). Ebbene, credo che l’assunto di omertà, anche con certi pazienti stranieri, che provengono da paesi gravemente danneggiati da guerre o trasformazioni politiche, abbia a che fare con “una condizione emotiva, uno stato d’animo diffuso che non ha a che fare con l’esistenza di un oggetto segreto preciso…. La motivazione è inconscia: il segreto è scisso dalla coscienza… non c’è richiesta di collusione (con l’analista)[4] … la condizione di assunto di base di Omertà è quella di celare qualcosa anche se non si sa che cosa” (Romano, 2006).

Lo stesso Freud aveva intuito  che la rimozione agiva spezzando i legami associativi e, aggiungono Amati Mehler et al. (p.136), può essere interessante cercare di capire cosa accade quando la  <<rappresentazione di parola è più d’una in relazione ad ogni singola cosa, e come questi nessi associativi – che costituiscono il tessuto tra conscio, inconscio e  preconscio – si organizzano nei legami, o nella rottura di legami, tra rappresentazioni di cosa e rappresentazioni di parola>>. Il paziente straniero deve far entrare nel suo patrimonio associativo, che in genere è già organizzato, un nuovo codice linguistico, una serie di rappresentazioni di parole che devono fare i conti con i sistemi preesistenti.

 

Trovo anche, molto interessante il fatto che, a volte, io stessa vengo coinvolta in questa incapacità di stabilire legami. Anzi in una sorta di “false apparenze”, come le chiamano Amati Mehler et.al. (142) che rappresentano una specie di rimaneggiamento successivo dei ricordi, esperienziale, che causa una distorsione, ma che è proprio con queste distorsioni che nel lavoro analitico può evidenziarsi un percorso evolutivo nella sua interazione con le difese e su come  e perché la memoria di un evento abbia assunto altre vesti.

E’ Freud stesso a scrivere, nella lettera a Fliess n. 112 del carteggio (1896), che le tracce mnestiche sono sottoposte a nuove sistemazioni per cui uno stesso ricordo può avere tante versioni e forse anche tante traduzioni linguistiche diverse. Allora, continuano Amati Mehler et. Al. (149), il ricordo nella sua versione finale (ma io mi chiedo se questa esista realmente o nel tempo si strutturano infinite altre “versioni finali”)  dipenderà da una serie di variabili che collaborano a scegliere le componenti che strutturano il ricordo medesimo. Variabili che possono avere a che fare con il passato e il presente, ma anche con il futuro, in quanto bisogna fare i conti con il desiderio che è un vettore, dice Freud, di potenziali trasformazioni dell’identità.

Credo che questo fatto del non riuscire a ricordare, ma soprattutto di essere impossibilitati a stabilire legami tra i ricordi e coinvolgere in questo l’analista, può trovare molti approfondimenti negli studi dei colleghi Amati Sas, Corrente, Puget, Zerbino et al. in cui si evidenzia come ciò abbia a che fare sia con un freno messo dal paziente stesso, inconsciamente, per rallentare le sue associazioni così da proteggere entrambi, paziente e analista, da una specie di accecamento per troppa luce, che dalla protezione messa in atto dall’analista nei confronti del paziente, affinché venga in contatto con esperienze del passato molto dolorose, il più gradualmente possibile. In questo caso mi sento di dire che come analista ho fornito il nutrimento per conquistare la forza indispensabile a “vedere” piuttosto che dare interpretazioni per evidenziare al paziente le cose. A volte può accadere che con questa forza, molti anni dopo la fine dell’analisi il paziente possa conquistare spazi di pensabilità che prima, anche semplicemente durante l’analisi, gli erano impossibili. E’ molto lentamente che il processo analitico riesce a stabilire dei collegamenti per cui la storia, la narrazione “conquista”  coloriture e sfumature diverse. Cosicché, paradossalmente si passa da una bidimensionalità fatta di colori sgargianti ad una tridimensionalità di un bianco e nero ricco di profondità e sfumature. Credo sia importante traghettare la coppia analitica dallo stallo in un possibile e rassicurante assunto omertoso allo sviluppo di una maggiore, e più dolorosa pensabilità, attraverso l’accoglimento del materiale soprattutto onirico, ma anche di fantasie intrecciate a racconti, agli accadimenti del transfert e controtransfert.

 

 Rispetto alla capacità di fare collegamenti un paziente straniero, con un sogno mi segnala che: “nel sogno mi sentivo pensare ‘ io mi sento bravo’ in lingua (la sua lingua madre), ma poi aggiunge:“ gli avverbi e i collegamenti tra i pensieri invece li potevo fare solo in italiano”. Sembra dire forse che solo ora, solo in Italia, solo in analisi, può permettersi dei collegamenti. Così penso che <<talvolta avvicinarsi agli aspetti più specifici di una lingua significa addentrarsi in certi costrutti idiomatici quali proverbi, scherzi, metafore, doppi sensi o espressioni vicine al linguaggio onirico, che comportano regressione e ravvicinamento al processo primario, alle fantasie e al mondo inconscio…>>(Amati Mehler et. Al. 139-140) e a come sia interessante ricordare quanto <<sia più facile imparare una lingua in situazioni che inducono spontaneamente dei movimenti regressivi, quali un rapporto d’amore o di analisi>>…! (Amati Mehler et. Al. 139-140)

 

Molto spesso pazienti immigrati utilizzano lo spazio analitico per raccontarsi, quasi a sfogarsi, ad evacuare contenuti “troppo”. Si può vedere come questo “troppo” sia una sorta di "fil rouge" che tiene in sé le loro storie. Tutti i primi anni sono caratterizzati da evacuazioni, senza una vera e propria capacità di “nutrirsi” in analisi. Sembrano quasi non poter prendere il mio cibo perché è troppo il bisogno di dire, da sovrastare il bisogno di ricevere. Il “nutrimento” che prendono da me consiste essenzialmente nel venire regolarmente alle sedute e vedermi all’entrata e all’uscita delle medesime. I primi anni di analisi sono orientati al passaggio da un lavoro evacuativo ad un lavoro basato sulla nutrizione ed assorbimento del cibo, quindi ad un’operazione di digestione. Ma prima è indispensabile svuotare… Sono intasati dalle loro storie (spesso però questo accade anche con pazienti italiani…)

 

Ho riscontrato come alcuni pazienti di origini straniere fossero molto “affezionati”, molto ossequiosi, “obbedienti” capaci di adattarsi a qualunque richiesta. Come se piacesse loro accontentarmi, soddisfarmi.

<<…questa posizione si accompagna a un’idealizzazione dell’analista, da mantenere intatta e insieme da sedurre, per suscitare il suo interesse e la sua ammirazione>> (Green, 1980, 289) che si accompagna <<a una grande ricchezza di rappresentazioni, a una capacità di auto-interpretazione veramente notevole, che contrasta con il suo scarso effetto sulla vita del paziente, che si modifica ben poco, soprattutto nella sfera affettiva. Il linguaggio dell’analizzato spesso… adotta… lo stile narrativo. Il suo scopo è di commuovere l’analista, di coinvolgerlo, di farlo testimone nella rappresentazione dei conflitti incontrati nel mondo esterno>> (Green, 1980, 289)

In effetti, come dice Green, qualcuno di questi evita di abbandonarsi all’affetto della reviviscenza preferendo la reminescenza, i ricordi, ma assolutamente slegati tra loro.  Solo dopo molti anni si possono esplorare elementi importanti della loro storia che prima non era stato possibile vedere. E allora, quando riescono oltre che a ricordare, anche a vivere, grazie ai collegamenti fatti in analisi, le emozioni finora cancellate e negate, viene messa a nudo la loro disperazione (Green, 1980, 289).

 

      C’è un aspetto che mi sembra importante e che si intreccia in modo particolare con la vita personale intrapsichica del migrante: l’allontanamento dalla ‘madre patria’. Apparentemente questo può avvenire senza particolari traumi, ma nel tempo dell’analisi  accade che mostri tutto il suo carico di dolore.

Mi sono accorta che il contenimento dato dall’analisi e da un rapporto con me molto vivo, permette di prendere alcune decisioni che rimettono in moto aspetti vitali. Movimento questo fondamentale per avere quella tranquillità “esterna” che lasciando “vuota” la mente da intasamenti obliteranti permette di approfondire il lavoro analitico. Sono convinta che quando i nostri pazienti, nei racconti fatti in analisi, vengono totalmente risucchiati dalla  concretezza dell’esterno, sia indispensabile ricondurre questo al transfert e riportare il paziente a guardare dentro, in maniera tridimensionale, piuttosto che limitarsi ad una visione bidimensionale tutta orientata alla realtà esterna. Fornire al paziente la possibilità di una visione binoculare (e dunque tridimensionale) mette in moto un processo di coscientizzazione, ma soprattutto attiva dei vissuti emotivi, molto intensi e proficui.

 

Personalmente penso che ogni migrazione smuova aspetti poco elaborati legati a lutti e separazioni e che per questo contenga risvolti traumatici che non sempre il migrante è in grado di indagare autonomamente e che possono stare alla base di un difficile e disturbato processo di integrazione. Devo ammettere che non amo la parola integrazione perché mi dà la sensazione che aspetti originari e aspetti attuali se integrati si confondano tra loro, si  mescolino in una soluzione nuova. Penso piuttosto che i migranti necessariamente debbano creare dei “miscugli”, dei mescolamenti in cui però i diversi aspetti rimangano separabili anche se ben armonizzati al resto. Piuttosto che un processo di integrazione sarebbe necessario parlare di “armonizzazione” in cui ammettere e apprezzare anche la musica dodecafonica di certe contaminazioni! Questa differenziazione interna, al bisogno, permette il recupero delle proprie origini che altrimenti rischia di venir perduto. Gli aspetti di assimilazione infatti tendono ad avere la meglio sull’integrazione e il migrante rischia di mimetizzarsi, di veder sparire i suoi tratti originari (o di esibirli sfacciatamente che al fondo è la medesima cosa perché l’esibizione, in questo caso, è  una sorta di azione che sostituisce un pensiero) a favore di un confuso essere “come tutti”. Ricordo come i Grinberg sottolineino come con la <<rafforzata ammirazione del nuovo e non noto, si tende a negare l’angoscia e la colpa, sentimenti… quasi inevitabili in ogni esperienza migratoria>>(1982,23). Ricordo anche come Romano (2006,11) affermi che <<l’esibizionismo o il mostrare senza dire è un sintomo di omertà… … secondo le leggi dell’omertà, per tenere la bocca chiusa  e non dire nulla si deve parlare molto; allo stesso modo per tenere gli occhi chiusi e non vedere e non far vedere nulla, bisogna mostrare molto>>. Ci si deve chiedere quindi cosa, in questi, casi l’analista non debba vedere.

 

In questi anni, nel lavorare in analisi con pazienti migranti, ho evitato di fare domande nonostante molte delle narrazioni fossero confuse. Sento come il tollerare questa confusione sia molto importante per loro. Non metto fretta. Non esigo che i loro racconti si adagino su una “logica asimmetrica”, ma anzi apprezzo la “logica simmetrica” (Matte Blanco,1975) che esprimono perché posso così accogliere aspetti inconsci in maniera silenziosa e coinvolgente.

Molti di loro sono persone con una vitalità positiva che nell’evento della migrazione però si è confusa con una sorta di maniacalità, utilizzata per proteggere sé stessi dalla depressione. Mi chiedo quanto questa  loro “madre-patria” lontana, poco attenta ai propri figli e ai loro bisogni, distratta da ideologie fallite o da figlicidi perpetrati con guerre fatte per il potere di pochi, o peggio per le esigenze  di estranei al territorio, li abbia fatti crescere con un’ identità confusa o, peggio, fasulla. Mi chiedo quanto questi migranti carichino se stessi del disagio del loro popolo, per alleggerire e salvare così dalla distruzione la “madre-patria”, annullando però se stessi e le loro legittime aspettative. Una “madre-patria” che, come dice Green, nel famoso lavoro sul complesso della madre morta, è per loro morta psichicamente. Per questo forse solo i più forti possono partire e lasciare la loro terra.

 <<Il complesso della madre morta è una rivelazione del transfert (Green, 1980, 273). Quando il soggetto si presenta  per la prima volta dall’analista, i sintomi di cui si lamenta non sono… di tipo depressivo.. riflettono lo scacco di una vita affettiva sia per quello che riguarda l’amore…sia per … la professione: questi sintomi sottendono conflitti … con gli oggetti. Non è infrequente che il paziente racconti spontaneamente una storia personale …>> per cui si pensa che <<avrebbe potuto comparire una depressione infantile, che il soggetto non menziona… ma che esploderà… nel transfert…>>

Quanto le madri concrete di queste persone straniere, hanno vissuto veramente lutti, miserie e fallimenti, quanto la loro mente è stata obnubilata da realtà atroci e perciò incapace di accogliere nuovi figli nella dedizione e nell’affetto? Sono conseguenze della guerra, di economie ingiuste, di prevaricazioni di potere anche queste!

 

Quanto la riconoscenza verso di noi, paese ospitante, si intreccia con l’invidia, quanto scatena rabbia, quanto l’esibizione della nostra presunta ricchezza fa credere loro di non avere nulla dentro di sé da dare, con cui ricambiare.

Con il viaggio in Italia molti hanno l’illusione di fare ciò che vogliono, ma si rendono conto, in analisi, di aver al fondo soddisfatto il desiderio dei genitori di mandare loro in avanscoperta a gettare le basi per un trasferimento di tutta la famiglia nel paese della speranza.

I più forti avranno fatto da apripista. Ma a quale prezzo? Ben più alto di quello sborsato per il viaggio, magari tragico….

 

Penso inoltre che, come dice Green, se è vero che il bambino disinvestito dalla madre muore psichicamente e il risultato è la formazione di un “buco” nella trama delle relazioni di oggetto (Green, 1980, 276), allora cosa accade quando una nazione tutta non investe sui propri figli, li dimentica, li lascia partire, li elimina con guerre sempre inutili o, peggio con atti di violenza ideologica estremamente distruttivi (si pensi al terrorismo)? Cosa significa per loro  dover affrontare una vita senza avere concretamente vicina, dentro di sé, la rappresentazione di  una “madre patria” presente  e attenta, interessata allo sviluppo dei propri giovani? Quanto la loro rabbia può al fondo coprire il “buco” affettivo in cui altrimenti precipiterebbero?

In modo ancora più inquietante mi sto chiedendo: quanto i nostri giovani italiani stanno precipitando in una situazione di questo genere?

E avere una “madre patria” dura, rigida impedisce alla vitalità di esprimersi. Tutto collassa nella corruzione, nell’arrivismo, nell’apparenza, nell’arrangiarsi… quanto è attuale per noi questo?

 

Un giorno così esordisce una paziente:

Paz. : << ‘La vergine giurata’ è il libro di un albanese sul "Kanun" e sulle donne che rinunciano per sempre alla loro femminilità comportandosi da maschi, pur di avere la libertà di uscire da casa… Ha scritto in italiano, perché vive da molto qui e pensa in italiano, la sua Albania si è spezzata. La lingua italiana è meno dura e permette più leggerezza. Quando si è cittadini di due mondi, come me, si è come una mela tagliata a metà, nello spazio. Si pensa sempre che si migra per un arricchimento materiale, che la ricchezza sia una questione di soldi, ma io penso che è qualcosa di più, si tratta di un arricchimento che non è fatto solo di cose concrete…

Noi non siamo il prodotto della nostra dittatura, ma quello di una terra che va oltre. Mi chiedo se le emozioni hanno una loro lingua… l’albanese è una lingua più essenziale, meno articolata dell’italiano, eppure ci sono persone che in albanese scrivono cose bellissime, come Ardit Gjebrea  ha scritto questa canzone, ha queste parole[5]……………..>>

 

Linde ne nje te deshperuar                                                   Nascesti in un tempo disperato

Me dhimbje, Jon                                                                   con dolore, Jon

Kur anijet si fantasma                                                          Quando le navi fantasma

Neper det me aventura                                                         nel mare di avventure

Klithnin: libertà!                                                                   Urlavano: libertà

 

Dhe syte i kish aty gjithe Shqiperia,                                     E l’Albania aveva gli occhi là, 

Ajo dinte si duronte                                                              come faceva a sopportare

Po I shkuleshin filza                                                              stava perdendo i germogli

Deti u be mal me njerez                                                         e il mare diventò una montagna di uomini,

E toka det me lot                                                                  e la terra un mare di lacrime

 

Dhe yy per ere te pare te puthre drita                                  E a te per la prima volta la luce ti baciò

Ti linde, Jon                                                                          sei nato, Jon

Nuk e dije  cish gezimi                                                          non sai cos’è la gioia 

As dhimbja as mjerimi                                                          né il dolore, la povertà

Qe flake, godet e rrudh nje toke                                           che brucia, colpisce inaridisce una terra

 

Sot me gjithe foshnjet ne bote ti je njesoj                           Oggi sei uguale a tutti i neonati del mondo

Si ata ti qesh e luan                                                               come loro tu giochi e ridi

Kjo eshte vetem nisja juaj                                                    questa è solo la vostra partenza

Por do rritesh do kuptosh                                                     ma crescerai e capirai

Se fatet sjane njesoj                                                              che le sorti non sono uguali

 

Bekimin merr nga mua                                                         Prendi la mia benedizione

O shpirt i patrazuar                                                              o anima pura

Nje fjale te thene ma degjo                                                  però sentila da me una parola

Zinxhire te praruar ty kane per te ofruar                             catene d’oro ti offriranno

Por prape do jesh skllaveri                                                   ma rimarrai nella schiavitù

 

Jon, ky emer marre nga deti                                                 Jon, questo nome preso dal mare

Jon, me kenge vale tund djepin                                            Jon, muove la culla con suoni d’onde

Jon, dhe ti e ndjeve aromen                                                  Jon, anche tu sentivi il profumo

Te kesh per jete me vete                                                       lo avrai con te a vita.

 

Jon, pot e lundrosh me kete emer                                         Jon, se navigherai con questo nome

Jon, dhe te takohesh me vellezer                                          Jon, e ti incontrerai con fratelli

Jon, do te  mjaftojne dy duar                                                           Jon, basteranno due mani

Te thuash se je, ti je, je Jon                                                  per dire che sei, tu sei, sei Jon

 

Bekimin merr nga mua                                                         Prendi la mia benedizione

O shpirt i patrazuar                                                              o anima intatta

Nje fjale te thene ma degjo                                                  una parola però fammela dire

 

Zinxhire te praruar ty kane per te ofruar                             catene d’oro ti offriranno

Por prape do jesh skllaveri                                                   ma rimarrai nella schiavitù

Ne skllav jo nuk te dua                                                         uno schiavo, da te stesso negato

            no, non ti voglio

Nga vetja i mohuar, Jon, Jon.”                                            Jon, Jon.

 

 

Non voglio dire nulla di più, voglio lasciare alle parole dette in albanese da questa giovane donna (e che ho capito perché me ne ha fornito poi la traduzione) la loro forza dirompente, la forza dei suoni linguistici di un popolo con una propria storia e dignità e mi accorgo che, come ha detto Resnik, sto vivendo le “peripezie emotive del transfert”, e per questo, assieme a lei, quando finisce la seduta, ho gli occhi pieni di lacrime. Forse ‘stiamo’ uscendo dalla glaciazione…(Resnik, 2001).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                 

 



 

 

 

 

 

 

                                 

 


 

 

 

 
 
 
 
 

 

 

 

Note:


[1] Il "Kanun" è un codice giuridico antichissimo che è stato trasmesso a voce con la tradizione e implica la vendetta dove al sangue si risponde con il sangue. Un accenno a questo tema l’ho fatto nel lavoro per il congresso "Bion 2008", pubblicato poi nel libro "Mito, mistica e filosofia nel pensiero di Bion," 2009.

[2] “attorcigliato”.

[3] Questo brano riporta alcune osservazioni e racconti fatti nei primi mesi dal paziente. .L’uso alternato del presente e del passato nell’eloquio di A. segnala una sovrapposizione di epoche diverse nella sua mente, ma anche mi comunica che ci sono cose che si devono tenere rigidamente contenute almeno per un anno anche se danno la sensazione di poca libertà. Lei non protesterà, per almeno i primi tre anni, per la “rigidità” del setting, come spesso avviene con altri pazienti, accettando le mie regole con apparente accondiscendenza. Sarà solo in questi ultimi mesi che si “slegherà” dal "kukurec" e potrà protestare, come vedremo, per una eccezionale variazione del setting a cui sono costretta per fattori indipendenti da me.

[4] Parentesi mia.

[5] Tralascio in questo lavoro tutta una serie di riflessioni sul linguaggio, la memoria, la rimozione perché prenderebbe veramente molto spazio che qui non posso permettermi. Ho comunque accennato a  questo nel lavoro “Incontrarsi a Babele”  scritto con la collega Amione  pubblicato in Lavorare con il gruppo specializzato,  curato da Mirella Curi Novelli per Franco Angeli ed. Milano, 2010. In esso faccio riferimento ampiamente a due testi che mi hanno aiutata a comprendere questa sfaccettatura importantissima nella relazione con i migranti, ovvero sempre a Grinberg, già citato e ad Amati Mehler, Argentieri, Canestri, La babele dell’inconscio, pubblicato da Raffaello Cortina,  ed. 2003, Milano.

 

   

 

 
 

 

Bibliografia:

 

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F. AMIONE, A. CUSIN (2008), "I miti nella clinica psicoanalitica: analisi di un mito greco attraverso i contributi di W. Bion", in M. Rossetti, Mito, mistica e filosofia nel pensiero di Bion, Cafoscarina, Venezia, 2008.

F. AMIONE, A. CUSIN (2010), Incontrarsi a Babele, in M. Curi Novelli (a cura di) Lavorare con il gruppo specializzato, Franco Angeli, Milano.

W.R. BION.  (1997), Addomesticare i pensieri selvatici, F. Bion (a cura di), Franco Angeli, Milano, 1998.

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- (1895), Studi sull’isteria, Opere Complete, vol. 1, Bollati Boringhieri, Torino, 1980

- (1913), Il motivo della scelta degli scrigni, Opere Complete, vol.7,  Bollati Boringhieri, Torino, 1980

- (1920), Al di là del principio del piacere, Opere Complete, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino, 1980

- (1926), Inibizione, sintomo e angoscia, Opere Complete, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino, 1980

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