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FRENIS  zero 

Psicoanalisi applicata alla Medicina, Pedagogia, Sociologia, Letteratura ed Arte

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Autobiografie dell'inconscio.

Numero 11, anno VI, gennaio 2009

 

 

  "LA TESTIMONIANZA DI SERGIO DE RISIO"

 

 

 

 

In questo scritto  del grande psichiatra, scomparso cinque anni fa,  tra annotazione intimamente autobiografica ed afflato poetico, Sergio De Risio ci restituisce la testimonianza di chi si trova, nelle vesti di paziente, a fronteggiare l'impatto psicologico ed esistenziale di un trapianto, che non è semplicemente  ricevere un organo, ma è un "abitare in noi" e "l'avvento in noi dell'alterità amica".

 

                                    

 

   

 

LA TESTIMONIANZA DI  SERGIO DE RISIO

 

 

<<Al principio  era il viaggio. Verso Pisa. A Pisa. Attraverso il parabrezza cominciavo

a intra-

vedere il profilo. Di Pisa. Dove comincia l’edera, dove finisce il muro?

Ducentesco, sempre verde. L’un l’altro avvinti

In armonia diffusa

Nella dama nobile distesa

In reve-riva d’Arno.

Una città reale e un po’ irreale, anche.

Sotto la finestra d’ospedale

È una salda Firenze.

Ma tramondeggiando per le vie fluviali

E’ uno stame tremante di riflessi di Venezia.

Tutto in una sfera d’uguale cristallo

Che rigiro continuamente, completamente,

Guardo cadere la neve, cadere il ricordo

Che credo d’avere delle nevose sfere,

cioè di neve interna che plana su tutto,

che rende tutto uguale

ma senza gelo.

E saranno davvero

Integrabili, com’è Pisa, reale, enti

Dell’oltreterra, d’altro mare, enti transidentitari?

Equilibrato tormento. Fuoco e Beltà.

 

Poi si fece il trapianto e cominciò l’abitare in noi. Noi che abbiamo abitato un reparto di trapiantati. Noi sappiamo che quel che ha reso possibile questo nostro abitare, e facilitato che ospitassimo a nostra volta l’avvento in noi dell’alterità amica, è l’evento del neoformato manto di relazioni “microsociali”, la tela che si tesse in modo naturale, improvviso, fulminante, necessario, necessaria-mente autentico.

E’ l’innesto immediato di ciascun trapiantato nel più vicino, che ogni istante si espande come olio nella carta assorbente, geometrico topologicamente, fino a coprire per intero, a comprendere in tutta la sua trama, in ogni suo dettaglio, il lungo foglio, denso ma trasparente, del reparto appartato. Tendenti all’ideale dell’evitamento d’ogni contatto.

A parte, come subito si intende, quello della mente con la mente. Così che ogni bisogno trova, “micromiracolosamente” quel che lo calma e lo ricolma nell’offerente mente altrui. Reciprocamente. Il più prossimo a me, nella mia  stessa stanza, altro letto, si chiama Rob. I nostri curricoli stanno come una chiave nella sua toppa. Io che lavoro come Professore di Psichiatria all’Università, un lavoro che mi appassiona ogni giorno di più in tutti i suoi aspetti. Un ruolo di cui in occasioni come questa vado scoprendo l’inaudita utilità. Ora sto chiacchierando con Rob che mi racconta: stare qui non mi addolora più di tanto, qui mi tengono in cura. A 16 anni sono stato sbattuto in manicomio a Firenze.

Quello fu brutale. Lo psichiatra era un violento. Faceva shock elettrici senza risparmiare. Più volte ho tentato di scappare e l’ultima ci sono riuscito. Per mangiare rubavo galline. Più volte sono stato in carcere.

Ora sono disoccupato, ho una specie di piccola pensione. Ora mi lasciano un po’ in pace. Libero. Anzi troppo libero ci ho. Ogni tanto dipingo, faccio quadri cartelloni. Uno dei miei più grandi riquadri mi fu commissionato dal comune ma poi non lo espose né mai me lo pagò.  A proposito tu che mestiere fai? Mi sto chiedendo: chi la toppa, chi è la chiave? Ma è chiaro che la chiave non c’è. Piuttosto tappi su toppe, troppe.

 

Penso ai miei errori, soprattutto recenti. Errori, pentimenti. Penso: mamma, non lo faccio più. Ma so che lo farò ancora. Struggimenti. Penso: siamo due esistenze, o la stessa esistenza come sdoppiata? Adenina Timina, Guanina Citosina specularità e, complementarità legati di necessità conoscendo uno, sai anche il suo corrispondente. Esco nel corridoio poggiandomi al braccio di Rob.

Sono sfinito, ho dolori ad una gamba. Rob è veramente robusto. Ne vediamo un altro. Mi sembra somigliare sorprendentemente al famoso comico genovese che si chiama Govi.

Il comico faceva ridere, questo compagno invece sembra ridere lui incessantemente come se questo riso avesse un senso.

 

E’ interessante costui che in mezzo

A questo corridoio di trapiantati

Fa parole crociate. Specie

Di sorriso stampato in viso.

Lui trapianta parole su parole in

Modo che tutti tornino

I significati

Crociati, come

Definizione vuole,

su pochi significati cruciali.

Cruciverba.

Et verbum, verbum

Crux

Corpidependuli appesi alla

Comunque vita

Come i sorci di Bernardt

 

Sono convinto che sia genovese, ma mi sbaglio. Oto che di continuo beve acque minerali e altri succhi vaghi.

Prendo due bottiglie di succo d’ananas 100% che mi hanno portate e gliele do. Così ci conosciamo.

Ovviamente mi sorride. Durante un’altra passeggiata in corridoio, qualche giorno dopo, incontro Emo. Acciaio filato, profilo duro, sguardo provato e profondo. Puro quattro anni fa, trapianto.

Ora aspetta un intervento di gastroresezione. Ha pazienza, coraggio. Penso che di un po’ del suo coraggio avrei bisogno.

Lui lo capisce. Non è avaro. Ha bisogno a sua volta di parlare “sto nella stanza con Giovanni” mi dice “Giovanni ha 73 anni. Epatectomizzato. Non si riprende da questo intervento. Da una quindicina di giorni, trasferito in reparto dalla rianimazione, non si riprende.

Non parla. Rifiuta il cibo. Respinge chiunque tenta di avvicinarlo, comprese moglie e figlia. Sputa sempre.

Non saluta nessuno. Non ha salute, non la vuole. Così, dividendo la stanza con un taciturno, ho sempre voglia di parlare”.

Comincio l’abitudine di andarlo a trovare di sera e chiacchierare con lui una mezz’ora siamo amici. Così passa il tempo di una settimana; lo trovo una sera con un libro in mano.

Che leggi?

Parla di spiritualità. Non lo capisco bene lo leggo lo stesso. Non so perché mi attira. E’ sempre bene cercare di farsi un’idea dello spirito. Cercare una specie di propria, spicciola personale filosofia elementare, naturale.

Detto questo sento alle mie spalle una specie di urlo, una voce alta dice “Cogito ergo sum” Sono Giovanni.

Perché parli di filosofia con lui, che non gliene frega niente? A me piace la filosofia.

Non immaginavo che ci fosse un cartesiano, Giovanni, tra noi pazienti. E non è del tutto vero che ad Emo non gliene freghi niente. E perché non glielo spieghi un po’ tu Giovanni?

Se mi andrà lo farò se gli farà piacere. La mattina dopo Giovanni riprese con Cartesio come so da Emo. Diventammo amici con Giovanni.

Gli devo il fatto che mai prima avevo capito così in profondità la parola di quel detto cartesiano tanto citato quanto misconosciuto. Tutta la sua portata materiale.

L’importanza del pensiero, il suo rapporto con l’essere. Non somiglia a Parmenide?

Comunque Giovanni si mise a mangiare regolarmente e dopo qualche giorno passeggiava con noi.

 

Non so perché finii col pensare all’amore come fondamento.

Forse per via dell’anima inconcussa della “ben rotonda”?…

Non la prima. L’unica scelta.

Cioè la necessità

Che sta nel centro radiante

Della vitalità. La gode.

La trasmette se vuole

Ma non ha potere.

Impera a le cose

Che la circondano

A volte benevolmente

L’amore è essenzialmente

Quel che trasfonde nel sorriso

De la Gioconda.

L’amore in se non ama l’inondamento, ma di cresta in cresta d’onda in onda

D’un volubile gioco che concresce

Ha l’andamento.

Pensai all’infondata forza dell’ira del respingere inibito-inibente, che tentano

Inutilmente di ritardare. Eros.

Cinismo dell’accetta

Calata a piombo.

In cagnesco.

Proprio qui sul balcone appena spalancato

Sul prato centrale, con al centro

Quel tenerume di bocciolo appena nato,

sostenuto dai flussi della bellezza serale.

Ma da quella stessa bellezza richiamato

A richiamare a sera

La sua rorida coroncina

Di foglioline.

A vincolarle tutte vicine.

Lasciamo che resti tenero

Senza alterizzarlo.

Assimiliamolo a noi. E che il suo ruolo sia di restare per sempre bocciolo.

 

Ma voglio dire che l’amore vince? Qualche volta, raramente. Dopo circa trenta giorni di degenza, e di obbligata decenza, desideravo e ottenni di poter lasciare il reparto. L’ultima sera che avrei dormito, venne a salutarmi Giovanni. Ma fa piacere che ci si sia  conosciuti. Dovremmo vederci fuori, a cena. L’indomani mattina, qualcuno, chi mi ci aveva portato venne a prendermi per riportarmi a casa. Via dal reparto. Salutai così il reparto:

 

Questo è un posto in cui vengono

Solo le madri chiedendo sempre: che vuoi?

Ferisce, l'oro diventato un'aureola bianca fine fine. Ferisce il dolore provato a la sorgente, ma consola anche.

Ah! Sono, le madri in se, della promessa l'apparire. Della promessa destinata a non

essere mai mantenuta?

Qui ho visto al lucore della luna a sera venir madri. Raramente venir un

angelo, un oro persistente che ti esalta di vita, e ti tormenta anche.

Rari angeli che portano alloro

E un'insistente domanda: E allora?

Ah! Un tempo, una volta, e un'altra

Un'altra ancora. La vita risponde:

allora, ora e qui, ancora...

Ancora. >>

 

 

 

 

                

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

Responsabile Editoriale : Giuseppe Leo

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